A questo punto trovo nel libro una lunga serie di lettere d’Alberto, e accanto a ciascuna la risposta della madre attaccata al foglio. Dall’esame dei caratteri della madre si potrebbe cavar la storia della guerra; il tremito della sua mano è certo il più sicuro indizio degli avvenimenti. Su per giù, le sue lettere dicon sempre lo stesso, è naturale; ma in quelle del figliuolo c’è qua e là qualcosa da notarsi. E io noterò questo qualcosa, che riuscirà come una cronaca slegata, incompleta, ma schietta e viva delle varie vicende, o, meglio delle varie impressioni che alcune tra le vicende della guerra lasciaron nell’animo del mio amico.
Do la mia parola ai lettori che copio letteralmente.
Piacenza, 8 maggio.
….Piacenza sembra una caserma; c’è più soldati che cittadini, e più medaglie che soldati; a ogni passo incontro qualcuno che n’ha il petto coperto; a ogni svoltata vedo un generale; i colonnelli non mi paion più niente. Come sento la mia piccolezza in mezzo a tutti questi galloni! Le grandi riunioni militari hanno questo di male, che noi poveri tenentucci nessuno ci guarda più; si scomparisce affatto. Scherzo, sai; io ho te, ho i miei soldati, ho i miei amici, ho il sangue pieno di fuoco, il cuore pieno d’Italia, l’anima piena d’avvenire; io son contento, io non desidero nulla, io non invidio nessuno.—Siamo alloggiati in un convento, e dormiamo sulla paglia.—È una disperazione con questi coscritti che non sanno nè vestirsi, nè camminare, nè mangiare. Si son fatte le cose troppo in furia. Se domani si aprisse la guerra ti dico io che ci troveremmo a cattivo partito; mezzo il reggimento non sa ancora caricare le armi; c’è un gran bisogno dei soldati provinciali; si aspettano.—In tutto il quartiere non s’è potuto trovare una camera per l’ufficiale di picchetto. L’altra notte mi son ricoverato nell’ufficio di Maggiorità e ho dormito sui registri….
In fondo alla risposta della madre trovo queste parole:—Bada di non guastare i registri; possono essere importanti. Hai almeno pensato a metterti qualche cosa sotto la testa? Erminia s’è ammalata dal dolore della tua partenza. L’altro giorno, spolverando la tua roba, piangeva; la vidi, glielo dissi, negò; ma piangeva proprio; tu non lo conosci ancor tutto quel suo bel cuore.—La lettera finisce:—Dove sono gli Austriaci?—
In un’altra lettera sua è posto questo quesito:—Di’ un po’, Alberto; mi hanno detto che i battaglioni degli Austriaci son più grossi dei vostri. Come va questo? Come farete?—
Il figlio risponde:—Ne manderemo due de’ nostri contro uno dei loro.—
E la madre di rimando:—Allora va bene.—
Tutte queste lettere e quelle che vengono appresso son piene di saluti affettuosi del vecchio e della signora napoletana che aspetta «grandi descrizioni di grandi cose;»—e v’è a quando a quando un poscritto della mamma che domanda:—Cosa fa l’ordinanza?—
Rilevo dal libro che il colonnello, il burbero benefico, era al quartier generale dell’Esercito, e che da quella «superba altezza» vegliava amorosamente sull’oscuro cugino, per via di lettere e d’informazioni indirette; ma il cugino non ne sapeva niente. Il «burbero» nascondeva il protettore, per non coprire il colonnello; e ne lo lodo.
Il reggimento d’Alberto era da quattro giorni accampato presso S. Giorgio a poche miglia da Piacenza, ed egli non aveva scritto a sua madre che il giorno della partenza per annunziarle «che andava a dormire sotto la tenda.»
—Quattro giorni che non scrive! Povero Alberto, dorme per terra; soffrirà, si sarà ammalato; chi sa cosa gli sarà seguito! Oh Dio mio! Un telegramma al colonnello, subito.
E mandò il telegramma:—Datemi notizie di Alberto. Vi supplico. Non ricevo lettere. Tremo per la sua salute.—
Il colonnello le rispose subito:—Sta benone. Ma è tanto delicato!—
Mia madre capì l’ironia, e si stizzì un pochino, e prese la penna e cominciò:—Carissimo amico. Non dico che Alberto sia delicato; ma credo di poter….—Smise.
La divisione Cugia è partita per Cremona; da Cremona andrà verso Goito. Una lettera della madre dice così:
—….Dirai che sono una sciocca, che parlo di cose che non capisco; ma tant’è, io questa gran necessità di passar subito il Mincio non la vedo. Se fossi il generale La Marmora, mi pare che aspetterei ancora; non si sa mai cosa possa accadere; ad ogni modo farei prima andare avanti i soldati del generale Cialdini, che hanno la flotta vicina e che in ogni caso…—Ci si potrebbero rifugiar dentro?—domanda Alberto ripigliando la frase nella sua risposta. E la madre ribatte:—Non sono momenti da scherzare.—
La divisione Cugia è sul Mincio. La lettera della madre è scritta a precipizio, tutta puntini e punti di esclamazione e parole che s’accavallano e righe che si confondono e aste che serpeggiano per la lunghezza d’un dito.
—….Per carità, figlio mio; fa il tuo dovere, sono io la prima a dirtelo; ma non far troppo…. Gli eserciti hanno bisogno degli ufficiali, e se gli ufficiali si espongono più del bisogno, che cosa ne seguirà? Ne seguirà che i soldati resteranno senza guida e senza disciplina, e allora…. che cosa doventerà l’esercito? Per carità, pensa anche un poco ai soldati…, (o amor materno, come argomenti sottile!)…. e pensa anche a me; fa il tuo dovere, sì, ma pensa….—Qui c’è qualche parola che non si capisce. E poi:—….La tua vita è la mia. Oh figlio mio! che giorni! che tremendi momenti! Non ti dico che cosa segue in casa tua per non contristarti, io prego per te….—Il resto non si capisce. C’è un poscritto incominciato:—Oh Alberto!—e poi non c’è più niente. Veggo certe curve tracciate dal figliuolo, che a prima vista si possono prendere per isole; ma credo ch’egli abbia inteso di passare la penna intorno ai segni delle lagrime di sua madre, e che ne sian riuscite così quelle figure.
Qui trovo una pagina intitolata:—Ciò che seguì il 28 giugno.—E dice:
—Mia madre era seduta alla tavola da pranzo, e aveva davanti un giovinetto, il figlio della nostra amica napoletana, e al fianco il mio vecchio papà. In mezzo alla tavola c’era una carta topografica.
—Se ne persuada, cara signora;—diceva il giovane;—la divisione Cugia non ha nè può aver preso parte alla battaglia; è evidente.
—Oh sì…. evidente!—esclamava mia madre scrollando la testa e passandosi la mano sugli occhi umidi di pianto.
—Ma sì; ma lo creda; e poi già… che serve ch’io lo dica? Lo dice la carta; guardi, senta. O la divisione Cugia è passata per ec. (e stringeva e scoteva l’uno dopo l’altro i diti della mano sinistra fra l’indice e il pollice della destra), e allora è impossibile che si sia trovata là nel momento in cui…. O è passata per quest’altra strada, e in questo caso non è ammissibile che possa esser giunta in tempo…. O finalmente, e questa è l’ultima, è passata dietro alla divisione che le stava a sinistra, e se questo è vero, è anche fuor di ogni dubbio, è chiaro, è indiscutibile, ch’essa si è spinta affatto fuori del campo di battaglia. Non le pare, ingegnere?—
Il vecchio senz’aver nulla capito nè veduto rispondeva:—Sicuro.
Mia madre continuava a guardare attentamente la carta topografica, rigirandola da tutti i lati, scorrendo col dito tutte le strade, levando gli occhi in su come per raccogliere i pensieri, e poi tutt’ad un tratto prorompeva con voce di pianto:—Oh sì, sì, non è arrivata in tempo! Chi lo dice? Chi lo può sapere? La carta? Cosa prova la carta? Non basta la carta. Intanto son passati tre giorni e non m’ha ancora scritto, e se non fosse seguìto nulla io saprei qualche cosa, e questo vuol dire che la divisione è arrivata in tempo, e che lui ci è stato, e che…. Oh figliuolo mio! Oh mio Alberto! mio povero Alberto!—
E battendosi le mani sulla fronte rompeva in pianto dirotto.
—Signora! Signora!—esclamavano ad una voce gli altri due—si calmi, per carità, si calmi; non sarà seguìto nulla, non può esser seguìto nulla!… Ce lo creda; il suo amore materno…
—Dio mio!—gridava mia madre, con un accento d’angoscia quasi disperata;—Dio mio! il mio amore materno! Ma se non ha scritto! Ma se due mie amiche che hanno un figliuolo ufficiale ne han già ricevuto notizia! Ed io no! io niente! Oh Erminia!—Mia sorella accorreva:—Che c’è?
—Signora!…
—Alberto! Alberto!
—Dio mio! Che è seguìto?
—Una disgrazia! Io la sento! Io morirò! Presto, un telegramma al colonnello, che dimandi, che cerchi, che sappia dire qualcosa, che mi tolga questa disperazione dall’anima, che….
Una sonata di campanello.—Silenzio.—Ecco la donna di servizio.
—Signora, una lettera.
Mia madre si slancia sulla donna, le strappa la lettera, la guarda, manda un grido, la riguarda, se la preme sul cuore con un gesto convulso, ansa, sorride, leva gli occhi al cielo ed esclama:—Grazie! Grazie!—e bacia e ribacia il foglio, e si stringe sul seno la testa della figlia, e mormora con voce fioca:—Alberto!—e si abbandona sulla seggiola. I due amici le sorreggono la testa e tentano di levarle la lettera di fra le mani;—indarno;—sono tanaglie.
Ecco alcuni squarci della lettera.
Cerlungo, 25 giugno.
—….T’ho detto tutto quello che ho visto, che è poco; non so però darmi ragione di certe lacune rimaste nella mia memoria; le quali, se non ricordassi molte altre cose, mi farebbero dubitare di aver perduto la ritentiva, tanto son strane e incredibili. Ho dimenticato affatto dove e quando si sia fermato il mio battaglione per la prima volta, e mi ricordo lucidissimamente d’un soldato d’un altro reggimento ch’io fermai mentre correva, e gli chiesi:—Donde vieni?—ed egli mi accennò una piccola casa sulla china del monte, esclamando:—N’avimmo fatta na ‘nzalata,—per dire che in quella casa s’era fatto strage d’Austriaci, ed era vero. Me ne ricordo un altro ch’ebbe una palla nelle dita nell’atto che si chinava per toccare un morto; mise un grido, e si guardò intorno stupefatto ritraendo la mano dietro le reni, e mormorando lamentevolmente:—A’m fa mal!—Ricordo l’arringa fatta dal mio maggiore al battaglione, pochi minuti prima che ci movessimo, la quale fu d’una semplicità e d’un laconismo veramente singolare.—Soldati!—disse freddamente senza neanco voltare il cavallo verso di noi:—temo che oggi non avremo da far nulla; ma caso mai…. voglio credere che…. siamo italiani, diavolo!—E qui finì; precise parole. Poco prima, porgendo la sua fiaschetta piena di rhum a un piccolo crocchio di ufficiali che non gli parevano allegri, aveva detto sorridendo:—Prendano; si rinfranchino gli spiriti infermi.—
Mi sono profondamente convinto che il vero coraggio deriva dal cuore e dalla coltura dello spirito; e il vero coraggio consiste meno nel non aver paura che nel mostrarsi e nell’operare, avendola, come se in realtà non s’avesse; il che è effetto di ragionamento, o piuttosto d’un’infinità di ragioni, di ricordi, d’immagini, di esempi, che in quei momenti ti passano con fulminea rapidità per la mente e ti dicono:—Fermo.—E passano anche delle intiere strofe di poesie patriottiche; e mi passò e ripassò la tua immagine col braccio tremante, ma teso, e l’indice appuntato verso il nemico, e gli occhi lacrimosi fissi nei miei, e le labbra contratte dai singulti; ma che dicean con voce franca e vibrata:—Fa il tuo dovere.—O madre, quant’ero vicino a te in quei momenti!
….Non lo credere; i morti non fanno quell’orrenda impressione che si suol dire, almeno fin che il pericolo dura. Il mio battaglione era in ordine di colonna, e andava avanti, e i pelottoni si soffermavano man mano sull’orlo d’un fosso a guardare il cadavere d’un soldato a cui la mitraglia avea deformata la testa; io vi feci stendere una tenda sopra, e nessuno guardò più. È penoso il vedere quei soldati feriti, che a furia di avvoltolarsi per terra e di toccarsi qua e là, si riducono la camicia e i calzoni di tela a non vederci più un palmo di bianco, tutto sangue; e il più delle volte non hanno che una ferita leggera. Da principio si è così profondamente assorti nello spettacolo del campo, che non si bada, e non si pensa nemmeno che ci abbiano ad essere dei feriti. Ed è quasi una sorpresa il vederli poi venir giù a gruppi, colle teste fasciate, colle braccia al collo, sorretti sotto le ascelle, portati a quattro mani, bianchi come morti, chi premendosi una mano sur un fianco, chi sul petto, chi traendo alte grida, chi gemendo fioco; e i medici correre affannati di qua e di là, senza sapere dove cominciare, o da chi; e poi esaminare, lavare, tagliare, fasciare, alla lesta, dopo l’uno l’altro, dopo l’uno l’altro, e poi via tutti all’ambulanza, e poi altri gruppi, altre grida, altri lamenti; Dio, che scene! Ho visto un gruppo di soldati intorno a un medico che curava un ferito e ho sentito gridare: ahi! ahi! Mi sono avvicinato, il ferito era già in piedi.—Va all’ambulanza, va—il dottore gli disse. Quegli s’avviò a passo lento e tremante.—È già guarito? domandai.—Guarito? Vivrà ancora qualche ora,—mi rispose il dottore. Ne fui meravigliato.—Scherzi delle palle,—egli soggiunse.
Ho visto dei begli atti di fermezza e di coraggio. Un bersagliere venne a farsi cavare una palla dalla gamba e tornò indietro a raggiungere il suo battaglione sul campo. Un soldato di fanteria, gravemente ferito, portato a braccia da due compagni, pallidissimo, cogli occhi semispenti, teneva tuttavia un mozzicone di sigaro fra i denti e sporgeva il labbro di sotto in atto di noncuranza e di disprezzo. Passò accanto al mio battaglione; molti corsero a guardarlo; egli volse lentamente lo sguardo intorno e, vistosi osservato, per far parere anche meglio la sua freddezza, fece un movimento della bocca come per addentar meglio il sigaro che gli stava per cadere.
….È morto uno dei miei più buoni e più cari amici, di cui t’ho parlato molte volte, un sottotenente dei granatieri, lombardo, un bellissimo giovine, Edoardo B. Era nella mia compagnia in collegio; tu hai una fotografia in cui ci siamo tutti, cercalo, è il primo a destra, seduto in terra, col sigaro in bocca; me ne ricordo. Vedi com’è morto: il suo reggimento era fermo in faccia ai cannoni del nemico; egli stava seduto sopra un tamburo, a capo basso, e colla punta della sciabola andava sforacchiando per trastullo le zolle che aveva tra i piedi. All’improvviso cadde riverso mandando un grido; una scheggia di mitraglia aveva ferito lui nel petto e ucciso il cavallo dell’aiutante maggiore che gli stava dietro. Morì dopo cinque ore di spasimi atroci. Povero amico! Chi te l’avrebbe detto quando studiavamo pel nostro ultimo esame di collegio, in quelle stanzuccie del quinto piano, al lume di quel moccolo, con quei quaderni e quella brocca d’acqua tinta di fumetto; allora che avevi tante belle speranze, ed eri così felice!….
La risposta a questa lettera è del fratello; la madre s’era messa a letto colla febbre.—Di tratto in tratto—scrive il fratello,—essa cade in delirio e ti chiama.
L’esercito retrocede verso l’Oglio.
Piadena, 5 luglio.
….È una tristezza, è un dolore questo continuo attraversare villaggi e città, in mezzo a due ali di popolo immobile, muto, freddo, che ci guarda con gli occhi stralunati come se fossimo un esercito sconosciuto. Chi ha il coraggio di alzare gli occhi in faccia alla gente? Mi par di leggere su tutti i volti:—Ma bene! ma bravi! O che metteva conto di far tanto chiasso, per far poi di coteste figure?—I reggimenti sfilano a capo basso, silenziosi, che paiono una processione di frati. È uno spettacolo che mi fa male; il mio pensiero ricorre a te, madre; ho un infinito bisogno di te. Perdonami: avessi almeno la consolazione di tornare a casa senza un braccio; potrei dire:—per conto mio ho vinto un braccio di meno.—Ma tornare a casa intatto e sano e grasso e rosso da mettere invidia a un pascià, è veramente vergognoso e insoffribile. Quanta bile mi dà questo specchietto che per quanto io fatichi, e sudi, e mi roda dentro, s’ostina a riflettermi sotto il mento un altro mento che fa capolino! Io l’odio questo neonato insolente che ride sulle sventure della patria! Scherzo; ma è uno scherzo che va poco giù. Marciamo sotto il sole di mezzo giorno; a destra e a sinistra della strada, orti, campi floridi e ville; a traverso il cancello dei giardini vediamo in lontananza, in fondo ai viali, signori in maniche di camicia sdraiati all’ombra dei pergolati, e signorine vestite di bianco, vaganti pei poggi in mezzo ai pini e alle mortelle. Oh loro felici! Non perchè stanno all’ombra e riposano; ma perchè non portan sull’anima questo terribil peso di sconforto e di tedio.
Risposta:—Capisco; capisco tutto; le madri capiscono tutto; coraggio, figliuolo.
La divisione Cugia è a Parma; parte per Ferrara.
Parma, 10 luglio.
….Benedetti soldati! Mi par d’amarli di più dopo quella nostra sventura; son sempre gli stessi loro, sempre rassegnati, buoni. In marcia, quando cominciano a curvarsi e a zoppicare, li guardo, li guardo: mi ci struggo, proprio. Qualche volta, quando me ne fanno qualcuna, io fo tra me un ragionamento lungo e sottile per provarmi che quello è veramente il caso di andare in collera, e poi alzo la voce:—Insomma, è tempo di finirla! Così non si va avanti! Fareste perder la pazienza a un santo! Or ora….—Impostore—mi dice una voce di dentro—tu non sei mica in collera.—È vero!—io rispondo sorridendo, e smetto. Ma poi fermo il proposito di non amarli più, o almeno di non farmi scorgere, chè se no addio disciplina.—La vedremo,—dico,—vedremo se riusciranno più a intenerirmelo questo core di sasso.—E cammino duro, con un cipiglio da metter paura, sicuro della vittoria. Ed eccotene subito uno:—Tenente, glielo porto io il cappotto?—Ed io brusco:—No.—Lei è stanco.—No.—Si!—Come! Stiamo a vedere che ho da essere stanco quando vuoi tu! Al posto.—Ne viene un altro con una borraccia:—Tenente, questa è fresca.—Non ne ho voglia.—Assaggi.—Non assaggio.—Una goccia, e vedrà.—Nemmeno una goccia.—Ed egli mi mette la borraccia sotto il mento:—Vedrà che è fresca.—So bere da me.—Piglio la borraccia, m’inumidisco la bocca e gliela ridò.—Tenente!—Cosa?—Lei non ha bevuto.—Ho bevuto.—Ma se c’è ancor tutta!—e scuote la borraccia.—Oh insomma! la volete capire che sono stanco e stufo che non ne posso più? Andate al vostro posto, subito, di corsa, o vi faccio mettere alla guardia del campo per quindici giorni…. Che modo è questo?—Impostore!—mi ripete la solita voce.—È vero, io rispondo un’altra volta, e smetto.—Oggi il signor tenente è di malumore!—dicono i soldati.—No, no—io rispondo sollecitamente tra me;—no, razza di bricconi.—
Risposta:—Io lo dico spesso con tua sorella Erminia: Alberto se l’è proprio conservato tutto, tal’e quale, il cuore che aveva da fanciullo. Non dico che sia merito mio; ma però….
La divisione è partita da Ferrara alla volta di Padova.
Monselice…. luglio.
Trista cosa marciar colla pioggia. Era già notte, eravamo ancora lontani quattro miglia da Rovigo, e cominciò a piovere a catinelle. In pochi minuti mi trovai ridotto come se mi fossi cacciato in un bagno bell’e vestito; l’acqua mi correva a rigagnoli giù per la schiena e pel petto; il cappotto mi s’era inzuppato che pesava da non poterlo più reggere; nella strada un palmo di fango; sicchè, figurati! Passando, vedevamo per le finestre delle case dei contadini «rara tralucer la notturna lampa» e qualche ombra far capolino un istante e sparire. Ed io pensavo a te, che quand’ero fanciullo, la sera, spingevi il mio letticciuolo verso la finestra, perchè mi piaceva sentir battere la pioggia sui vetri e il fischio lungo e lamentevole del vento, e addormentarmi fantasticando paurose avventure di pellegrini smarriti per le foreste, e misteriosi lumicini risplendenti da lunge, e fatali castelli ospitali.—Oh povero ragazzo, in che stato!—esclamavi giungendo le mani quand’io tornava dalla scuola un po’ fradicio; povera mamma, se tu mi vedessi adesso!—Era il giorno delle disgrazie. Arriviamo vicino a Rovigo, piantiamo il campo in un pantano, e poi via, in paese. Io e un mio amico troviamo una stanzuccia dove asciugarci e riposare, in casa d’una buona famiglia; ci mettiamo a letto, dormiamo; balziamo giù alle nove della mattina per andare al campo e partire…. Dio eterno! non m’entran più gli stivali; li ho lasciati accanto al fuoco, si son ristretti e induriti che non ci passa neanco la gamba d’un bambino.—Aiuto, amico, aiuto per pietà!—A noi!—egli grida; si rimbocca le maniche, e li tutt’e due, tira e tira e tira, e smetti per respirare, e ripiglia con nuova lena, e smetti daccapo, e ritenta ancora con tutte le forze della disperazione…. Ah invano! Le gambe intormentite si rilassano, le braccia spossate cadono penzoloni, e la testa si riversa all’indietro cogli occhi fuori dell’orbita e la fronte grondante di sudore.—Un estremo rimedio!—grida l’amico; scucir gli stivali.—Scuciamo!—Mano alle forbici e ai temperini, e all’opera. Ma i punti non si vedono, e più ci si affanna e meno si trovano, e le dita gingillano tremanti, e lo stivale scivola dalle mani, e il mio amico s’è ferito, ed io pure, e il tempo passa…. Ah! i tamburi! siamo perduti!—Il reggimento partì senza di noi; lo raggiungemmo in vettura un’ora dopo che s’era accampato.—Come mai?—domandarono gli amici. Io risposi mostrando i piedi: li avevo cacciati nel primo paio di barche postomi in mano dal primo ciabattino di Rovigo che avevamo mandato a chiamare: erano spettacolose. Un minuto dopo, un biglietto d’arresto a me e al mio compagno. Appena entrato nella tenda, sbattei in terra gli stivali gridando:—Là, carnefici!—Ma lei che non aveva l’impedimento della calzatura,—domandò poi il colonnello al mio compagno,—perchè non è venuto?—Colonnello! abbandonar gli amici nella sventura….
Risposta:—Quante volte non ho predicato, fin da quando eri bambino, contro questa maledetta manìa di portar le scarpe strette! Chi sa cos’avrà detto di te il colonnello! Ma non c’era almeno una donna che avesse un po’ la testa a segno in quella casa di Rovigo, che cercasse subito, mandasse a vedere, provvedesse, vi levasse in qualche modo d’impiccio? Pare impossibile! tutti senza giudizio.
Dalle vicinanze di Mestre, 20 luglio.
—…Ho visto Venezia da lontano. Non credevo che si potesse amar tanto una città da provare, vedendola, quello stesso effetto che fa l’innamorata. Al primo vederla, così stupenda e gentile, che sembra a galla sul mare, non mi venne sulle labbra nè un «viva!» nè un «bella!» come parrebbe spontaneo; mi venne una parola più affettuosa e più dolce, ed esclamai:—Cara!—Dice un mio amico che Venezia, vista così da lontano e di sera, gli fa l’effetto d’una fanciulla pallida e melanconica, appoggiata sul davanzale, col capo reclinato da una parte sulla palma della mano, e lo sguardo teso sull’orizzonte del mare, in atto di chi pensa ed aspetta. E appena la vide gridò:—T’amo!—Sì, tale è il senso che ispira da lontano Venezia; dentro sarà grandiosa e magnifica e ne imporrà; vista di qui intenerisce e innamora. Cara madre, tu hai una rivale formidabile….
….Gran buona gente questi contadini veneti. Ero di gran guardia vicino a una casipola, avevo sonno e picchiai per domandare ricovero; nota ch’eran le due dopo mezzanotte. Mi apre una donna, mi fa entrare nella prima stanza, mi porta un pagliericcio, una materassa, una coperta, un guanciale, mi dà la buona notte e va via. Mi corico e dormo da principe. La mattina appena desto, mi affaccio all’altra stanza per ringraziare la mia ospite, e la vedo che dorme stesa in terra, sopra un po’ di paglia, con due bambini, uno fra le braccia, l’altro da un lato, senza un lenzuolo, senza un guanciale, senza un cencio di coperta; aveva dato ogni cosa a me. N’ebbi rimorso, ira, vergogna; mi diedi dello snaturato, del poltrone, del villano, del tristo…. Non ricorderò mai quella notte senza dolore.
Risposta (ah pietosissima spietata!):—Un po’ di torto l’hai certamente; ma…. in fin dei conti tu avevi faticato e dovevi levarti per tempo; mentre quella donna aveva dormito fino allora e poteva dormir poi. Un’altra volta badaci però.
….Dalle vicinanze di Mestre…. agosto.
….—Senti questa ch’è nuova di zecca. Ieri l’altro ero d’avamposto dalla parte di Malghera. Allontanatomi un centinaio di passi dalla gran guardia, veggo venir verso di me tre signore, una attempata, le altre due giovanissime (eran sue figliuole), belline, vivaci; e tutt’e tre mi si ferman davanti, mi fanno un inchino, mi domandan nuove della mia salute, mi dicono che sono scappate da Venezia, che son dirette a Mestre, che vogliono andare a Padova dai loro parenti, e che intanto sono felicissime di vedere un ufficiale italiano,—non n’avevano ancora veduto nessuno, io era il primo,—e mi fanno festa, mi affollano di gentilezze, ridendo, girandomi intorno, giungendo le mani in atto di ammirazione e di sorpresa, e tutto questo con una ingenuità e una grazia veramente incantevoli. Dopo ch’io l’ebbi ringraziate tutt’e tre con grande effusione di cuore, la mamma si voltò alle ragazze e disse loro:—Fategli vedere che cos’avete sotto il vestito.—Oh che diavolo?—io pensai. Le ragazze si peritavano.—Animo, alzate.—Alzate!—pensai di nuovo.—Animo, su, o che c’è da vergognarsi?—Io cadevo dalle nuvole. Le ragazze fecero ancora un po’ le ritrose, ridendo e coprendosi il viso con una mano; e poi, tutt’e due assieme, facendomi un grazioso inchino, tiraron su delicatamente con tutt’e due le mani la gonnella del vestito, e mi mostrarono una bellissima sottana fatta di tre pezzi, uno verde, uno bianco, e uno rosso con una gran croce bianca nel mezzo….
Risposta.—Cosa viene a fare codesta signora colle sue figliuole in mezzo a voialtri? Abbi giudizio. Te lo dico perchè so che ce n’è bisogno; hai una testa!
Padova, 5 settembre.
….—M’ha preso la febbre, sono venuto a Padova, sono entrato nel l’ospedale dei Fate-bene-fratelli, m’hanno curato, sono guarito, e domani torno al reggimento: ecco tutto. T’ho voluto scrivere a fatto compiuto, come suol dirsi, per impedirti di venir qua, chè certo ci saresti venuta. E adesso va’ in collera, grida, scrivi, protesta; la è tutt’una; è finito; bisogna rassegnarsi. Anzi, fa’ a modo mio, cara madre; ringrazia il cielo che non sia stata che febbre; pensa a questi poveri giovani che ho intorno, chi ferito di palla, chi di baionetta, condannati al letto chi sa per quanti altri mesi, e fortunati quelli che s’alzeranno ancora. Ho davanti a me un luogotenente dei granatieri, lombardo, che s’è preso una baionettata nel petto, a Custoza, da un sergente dei croati, e ferito com’era non s’è voluto allontanare dal campo. M’ha fatto veder la sua tunica; è ancor tutta macchiata di sangue. È quasi guarito, si leva, cammina; ma quando si sveglia, nell’atto che fa per mettersi a sedere sul letto, prova ancora dei dolori atrocissimi. Mi raccontò il fatto.—Mi ricordo di poco,—mi disse;—mi ricordo come di un sogno, d’aver veduto quattro o cinque ceffi orrendamente stravolti correre contro di noi mandando un urlo prolungato, e uno di essi mi guardava. Ho sempre presenti quei due occhi spalancati e la punta di quella baionetta; era un uomo alto, nero, con due gran baffi. In che modo sia riuscito a ferirmi non mi sovvengo. Ricordo che mi passò dinanzi, rotando la sciabola, un ufficiale austriaco senza barba, un viso femmineo, giovanissimo, che gridava disperatamente:—Jesus Mària! Jesus Mària!—Passò e scomparve. Quello lì lo vedo sempre, lo riconoscerei. Parecchi giorni dopo, essendo all’ospedale colla febbre e il delirio, mi sentivo ancora l’orecchio intronato da quegli urli e dal suono dei fucili cozzanti, e vedevo lontano lontano una punta scintillante che veniva innanzi, nella direzione del mio cuore, lentamente, lentamente, come se mi guardasse per riconoscermi; e me la sentivo entrar poi tutt’ad un tratto nelle carni, dura, fredda, e starci lungo tempo e andar sempre più giù. Ti parrà strano; ma per molti giorni, ad ogni rumore improvviso ch’io sentissi, allo sbatter d’un’imposta, al cader d’una seggiola, mi correva un brivido per tutta la persona….—Questo povero giovane, ferito com’è, l’altra notte saltò giù dal letto in camicia e venne a domandarmi se avevo bisogno di nulla, perchè gli era parso ch’io mi fossi lamentato. Mi vergognai. Un imbelle e volgare febbricitante esser causa che un nobile ferito di baionetta s’incomodi per lui! Da quella notte in poi, ad ogni rumore ch’egli fa, sia anco russando, salto giù.—
—Il quartiere generale è a Padova, lo sai? Ieri, mentre dormicchiavo, mi vidi balenare sugli occhi un petto coperto di medaglie e di croci; guardo, è lui, è il «burbero benefico.» Ci stette un’ora. Entrai a discorrere della guerra; egli lasciò cadere il discorso; non sorrise mai; era molto tristo. Mi lasciò stringendomi a più riprese la mano e dicendomi con molta serietà:—Sii forte.—
La risposta è una protesta violenta, che dalle prime all’ultime parole va però gradatamente scemando di forza, tanto che comincia:—Sei proprio indegno dell’immenso bene che ti voglio…. Il cielo è ben crudele con me,…—e finisce:—Sia ringraziato il cielo; vedo proprio che ci protegge: e tu sii benedetto, mio buon Alberto.
Martellago, 15 settembre.
….Finalmente! Siamo per la prima volta acquartierati a Martellago, poco lontano da Mestre; ho una camera! un letto! un tavolino! uno specchio! Oh felicità sovrumana! Tu non lo capisci, cara, che cosa voglia dire per noi possedere un po’ di casa dopo tanti mesi che si dorme in terra e ci si lava il viso nei rigagnoli.—È mia!—esclamo misurando in lungo e in largo la camera a passi lenti e gravi, e girando lo sguardo sulle pareti.—È mia; me la pago e me la passeggio e me la godo e tengo tanto di chiave in tasca!—La prima sera, nell’atto di salir sul letto, ho provato una certa peritanza, una certa soggezione; mi pareva d’essere un contadinaccio penetrato segretamente in un salotto di signori, e che da un momento all’altro mi dovesse calar sulle spalle una tempesta di bastonate. Poi, quando ho messo il ginocchio sulla sponda e l’ho sentita dar giù, credetti di cadere, mi trattenni, sorrisi e risalii, con una sorpresa, con un piacere, che mi ricordò quello che provavo da ragazzo aprendo la scatoletta da cui saltava fuori il mago sabino con quella gran barba. Che sonno delizioso! Che allegro svegliarsi!… Una camera! Ma io sono un re; voglio spassarmela, voglio fare il giovin signore; voglio goder la vita. Ho già cominciato. Mi son fatto portare il caffè a letto; mi son levato e vestito lemme lemme, sbadigliando voluttuosamente e domandando ogni momento del tempo e dell’ora; ho avuto l’impertinenza di mandarmi a chiamare un barbiere del paese, e di riceverlo sdraiato sulla poltrona, e di accendere un sigaro e di aprire un libro…. Gran bella cosa nuotar negli agi e nelle morbidezze! Cara, lo crederesti che io amo tanto la mia cameretta da curare la disposizione simmetrica delle seggiole? Tu riderai; eppure…. Adesso comincio a rendermi ragione del perchè e del come voi altre donne amiate tanto la casa; non ti burlerò più per quella tua cura religiosa che tutto sia al suo posto, pulito, lucido. Quante cose insegna la tenda!—
Risposta:—Per capir certe cose non ci dovrebb’essere bisogno della tenda, mi pare! Dormi colla finestra chiusa; non son più giorni da pigliar aria i primi di settembre; se non hai abbastanza coperte, chiedine alla padrona di casa. A proposito: è giovane questa tua padrona? è maritata? ha figliuoli? Che donna è? Queste padrone di casa mi dan sempre da pensare perchè per solito vogliono immischiarsi un po’ troppo nelle cose che non le riguardano. Tu poi sei un benedetto ragazzo!
Martellago, 16 settembre.
….È strano; cioè è naturalissimo, ma in sulle prime mi parve strano, che fra noi, dopo una campagna, anche coloro che parevano più spensierati, più freddi, più cinici, sentano un prepotente bisogno d’affetto, e parlino ad ogni momento e con tutti della loro famiglia (molti avean persino dimenticato d’averla), e scrivano di qua e di là, e custodiscano religiosamente le lettere, e scongiurino gli amici lontani a mandare i ritratti, e cerchino per mare e per terra un amoruzzo sentimentale pur che sia. Questi mutamenti seguono più generalmente e in modo più pronto e più vivo dopo una guerra sfortunata; si capisce. Certuni sono andati a dissotterrare non so che cugine lontane, di cui forse non sapean neanche il nome, ed hanno intavolato con loro una corrispondenza letteraria disperata. Le cugine, sorprese e intenerite dalla subita e appassionata espansione di quei cuori, rispondono cose di fuoco; i ferri, come si dice, si scaldano; prevedo di gran matrimoni. Le guerre rubano molti figliuoli alla patria; ma gliene preparano anche molti. Se tu li vedessi, come li vedo io, certi don Giovanni in diciottesimo, certi crapuloni, che qualche mese fa ponevano la bottiglia, il sigaro e la bionda o la bruna al di sopra di tutti gli affetti e di tutte le felicità umane; se tu li vedessi la sera, appoggiati alle finestre, guardar la luna con occhio melanconico, e lamentarsi con me:—Son due giorni che non mi scrive!—È inutile, già; la donna è sempre la nostra riverita signora e padrona; l’ambizione, la gloria, qualche altra felicità aspettata o sperata, possono qualche volta illuderci, farci credere che si possa fare a meno di lei, nasconderla, per così dire, agli occhi della nostra mente e ai desiderii del nostro cuore; ma poi…. Ella non ci arresta, come dice il Manzoni, nel viaggio superbo;
Ma ci segna; ma veglia ed aspetta,
Ma ci coglie….
Oh ci coglie sempre!
Risposta:—E tu chi hai dissotterrato? Per carità: giudizio! giudizio! giudizio!
17 settembre.
—….Un altro fenomeno da notarsi, dopo una guerra, è l’ardore della lettura che rinasce vivissimo in tutti, anche nei più alieni, o per indole d’ingegno o per insufficienza di coltura, da questa maniera di occupazione e di diletto. Tutti leggono, tutti cercan libri; il parroco del paese è stato costretto a mandare in giro tutti i volumi della sua biblioteca. A me che vado agli eccessi, come tu dici, in tutto, è venuta una vera manìa; non è più voglia di libri quella ch’io sento, è fame, fame rabbiosa. Ma son sempre fedele al mio amore antico. Tutte le ore libere del giorno e della sera le passo leggendo e rileggendo e pensando e sviscerando questo caro, questo benedetto, questo santo romanzo I Promessi Sposi, mio eterno compagno ed amico, fonte per me di tante dolcezze, di tante consolazioni, e di quella eguale e soave tranquillità d’animo e di cuore, in cui ogni mio affetto si purifica e si rafforza, ogni mio pensiero s’innalza, e le cose e gli uomini e il mondo e la vita, tutto mi si presenta all’intelletto sotto il suo aspetto migliore, tutto circonfuso d’amore e di speranza. Non so come; ma la mia patria, il mio reggimento, te, gli amici, tutto sento d’amar di più e più nobilmente, meditando questo vangelo della letteratura. E non v’è una pagina a cui non sia legato un ricordo delle nostre prime letture; quando tu tenevi il libro sulle ginocchia, ed io leggevo e tu ascoltavi, e le mie lacrime cadevano sulle tue mani, e a certi punti si chiudeva il libro e ci abbracciavamo; o s’io leggeva nella mia camera, uscivo e venivo a cercarti per piangere fra le tue braccia. L’ho qui dinanzi questo libro, lo tengo fra le mani, me lo stringo sul cuore e gli dico:—Per tutte le lacrime che hai fatto spargere a me e a mia madre, per tutti i santi affetti che m’hai destati e tenuti vivi nell’anima, per tutto l’amore che m’ispirasti agli uomini e alla vita e alle cose nobili e grandi, io ti giuro che come fosti la mia prima lettura, sarai l’ultima, e che fin che la mia mano ti potrà reggere ed il mio sguardo fissarti, cercherò te, sempre te, libro-paradiso!—
Dopo questa lettera c’è l’annunzio della partenza da Martellago, e poi, giorno per giorno, un cenno delle partenze e degli arrivi successivi, da Padova a Rovigo, da Rovigo a Pontelagoscuro, da Pontelagoscuro a Ferrara, da Ferrara a Modena, da Modena a Parma.
Parma, 16 ottobre.
—Senti che tiro m’ha fatto quel briccone di ordinanza. Due settimane fa, ricorrendo il giorno del suo nome, presi una bottiglia di barbèra dal vivandiere, ci attaccai sul collo un pezzo di carta con suvvi scritto—San Remigio—e, colto un momento ch’egli non c’era, andai a mettergliela sotto la tenda. Non seppi altro; non mi ringraziò; non die’ mai segno di nulla; credetti che glie l’avessero rubata. Ieri sera, tornando da una passeggiata fuori del campo, entro nella tenda e vedo al mio posto un gran monte di paglia fresca, ben raccolta e spianata, che pareva levata allora da un pagliericcio; e dalla parte dove metto la testa, un’immagine di santo appesa al sostegno della tenda, con foglie e fiori intorno, e un cerino acceso dinanzi; accanto, sul coperchio del baule, un astuccio di legno, fatto col coltello, che poteva passare per un portasigari; sotto l’astuccio un mazzetto di sigari legato con un nastrino rosso. Guardo l’immagine: c’è scritto su—Santa Teresa—; guardo l’astuccio—Santa Teresa;—guardo il nastrino dei sigari—Santa Teresa.—Ne rimasi commosso. Non credevo che il cuore di questo giovane, oltre all’esser tanto buono, fosse anche tanto delicato, da onorare e festeggiare il nome di mia madre invece del mio.—
La risposta della madre è un vero schiaffo al regolamento di disciplina. Se il soldato d’Alberto fosse diventato ad un tratto generale d’armata, essa non avrebbe potuto scrivere in altro modo. E pare che in seguito il signor Remigio non fosse mal ricompensato della sua delicatezza perchè un giorno si presentò all’ufficiale con una lettera di casa sua tra le mani e colle lagrime agli occhi, e fece con voce tremante un lungo ringraziamento….
—Ho capito—disse Alberto tra sè quand’egli ebbe finito;—le due madri sono amiche.—
Da Parma a Piacenza, da Piacenza a Pavia, da Pavia a Bergamo; altri quindici giorni di marcia, di cui la metà colla pioggia.—Penso alle scorticature dei tuoi poveri piedi—dice una lettera della madre, e non posso far altro che mandarti dei sospiri di dolore.—Mandami delle calze di filo—risponde il figliuolo.
Bergamo è l’ultima stazione, dalla quale ricomincia il racconto di Alberto.