Quando natura manda fuori dalle sue fucine un gobbo, voi credete certamente ch’ella si dia una grattatina di testa la quale altro non vorrebbe dire che questo: «guardate un poco che cosa ho fatto, quello che mi è successo!» E credete forse che rivolta alla sua creatura essa esclami presso a poco così: «perdona, piccolo essere infelice, mi è accaduto senza che io me ne accorgessi, ti domando scusa sai poverino…». Niente di tutto ciò.

È, il gobbo, un argomento allegro, allegro per sè per gli altri e per la natura stessa che dopo averlo creato sorride rapidamente dell’opera sua. E quel sorriso, intendiamoci bene, non è rivolto al suo figlio gobbo, ma ai suoi figlioli diritti; questo vuol dire quel suo risolino: «Ah! voi credete ora di ridervi di lui? Vedremo».

Natura, infaticabile equilibrista, dopo averlo creato, il gobbo, se lo prende amorosamente sulle ginocchia, lo esamina, lo palpa, l’accarezza, intinge quindi la punta delle dita in un suo misterioso vasettino; e ne spruzza di un qualcosa che sembra sale il corpiciattolo deforme. Ed è a questo punto precisamente ch’ella permette quel suo rapido sorriso: «Ah! voi vi eravate preparati a ridervi alle sue spalle? Ecco mio caro: spriffete e spruffete».

Il gobbo, è un bel dire, si ride delle persone diritte assai assai più ch’esse non si ridano di lui. È il suo compenso.

Avrà, il cieco, per questo senso di meno, più fini ed elaborati gli altri sensi, e s’egli non può vedere le cose, vede nei fatti, intravede nelle vicende, non soltanto, ma potrà per questa sua mancanza, vedere il mondo molto più bello che non lo vedano coloro provvisti di due buoni occhi. Il sordo sentirà cogli occhi…. amerà i colori, ne penetrerà la vita, le sinfonie, come chi ci sente ama e penetra i suoni e le lori orchestre…. e così via di seguito. Non accusiamo la nostra grande madre di essere stata parziale con noi e di averci riserbata una speciale sventura anche se siamo gobbi; essa ci scodella la vita a tutti ugualmente come una identica minestra.

Se natura paga la vita in un solo pezzo dà a colui che lo dovrà spendere tutta la necessaria avvedutezza per spenderlo nel momento migliore. Se glie la paga in tanti centesimini spiccioli fornisce quell’essere di tutta la pazienza che occorre per spenderla uno alla volta. Quelli che si uccisero ebbero, è vero, una vita di scarto, ma glie la dette come una cambiale in bianco, ed ebbero facoltà di firmarne la scadenza quando più loro piacque. Coloro che vennero uccisi non avevano avuta una vita ma erano gli aggregati di una vita. Allorchè natura crea, ad esempio, un imperatore, aggrega alla sua vita migliaia e migliaia di altre vite, ma non come vite ben inteso, come cose indispensabili a quella vita.

Questo per dimostrarvi che essendo la vita uguale per tutti, non dovete considerare un gobbo un uomo infelice perchè è gobbo, un essere triste e avvilito, ma un essere come tutti gli altri, e anzi, dei più lieti. — Giacomo Leopardi! — Io vi sento esclamare. Ebbene, amici miei, quel dabbenuomo, assicuratevi, non fu così infelice per la gobba che portava sopra la schiena, ma per quella più grossa assai che portava dentro la sua grande anima di poeta. Che s’egli avesse avuta una gobba sola sulla schiena, ve lo sareste visto pirular puntuto davanti e arzillo, pieno di astuzia, con un tagliente risolino ironico fra le labbra, e poco vi sareste azzardati a ridervi di lui e della sua gobba, nè ad appressarvici troppo per trarne fortuna, nè ora il mondo si occuperebbe più tanto di essa.

Un gobbo dunque si ride della gente diritta più che questa non si rida di lui, della gente diritta intendiamoci bene, perchè un gobbo non ride mai d’un altro gobbo.

Ecco il problema: quando due di questi esseri si trovano uno di fronte all’altro. Conservano essi il loro umore faceto e pungente? No. Una famiglia che fosse in possesso di due gobbi dovrebbe risolvere il difficile compito del quieto vivere. Voi non invitereste certo a pranzo due gobbi in una volta nè li porreste l’uno in faccia all’altro nè a lato. E non avrete mai veduto per le vie due gobbi andarsene amichevolmente a diporto.

Vantare un gobbo assiduo del proprio salotto è cosa veramente deliziosa e di buon gusto; in ogni tempo, lo fu. Papi, Imperatori, e grandi dame se ne tennero uno carissimo per tutta la vita. Un gobbo in una comitiva è il sorriso, la gioia, il buon augurio, la felicità. E tutti se lo accarezzano, non colle mani ben inteso, se lo rubano, se lo giuocano, mah!… è un giuoco d’azzardo, che v’impone di misurare bene ogni mossa. Ve ne furono, di queste piccole creature, dotate di tale scaltrezza da comprendere, parlando, che il loro interlocutore era tutto preoccupato od assorto nella loro gobba pure senza guardarla, anzi, facendo ogni sforzo per distrarne lo sguardo. E fecero impallidire o arrossire più d’un povero di spirito. Il gobbo è una persona di spirito.

Ed ora, finite queste considerazioni, diciamo così, di razza, occupiamoci del nostro gobbo.

Viveva in una piccola città della Toscana, si chiamava Mecheri, «il gobbo Mecheri» o soltanto «il Mecheri». Era l’uomo più noto di quella provincia. Le sue gesta correvano su tutte le bocche e si posavano qua e là a colmare propriamente le molte ore d’ozio che sono la prerogativa delle città provinciali.

Pare che con questo Mecheri natura, forse sbadatamente, avesse un po’ abbondato di quella presa che sembra sale, e ch’egli avesse avuto compenso ad usura della sua disgrazia. Quando egli rideva, rideva tutto, e la sua altissima gobba palpitava gioiosamente alla serenità del suo riso. Alto un metro giusto, non era reale, ma bene dritto davanti, snello, e dietro, dalla vita in su, gli s’inarcava una gobba così alta e così puntita che guardandolo bisognava domandarsi come spina dorsale avesse potuto seguire una curva così acuta senza rompersi. Una faccettina rotonda, rossa, sbarbata, rosso di capello e ricciuto, sempre con una bombetta nera in testa, e vestito con un tait verdognolo la cui falda gli scendeva giù a venti buoni centimetri distante dalla persona. Era sua indispensabile compagna una giannetta fine, che completava meravigliosamente la sua figura nel camminare agile ballettato. Non poteva pesare più di una ventina di chilogrammi: un gioiello insomma, la perfezione della specie. Celibe, viveva di una piccola rendita lasciatagli da una zia. Questo stato di agiatezza gli permetteva di esercitare comodamente ed esclusivamente il suo mestiere di gobbo. Girare tutto il santo giorno pei luoghi meno deserti della città, fermarsi ad ogni passo, sedere al caffè ore ore ore, ridere e far ridere.

Tutti avevano finito per scrollare; prima o dopo, le spalle dinanzi a lui, nessuno era stato capace di serbargli profondamente rancore, nemmeno quando lo scaltro faceto avea passato la pelle colle sue punture. Ed era in questo modo rubato da tutti: nei negozi se lo tiravano dentro, dal farmacista, dal tabaccaio, dal parrucchiere, avvenivano ovunque interminabili sedute: ognuno che entrava rimaneva un po’ a dissetarsi a quella limpida sorgente di giocondità. Era uno dei rari uomini amati sinceramente, non invidiati da nessuno e cercati sempre. Ogni giorno saltava fuori con nuove storielle, facezie, qualche sortita spontanea, le donne erano la sua più grande palestra, esse scrollavano più o meno bonariamente le spalle e si prendevano tutto in santissima pace.

C’era però una classe di persone, esigua, che lo odiava di un odio felino, tenace. Per l’uomo che aveva saputo ridere di tutto e di tutti, c’era una cosa al mondo che lo faceva ridere in una maniera particolare, con un’intensità inarrivabile: la vista di un altro gobbo. Allora guardandolo voi non vedevate più l’uomo ma il riso.

In quella piccola città i gobbi erano cinque, egli aveva quattro compagni, quattro nemici.

Questi poveri esseri se ne stavano celati, lo temevano, erano rimasti talvolta passivi di scenate sulle pubbliche vie, quando la combinazione li aveva portati dinanzi a lui, erano divenuti lividi, viperini, pur non essendo capaci di articolare una sillaba di fronte alla terribile e serena canzonatura. Lo scansavano con ogni mezzo, ma come si fa, finisce per diventare l’incubo di un povero essere, in una città di ventimila abitanti appena, dove gira e rigira siamo sempre lì, e ci si deve vedere tutti almeno un paio di volte nella giornata, e col Mecheri poi che era a zonzo tutto il santissimo giorno. Dovevano serrarsi in casa per sempre? Non uscirne più mai come i detenuti? Come degli assassini? Chiudersi vivi nella tomba?

Uno di essi era giovine di studio d’un avvocato, gobbo reale, ma brutto però, colla faccia verdastra rugosa. Egli, dovendo indispensabilmente percorrere le vie in forza della sua professione, era il più rassegnato, alle risate indegne del Mecheri aveva risposto come aveva potuto, e non era poco, con grida, lazzi osceni, ma era accaduto di peggio, meglio era lasciarlo ridere quell’immondo. E gli altri, i diritti, come dovevano non ridere quando era un gobbo che primo rideva di un altro gobbo? Come potevano i gobbi essere rispettati in un simile paese? Come trattati con quella speciale delicatezza che s’impone alla loro specialissima condizione? Essi dovevano per forza rimanere il ludibrio di tutti.

Il secondo era custode in una villa storica adibita a museo, alla periferia della città; si vedeva di rado, nelle sue parti il Mecheri non capitava, ed era quello che se la passava meglio, in centro cercava di venirci il meno possibile.

Il terzo, un calzolaio che aveva avuto un tempo negozio in una delle vie principali. Il buon uomo si era ritirato a lavorare in casa con gravi perdite di interessi. Il Mecheri passando dinanzi al suo negozio soleva fermarsi, affacciarsi a ridere, una volta si era introdotto insieme ad altri con la scusa di farsi prendere le misure per le scarpe. Ne era seguita una scena epica fra i due gobbi, il cervello del calzolaio ne era uscito sconvolto.

Il quarto infine, un benestante, con moglie e due figlie, niente affatto gobbe e quasi da marito; uomo grave, nel suo genere, a cui sarebbe piaciuto molto uscir fuori liberamente a tutte l’ore, starsene in caffè a discutere, e fare anche lui tranquillamente il gobbo altolocato come lo comportava la sua natura. Dei quattro era i più invelenito, nella sua apparenza dignitosa di cittadino benestante a cui, pur essendo gobbo, era stata concessa in moglie una signorina di ottima famiglia provvista di dote, e dalla quale aveva avute due belle figlie niente affatto gobbe, covava il suo odio, calcolava, studiava la sua vendetta. Doveva egli, uomo di riguardo, scendere sulla pubblica via con un mascalzone? Perchè poi la scena avesse servito da carnevale a tutto il paese? Egli in fondo, che non si considerava completamente gobbo, in confronto col Mecheri poteva dirsi uomo normale, glie lo avevan ripetuto centomila volte la moglie e le figlie, aveva talvolta ricorso a viaggetti ch’erano durati fino a due e tre mesi era stato fuori colla famiglia per respirare in aure libere. Doveva abbandonare per sempre i proprî interessi? Ogni suo bene?

Questi quattro gobbi erano veramente quattro infelici, gl’infelici della città. E perchè? Perchè un gobbo, un loro compagno, un loro fratello, gobbo più di loro, il più gobbo di tutti, si rideva spudoratamente della loro sventura. Oh! lo scherno di una persona diritta non li inaspriva tanto, non lo temevano ma quello di un gobbo era intollerabile.

***

Si dice che una notte furono veduti giungere alla casa del gobbo benestante, uno alla volta, tre gobbi, essi si sarebbero trattenuti lungamente, e soltanto poco prima dell’alba ne sarebbero ripartiti. Si sarebbero separati alla porta della casa andando ognuno per diversa direzione.

Si aggiunge che nel separarsi, i tre gobbi, si fossero guardati amorosamente, e dipoi serrati al seno l’uno dell’altro.

La voce circolò e circolando fu man mano sformata e da tutti creduta una nuova burletta del gobbo Mecheri.

Era il venti settembre, la città tutta imbandierata e intrecciata da festoni di lauri, di quercia, di allori, tutte le finestre pendevano come frutti i lampioncini veneziani tricolori pronti già per la luminaria della sera. La banda cittadina eppoi la militare dovevano suonare tutto il pomeriggio nei giardini pubblici, tre bande venute dalle vicinanze avrebbero suonato in altre ore in punti varî della città.

Una magnifica giornata di fine estate, tutti erano fuori in grande uniforme a far bella mostra di sè. Per le vie lunghe fila di banchi coi dolci delle fiere, giocattoli, chincaglierie, stoffe, cappelli, frutta, ovunque la gente si accalcava. I contadini dei dintorni cogli occhi imbambolati dal movimento, intontiti dai rumori, ciondolavano distratti fra il pulviscolo della festa.

Il nostro Mecheri dalle otto della mattina percorreva le vie principali in lungo e in largo, tutti si fermavano con lui, lo salutavano, lo interrogavano, come fosse stato un’autorità. Indossava il tait buono che ancora non aveva cominciato a buttare il verde, la bombetta nuova, una bella catenona d’oro all’orologio, col corno di corallo, che sembrava, perchè addosso a lui, mastodontica, e un’ampia cravatta di raso bianco coi fiorellini verdi e rossi.

La gente si rimescolava sempre con crescente difficoltà per le vie e le piazze che si gremivano a dismisura. Era un pomeriggio limpido, fresco, e tutti ora si dirigevano verso i giardini pubblici dove le bande dovevano eseguire il loro concerto.

La Marcia Reale fu salutata al suo termine da un enorme scroscio d’applausi. Fu poi intonato l’inno di Garibaldi accolto pure freneticamente da quel popolo; quindi ebbe principio il concerto con un pezzo dell’opera «Norma». Il bravo Mecheri in un gruppetto di cittadini parlava concitatamente, teneva cattedra di musica antica e moderna, narrava di rappresentazioni celebri, di grandi cantanti, ballerine, e fatti riguardanti il teatro.

Era il primo intervallo. Ecco giungere dal viale di mezzo e dirigersi proprio verso il gruppo dove si trovava il Mecheri, a passettini precipitosi un omettino alto non molto più di un metro, vestito con certa presunzione, di un tait nero e un cappellino di paglia dal nastro marrone. Già da lontano, non era facile sbagliare, si capiva trattarsi di un gobbo e di che gobbo! Come il Mecheri, con una sola gobba dietro, ma così acuta che la punta gli giungeva all’altezza degli orecchi. Un Mecheri venti centimetri più alto.

Un gobbo nuovo? Venuto di fuori? Per la festa? — È il famoso gobbo pisano — pensò subito Mecheri mentre l’uomo si avvicinava. — Sicuro, il gobbo pisano che veniva a fare una gita, ne aveva sentito parlare mille volte, era proprio così, era lui, bisognava rimandarlo a Pisa a raccontare qualche cosa della sua visita.

Il gobbetto, con la sua aria estremamente presuntuosa e spavalda era proprio venuto a dividere il nostro gruppo, senza mostrare affatto di accorgersi che vi era in esso alcuno che molto gli rassomigliava, ma non vi fu appena in mezzo che le risate scoppiarono, squillarono per l’aria come un esplosione di fuochi d’artifizio. Mecheri rideva rideva, rideva additando il gobbo a tutto il mondo presente: oh! come rideva questa volta, egli non aveva mai riso così; il riso si propagava rapidamente scoppiettante, acuto, urlante, volante, e il gobbo sembrava doversi liquefare tutto nel calore della sua gioia. Il gobbo sconosciuto era passato senza punto curarsi del lazzo che lasciava dietro di sè, ma non appena venti metri distante dalla gaia combriccola, si fermò, corse rapido con la mano alla sua gobba sotto il tait, ne trasse prestamente un grosso fardello di stracci che dopo avere agitati in aria con grande abilità gittò lungi da sè in un’aiuola, voltosi quindi al suo canzonatore e fattogli un profondo inchino, con gesto elegante della mano parve invitarlo a fare altrettanto. Dando quindi sui tacchi se ne andò tutto impettito, omarino sì, ma diritto come un fuso.

La gioia a bollore del gobbo Mecheri ebbe come una congelazione fulminea, egli tentò di ridere ancora, ma il colpo era stato visibile a tutti. Quattro grandi risate gracchiarono nell’aria, e Mecheri volgendosi scòrse quattro gobbi che lo circondavano in quadrato. Il nemico era chiuso, prigioniero. I quattro gobbi ridevano velenosamente, vomitando l’amaro livore ingoiato per tanti anni. Mecheri nel mezzo, fra tutta la gente che lo circondava, tentò di ridere ancora, di riattaccare la vena del suo magnifico riso, ma non vi riuscì, si sforzò, ma tremava, barcollava, assalito da un tremito convulso. Qualcosa si era fermato, schiantato dentro di lui: la molla della gioia nel congegno della sua anima.

La burla corse in men d’un’ora su tutte le bocche, e fece poi le spese delle molte ore d’ozio della città provinciale.

Tutti attendevano ansiosamente ciò che avrebbe fatto il Mecheri, come si sarebbe rifatto, come si sarebbe comportato dopo che la guerra era stata dichiarata tra i gobbi.

Il Mecheri tentò di sostenersi, di riprendersi, non vi riuscì, era divenuto torvo, guardingo, e non fu più buono, per quanti sforzi facesse, a ridere come una volta.

Non si sentiva più tranquillo che nella sua casa, chiuso, cominciò a non uscire più tanto spesso, poi a non uscire più di giorno.

Invece per le vie si vedeva circolare indisturbato il gobbo benestante, con aria assai grave andava e veniva per i fatti suoi. E si diceva già con certezza che il gobbo calzolaio avrebbe aperta al più presto una grande bottega sul Corso. Il gobbo custode ogni sera veniva in centro a prendere il tabacco e vi si intratteneva tranquillo a fare una buona pipata. Il giovane di studio era divenuto assiduo del caffè per la partita dello scopone. Chi non si vedeva più era il Mecheri. Tutti si domandavano come mai, che cosa gli era successo, come fosse avvenuto questo cataclisma nella stirpe dei gobbi, come un uomo di quello spirito avesse potuto impermalirsi di una burla, e cercavano altrove la ragione del suo allontanamento. Mecheri usciva di notte, strisciando i muri come una talpa, bagnando con amare lacrime di dolore quel terreno che aveva un tempo inondato di gioia. Teneva gli occhi socchiusi perchè temeva di scorgere nell’ombra la sua gobba mostruosa che ogni giorno cresceva cresceva sulle sue spalle fino a toccare le vette del firmamento. Poi non uscì più, non fu più visto da nessuno, e si seppe ch’era partito per sempre, senza sapere per dove, senza un perchè che gli altri capissero, ma che solamente un altro gobbo avrebbe potuto capire.

***

Una mattina, prima dell’alba, in una delle nostre massime città, gli spazzini che spazzavano le vie, alla luce dei primi grigi bagliori, scòrsero in un angolo del marciapiede un fardello di cenci. Uno d’essi si avvicinò, sembrava che sotto ai cenci, al suolo, vi fossero come dei tentacoli umani aderenti al lastricato, qualcosa che pareva una gigantesca chiocciola vestita, chiusa e attaccata alla terra con la sua grande casa sopra la schiena.

— Toh! È un gobbo!

— Un gobbo?

— Sì, venite a vedere!

— Guarda guarda, davvero!

— È un gobbo.

— Un gobbo!