Eran gli ultimi giorni di dicembre; io era sempre a Bergamo col mio reggimento, ricreandomi co’ libri dal servizio di guarnigione, che sempre, ma in ispecie dopo una guerra, è d’una monotonia e d’una noia…. Zitto! Non pensavo nemmeno a tornare a casa perchè il periodo dei lunghi congedi non era per anche aperto, e di brevi sentivo dire che il colonnello non ne voleva dare, se no l’avrebbero chiesto tutti; mia madre continuava a scrivermi che—assolutamente e a qualunque costo mi voleva rivedere e non poteva più durarla così,—ed io a risponderle:—abbi pazienza; aspetta un altro poco,—ed ella:—è impossibile; e io daccapo a quetarla, e intanto passavano i giorni e le settimane.
Una bella mattina sento picchiare all’uscio della mia camera, apro:—Chi veggo! Colonnello!
Mi salutò con molta gravità, non volle sedere, mi disse che veniva da Venezia, ch’era diretto a Milano, che aveva buone notizie della mia famiglia…. A questo punto mi guardò in viso e disse con una cert’aria di pietà e di rimprovero:—Io già capisco che tu hai una gran smania di tornare a casa.
—Eh…. dopo una campagna!—risposi umilmente.
—Campagna! campagna!—egli ripetè in suono di stizza;—non la chiamare così; sono state quattro marcie mal fatte e quattro schioppettate mal tirate.—
Io tacqui. Egli continuò serio serio:—Avvezzati a tenere il reggimento per la tua vera famiglia.—
Io continuai a tacere. E lui:
—Tu, per indurirti un po’ codesto cuoricino di cera, per diromperti un po’ alla vita del soldato, che non sai ancora cosa sia, lasciatelo dire, avresti bisogno di fare una campagna nelle Indie almeno almeno di cinque anni.—
Ed io zitto. E lui ancora:
—Tutta questa impazienza, tutto questo gran bisogno di riattaccarsi al grembiale della mamma, è molto antimilitare.—
Io sempre muto. Seguì una breve pausa, ed egli soggiunse raddolcendo appena sensibilmente la voce:
—Ho parlato col tuo colonnello; t’ha dato un congedo di cinque giorni; puoi partire anche subito.—
Caddi dalle nuvole; volli ringraziarlo, esprimergli tutta la mia riconoscenza, dirgli che gli andavo debitore d’una gran felicità, che mi sarei ricordato sempre…. Mi troncò la parola in bocca dicendomi che partiva subito; si accomiatò, e giunto sulla porta si voltò ancora una volta indietro per dirmi:
—Sii soldato.—
E se n’andò. Feci un salto da sfondare il pavimento, e urlai:—Remigio!—Remigio venne.—Fammi la valigia, subito.—Quando seppe dove andavo, ne parve più contento di me:—Che festa, figuriamoci, per la sua signora madre! Mi par di vederla.—Metti dentro l’immagine di Santa Teresa, i fiori secchi, l’astuccio e i sigari—io gli dissi. Egli mi guardò meravigliato.—Ah! tu non sai dove siano! Eccoli qua.—E aperta una cassettina che tenevo sempre chiusa, vi presi e gli porsi ogni cosa.—Ha conservato tutto!—esclamò quel buon soldato giungendo le mani in atto di grande sorpresa, e seguitò per un po’ di tempo a guardare ora me ora gli oggetti sorridendo ed esclamando affettuosamente:—Anche i fiori secchi!—
Di tutto quello che ho fatto prima di partire non mi ricordo altro se non che, visitato il colonnello, girai come un arcolaio per la città e pigliai a braccetto tutti gli amici che incontravo, non ristando mai dal magnificare le bellezze di Bergamo:—Guarda che cielo! guarda che colline! guarda che stupenda pianura!—e gli amici si stringevano nelle spalle. L’ordinanza mi accompagnò alla stazione; pagai il biglietto e mi dimenticai di pigliare il resto; mandai un dispaccio telegrafico a mia madre, dicendo non so che sciocchezza al telegrafista, che ebbe la bontà di ridere; fumai, o piuttosto disfeci a morsi due o tre sigari in pochi minuti, e finalmente….—Signor tenente—mi disse l’ordinanza porgendomi la valigia quando cominciò a sonar la campanella;—mi faccia il favore di portare i miei saluti alla sua signora madre, e dirle che io non mi sono mai dimenticato della bontà che ella ebbe per me e per la mia famiglia e che le ho sempre….
—Che le hai sempre voluto bene, sì, dillo pure, mio buon Remigio; non mi dimenticherò di nulla; a rivederci presto; addio.
—Buon viaggio, tenente!—
Il convoglio era già in moto; misi fuori la testa e vidi ancora la mia ordinanza ferma dietro il cancello della stazione; appena mi scorse, alzò la mano alla tesa del cheppì e ve la tenne fin ch’io gli disparvi allo sguardo.
Dovevo arrivare a Torino alle dieci della sera.
Giunto alla stazione di Milano, vidi un battaglione di fanteria che si disponeva a salire su lo stesso convoglio; riconobbi un ufficiale mio amico, e lo chiamai.—Andiamo a Torino—mi disse;—s’aspetta che attacchino dell’altre carrozze; abbiamo con noi il colonnello e lo stato maggiore; il comando del reggimento resterà a Torino; ci si scrive di là di non so che accoglienza che ci sarebbe preparata alla stazione…. Anche questa ci mancava! Gli applausi, oramai, mi fanno molto peggiore effetto dei fischi. Oh speranze! Domanderò la dimissione, anderò a fare il consiglier comunale nel mio paesucolo, sarò capitano della guardia nazionale, mi abbonerò alla Gazzetta Ufficiale, porterò i calzoni larghi in fondo, piglierò moglie e tabacco, e morirò cavaliere. È il mio destino. Addio.—
Il suo reggimento, di cui non ricordo il numero, s’era splendidamente condotto alla battaglia di Custoza.
Quel viaggio da Milano a Torino fu eterno.—Che tormento—dicevo—star rinchiusi in questa prigione di carrozza! Non c’è aria, non si respira; ci dovrebbero essere dei posti sopra, che diavolo. Oh! intanto godiamoci il nostro arrivo colla fantasia. Supponiamo di essere già entrati nella stazione. No, è troppo presto; voglio godere lentamente. Supponiamo di essere ancora fuori della cinta di Torino, molto fuori. Il convoglio va, va, va; ecco la cinta; oh che respiro! Ecco le prime carrozze della stazione; oh Dio! supponiamo un impedimento qualunque; fermiamoci; va troppo presto questo maladetto convoglio. Avanti, s’entra nella stazione, il convoglio si ferma, no! non ancora! che fretta importuna! lasciami godere a mio bell’agio; così; avanti. Dio mio! eccomi sceso, ecco lì fuori la gente che aspetta, ecco…. Oh che caldo con questo cappottacelo pesante! Ma come fate voi altri a dormire,—dicevo guardando i viaggiatori che avevo intorno;—come fate a dormire voi altri con questa febbre che…. ho io?
Ah! non è più fantasia! Ecco le belle colline di Torino, ecco la cinta, ecco quei campi, quelle case, ecco le prime mura della stazione; oh chetati cuore! Coraggio, su lo sguardo; ah! ecco i tre palazzi di Via Nizza! La finestra! Cielo! chi c’è alla finestra che alza ed abbassa le braccia in atto di saluto? È lui! è lui! è il mio papà!… Che sento! la musica! le fiaccole! Tutto come quella sera! Il convoglio si ferma, salto a terra, esco di corsa, ecco la folla, eccoli! eccoli tutti! mi hanno veduto, m’apron le braccia….—Ah! madre!—Sento ancora intorno al collo la stretta vigorosa di quelle due braccia convulse, odo ancora quella musica, veggo ancora quella luce.
Siamo davanti all’uscio di casa, si apre, mi getto nelle braccia del mio buon papà, che piange e ride senza poter far parola; ecco tutti i suoi nipotini, un bacio per uno, forte, che lasci il segno; ecco la signora napoletana, ecco suo figlio.—Grazie della carta topografica!—Risa generali; arrivano altri vicini; sostengo un assalto impetuoso di saluti, di felicitazioni, di strette di mano, di domande; mia madre mi si stringe ai panni, mi disputa a tutti, mi guarda, mi tocca le braccia, le mani, le spalle, se son tornato tutto intero; le mie sorelle girano di qua e di là per farsi un po’ di strada e venirmi a riabbracciare; i bambini mi saltano intorno; è una festa.
Finalmente, a poco a poco, i vicini e gli amici se n’andarono; se ne tornò a casa mia sorella maggiore; se n’andò a dormire, colle lagrime agli occhi, anche l’altra; mio fratello uscì, e non restammo che mia madre ed io.
Appena soli, ci sedemmo in gran fretta l’uno di fronte all’altra, avvicinando le seggiole e pigliandoci per tutt’e due le mani, come fanno gl’innamorati quando restano un momento senza testimoni, e mia madre, tratto un sospirone in cui si sentiva tutta la storia della guerra, cominciò a dirmi con voce commossa:—Che giorni ho passati, figliuol mio, che ansietà, che terribili batticuori! Non te lo scrivevo per non rattristarti; ma mi pareva deserta questa casa dopo la tua partenza! Non sentir più, a quella solita ora, il tuo passo concitato su per le scale, la tua voce allegra, quella scampanellata che ci faceva correre tutti a chi arrivasse pel primo, non esser più messa in riga coi nipotini del tuo papà; non aver più da starti intorno perchè non ti dimenticassi l’ora della piazza d’armi…. Che sere lunghe, eterne! E il giorno poi! Se splendeva il sole,—povero Alberto, in marcia con questo caldo!—Se pioveva,—povero Alberto, se la piglia tutta!—La sera avevo quasi vergogna di andare a letto pensando che tu dormivi sulla terra, e, quando tuonava, mi svegliavo, accendevo il lume e dicevo: È impossibile, è impossibile ch’io dorma con questo tempo! Chi sa dove sarà adesso quel povero figliuolo!—Ero persino diventata superstiziosa dal continuo tremare e tormentarmi per te; andavo a cercare una cosa, e dicevo tra me:—Se la trovo, non gli seguirà nessuna disgrazia: se non la trovo;…—come le donnicciuole. A guardare i tuoi vestiti, i tuoi libri, tutte le tue cose, mi si stringeva il cuore. Mi era un tormento il vedere e sentire che qui nel vicinato c’era della gente allegra; veder dei giovanotti della tua età e della tua condizione passeggiare per la città tranquilli e contenti mi faceva male; mi affacciavo alla finestra a guardare quei pochi soldati che passavano, e li guardavo sin ch’erano spariti; mi pareva che avessero un po’ di te. Leggevo e rileggevo tutte le tue lettere degli anni andati, e mi rifacevo in mente la tua storia, la nostra, a cominciare dalle notti che ti vegliavo bambino, e poi quando andavi a scuola, e io piangevo se tu tornavi col pensum e te lo facevo io ingegnandomi di imitare i tuoi caratteri, e guardavo, non potendo far altro, e bagnavo di lagrime l’Antologia latina quando tu non riuscivi a tradurre e ti disperavi. E poi ricordavo gli anni che sei stato in collegio, e il tempo che fosti qui così allegro, così felice, e quella sera ch’io sentii quella musica che mi lacerava il cuore e mi rannicchiavo in un angolo della mia camera turandomi le orecchie colle mani…. La paura di perderti da un momento all’altro mi faceva parer quasi un sogno l’aver questo figlio di nome Alberto! Mi parevano scorsi pochi mesi dal primo giorno che t’avevo veduto! E la sera, dopo che tua sorella era andata a dormire, ed io restavo qui, in questa camera, sola, cadevo in ginocchio là, guarda, accanto a quel letto, e pregavo Iddio come e quanto non l’aveva pregato mai pel passato, e gli offrivo cento volte la mia vita per la salvezza della tua, e pronunciavo cento volte il tuo nome, forte, come se tu fossi stato là presente a sentirmi; finchè mi mancavano le forze, mi sentivo un’oppressione qui sul petto, che mi pareva di morire…. Ma tu sei qui, tu sei salvo, sei mio, posso guardarti, parlarti, abbracciarti, stringermi sul seno questa cara testa. Oh mi pare un sogno! mi pare impossibile! Dimmi che sei proprio qui, Alberto; dimmi che mi ascolti, dimmi che mi vedi piangere….—
Io le caddi davanti in ginocchio.
—Ma figlio, che cosa fai? alzati!
—Ma cara madre che cosa pretendi? Ascoltami. Se ho patito, non ho patito che per te, perchè ti voglio bene. Ero stanco? Avevo sete? Se lo immagina, pensavo, quella povera donna, e soffrivo. Ma questo immenso affetto che ti porto mi dava forza e coraggio. Patisco? dicevo; oh! mia madre ha patito molto di più per me, e con che animo, quando malata dissimulava il dolore e il pericolo per non atterrirmi. E pensando a te, al bene che mi vuoi, alla stima che fai del mio cuore e del mio carattere, l’idea, soltanto l’idea d’un atto ignobile e dappoco mi metteva orrore perchè mi pareva un oltraggio a te, e meglio che oltraggiarti morire. E anch’io, sai, mi rifacevo in mente la tua storia, in quelle lunghe sere passate sotto la tenda; e come i bambini fantasticano il paradiso a modo loro, io mi sognava di vederti bambina; e poi fanciulla; quando là nel tuo giardino di Savona leggevi i libri che mi ponesti tra le mani pei primi; e poi sposa e poi madre, quand’ero malato, e tu per ricrearmi facevi que’ cappellini di carta, ti ricordi? e te li mettevi in testa e sonavi il tamburo con due righe sulla spalliera della seggiola, e mi portavi il caffè a letto, e io non volevo, e tu mi dicevi:—Lasciatelo portare; queste sono le mie consolazioni.—E poi tutta l’assistenza che hai fatto al mio povero padre infermo, quelle lunghe notti vegliate: cara! santa! E poi quando son tornato la prima volta dal collegio e tu m’hai baciato la tunica.—Ma chi è questa donna?—mi domandavo: guarda che pazzo; perchè mi ama, perchè mi adora tanto, che io per lei sono la vita, il mondo, la felicità? In grazia di che tutto questo? Che meriti ho io? Chi sono? Ce ne son ben tante altre madri che non sono, che non fanno come lei, e perchè Iddio doveva proprio destinarlo a me quest’angelo? O perchè almeno non le ha dato un figliuolo più degno? No, no, lasciamelo dire; com’esserti grato abbastanza? come compensarti? Ti mettessi anche ai piedi la corona del mondo, ti renderei io forse la millesima parte del bene che mi ha fatto codesta tua bell’anima, codesto tuo santo cuore? Senti: te l’ho sempre detto, te lo ridico, te lo dirò eternamente, te lo ripeterei nel mio ultimo istante; voialtre madri nessuno vi conosce, pochi vi capiscono; ma se vi conoscessero e vi capissero tutti, se il mondo si occupasse delle grandi madri come dei grandi cittadini, a una madre come te, vedi, a un angelo come te si innalzerebbe un monumento….
Mia madre mi pose una mano sulla bocca.
….—Un monumento d’oro, e tutti quelli che hanno anima e cuore, e io prima di tutti bacerebbero l’orma dei tuoi piedi come un’immagine sacra!
—Alberto! Alberto! taci! è troppo! io non reggo!—
E tutti e due, stretti per le mani, tremanti, ansanti, io in ginocchio, ella chinata sopra di me, ci guardavamo negli occhi, piangendo, sorridendo, chiamandoci per nome.
….—E anche adesso ti bacio la tunica!—esclamò ella poi con impeto, e mi abbracciò e mi inchiodò la bocca sul petto.
—Madre! io le dissi tenendole ferma la testa colle mani e guardandola fiso:—tu sei sublime!
Pochi minuti dopo, tutti e due col lume in mano, ella andava verso la porta della sua camera, e io, dalla parte opposta, verso la mia.
Giunti sulla soglia ci voltammo tutti e due, si rise e si tornò in mezzo alla stanza.
—Che cosa volete voi?—le domandai stringendole il mento tra il pollice e l’indice per farle alzare la testa.
—Niente, e voi cosa volete?
—Niente anch’io; dunque andate per la vostra strada, voi.
—E voi andate pei fatti vostri.—
Un’altra volta tutti e due sulla porta e tutt’e due vôlti indietro.
—Alberto!… Chi sei tu?
—E tu chi sei?
—Tu sei un cattivo soggetto.
—E tu sei una santa.—
Ella mi guardò, scrollò la testa, e stette un po’ di tempo immobile in quell’atteggiamento, illuminata di sotto in su dalla candela, cogli occhi lucenti di lagrime, con un sorriso e una serenità così calma e soave che pareva proprio una santa.
Quante volte, ora ch’io vivo lontano da lei, tornando a casa a notte avanzata, solo, tediato, col peso di qualche rimorso sul cuore, mi par di vederla là sulla soglia, immobile in quell’atto, in aria di dirmi:—Tu sei un cattivo soggetto!
È un rimprovero dolce; ma solenne, che mi risuona nel profondo dell’anima, e mi fa pentire, e fermare il proponimento d’essere quindi innanzi più onesto, più buono, più degno di lei.
E addormentandomi, mi trema ancora dinanzi agli occhi l’immagine di quel volto ridente e luminoso.