I.
Enrico Lanfranchi dormiva già da sei mesi nel cataletto, quando, una bella sera d’estate si riscosse, all’improvviso, rimosse il coperchio della cassa, si levò in piedi, e gittato dalle spalle il logoro lenzuolo onde era involto, uscì passo passo dal Campo santo.
Era proprio una bella sera d’estate. Una pioggia abbondante aveva rinfrescato l’atmosfera; i passerotti correvano pipilando dal giardino alle tettoie, e dagli alberi scossi leggermente da un fresco venticello cadevano i goccioloni come un nembo di perle. Chi non è pago di questo schizzo, vi aggiunga una fetta di luna, una dozzina di stelle, tre o quattro rossignoli che gemano d’amore, un ruscelletto che mormori fra l’erbe—ed avrà il quadro compiuto.
Cionullameno, per un reddivivo, quella non era una serata troppo propizia. Grazie alla cortesia degli eredi (che sogliono seppellirci pressochè ignudi sia la state come il verno), il povero Lanfranchi, attraversando le vie del nativo villaggio senz’altro indumento che quello del proprio epidermide, dibatteva le gengive, come un ragazzetto di cinque anni che s’avvia alla scuola sotto la fiocca del mese di gennaio.
Gli antichi (confessiamolo a nostra vergogna) trattavano i loro morti più generosamente di noi. Nella cassa del morto essi collocavano eccellenti pasticci freddi, bottiglie di vecchio falerno, pietre preziose e monete di vario conio, onde se mai quei tapinelli si fossero desti alla vita, avrebbero trovato di che confortarsi lo stomaco, e provvedersi una tunica per far buona comparsa nel mondo. Dal modo che noi usiamo trattare coi nostri morti si direbbe che abbiamo una paura terribile di vederli un giorno o l’altro ricomparirci dinanzi. Diffatti, appena uno de’ nostri congiunti ha esalato l’ultimo soffio, noi ci diamo premura di involgerlo in un lenzuolo, di legargli i piedi e le mani: quindi, dopo poche ore, di inchiodarlo ben bene in una solida cassa, e gittarlo in una fossa profonda, dalla quale, s’egli avesse la vitalità, la forza e l’energia d’un Ercole, non potrebbe evadere per verun modo. Per buona sorte, le leggi hanno prescritto l’indugio delle ventiquattr’ore; senza di che, io credo sarebbe maggiore il numero de’ sepolti vivi che non quello dei morti.
—Quand’uno è morto non è possibile ch’ei torni al mondo, dirà taluno crollando il capo.
Dite piuttosto quand’uno è sepolto: ed anche su tale proposito potrei farvi qualche eccezione… Ma, via! non perdiamoci in digressioni, e narriamo la nostra istoriella.
II.
Chi era Eugenio Lanfranchi? Un uomo di trentacinque anni, bello della persona, onesto, cortese, vero modello d’ogni virtù. Morendo, egli aveva lasciato sulla terra una sposa ancor giovane ed avvenente, un fratello ed una sorella che molto lo avevano amato e che già da sei mesi si struggevano in lacrime e vestivano a lutto.
—Qual dolce sorpresa pe’ miei cari parenti, qual gioia nel rivedermi! Mia moglie! Mio fratello, mia sorella… essi che mi amano tanto… essi che al letto di morte mi prodigavano tante cure, e piangevano inconsolabili nel darmi l’ultimo addio! Sarà una festa di famiglia… Mi correranno incontro, mi opprimeranno di baci e di carezze… Ah! non vorrei che la consolazione soverchia fosse causa di qualche malanno! Bisognerà ch’io mi presenti colle cautele dovute… Mia moglie sopratutto…! La mia tenera Carlotta… Da dieci giorni ella ha cessato di visitare la mia tomba… Forse il soverchio dolore ha consunto le sue forze… e, sola, estenuata dalla malattia, implora dal cielo il favore di scendere con me nella tomba, per starmi a lato eternamente… Ma io giungo in tempo… Solleva, il capo illanguidito o troppo sensibile creatura; ravvisa il tuo sposo… il tuo amante… l’oggetto de’ tuoi desideri…
Con tali pensieri, il nostro reddivivo s’è avvicinato alla porticella del giardino, di quel giardino, ove, nelle ore melanconiche del tramonto, egli veniva a sedere ogni giorno presso la sposa adorata, inebriandosi delle sue carezze e de’ suoi baci.
Una voce soave e melanconica ferisce il suo orecchio. Quella voce ha proferito il nome di Enrico.
—Il mio nome! Ella pensa dunque al suo sposo! Ella confida al salice piangente ed al ruscello i dolorosi segreti dell’anima… Ella invoca la mia ombra, e cerca un sollievo ai mali presenti nelle dolci memorie del passato! Enrico incurva la persona, mette l’occhio al buco della serratura, e vede infatti sua moglie seduta sur un banco di pietra, presso un salice piangente.
Ma non è già al salice piangente ed al ruscello che Carlotta confida i propri dolori. Un raggio di luna che in quel momento rischiara la scena, mostra al curvato esploratore un pajo di pantaloni di tela russa, entro cui si agitano due nerborute gambe da acrobatico, e più in alto un gilet di seta disteso sovra un torace atletico, quindi una ciarpa di raso azzurro, e una barba di becco che serve di appendice ad una bellissima testa di venticinque anni.
—Enrico! torna a ripetere la donna con voce più fioca.
—Lunge una volta queste lugubri memorie! A che giova il piangere eternamente i trappassati? Dimenticate, e pensate all’avvenire di felicità che ci attende.
—Ah! già troppo io l’ho dimenticato quel povero Enrico! E dire che non per anco sei mesi son trascorsi… Ed io aveva giurato di conservargli il mio amore… la mia fede!..
—Siate ragionevole, via! Carlotta… Se vostro marito tornasse al mondo, egli non potrebbe rimproverarvi d’aver ceduto alle attrattive di un amore fondato sulla onestà e mosso da rette intenzioni. Voi siete giovane, voi avete un’anima sensibile, appassionata… Perchè seppellire in eterna vedovanza tanti tesori di bellezza e di virtù? Trovaste un uomo che seppe apprezzarvi ed amarvi… un uomo che giura di rendervi felice. Egli sarà il padre dei vostri figli… egli ravviverà la vostra esistenza, vi darà il coraggio e la forza per adempiere ai santi doveri di donna e di madre…
—Voi mi parlate un linguaggio sì vero, sì insinuante… Lasciatemi! basta… Ogni vostra parola è nuova esca all’incendio che mi arde nel cuore. Lasciatemi… ve lo ripeto.
—Non vi lascio, se prima non mi promettete…
—Quale promessa?… mio Dio! Ma non vedete?…. io sono più morta che viva… Voi abusate della mia debolezza… Sì… sarò vostra… malgrado i giuramenti fatti. Sarò vostra malgrado i rimorsi che mi straziano l’anima, malgrado la certezza che questa nostra unione debba essermi sorgente di gravi sciagure…
—Carlotta!
—Giacomo!…
—Questa tua promessa mi dischiude il paradiso… Dimmi ancora che mi ami…
—Ma non te l’ho ripetuto mille volte, che dal giorno che ti vidi, conobbi che prima d’allora io non aveva mai amato…?
—Ho inteso quanto basta—mormora Enrico allontanandosi dalla porticella. Da uomo prudente è meglio ch’io mi ritiri… Se indugiassi ancora un minuto, potrei udire o vedere qualche cosa di peggio.
E il poveretto se ne va a capo chino, riflettendo alla propria posizione, e studiando a qual miglior partito gli convenga appigliarsi.
III.
Passato il muricciuolo del giardino e giunto al lato destro della propria abitazione, gli par d’intendere una voce sconosciuta. Che fare? Se alcuno lo vede in quello stato di nudità, può nascere uno scandalo, ed egli corre pericolo d’essere accolto a bastonate. Fatti bene i suoi calcoli, e meditati i consigli della prudenza, s’appiatta sotto ad un mucchio di fieno, e si pone in agguato, finchè cessi il pericolo.
A un tratto, ecco spalancarsi le imposte d’una finestra, ed affacciarvisi una donna, che fa cenno della mano ad un giovinotto.
—Pst! Pst!
—Mariuccia!
—Lodovico!
—Buone nuove!
—Tuo padre?
—Ha dato il suo assenso.
—Dunque?
—Fra quindici giorni saremo uniti.
—Lodovico, tu mi fai morire dalla consolazione.
La giovinetta che sta per morire di consolazione è la sorella di Enrico. Ella amava da due anni il signor Lodovico Remoli, e n’aveva ricambio di tenero affetto; ma il padre del giovane, desiderando che suo figlio aspirasse ad un partito vantaggioso, e sapendo che la dote di Mariuccia non ammontava che a venti mila lire, si era costantemente opposto a quelle nozze. La morte di Enrico Lanfranchi tornò propizia ai due innamorati. Mariuccia vide aumentare la propria dote d’altre venti mila lire; e il padre di Lodovico, dopo aver verificata e ponderata la quantità e qualità dei solidi, diede alfine l’assenso desiderato.
Il colloquio di quei due giovani amanti fu in quella sera più lungo e più animato del solito. Era tolto ogni ostacolo alla loro felicità; l’avvenire sorrideva ad essi splendido, bello e senza alcuna nube.
Enrico Lanfranchi porgeva orecchio a quel dialogo, e di tratto in tratto si asciugava una lagrima.
—Povero Enrico! esclamava Mariuccia; ho sofferto tanto quand’egli è morto… ed ora… Lungi questo pensiero abbominevole!…. Benediciamo alla memoria di quel poveretto… Egli contempla dal cielo la mia felicità, e ne gioisce… Mi amava tanto… Pure quando io penso… che s’egli vivesse ancora… il nostro matrimonio non potrebbe aver luogo… Ah! come l’amore ci rende egoisti! Enrico… fratello mio… perdonami questo orribile pensiero.
—Io ti perdono, onesta fanciulla, disse Enrico soffocando le lagrime a stento; e per verun conto non vorrei turbare la tua gioia innocente. Sposati all’uomo che adori e vivi felice; la mia morte ti ha recato qualche vantaggio; se io fossi vissuto più a lungo, ora entrambi saremmo forse infelici.
Tutto commosso di tenerezza e di affetto, Enrico stava sul punto di uscire dal nascondiglio e presentarsi ai due fidanzati; ma temendo che la sua improvvisa apparizione non disturbasse la gioia di quel dolce colloquio, si trattenne; e prorompendo in lacrime dirotte, si lasciò sfuggire per la prima volta dal labbro queste parole:
—Quale stolido capriccio fu il mio di abbandonare il cimitero, ove dormiva sì tranquilli i miei sonni, per venir qui…. a disturbare il sonno e la felicità dei viventi?
IV.
Verso mezzanotte, i due fidanzati si separarono ricambiandosi mille teneri baci; Mariuccia chiude le imposte, e Lodovico si allontana zuffolando lietamente come un passero testè sfuggito alla gabbia.
—Non monta, dice Enrico sbucando dal nascondiglio: farò una visita a mio fratello, ed a norma del suo contegno, prenderò la risoluzione che più mi parrà conveniente.
Fatta una breve conversione a sinistra, il dabben uomo tocca il limitare della propria casa. Batte tre colpi; il cane gli risponde dagli atrii con urli di allegrezza; poco dopo la porta si spalanca, e il vecchio portinaio in mutande e berretto da notte comparisce sulla soglia.
—Misericordia! un uomo nudo… a quest’ora…!
—Sì, Bernardo; il tuo padrone…che viene dal Campo santo… ed ha bisogno di ristorarsi con una buona cena ed un buon letto.
Il vecchio domestico lascia cadere la lanterna, e, fatto tre volte il segno della croce, balbetta con voce tremante una dozzina di deprofundis. Frattanto il fido barbone dimena la coda, spicca salti di allegrezza, e lambisce amorosamente le polpe dell’antico padrone.
—Non temere, Bernardo; io non venni qui per farti alcun male, tu mi fosti sempre il più fedele e il più amorevole dei servitori, nè potrò mai scordare le tue cure e la tua assistenza durante la lunga malattia che mi condusse al sepolcro. Io so ancora che non dimenticasti di recitare ogni sera qualche prece pel mio eterno riposo, e te ne sono riconoscente. A Dio è piaciuto ch’io tornassi al mondo, nè saprei dirti come ciò avvenisse. Sentendo in me rinascere la vita ed il vigore, e trovata la cassa aperta, volai senza indugio all’amplesso dei miei più cari. Via! un abbraccio, mio buono, mio fedele e diletto Bernardo!
Il portinaio non può riaversi dalla sorpresa e dal terrore.
—Dunque… siete proprio voi… il mio antico padrone… il signor Enrico… che or fanno sei mesi… abbiamo seppellito con tanti onori?….
—Io son quel desso in anima e in corpo…
—E siete vivo… propriamente vivo…. quale eravate prima di…. morire?
—Se più indugi a darmi una veste e a prepararmi da cena, tu mi farai morire un’altra volta. Presto! vanne alla guardaroba, e cavami fuori qualcuno dei miei abiti, sicchè io mi riscaldi la pelle.
—I vostri abiti… signor padrone…
—Ebbene?
—I vostri abiti furono in parte venduti, in parte donati. Supponendo che voi foste morto davvero, io mi sono appropriato il vostro tabarro, e n’ho fatto dei pantaloni pe’ miei piccoli bimbi. La vostra veste da camera fa convertita in due sottane per mia moglie, e quel bellissimo paletot che voi indossavate ai giorni di festa, l’ho fatto raccorciare alle falde ed ai manicotti, e v’assicuro che mi si attaglia mirabilmente.
—Tanto meglio. Vedi se nel forziere si trovasse una coperta di lana, tanto ch’io non m’agghiacci stanotte. Domani ricorreremo al sartore, e provvederemo nuovi abiti. Frattanto dammi notizie di mio fratello. Come se la passa quel caro Aurelio? L’udisti mai lamentare la mia perdita immatura? Pensi tu ch’egli sarà lieto nel rivedermi?
—Vi amava tanto! non passa giorno che egli non versi qualche lagrimuzza proferendo il vostro nome; l’altro ieri lo vidi in istretto colloquio con un valente scultore, al quale diede incarico di farvi un monumento che verrà a costare più di mille lire.
—Giungo in tempo per risparmiargli una tal spesa.
—Oh! il nostro padrone non è uomo che badi a spese!
—Cuore generoso! Io lo conosco troppo per dubitare di lui.
—Dopo la vostra morte si può dire ch’egli abbia ricostrutta la casa. Vedrete che lusso di pitture, di decorazioni, di mobili! Vostro padre, morto due mesi dopo di voi….
—So tutto. Il buon uomo è venuto a trovarmi laggiù nell’altro mondo, e mi ha mostrato il suo testamento che io trovai ragionevole e degno d’approvazione. Aurelio ereditò circa ottantamila lire, Mariuccia quarantamila, ed a mia moglie fu fissata un’annua pensione di ottocento lire.
—Vedo che siete informato di tutto. Ottantamila lire! Sapete voi che la è una fortuna colossale! Il signor Aurelio è al giorno d’oggi il primo estimato del paese. Quanto alla padroncina, vi dirò che, mercè l’aumento della dote, ella sposerà fra pochi giorni il signor Lodovico Remoli, figlio dello spedizioniere.
—Povera figliuola! sono contento di saperla felice!
—Il signor padrone… (scusate s’io parlo sempre di lui) il signor padrone Aurelio sta anch’egli per ammogliarsi, e la sua fidanzata gli recherà in dote, per quanto ne fu detto, cento e più mille lire in denaro sonante. È un partito eccellente che, come vedete, raddoppierà la sua fortuna. Ma… ora che ci penso… converrà bene che il signor padrone Aurelio… e la padroncina… vi ritornino la porzione dei beni che vi spetta di diritto, giacchè in fin dei conti… se siete propriamente vivo… come io non oserei più dubitare all’appetito che dimostrate, la roba vostra, è roba vostra, ed è giusto vi sia resa integralmente. La giustizia avanti tutto. Io vi prego di perdonarmi se ho ardito indossare il vostro paletot e convertire la vostra veste da camera in un paio di gonnelle per mia moglie. Chi mai avrebbe creduto che voi sareste tornato ancora al mondo? Tant’è; abbiamo veduta anche questa! Oh, il signor Aurelio deve rimanere ben sorpreso!
Mentre il vecchio portinaio si stempera in questa lunga cicalata, Enrico, ravvolto in una coperta di lana, smaltisce di tutta fretta un pasticcio freddo, e vuota un fiaschetto di barolo. Ma nè il cibo nè la bevanda giovano a rasserenargli lo spirito; che anzi, abbandonandosi a sconfortanti riflessioni sull’egoismo degli uomini, egli piega il capo sul petto e non risponde parola.
—Ebbene? prosegue il vecchio portinaio; debbo io risvegliare il signor Aurelio e la padroncina?
—No, mio buon amico; questa sera non conviene ch’io mi presenti ad alcuno. La mia apparizione inaspettata produrrebbe cattivo effetto. Converrà attendere il domani, e quando tu li avrai prevenuti del mio arrivo, allora…
—Come vi aggrada, signore.
—Frattanto spegni il lume, e buona notte per ora. Il giorno seguente, verso il mezzogiorno, Aurelio Lanfranchi, Mariuccia e Carlotta erano adunati in una magnifica sala a pian terreno, e ragionavano lietamente vicino al caminetto, quando il portinaio comparve dinanzi ad essi, e, fatto un rispettoso inchino, aperse quattro volte la bocca senza proferire parola.
—Che c’è di nuovo, Bernardo?
—Oh!
—Stamattina m’hai l’aria d’uno spiritato: si direbbe che in sogno ti è apparso il diavolo.
—Non il diavolo precisamente, ma qualche cosa di simile… cioè…. voleva dire… una persona dell’altro mondo…
—Spiegati! via! tu ci fai rizzare i capelli.
—Prima di tutto… conviene ch’io vi faccia una interrogazione…. tali sono gli ordini ch’io ho ricevuti….
—Da chi?
—Da lui stesso…. dalla persona che viene dall’altro mondo.
—Costui per certo è impazzato.
—No, signor padrone, io non sono impazzato; l’ho veduto, gli ho parlato, abbiam passata la notte insieme ed ora è là fuori nell’anticamera…
—Chi dunque? vuoi tu spiegarti una volta?
—Chi? vostro fratello Enrico.
—Decisamente quest’uomo ha perduto il cervello. Carlotta è presa da terrore; Mariuccia volge al portinaio uno sguardo inquieto, mentre Aurelio, assumendo un tono scherzevole, prosegue di tal guisa:
—Il mio povero fratello (che Iddio gli conceda eterna requie) avea troppo buon senso quando era al mondo, per permettersi, ora che è morto, una burla da sì cattivo genere. Sai tu, Mariuccia, che se ai morti venisse il capriccio di risorgere, la sarebbe pei vivi e massime pei parenti una vera desolazione! Supponiamo che il sogno di Bernardo si avverasse; che il nostro Enrico ricomparisse un bel giorno in mezzo a noi; credi tu che la nostra reciproca posizione non sarebbe oltremodo imbarazzante? Converrebbe in primo luogo cedergli una parte dei nostri beni; tu, Mariuccia, dovresti rinunziare a metà della tua dote, e quindi alle speranze d’un felice matrimonio!….
—Basta, fratello, non ragioniamo di cose impossibili…
—Eppure il nostro Bernardo ci assicurava poco dianzi…
—E ancora vi torno a ripetere…
—Che nostro fratello Enrico…
—È la fuori, e domanda il favore d’essere ammesso alla vostra presenza.
L’accento calmo e sicuro del buon vecchio; la voce, il volto, il gesto, da cui traspare l’intima convinzione dell’animo, raddoppia il terrore delle due donne, che, stringendosi l’una presso all’altra, non osano trarre un sospiro, nonchè proferire una parola. Aurelio comincia a crollare il capo in segno d’impazienza; poi, volgendosi al servo con piglio severo:
—Basta per oggi, gli dice: se altro non hai ad annunziarci, vattene per le faccende tue.
—E qual risposta debbo io recargli?
—A chi dunque? risponde Aurelio stizzito.
—A lui… all’altro mio padrone… al signor Enrico insomma…
—Al diavolo entrambi! ch’io sono oggimai ristucco di queste tue baje! prorompe Aurelio balzando in piedi.
Il servo s’inchina, ed esce dalla sala per pochi minuti; quindi, rientrando poco dopo, pallido in volto, i capelli irti in sulla fronte, s’inchina di bel nuovo innanzi ad Aurelio, e gli porge una lettera.
Perchè mai la mano di Aurelio trema convulsa nell’aprire quel foglio?
Sulla soprascritta egli ha riconosciuti i caratteri di suo fratello; le cifre sono recenti ed umide tuttavia; non più dubbio… la mano del morto… ha vergate quelle cifre.
«Dilettissimi!
«Ieri sera ho lasciato il Campo santo colla dolce speranza di rivivere per qualche tempo in mezzo a voi. Le lacrime che voi spargeste intorno al capezzale del mio letto, quando io vi dava l’ultimo addio, e quelle che versaste dappoi sulla mia tomba, m’erano pegno del vostro affetto e guarentigia d’amorevole e festosa accoglienza. Mi sono ingannato. Non temete però ch’io vi muova alcun rimprovero: il torto è mio e son pronto ad espiarlo. Veggendo la vostra esitazione e il vostro imbarazzo, per non accrescerli davantaggio colla mia presenza, io riprenderò fra poco la via del cimitero, e mi adagierò nuovamente nella cassa col fermo proposito di non uscirne più mai. Questa seconda morte mi accora assai meno della prima, essendo io convinto oggimai di questa grande verità: che cioè i parenti morti giovano assai meglio dei vivi.