(romanzo tedesco rimasto a mezzo per merito mio).
La conoscenza ce la fece fare il signor Pigia-pigia.
Sapete chi è. E saprete anche che lui non si preoccupa di formalità. Pieno di semplice buon cuore, se vi scorge solitario e truce in mezzo a qualche folla che aspetta e puzza, conficcato là in quel fango vivo come un malcapitato bolide memore dei cieli abbandonati, ecco vi piglia e, così, senza preamboli, vi scaraventa addosso a una donna; per di dietro, per davanti, come capita capita. Novanta volte su cento avviene un miracolo. Voi sentite immediatamente che il vostro destino dipende da quella donna; quella donna sente subito che voi siete fatto per lei…. Che appena ella si alzi sulla punta dei piedi, consentendo ad appoggiare i suoi due gomiti sulle vostre due mani aperte, ecco sembrerà a lei e a voi di volare per gli spazi infiniti, stretti sulla groppa di un fido ippogrifo. Il puzzo della folla? — odor d’ambrosia! Le gomitate? — farfalle che vi cozzano volando! Le ore? — minuti!…
Questo accadde quando il signor Pigia-pigia ebbe il gentile pensiero di presentarmi a fräulein Zita K., a ridosso della facciata di Santa Maria del Fiore, un’ora prima del rinomato Scoppio del Carro, la mattina di Sabato Santo del 1900.
— Roba vecchia?
— Roba vecchia. Pur troppo! La roba nuova è tutta da piangere.
E c’è passata molt’acqua su queste mie ragazzate, e torba assai! Ho paura di non mi ricordare. Racconterò a salti e a capriole. Ma insomma, la storia è così terribile che rabbrividirete lo stesso.
Zita era magra, ma senz’ossa: una grande capigliatura d’oro che le pesava sul collo; un paio d’occhi verdi verdi e grandi grandi…. Ce n’era d’avanzo per i miei diciott’anni.
A proposito degli occhi, vi dirò che mi servirono per farle un delizioso madrigale appena, dopo il primo scontro un po’ rude, il signor Pigia-pigia ci permise di passare…. dai fatti alle parole.
— Avete degli occhi magnifici! — le dissi.
— Occhi di Sfinge, occhi fatali! — fece lei con un’aria tra ironica e impenetrabile.
— No! — esclamai io con profonda convinzione. — Ma che Sfinge d’Egitto? Domandate al primo ferroviere che vi capita che cosa vuol dire occhio verde: Via libera!
Se i posteri vorranno valersi di questo esempio per dimostrare che io non sono mai stato poeta, facciano pure.
Ammesso però che lo scopo dei madrigali non sia di piacere ai posteri, ma di far breccia nel cuor della donna desiderata, quel mio madrigale vale almeno quattro canzonieri a scelta vostra tra gli infiniti che la nostra amorosissima letteratura vanta e vanterà sempre mai.
La breccia fu anzi così fulminea, così travolgente, così larga, che questa storia non meriterebbe la pena d’esser raccontata…. se il diavolo non ci avesse messo la coda.
Fräulein Zita non era sola.
Mi presentò infatti un complesso di molta carne e di molte ossa mal assestate, una specie di abbozzo vivo, al quale non diedi lì per lì nessunissima importanza.
— Mia sorella maggiore.
— Tanto piacere. — E continuai ad esercitare la mia pressione sulla sorella minore.
Ma, ahimè! passò ben poco tempo che io dovetti persuadermi della assoluta impossibilità di fare come se quello strano animale non esistesse.
Nè crediate che, nella sua doppia qualità di sorella maggiore di età e di peso, intervenisse per temperare i nascenti perigliosi fremiti d’amore nel cuoricino di Zita, o per imbrigliare un po’ i miei balzani diciott’anni. Mai più!
Lo strano animale mi studiava, semplicemente.
Ma mi studiava come san studiare due occhi tedeschi muniti d’occhiali. Vi giuro che se mi avessero preso e messo in cima al Carro, al posto della girandola, con l’obbligo di far all’amore lassù, gli sguardi di quelle diecimila persone mi avrebber dato meno impaccio che non quel solo paio di occhiali di Lipsia.
E meno male se si fosse accontentata di guardare dal suo posto come uno spettatore di teatro che voglia spender bene i suoi quattrini.
Ma che! I suoi propositi erano ben altrimenti seri e scientifici. Non una sola mia paroletta breve, non un solo trascorrer rapido di dita, non un solo commosso avanzar di piede doveva a nessun costo sfuggirle: nulla. Assolutamente nulla.
Figuratevi un po’ voi che daffare!
Per esempio, per lo studio dei piedi e delle mani, ogni due minuti almeno era costretta a farsi cadere in terra qualche cosa. Súbito io ne approfittavo per sussurrare ebbre roventi parole alle pallide orecchie di Zita, vere adorabili conchigliette!… Ma quasi altrettanto súbito quella specie di enorme rospo, acculato tra le nostre gambe, balzava su contro il mio naso.
Qualche volta però non arrivava in tempo a capire i miei sospiri d’amore. In questi casi, si comportava nel seguente modo: avvicinava il suo testone alle trecce d’oro della mia Zita e aveva il coraggio veramente tedesco di chiederle che cosa le avessi detto.
Incredibile, ma vero: la mia Zita, le traduceva prontamente e fedelmente in tedesco il mio ardente francese!
Che pensare?
Spesso il grosso rospo spingeva la sua inaudita tedescaggine fino ad annotare le frasi, secondo lei, più interessanti, sopra un suo taccuino grosso come una Filotea!
Io, a questa vista, mi sentivo, dentro, l’anima ruggire come un intero serraglio in fiamme.
Ma bastava che la mia Zita girasse dolcemente il capo sul fragile collo e mi guardasse con que’ suoi occhi da Sfinge…. io ci vedevo subito scritto Via libera, e non pensavo più ad altro.
Tuttavia, ci fu un momento in cui sentii che sarei scoppiato se non mi permettevo un piccolo sfogo; e allora, avvicinata la bocca fin quasi a baciarle l’orecchio, rantolai con una serietà impressionante:
— Io ammazzerò vostra sorella.
Il rospo, che stava appuntando chi sa che cosa sul suo taccuino, si precipitò sull’altro orecchio di Zita per sapere che cosa avevo detto.
— Nichts, nichts! — ripeteva Zita rossa come una fiamma.
— Come niente?
— Niente insomma, noiosa! — ribattè Zita drizzando il collo come una viperetta. Le mie scarse nozioni di tedesco mi permisero di comprendere che le due sorelle leticavano come due lavandaie di Lipsia.
Grato a Zita di questa prima prova d’amore, ma nel medesimo tempo impensierito un poco di vedermi preso da lei così sul serio nella mia qualità di aspirante omicida, stavo assai in forse su quel che mi convenisse fare o dire.
Sapete chi mi venne in aiuto? Che cuor d’oro! Non l’indovinate?… Ma sempre lui! Il signor Pigia-pigia!
Chi sa come, chi sa perchè, ma certo è che proprio in questo difficile momento, io e Zita vedemmo un qualche cosa, rosso di pelo, piombare con inaudita violenza sulla schiena robusta della nostra avversaria, facendole volar via di colpo quei maledettissimi occhiali di Lipsia.
Il primo a ridere naturalmente fui io. Ma fu question di minuti secondi, chè Zita dovette anche scoppiare a ridere, e poi il sorellone, e poi il bolide di pelo rosso, e finalmente tutti. Torno torno, per un raggio di cinque o sei metri, non fu altro che un abbaiar di risa.
Dopo le risa i commenti:
— Grazie! quello si credeva di ppasseggiare su per la facciata d’idDomo come se la fosse a giacere!
— Sorte ch’egli ha messo i’ nnaso su i’ ttenero n’i’ccascare!
— La signorina l’aspettava lo scoppio dinanzi, e la l’ha avuto di dietro!
— Ja! Ja! Ja! — faceva il sorellone.
E giù nuove risate a scroscio.
Tutto, assolutamente tutto sarebbe andato benissimo, se quel qualche cosa rosso di pelo, se quel bolide di pelo rosso, non fosse stato, oltre che acrobata e poeta, anche un carissimo amico mio.
Mi spiego.
Una persona qualunque, capitata giù, così, dalla facciata del Duomo, ritrovandosi senza rotture d’ossa sulla groppa di una creatura di sesso femminino, avrebbe súbito avuta la netta visione del suo dovere: far la corte a quella donna, prescindendo da qualsiasi criterio d’estetica, farle la corte ad ogni costo: per riconoscenza. Non vi pare? Io avrei eternato nei miei scritti il suo eroismo per ricompensarlo di avermi reso felice.
Ma quello, ripeto, era un amico carissimo.
Un amico carissimo non può accontentarsi di fare ciò che farebbe una persona qualunque.
E infatti, dedicati non più di cinque minuti alle facezie d’occasione, l’amico carissimo si innamorò perdutamente di Zita.
Io, che lo conoscevo da un pezzo, appena lo vidi diventar serio e buio, dissi tra me: «Ahi! l’amico punta su Zita». Improvvisai una serie di manovre per fargli capire che Zita era roba mia e guai a chi me la toccava; ma sì! quello apparteneva alla categoria degli epilettoidi in amore. E chi lo fermava più?
Di buio si fece cupo; di cupo, torvo; di torvo, truce, e ringhioso, e ispido come un gatto pestato.
Quando il Carro scoppiò, eravamo rivali.
————
Ed eccoci di colpo trasportati dalla più lieta commedia, alla più fosca tragedia.
Era di maggio. Tutta Firenze odorava di rose e di donne.
La gente posata trovava che, le giornate umide, le fogne puzzavano, che certe vuotature non avrebbero dovuto chiamarsi «inodore» ecc., ecc.; ma per noi ragazzi vi giuro che Firenze odorava tutta di rose e di donne, soltanto di rose e di donne, nient’altro che di rose e di donne.
Dopo una corsa artistico-storica a Pisa, le due sorelle teutone erano ritornate a Firenze….
Cioè: adagio!
Voi mi domanderete certamente perchè, innamorato com’ero di Zita, non l’avessi accompagnata a Pisa. Ebbene: allora torno volentieri un passo addietro e ve lo dico subito.
A Pisa le sorelle K. dovevano incontrare un grosso branco di connazionali che risaliva l’Italia a marce forzate, al quale branco appartenevano non so quante loro cugine e zie e zii che non desideravo di vedere. Ma tre giorni soltanto erano scorsi, quando il postino mi consegnò una lettera che odorava di lei.
«Ils sont passés, semblables à une orage d’été. Combien de bruit, mon cher ami!… Oh! qu’elle est aimable cette petite ville fleurie en silence à coté d’un Camposanto…. Mais…. que je suis seule ici!…………»
Dodici puntini oltre il punto esclamativo.
Non c’era altro che pigliare il treno.
E infatti tre ore dopo mi trovavo già comodamente disteso in uno scompartimento di terza classe col mio bravo biglietto per Pisa infilato nella fascia del cappello e in bocca due sigarette accese…. Due, sì: nient’altro che un innocente ed economico sistema che allora adottavo per epater le détestable bourgeois. Avevo fatto fabbricare un bocchino apposito, a doppiere, una maraviglia del genere, che non avrei prestato per un’ora neppure a Dante Alighieri.
E questo non era niente: ne avevo in cantiere un altro a cinque bocche da fuoco, signori miei! destinato a far epoca negli annali studenteschi fiorentini…. Ma, per carità, non complichiamo le cose. La storia del mio bocchino a cinque fuochi ve la racconterò un’altra volta.
Fumavo dunque ancora le mie due sigarette, anzi non le fumavo più perchè erano finite, ma tenevo ancora il mio prezioso bocchino tra i denti, quando un’interna voce mi spinse di corsa verso l’estremità del carrozzone.
— «Occupato!»
— Accidenti!
E dopo un quarto d’ora di questi «accidenti» finalmente l’uscio si apre. Chi vien fuori? L’amico di pelo rosso.
— Eh?! Dove vai?
— A Pisa! e tu?
— A Pisa.
— Sarebbe ora di finirla di far l’imbecille!
— Mi pare anche a me!
Vola uno schiaffo. Ne volano due. Ne volano tre. Mi sento afferrare il bocchino. Stringo i denti. Ma i denti non son mai stati il mio forte; ed ecco il prezioso arnese vola dal finestrino insieme con mezzo dente.
Allora non ci vidi più. Una grandinata di pugni cadde vindice sulla rossa capigliatura del rivale. Lui, fedele alla sua scuola di pugilato che consisteva nell’attaccarsi sempre a qualche cosa di prezioso, s’attaccò a una magnifica camicia di seta cruda, uscita allora allora da una bottega di via Tornabuoni: una camicia che m’era costata un occhio, ma v’assicuro che spirava voluttà lontano un miglio!
Io, súbito accortomi della nuova minaccia ai miei averi, cambiai di botto piano di battaglia, e mi accinsi ad attanagliare il collo dell’acrobata poeta, intendendo di non lasciarlo finchè lui non lasciasse la camicia. Ma, ahimè! Non ebbi tempo di mettere in atto il mio piano, che un enorme capotreno accorse a separarci; e lo fece con così robusta grazia, che un buon quarto della mia camicia passò alla parte avversaria. Voi capite bene che una camicia non è un esercito: i tre quarti rimastimi fedeli non potevano consolarmi di quel quarto traditore.
Il naso del mio rivale colava sangue come il polso di Seneca filosofo. Se non che, non avendo egli avuto l’accortezza di spogliarsi e di mettersi in un bagno prima che io gli rompessi il naso, così era tutto imbrattato di sangue come un beccaio la sera del venerdì.
Fummo allontanati.
Ma alla stazione di Pontedera ci trovammo ancora vicini. Avevamo tutti e due riconosciuto la necessità di fermarci in un porto intermedio come fanno le navi in avaria.
Ci guardammo con profonda compassione.
L’amico, con un’aria assai più poetica che acrobatica, mi si avvicinò e mi disse:
— Del resto, se andavo a Pisa non ci andavo senza essere invitato….
E così dicendo mi mise sotto il naso un cartoncino cilestrino.
Mi bastò gettarvi sopra un’occhiata per scoppiare a ridere; ma a ridere! a ridere in un modo, che tutta la stazione si fermò a guardarmi. Lì per lì dovettero credere che avessi le convulsioni. Poi capirono che ridevo; e, a veder due, conciati in quel modo, tutti ammaccature e strappi, uno serio come un allocco, l’altro che si ruzzolava per tutte le panche, a quanti passavano gli s’attaccava il riso: sì che ridevano tutti come matti senza sapere il perchè.
L’amico rosso era al vertice del furore.
Ma non batteva ciglio per paura di far ridere di più.
Finalmente mi fece troppa compassione.
Allora mi alzai, gli infilai il mio braccio destro nel suo sinistro, lo trascinai fuori della tettoia e là misi senz’altro sotto al suo povero naso ammaccato il cartoncino mio, altrettanto cilestrino, altrettanto profumato, altrettanto scritto di pugno della bella Zita.
— È una circolare!! — stridè lui, digrignando i denti.
Ma quando mi guardò in faccia non potè più star serio.
Ci abbracciammo e ballammo un bel pezzo, come due orsi. E ballando così, saltammo sul treno che partiva per Firenze. E durante tutto il viaggio rompemmo l’apparato uditivo del prossimo cantando in coro:
Sì vendetta, tremenda vendetta
Di quest’anima solo desìo!
Quella Gota, quell’Ostrogota, quell’Unna aveva avuto la caponaggine di credere di potere impunemente prendere per il bavero due tra i migliori esemplari della razza latina!
E intanto era già riuscita a farci fare a pugni! Ma….
Sì vendetta, tremenda vendetta
Di quest’anima solo desìo!
Come un fulmin scagliato da Dio
Gigi e Fico1 punir ti sapran!
————
Del non essere andati a Pisa incolpammo, lui la filologia, io l’anatomia, credendo che per una donna tedesca fossero scuse buone.
Ma Zita ci scrisse assai mesta e un poco indignata…. in doppia copia.
E noi incominciammo a fabbricare quotidiane lettere piene d’un ardore sempre più ardente, alle quali Zita rispose con quotidiano crescendo di passione…. in doppia copia.
Leggendoci ogni sera questi duplicati amorosi, io e il mio rosso amico pregustavamo il refrigerio della vendetta.
————
E venne alla fine il giorno in cui, compiti scrupolosamente a Pisa i loro doveri di compaesane di Burkhardt e di Bädeker, le due brave sorelle ritornarono, come dissi, a Firenze.
Il primo incontro toccò a me; sia perchè l’amico Fico conservava una ammaccatura pochissimo estetica sul naso, e non aveva fretta di mostrarsi, sia perchè io dovevo condurle a vedere un certo maraviglioso luoghetto di campagna dove, per il buon esito dei nostri piani, desideravamo che esse andassero ad abitare.
Già nelle mie lettere avevo levato inni alla virgiliana poesia, al fatato incanto di quel luogo. Cosicchè la prima cosa che mi chiesero, appena scese dal treno, fu di condurle a veder la mia Torraccia.
Questa famosa Torraccia (tre stanzette di pietra una sull’altra) sperduta là tra gli oliveti di San Miniato, era stata, fino a pochi giorni prima, fienile d’un cascinale vicino; ma noi l’avevamo in fretta ripulita e ammobiliata alla meglio, fidando nel romanticismo di razza che doveva trionfare, e trionfò.
Appena la videro di fuori le due K. esclamarono estasiate:
— Ci avete trovato la casa ideale!
E dentro lo stesso: tutto bello, tutto bello! Fu deciso: salotto al pian terreno; al secondo piano camera della signorina Carlotta; al terzo piano camera di Zita.
— Sì! sì! sì! — strillò Zita. — Io su in cima tra i nidi delle rondini! Ogni alba sarò incoronata di canti!
A questo punto proprio, il ventre di Brockhaus….
Oh! scusate! M’ero dimenticato di dirvi che il sorellone si chiamava bensì Carlotta, ma le avevamo decretato il soprannome di Brockhaus perchè la trovavamo somigliantissima al celebre editore di Lipsia. Come facessimo poi a trovarla così somigliante senza sapere affatto che faccia avesse quel signore, non ve lo saprei dire: ma certo è che la trovavamo somigliantissima.
Dunque…. il ventre di Brockhaus, dicevo, osò, proprio in quel sublime istante, profanare la poesia di Zita osservando in tono minore:
— Come si fa a mangiare qua dentro?
Zita schizzò sdegnosissime parole alemanne; ma io, come colui che aveva pensato a tutto, condussi subito con me Brockhaus sulla non lontana via maestra, dentro una di quelle tutte linde e odorose e saporose trattoriole de’ dintorni di Firenze, dove ho tanto lietamente amato e bevuto spolpando pollastri e sognando la Gloria!
Il padrone, già d’accordo, accettò súbito di fornire pranzi e cene alle nuove abitatrici della Torraccia.
Il prezzo mite, quel buon odor di salame, quella piramide di fiaschi in mezzo alla bottega fecero a Brockhaus l’identico effetto che le rondini avevano fatto a Zita.
E io dicevo dentro di me a tutte e due: «Ballate, ballate, ostrogote mie! Se sapeste che cosa bolle nella nostra pentola!»
————
Vollero sistemarsi là dentro quel giorno stesso.
Quando, alle dieci di sera, dopo aver faticato per quattro facchini, volli prender commiato da loro, Zita m’accompagnò per il viottolo tra gli olivi.
— Cattivo! — mi disse a bruciapelo. — In tutta la giornata non mi hai detto una sola parola d’amore.
— Te la direi volentieri adesso, se non fossi troppo sudato — risposi cavallerescamente.
— Mio povero uccello! Hai molto faticato, è vero, a fabbricare il nido della tua bella?
Che volete? a sentirmi chiamare in quel modo non mi potei più trattenere….
Incollai la mia bocca alla sua per un buon quarto d’ora.
Come non pensare a Brockhaus? «Peccato che non sia qui adesso, dicevo tra me, chi sa che belle cose potrebbe scrivere sul suo taccuino!…»
Oh! per Bacco! voi non mi crederete. Brockhaus era proprio là a dieci passi da noi! Vidi i suoi occhiali, i suoi occhiali di Lipsia! brillare nell’ombra. Forse vi si specchiava senza saperlo, poverina, qualche maravigliosa stella del cielo.
Appena Zita s’avvide che io avevo scorto l’animale appiattato, s’affrettò a stringermi più forte e mi sussurrò:
— Non badare a lei, è pazza per il suo colossale romanzo d’amore.
— Romanzo d’amore?!
— Sì: tutto d’amore!
— Ah! finalmente capisco!… e siccome non può procurarsi un’esperienza personale perchè è troppo brutta….
Queste parole le gridai così forte che gli occhiali si spensero; e nella notte brillarono solo i verdi occhi di Zita.
Via libera!
————
Misurando con passo trionfale il silenzio del deserto lungarno, nella gran notte stellata, per andare verso la casa dell’amico Fico, che m’aspettava certo da qualche ora, vi confesso che sentivo una gran voglia di svoltare verso casa mia, o meglio ancora di tornarmene a baciar Zita.
Un solenne patto d’alleanza mi legava all’amico: questo è vero. Ma, poffare! si erano pur verificati dei fatti nuovi!
Intanto, qualche cosa di solenne era avvenuto anche tra me e Zita…! E poi: quella rivelazione del colossale romanzo di Brockhaus, non aveva forse un’importanza di prim’ordine per spiegare tutto l’inesplicabile della condotta di Zita? La verità era chiara. La povera piccola fata dagli occhi verdi era nè più nè meno che un trastullo nelle mani della strega Brockhaus. Questa l’aveva spinta nel tristo doppio gioco d’amore, sperando di poter scrivere chi sa quali stupide pagine sulla classica gelosia degli italiani….
E allora? dov’era la colpa della povera Zita? Non era forse piuttosto una vittima deliziosissima degna di compianto, e specialmente di baci?…
Ma per compiangerla e baciarla sentivo proprio, in coscienza, di bastar da solo!…
Mentre ragionavo tuttavia così, il sordo dovere m’aveva condotto al muricciolo del giardino dell’amico. Che ti vedo dentro, al chiaro d’un po’ di luna nata allora? Ti vedo l’amico occupato a far capriole in giro.
Per quanto acrobata fosse, quelle capriole fatte così da solo a mezzanotte, mi diedero un po’ di pensiero.
— Oh! Fico! sei ammattito?
— Altro che ammattito! vien dentro.
Entro; e vedo che le capriole le faceva attorno a una specie d’ara di coccio, verniciato a marmo, imitazione «Signa»; cioè imitazione di una imitazione romana, che, secondo lui, bastava a fare del suo giardinetto di via Scialoia un luogo di delizie imperiali.
— Ma che fai?
— Fa subito quattro capriole anche tu. Bisogna render grazie agli Dei!
— Ben volentieri, ma io non le so fare.
— E tu scaraventati in terra a capo fitto, scopriti il sedere, grida Evoè!
— Si potrebbe sapere che cosa è accaduto?
— E accaduto che da domani incomincia la nostra vendetta.
— Ah sì?
— Leggi qua. Questa lettera: non è di quelle che lascian dubbi: è di quelle che dicono «ti voglio, ti voglio, ti voglio, son tua: carne, ossa, midollo spinale, rigaglie…. tutto, tutto, tutto!».
Domani è la mia festa!
Domani è la mia festa!
(E giù capriole.)
Hai letto? Hai letto?… Rabbrividisci eh? Ma è inutile rabbrividire, mio giovane amico! Bisogna riconoscere che il pelo rosso è il re dei peli: ecco tutto. Ah! che peccato che non sia rosso anche tu! In ventiquattr’ore la nostra vendetta sarebbe fatta. Invece tu, povero mortale dai ricciolini castani, ci metterai tre settimane per arrivare dove io arriverò domani sera!… Me ne duole sinceramente per l’estetica della nostra vendetta! Certo era magnifico, era latino, simbolico, cesareo che la rea barbara fosse piegata ad ambe le nostre voglie in una sola notte, ricevendo la dimane il nostro cumulativo biglietto di ringraziamento, secondo i sottili disegni da noi architettati….
Ma ahimè! come si fa? I disegni sono una cosa: la realtà è un’altra…. Si potrebbe stare ai disegni se si trattasse, a mo’ d’esempio, di Brockhaus…. allora sì!… Ma si tratta di Zita, per Giove! di Zita, creatura di sogno! di Zita, fiore di carne! di Zita, veleno inebriante! di Zita, di Zita, di Zita, mio ricciuto amico! Come potrei farla aspettare, poich’ella brucia del desiderio di me?… Ah! no! assolutamente no! Nessun Gigi potrebbe pretendere tanto da un Fico!… e specialmente da un Fico di pelo rosso!… Tu ci metterai una settimana, ci metterai un mese, ci metterai un anno…. Io ti fo solenne giuro di favorire fraternamente i tuoi conati!
— Hai finito? — muggii io.
— Sì.
— Ebbene. Sta molto attento a quello che ti dico. Questa lettera non ha il minimo valore. È scritta, come vedi, alle ore tre pomeridiane di oggi, mentre io facevo il facchino per lei. Ma alle ore dieci pomeridiane dello stesso giorno, cioè due ore fa, quel medesimo facchino è diventato l’amante di Zita. Unito a lei ormai per la vita e per la morte, romperà inesorabilmente il naso a colui che osasse rompergli le scatole.
Detto questo, intascai la lettera, infilai il cancelletto, e sparvi nel buio.
————
Ma la mattina alle 7 ribussavo già alla camera dell’amico.
— Chi è?
— Aprimi. Son io….
— Dormo.
— Svegliati.
— In che qualità chiedi di entrare?
— Di verde messaggero della vendetta, amico mio. Fico immortale! Son successi fatti di una gravità spaventosa.
— Così presto? Mi pare impossibile….
— Insomma vuoi aprirmi sì o no. Vengo ad offrirti Zita.
— Non la voglio.
— Dimenticheresti forse che siamo legati da un patto solenne.
— Tu l’hai rotto.
— Come?
— Tu hai rotto il nostro patto solenne….
— E ti romperò anche l’uscio se non me l’apri immantinente.
L’uscio si aprì. Ma nell’istante medesimo l’amico con un magnifico volteggio era sparito oltre il letto, e là, armato d’un cantero pieno fino all’orlo, stava impavido aspettando l’assalto.
Quando vide che io prendevo tranquillamente una sedia e incominciavo con molta gravità ad esporre i fatti, depose il suo cantero, infilò una buffissima tunica cinese, due ciabatte turche, accese una sigaretta egiziana, e m’ascoltò.
Il colloquio durò forse cinquanta minuti come tutti i colloqui storici; ma in poche parole vi dirò tutto.
Quella notte l’avevo passata in piedi. Una notte da Otello. Infatti, alle sei della mattina m’aggiravo già tempestoso attorno alla Torraccia, la quale pareva dormire placidamente sotto la guardia de’ suoi tre cipressi che la coprivan tutta ai miei feroci occhi.
Finalmente m’avventai come il toro.
Tenevo stretta in pugno la lettera infame: ero deciso se non proprio a strozzarla, a farle raccomandar ben bene l’anima a Dio…. che n’avrebbe avuto tanto bisogno!
Arrivo a corna sotto.
Porta aperta. E finestre spalancate!
— Ohei! Non c’è nessuno?
Una contadina che stava a far pulizia si sporse dal balconcino di Zita e mi gridò:
— Felice giorno, sor Luigi! Son ite a veder nascere i’ ssole su a i’ Mmont’alle Croci. A momenti arebber a tornare.
Entrai per aspettare. Ero stanco. La prima sedia che mi si presentò sotto, ci caddi a piombo. Ma appena sentii d’essermi seduto sopra un libro mi affrettai a sottrarlo all’involontario oltraggio. Non era un libro: era un grosso quaderno. Sopra c’era scritto:
Italien, Liebe, Blut!
diario di una giovane inglese.
— Puah! — rantolai. — Ecco il romanzo di Brockhaus!…
Traduzione di C. e Z. K.
- e Z.?!… Come sarebbe a dire?… Collaborazione forse?
Oh! ma che! impossibile! Quello Z. doveva essere soltanto una tenerezza sororale, un delicato segno di gratitudine. Brockhaus voleva offrire così un poco della sua immortalità alla sciagurata sorellina che si prestava così gentilmente ai suoi esperimenti erotici.
La curiosità è una bella cosa; ma il tedesco, come sapete, è una cosa bruttissima. Perciò sfogliavo sì quel quaderno a due o tre pagine per volta, ma mi guardavo bene dal durar la molta fatica necessaria per capire.
Doveva trattarsi però di impressioni di viaggio…. che Dio ce ne scampi e liberi non solo in tedesco, ma in tutte le lingue del mondo!
Salto in mazzo una ventina di pagine, ed ecco mi schizza sul naso (per Dio!) la calligrafia di Zita.
Forse un qualche ricordo particolare di viaggio…. Altro che ricordo! era una professione di fede, un credo diabolico! La signorina diceva di sentirsi un qualche cosa di terribile, di freddo, come una lama, una voce che le gridava ad ogni passo: «In questa terra d’Italia tu lascerai passando una striscia di sangue!… Il destino di due uomini dipenderà da te!».
Brutta sbrindellona! Capite che roba? Vi piace l’idea di queste due tedesche che scendono in casa nostra a fare di così bei lavori, e poi li raccontano ai loro connazionali come memorie di una inglese?
Ora capivo. La descrizione di luoghi e di costumi, le meditazioni filosofico-storiche erano affidate alla penna di Brockhaus, ma la sostanza erotica era opera tutta di Zita! della mia dolce Zita, della mia fata dagli occhioni verdi! Bisognava leggere, per credere!… Mi rodevo di non capir tutto. Ma quel poco che capivo bastava per rivoltarmi il magone.
C’erano le mie lettere tradotte fedelmente; c’erano le famose frasi raccolte dal vigile taccuino di Brockhaus; c’erano certe vampate di desiderio per i miei riccioli, ma ce n’erano almeno altrettante per il pelo rosso del collega Fico….
Datato dal treno Pisa-Firenze, c’era questo mirabile pensiero di una vergine:
«Sì. Io sarò da tanto. Sì: questi due italiani si getteranno uno contro l’altro invasati di gelosia, si sbraneranno simili a cani aizzati! E che sarà la causa di questo? Per che cosa si saranno essi perduti, insanguinati?… Per un’anima gelida che non li ama, che non può amare!… per un corpo che altri avrà e non loro mai!…».
Questo era scritto il martedì sera.
Mercoledì, mentre io facevo il facchino per lei, nel cuore della vergine era sbocciata questa commovente errata-corrige al suo pensiero del giorno innanzi:
«No! No! No! Il ghiaccio della mia nativa Cornovaglia non regge all’incendio di questo sole d’Italia. Sono degli uomini anche nella mia brumosa patria, ma non sanno guardare come mi guarda questo!…
(Questo sarei stato io, modestia a parte.)
«Io brucio! Io brucio di vergogna come quando ero piccola, e debbo guardarmi addosso, credete! debbo palparmi, per esser ben sicura d’aver le mie vesti…. Ma è inutile! perchè sono certa che questi occhi vedono lo stesso, vedono la carne…. la mia carne nuda!… Ebbene sia! Sia! Getterò la mia carne viva a questi cani bramosi. L’avranno! Ma la pagheranno col loro stesso sangue. Lo giuro per le zolle sacre della mia patria!».
Se l’avessi avuta fra le mani in quel momento le avrei fatto volentieri un certo scherzo che è troppo sudicio per potersi raccontare.
Ma, tra propositi violenti, mi rifacevano anche capolino disegni di allegre vendette arzigogolate al modo de’ nostri vecchi bizzarri fiorentini.
Voltai ancora pagina, così per fare, persuaso di trovarla bianca. Ma che! Altro che bianca! Era la più sporca di tutte. E non era una sola: eran dieci almeno, buttate giù calde calde, quella notte stessa. C’era tutta la faccenda della sera avanti, cari miei! ma come particolareggiata! ma come circonstanziata! che precisione! che miniatura!
E io che l’avevo creduta una creatura teneruccia nelle grosse mani della sorella, che l’avevo compatita per questo, che l’avevo amata, sì, amata, amata davvero in quell’ora dolce in cui m’era parsa tutta mia, tutta rifugiata in me come una piccola sorella sperduta in questo triste mondo, povera mendica d’amore come me, alla quale non avrei negato di difenderla e amarla anche tutta la vita, s’ella appena me lo avesse chiesto in quell’ora là!… Perchè, insomma, ero fatto così: ridevo ridevo; ma poi, in fondo, pigliavo tutto sul serio, tal quale come ora, che non rido più.
E voltai in fretta quelle miserabili pagine fino all’ultima. Qui c’era, tradotta in bel tedesco, la lettera che io tenevo ancora appallottolata nel pugno: la lettera all’amico rosso.
E c’erano due righe ancora che dicevano:
«M’ha risposto una sola parola; adorabile!… E verrà. Verrà folle di desiderio…. lo condurrò giù sotto le stelle, tra l’ombre pallide degli olivi…. fin là…. fin là…. dove iersera…. E glie lo dirò. Sì: gli dirò: Qui! Qui è stato! qui l’amico tuo m’ha stretta…. m’ha soffocata…. e pronunciava il tuo nome…. e rideva di scherno…. Se gli dirò così, gli vedrò uscir dagli occhi fiamme rosse come i suoi capelli!…».
Era tempo. Rimisi il bel romanzo sulla sedia, ci strofinai sopra ben bene e con intenzione, quello che dianzi vi avevo strofinato per sbaglio; poi presi un pezzo di carta e ci scrissi con caratteri nervosissimi:
«Je sais tout. Mais il ne t’aura pas. S’il viendra ce soir, je le tuerai dans tes bras. Garde-toi».
E via di corsa dall’amico Fico.
—
Notte buia. Grandi cumuli soffusi di biancor lunare vanno veloci per il cielo nero. Gli olivi della Torraccia piangono stridono curvati senza dubbio dallo Spirito della Tragedia che s’aggira già furibondo.
L’ora è vicina.
Scocca.
L’amico impavido, ravvolto in un bruno mantello di suo nonno, si fa sotto il balconcino e chiama: — Zita.
Zita gli aveva mandato nel pomeriggio un teatrale biglietto avvertendolo della mia minaccia. Dire a un uomo: «Non venire, altrimenti rischi la vita» è come dirgli: «Vieni, altrimenti ti considero un vigliacco». Perciò Zita doveva esser più che certa che il mio rosso amico sarebbe venuto.
Infatti, ben nascosti tra gli olivi, noi l’avevamo veduta andare e venire per la sua cameretta, ora acconciarsi allo specchio, ora scarmigliarsi come presa da una sùbita disperazione, poi chiamare il sorellone, e leticarci sonoramente, poi aprire il balconcino e guardar giù e guardar su, e poi richiuderlo, e poi riaprirlo.
Ora, quando si sentì chiamare nella notte, io la vidi balzare atterrita. Forse, conoscendoci ancora così poco, non aveva potuto capire qual di noi due la chiamasse.
Alla seconda capì, e disse con un fil di voce:
— Sei tu!
— Sì! — rispose l’amico Fico. — Fuori non saremmo sicuri. Meglio ch’io salga. Ho tante cose da dirti.
Disse lei:
— No!!
Disse lui:
— Sì!! Serra bene le imposte, e scendi ad aprirmi!
Entrato l’amico, ci fu un gran scatenaccìo. Poi un gran silenzio.
— A noi! — dissi palpando il mio bellissimo pugnale del Cinquecento.
C’era qualche preparativo da fare. Trascinare una balla di patate di sessanta chilogrammi sotto la Torraccia. Arrampicarsi su per il muro fino al secondo piano approfittando di certi radi pioli che v’erano piantati e tenendo in bocca il capo della fune a cui era legata la balla. Una volta entrati nello stretto balconcino di Zita, issare con la suddetta fune la suddetta balla, legandola sospesa fuor della balaustra.
E tutto questo fu fatto: nè una farfalla avrebbe più silenziosamente volato.
Oh!… mi dimenticavo di parlarvi di un certo barattoletto importantissimo! Ma non m’ero affatto dimenticato di portarlo su con me e di posarlo in un angolo prestabilito del balconcino di Zita.
Non avevo più niente da fare, fuorchè aspettare.
Ma questa proprio mi parve la faccenda più difficile.
Si ha un bell’essere amici! Si ha un bell’esser legati da un patto solenne; anzi, da due patti solenni!… ma quello star lì fuori al fresco, mentre l’altro stava dentro al caldo….
Eravamo d’accordo che io avrei aspettato lui per muovermi. Il quale lui, fatto comodamente il suo comodo, si sarebbe accostato alla finestra dicendo forte: «Vieni, Zita, raccontiamo la nostra gioia alle stelle, alle nubi, al vento!» e così dicendo avrebbe aperto di botto le imposte del balconcino.
Eravamo d’accordo così, è verissimo. Ma, per Bacco briaco! est modus in rebus!… Anche in quelle rebus lì, non vi pare?
E siccome il modus non ce lo metteva lui, ce lo misi io, stroncando mezza, la vecchia persiana con una tremenda spallata e gridando in gola, con voce micidialissima:
— Zita. Apri.
Quell’ora e mezza buona passata lì fuori, mi aveva portato al diapason della «montatura», nel senso teatrale della parola.
Immaginatevi come dovesse esser «montato» lui, l’ispido amico Fico, tirato giù così, a un tratto, senza preavviso da chi sa quale rendez-vous olimpico!
Lo sentii slanciarsi contro la finestra come una iena. Ebbi paura che dicesse davvero.
Zita gracchiava, nascosta dietro il letto. E aveva ragione di crepar di paura, perchè v’assicuro che quel nostro incontro avrebbe fatto paura anche a due guardie di pubblica sicurezza.
Che quadro! Le due candele sul cassettone fumavano al vento e gettavano bagliori sanguigni sui nostri pugnali. Stretti in un orribile abbraccio di morte, rotolammo fuori sul balconcino dicendocene di cotte e di crude.
— Ah vuoi scappare, vigliacco? — rantolai io.
Lui, per tutta risposta, mi porse il barattolo di cui ho parlato più sopra. Io ci intinsi risolutamente il pugnale che ne uscì rosso e gocciolante.
— Zita! — gridò con l’ultimo fil di voce l’amico; e se ne discese comodamente da quell’acrobata che era, giù per quei pioli che avevano servito a me per salire.
— Te l’ho spaccato il cuore, traditore! — gridai io allora, slegando il sacco delle patate.
Mi sentii stretto da due braccia fredde come anguille.
— Tu l’as tué….
— Sssss!…
Ah!… Il tonfo di quelle patate!
Indimenticabile!
Non ho mai visto attrici far così bene la loro parte!
Io stesso n’ebbi un brivido di terrore.
Figuratevi Zita!
— Nein! No! Pas! N’est pas vrai…. No!… Charlotten!
— Sssss! Tu sens: il ne bouge pas! — sussurrai con voce cavernosissima.
— No! Peut-être il vive! Bisogna discendere a lui…
— Inutile. È morto.
— No!
— Sì! Ho sentito benissimo il cuore sotto la punta del pugnale. Non ci sbagliamo noi italiani; abbiamo troppa pratica! È morto. È morto. È morto. Non ti resta che baciare il suo sangue.
E così dicendo le impiastrai tutta la faccia con l’inchiostro rosso del mio pugnale.
— Ah!… No, no, no, no! Anch’io voglio morire!
— Mi dispiace, ma io non posso proprio ammazzarti — le dissi con molta serietà — non ho tempo da perdere.
Non badò a quel che le dicevo. Si precipitò giù per la scaletta strillando:
— Charlotten! Charlotten! Charlotten!
E io dietro, che tra poco ruzzolavo le scale dal gran ridere a bocca chiusa.
— Charlotten! Charlotten! Charlotten!
Entriamo in camera. Non c’era.
Zita piangeva…. finalmente!
— Ma Carlotta, dunque! Dove ti sei nascosta? Siamo vili! Quell’uomo non è morto forse! possiamo ancora salvarlo! Carlotta!
Quelle parole, tedesche sì, ma una buona volta sincere, m’uccisero il riso nel cuore. Mi fecero, vi giuro, l’effetto che fece la musica di Sant’Ambrogio al Giusti. Pensai anch’io: Povera femminuccia gettata così per il mondo, in omaggio alle cretine idee fisse del Nord sull’emancipazione della fanciulla, mentre Dio sa quanto bisogno avresti d’una buona mamma e d’un buon babbo sempre vicini e vigili, che ti dessero lezioni un po’ meno salate di questa che t’han dato due ragazzacci italiani!…
— Carlotta, rispondimi! — gridò ancora Zita battendo i piedi con una furia pazza.
E questa volta Carlotta rispose.
Ma…. giusti Numi!… da dove rispose!!
Si sa: la paura…. li fa certi effetti!… Ma in quel momento proprio, così denso di tragedia e di filosofia sociale, sentir venire quel flebile «ja» miagolato da là dentro…. Io m’ebbi a buttar sul letto, rompendo, oltre ai bottoni dei pantaloni, chi sa quante molle, e ridere ridere ridere all’uso mio d’allora, a costo di rovinar tutto sul più bello.
Ma, per fortuna. Zita s’era già slanciata verso quel luogo riposto, a tirarne fuori la povera Brockhaus.
Le sentii correre giù, scatenacciar l’uscio, e uscir fuori insieme.
Per Bacco! Non c’era tempo da perdere davvero. Mi buttai a precipizio, varcai la soglia guardingo: quattro salti di lupo sull’erba, e fui nelle braccia dell’amico Fico, che stava già a godersi lo spettacolo seduto sulla groppa gobba d’un olivo.
Che vi debbo dire?
Ve le immaginate voi quelle due romanziere ansanti, bisbiglianti, tentennanti, che s’avvicinavano con un lumino a olio, facendo due passi avanti e uno indietro, e sussurrando di tratto in tratto il nome del mio amico…. ve le immaginate voi quando, finalmente, scorsero quel qualche cosa di nero in terra, quando lo toccarono finalmente, quando vi lessero sopra un bel cartello che diceva:
ITALIEN, LIEBE, BLUT!…
con contorno di patate. ?…