Non ho più grande stima di Stephen Mackaye, sebbene in passato ci giurassi.
Vi posso dire che a quei tempi lo amavo più di un fratello.
Se mai lo rincontrassi, non sarò responsabile delle mie azioni. Non riesco a darmi pace che un uomo con cui ho diviso cibo e letto, e con cui ho attraversato in slitta il Chilcoot Trail, abbia potuto comportarsi con me come si è comportato lui. Avevo sempre considerato Steve una persona leale, un compagno generoso, senza un’ombra di spirito vendicativo o malvagio.
Non mi fiderò mai più dei miei giudizi sugli uomini. Pensare che l’ho assistito quando fu colpito dalle febbri tifoidee; che abbiamo sofferto insieme la fame alle sorgenti dello Stewart; e che fu lui a salvarmi la vita sul Little Salmon.
E ora, dopo anni passati insieme, tutto quello che posso dire di Stephen Mackaye è che è l’uomo più abietto che abbia mai conosciuto.
Partimmo per il Klondike all’epoca della corsa all’oro nell’autunno 1897, troppo tardi per attraversare il Chilcoot Pass prima che gelasse. Per una parte del viaggio portammo a spalla il nostro equipaggiamento, ma quando cominciò a nevicare dovemmo comprarci dei cani e proseguire in slitta. Fu così che entrammo in possesso di Macchia. I cani erano cari, e ci costò centodieci dollari. Sembrava valerli. Dico sembrava, perché era uno dei più bei cani che avessi mai visto. Pesava trenta chili, e aveva tutte le caratteristiche di un buon animale da tiro. Non riuscimmo mai a scoprire di che razza era.
Non era uno husky, né un Malemute, né uno Hudson; somigliava a tutti e a nessuno; e aveva anche qualcosa del cane dell’uomo bianco, giacché su un fianco, nel folto del manto giallo-marrone-rosso-e-biancastro che era il suo colore dominante, c’era una macchia nera come il carbone, grande come un secchio d’acqua. Per questo lo chiamammo Macchia.
Era proprio bello da vedere. Quando era in forma, era tutto muscoli, la bestia più possente che mai vidi in Alaska, e quella dall’aria più intelligente. A vederlo, si capiva che era in grado di tirare meglio di tre cani della sua stazza. Forse, ma non lo potei mai verificare. La sua intelligenza non era orientata in quella direzione. Sapeva rubare e saccheggiare alla perfezione; possedeva un istinto incredibile per indovinare quando c’era lavoro in vista, e squagliarsela; e per perdersi e ritrovarsi era dotato di uno speciale talento. Ma quando si trattava di lavorare, il modo in cui la sua intelligenza si dileguava e lo lasciava un puro grumo di titubante, stupida gelatina, faceva male al cuore.
A volte penso che non fosse stupidità. Forse, come nel caso di certi uomini che conosco, era troppo saggio per lavorare. Non mi meraviglierei che, con la sua intelligenza, ci prendesse in giro. Forse si era fatto i conti, e aveva deciso che qualche bastonata ogni tanto e niente lavoro conveniva molto di più che un lavoro continuo e niente punizioni. Vi assicuro, sono stato seduto a guardare quel cane negli occhi fino a che i brividi mi correvano su e giù per la schiena di fronte a un’intelligenza così scintillante. Non posso esprimerla, non è descrivibile a parole. La vedevo, e questo è quanto. Talvolta era come osservare nell’animo umano, guardare nei suoi occhi; e ciò che vi scorgevo mi spaventava e mi faceva venire ogni sorta di idee sulla reincarnazione e roba del genere. Vi dico che sentivo qualcosa di grande negli occhi di quella belva; contenevano un messaggio che non ero in grado di afferrare. Quale che fosse (lo so di rendermi ridicolo) – quale che fosse, mi sfuggiva. Non posso neanche lontanamente spiegare quello che scorgevo negli occhi dell’animale; non era luce, non era colore; era qualcosa che si muoveva lontano, quando gli occhi stessi non si muovevano. Era un’espressione – ecco cos’era – ed essa m’impressionava. No; era diverso da una semplice espressione; era qualcosa di più. Non so cos’era, ma lo stesso mi dava una sensazione di fratellanza. Oh, no, non di fratellanza sentimentale. Era piuttosto una fratellanza di parità. Quegli occhi non imploravano come occhi di un cervo.
Sfidavano. No, non era sfida. Era solo una tranquilla presunzione di uguaglianza. E non credo che fosse deliberata. Ritengo che da parte sua fosse inconscia. C’era perché c’era, e non poteva non risplendere. No, non voglio dire brillare. Non brillava; si muoveva. So di stare dicendo sciocchezze, ma se aveste guardato l’animale negli occhi, capireste. Steve era impressionato quanto me. Pensate, cercai una volta di uccidere Macchia – era un buono a nulla; e non ci riuscii. Lo portai nella foresta, ed egli mi seguì, lento e svogliato.
Sapeva cosa stava per succedere. Mi fermai in un luogo adatto, posai il piede sulla corda, e estrassi la mia grossa Colt. E quel cane sedette e mi guardò.
Vi dico che non implorò. Guardava soltanto. E vidi ogni sorta di cose incomprensibili muoversi, sì, muoversi, in quegli occhi. Non che le vedessi realmente muoversi; credetti di vederle, giacché, come ho detto prima, credo che le sentissi soltanto. E voglio dirvi subito che fu più forte di me. Era come uccidere un uomo, un uomo consapevole e coraggioso che guarda calmo la pistola come a dire, «Chi ha paura?». Anche quella volta il suo atteggiamento era così eloquente che, invece di premere velocemente il grilletto, mi fermai per vedere se non potevo afferrare il messaggio. Era lì, proprio davanti a me, scintillante intorno ai suoi occhi. E poi fu troppo tardi. Mi spaventai.
Tremavo tutto, e una palpitazione nervosa mi aveva preso lo stomaco tanto da darmi la nausea. Mi limitai a sedere e a guardare quel cane, e lui me, finché pensai di stare impazzendo. Volete sapere che ho fatto? Buttai via la pistola e tornai in fretta all’accampamento col timore di Dio nel cuore. Steve mi prese in giro. Ma lasciatemi dire che Steve portò il cane nei boschi, una settimana dopo, allo stesso scopo, e che tornò solo, e poco dopo fece ritorno anche Macchia.
Come che sia, Macchia non voleva lavorare. Avevamo pagato centodieci dollari per lui dando fondo ai nostri risparmi, e lui non voleva lavorare. Non tendeva nemmeno le redini. Steve gli parlò la prima volta che gli mettemmo la bardatura, e lui ebbe una specie di tremito, e basta. Non un’ombra di spinta. Stava semplicemente fermo e vacillava, come gelatina. Steve lo toccò con la frusta.
Uggiolò, ma non servì a niente. Steve lo toccò di nuovo, un po’ più forte, e ululò, – il lungo monotono ululato del lupo. Allora Steve s’infuriò e gliene diede una mezza dozzina, e io accorsi dalla tenda.
Dissi a Steve che era stato brutale con la bestia, e avemmo una discussione, la prima tra noi. Buttò la frusta nella neve e se ne andò furibondo. La raccolsi e ci provai io. Macchia tremò e vacillò e si rannicchiò ancora prima che ruotassi la frusta, e al primo colpo ululò come un’anima persa.
Poi si lasciò cadere sulla neve. Avviai il resto della muta ed essa lo trascinò mentre io lo frustavo. Si rovesciò sulla schiena e procedette trainato a sbalzi, le quattro zampe volteggianti per aria, ululante come se stesse passando da un tritacarne. Steve tornò indietro e mi rise in faccia, e io mi scusai per quello che gli avevo detto.
Era assolutamente impossibile far fare alcunché a Macchia; e in cambio era il cane più famelico che abbia mai visto. E come se non bastasse, era il più abile dei ladri. Non c’era modo di imbrogliarlo. Quante colazioni senza pancetta affumicata perché Macchia ci aveva preceduto! E fu a causa sua che quasi morimmo di fame sullo Stewart. Riuscì a penetrare nel nostro deposito di carne, e quello che non mangiò lui, lo mangiò il resto della muta.
Ma era imparziale: rubava da tutti. Era un cane irrequieto, sempre intento a gironzolare o a ficcare il naso ovunque. E mai un accampamento nel raggio di cinque chilometri sfuggì alle sue razzie. Il peggio era che toccava sempre a noi risarcire i danni, il che era giusto, essendo la legge del paese; ma caro ci costava, specialmente quel primo inverno sul Chilcoot, quando eravamo al verde, pagare per interi prosciutti e chili di pancetta che non avevamo mangiato. E sapeva pure lottare, quel Macchia. Sapeva fare tutto meno che lavorare. Non trainò mai un chilo, ma era il capo della muta. Come faceva a far stare in riga tutti quei cani era veramente istruttivo. Li angariava e sempre uno o più di uno portavano i segni delle sue zanne. Ma non era soltanto un prepotente. Non aveva paura di niente che camminasse su quattro zampe. L’ho visto assalire da solo una muta estranea senza nessuna provocazione. Ho detto che era famelico? Lo scopersi una volta mangiarsi una frusta, giuro. Cominciò dalla corda, e quando lo scopersi era arrivato al manico.
Ma era bello a vedersi. Alla fine della prima settimana lo vendemmo per settantacinque dollari alla polizia a cavallo. Avevano dei guidatori di cani veramente esperti e sapevamo che nel tragitto di mille chilometri per Dawson sarebbe diventato un buon cane da slitta. Dico sapevamo, perché lo avevamo appena conosciuto. Qualche tempo dopo non osammo più dire di sapere niente che riguardava Macchia. La settimana seguente ci svegliammo la mattina al suono della più accesa zuffa di cani che avessimo mai sentito: era tornato Macchia e stava riportando ordine nella muta. Facemmo una colazione malinconica, vi assicuro; ma ci rallegrammo quando due ore dopo lo vendemmo al corriere ufficiale, diretto a Dawson con la posta governativa. Macchia impiegò solo tre giorni a tornare indietro, e, come al solito, celebrò il suo ritorno con un gran putiferio.
Passammo l’inverno e la primavera, dopo aver trasportato il nostro equipaggiamento attraverso il passo, caricando quelli degli altri; e mettemmo da parte un bel gruzzolo. Guadagnammo anche con Macchia. Lo vendemmo non una, ma venti volte. Ritornava sempre, e nessuno ci richiedeva indietro i soldi.
Non volevamo i soldi; avremmo pagato profumatamente qualcuno che ci avesse tolto quel peso. Dovevamo liberarcene, e non potevamo regalarlo, perché questo avrebbe insospettito. Ma era talmente bello che non avevamo difficoltà a venderlo. «Non domato», dicevamo, e ci davano qualsiasi prezzo. Lo svendemmo a venticinque dollari, mentre un’altra volta ce ne dettero centocinquanta. Quel particolare acquirente lo riportò di persona, rifiutò di essere risarcito e il modo in cui ci trattò fu atroce. Disse che era regalato, se poteva prendersi il gusto di dirci quello che pensava di noi; e dal canto nostro sentivamo che aveva talmente ragione che non osammo replicare. Ma ancora oggi, a distanza di tempo, non ho riconquistato la bella fiducia in me stesso che avevo prima che quell’uomo mi parlasse.
Quando i laghi e il fiume si scongelarono, mettemmo le nostre cose su un battello del lago Bennett e partimmo per Dawson. Avevamo una buona muta, e naturalmente la mettemmo in cima al bagaglio. C’era anche Macchia – era impossibile liberarsene; e una diecina di volte, il primo giorno, fece cadere in acqua qualche cane nel corso di una zuffa. Avevamo poco posto a disposizione, e lui non amava stare stretto.
«Quel cane ha bisogno di spazio», disse Steve il secondo giorno.
«Lasciamolo libero.»
Così facemmo, attraccando la barca a Caribou Crossing, per farlo sbarcare.
Altri due cani, cani bravi, lo seguirono; e perdemmo ben due giorni a cercarli.
Non li rivedemmo più; ma la pace e il sollievo che provammo ci convinsero, come l’uomo che rifiutò i suoi centocinquanta dollari, che valevano il prezzo.
Per la prima volta dopo mesi Steve e io ridemmo, fischiettammo e cantammo.
Eravamo felici come dei ragazzini. I giorni bui erano finiti. L’incubo era passato. Macchia era sparito.
Tre settimane dopo, una mattina, Steve e io eravamo a Dawson, sulla riva del fiume. Una barca di piccole dimensioni stava arrivando da Lake Bennett. Vidi Steve trasalire, e lo udii dire qualcosa di spiacevole e non sussurrato.
Poi guardai; e lì, alla prua della barca, le orecchie tese, sedeva Macchia. Steve e io ce la filammo all’istante, come cani frustati, come vigliacchi,
come fuorilegge. Proprio questo pensò il poliziotto quando ci vide darcela a gambe: che nella barca ci fossero rappresentanti della legge al nostro inseguimento.
Non aspettò di scoprire se così stavano le cose, ma ci tenne d’occhio, e nel saloon di M.&M. ci prese da parte. Ci volle il bello e il buono per spiegargli la situazione, poiché ci rifiutammo di tornare a prendere Macchia; e alla fine ci affidò a un altro collega mentre andava lui all’attracco. Dopodiché ci avviammo verso la baracca, e, una volta arrivati, c’era Macchia accovacciato sulla soglia ad aspettarci. Ma come diavolo sapeva che abitavamo lì? C’erano quarantamila persone a Dawson quell’estate, e come poté individuare la nostra tra le tante baracche? Come faceva a sapere che eravamo a Dawson, comunque? Lascio a voi la risposta. Ma non dimenticate ciò che ho detto sulla sua intelligenza, e quel qualcosa di immortale che ho visto baluginare nei suoi occhi.
Non c’era più modo di liberarsi di lui. Troppa gente a Dawson lo aveva comprato sul Chilcoot, e la storia aveva circolato. Una mezza dozzina di volte lo imbarcammo su battelli che scendevano lo Yukon; ma lui sbarcava alla prima fermata, e tornava indietro lungo la riva. Non potevamo venderlo, non potevamo ucciderlo (ci avevamo già provato), e nessun altro era in grado di ucciderlo.
Sembrava stregato. L’ho visto sopraffatto nella strada principale da una torma di cinquanta cani sopra di lui, e, una volta districati, comparire sulle quattro zampe, illeso, mentre due dei cani che erano in cima al mucchio erano a terra morti.
L’ho visto rubare dalla dispensa del Maggiore Dinwiddie un pezzo di carne d’alce così pesante che riusciva a malapena a sfuggire alla cuoca indiana di Mrs. Dinwiddie, che lo inseguiva con un’accetta. Quando salì su per la collina, dopo che la cuoca rinunciò all’impresa, il Maggiore Dinwiddie in persona uscì di casa armato di Winchester. Scaricò il fucile per due volte, senza colpire Macchia. Poi arrivò un poliziotto e lo arrestò per aver sparato all’interno dei confini della città. Il Maggiore Dinwiddie pagò la multa, e Steve e io gli pagammo la carne a due dollari al chilo, ossa e tutto. Tanto lui aveva pagato; la carne costava cara quell’anno.
Racconto solo quello che ho visto coi miei occhi, e ora vi racconterò anche qualcos’altro. Ho visto Macchia precipitare in una buca d’acqua. Il ghiaccio era spesso quasi un metro, e la corrente lo trascinò come un filo di paglia.
Trecento metri più a valle c’era la grande buca usata dall’ospedale. Macchia si trascinò fuori dalla buca dell’ospedale, si asciugò l’acqua con la lingua, si scrostò coi denti il ghiaccio che si era formato tra le dita, trotterellò sulla riva, e sbaragliò un grosso Newfoundland che apparteneva al Commissario dell’Oro.
Nell’autunno del 1898, Steve e io traversammo lo Yukon in barca prima che gelasse, per raggiungere lo Stewart River. Portammo appresso tutti i cani, tutti eccetto Macchia. Pensavamo di averlo nutrito abbastanza. Ci era costato più tempo, soldi, fatica e cibo di quanto avessimo guadagnato vendendolo sul Chilcoot – specialmente cibo. Così Steve e io lo legammo nella baracca e caricammo. Ci accampammo quella notte all’imboccatura dello Indian River, e scherzavamo sul fatto di essercelo scrollato di dosso. Steve era un tipo divertente, e io stavo seduto nelle coperte ridendo quando un tornado si abbatté sull’accampamento. Il modo in cui Macchia s’intromise tra i cani e diede loro quello che si meritavano fu raccapricciante. Ora, come riuscì a liberarsi?
A voi dirlo. Io non ho nessuna teoria. E come fece ad attraversare il fiume Klondike? Quello fu un altro affronto. E ad ogni modo, come sapeva che stavamo risalendo lo Yukon? Eravamo andati per via di acqua, e non poteva aver seguito le nostre tracce. Steve e io cominciammo a essere superstiziosi su quel cane.
Ci dava ai nervi, e, detto fra noi, eravamo anche vagamente impauriti.
Il gelo arrivò quando eravamo alla bocca dello Henderson Creek, e lo cedemmo per due sacchi di farina a un gruppo di cercatori di rame lungo il White River.
L’intero gruppo scomparve senza lasciare traccia: né pelli, né capelli umani, cani, slitte o alcunché fu mai ritrovato. Scomparirono del tutto, divenendo uno dei misteri del paese. Steve e io riuscimmo faticosamente a raggiungere lo Stewart, e sei settimane dopo Macchia si presentò al campo. Era uno scheletro ambulante, e si trascinava a fatica; ma era arrivato fin lì. E quello che vorrei sapere è chi gli disse che eravamo sullo Stewart? Potevamo essere andati in mille altri posti. Come faceva a saperlo? Ditemelo, e ve lo saprò dire.
Non c’era modo di perderlo. Al Mayo, attaccò briga con un cane indiano.
Il suo padrone lo prese di mira con un’accetta, lo mancò, e uccise il suo cane.
Si parla tanto di magia e di deviare i proiettili. A me sembra molto più difficile deviare un’accetta maneggiata da un pezzo d’uomo come quello.
Eppure gliel’ho visto fare coi miei occhi.
Vi ho raccontato di quando Macchia fece irruzione nella nostra dispensa di carne. Ci costò quasi la vita. Non c’era più carne da ammazzare, e avevamo solo la carne per sopravvivere. L’alce era lontano centinaia di chilometri e gli indiani con lui. E noi eravamo lì, era primavera, e dovevamo aspettare il disgelo. Dimagrimmo un bel po’ prima di deciderci a mangiare i cani, e decidemmo di cominciare da Macchia. Sapete che fece, lui? Sparì. Ora, come poteva sapere che avevamo deciso di mangiarcelo? Sedemmo la notte aspettandolo ma non tornò mai, e mangiammo gli altri cani. Tutta la muta.
E ora continuiamo. Sapete cosa vuol dire quando un grosso fiume comincia a sgelare, e qualche milione di tonnellate di ghiaccio si mette in moto, pigiando, ruotando e stritolando. Nel bel mezzo di tutto questo, quando lo Stewart straripò, rumoreggiando e ruggendo, al centro avvistammo Macchia.
Era stato bloccato mentre tentava di attraversare da qualche parte. Steve e io strillammo e urlammo e corremmo su e giù per la riva, lanciando per aria i cappelli. Ogni tanto ci fermavamo e ci abbracciavamo, travolti dall’entusiasmo di vedere la fine di Macchia. Non aveva una possibilità su un milione di salvarsi; anzi, nessuna. Quando i ghiacci sparirono saltammo su una canoa e remammo fino allo Yukon, sullo Yukon fino a Dawson, fermandoci per rilassarci una settimana nelle baracche all’imboccatura dello Henderson Creek. E mentre sbarcavamo a Dawson, ecco lì seduto Macchia che ci aspettava, le orecchie appuntite, scodinzolante, sorridente, a darci il benvenuto. Come diavolo ha fatto a districarsi dal ghiaccio? Come faceva a sapere che saremmo arrivati a Dawson, proprio a quell’ora, per essere lì pronto sulla riva ad aspettarci?
Più penso a Macchia, più mi convinco che ci sono cose a questo mondo che vanno oltre la scienza. Macchia non può spiegarsi su basi scientifiche. Sono fenomeni psichici, o mistici, o roba del genere, con dentro un sacco di Teosofia.
Il Klondike è un buon paese. Potrei stare ancora laggiù, ed essere diventato milionario, se non fosse stato per Macchia. Mi dava sui nervi. Lo sopportai per due anni consecutivi, e poi crollai. Fu nell’estate del 1899 che me ne andai. Non dissi niente a Steve. Me la filai, ma organizzando tutto alla perfezione. Scrissi un biglietto a Steve, e glielo lasciai insieme a un pacco di veleno per i topi, dicendogli cosa fare. Ero distrutto da Macchia, ed ero così nervoso che sussultavo e mi guardavo intorno quando non c’era nessuno nelle vicinanze per chilometri. Ma fu stupefacente come mi ripresi dopo essermene liberato. Rimisi su dieci chili prima di arrivare a San Francisco, e al momento che giunsi col traghetto a Oakland ero tornato me stesso, così che anche mia moglie non mi trovò per niente cambiato.
Steve mi scrisse immediatamente, e la sua lettera sembrava irritata. Se la prese a male perché lo avevo lasciato con Macchia. Aggiunse che aveva usato il veleno seguendo le istruzioni, ma senza successo. Passò un anno. Ero tornato in ufficio, ero soddisfatto – cominciavo a mettere su peso. E poi arrivò Steve.
Non mi cercò. Lessi il suo nome sulla lista dei passeggeri della nave, e fui stupito. Ma non per molto. Mi alzai una mattina, e trovai Macchia incatenato al cancello, che impediva l’accesso al lattaio. Steve se ne andò a Nord, a Seattle, seppi, quella stessa mattina. Cessai di ingrassare.
Mia moglie mi fece comprare un collare e una targhetta, e nel giro di un’ora egli dimostrò la sua gratitudine uccidendo il suo gatto persiano. E’ impossibile liberarsi di Macchia. Starà con me finché vivrò, perché lui non morirà mai.
Ho perso l’appetito da quando è arrivato, e mia moglie dice che ho l’aria sciupata. La notte scorsa Macchia si è infilato nel pollaio di Mr Harvey (il mio vicino di casa) uccidendo diciannove polli di razza. Dovrò risarcirlo.
I miei dirimpettai hanno litigato con mia moglie, e si sono trasferiti.
Per colpa di Macchia. Ed è per questo che sono deluso di Stephen Mackaye.
Non pensavo che fosse una persona così abietta.