L’ingegnere Enrico M…, comproprietario della ditta Gerosa e Comp., ritornava a Milano dopo una lunga assenza, per ragioni di affari.

Ci pensò per tutto il viaggio da Genova a Milano: ma non agli affari che andavano benissimo. Per tutto il viaggio fra quegli ignoti sonnacchiosi dentro i loro pastrani, l’avea riveduto il visino ridente, la testolina d’oro che danzava e cantava:

Son bellino son carino

Sono il cocco del papà.

Questa era per il babbo, e poi c’era la poesietta per la mamma:

Cara mamma del mio cuor

Tu sarai sempre l’amor.

Il treno faceva ta, ta, tan! ta, ta, tan! precipitosamente, e la testolina dondolava anche lei in alto su la reticella, e la vocina cantava più forte del treno:

I bambini capricciosi

Dicon sempre: no! no! no!

Gli veniva da ridere perchè in casa lo chiamavano ancora Lolò; eppure come si faceva a mutar nome a Lolò? La nonna, quando la andavano a trovare nella sua solitudine di Noli, diceva: «Perchè lo chiamate ancora Lolò? Adesso è grandicello, non sta più bene chiamarlo così, chiamatelo per il suo vero nome: Ludovico, se no, quando avrà i calzoni lunghi lo chiamerete ancora Lolò: farete ridere; pare il nome di un pappagallo.»

Verissimo, ma Lolò era proprio lui, e Ludovico invece pareva un’altra persona.

Ora mentre il treno correva verso Milano tra i bassi saliceti allineati per le stagnanti acque, gli venivano alla mente tutte le canzoncine che cantava Lolò.

C’era quella pel Natale che diceva:

Per la notte di Natale

È venuto un angioletto.

E poi? Ohimè Ricordarsi il seguito! della poesia era un affare serio per il signor Enrico. Si ricordava però che la diceva così benino con tanta serietà, tenendo stretto il pollice e l’indice della manina in modo da fare un tondo, in alto, e mandava fuori quella vocina con il beccuccio delle labbra in su, come un passerottino e ci dava quella cantilena, e poi faceva una bella piroletta pigliandosi le sottanine: «Riverisco!» E l’ingegnere Enrico, un pezzo d’uomo biondo e forte, un po’ alla tedesca, cercava con la voce dell’anima di imitare quella piccola voce senz’erre, per chiamarsela più vicina quell’imagine adorata, chè la vedeva con gli occhi del cuore, tutta ridente, sopra le teste sonnolente dei compagni di viaggio.

Nevicava sul piano: bioccoli di neve bianca pel grigio del cielo, bioccoli placidi sui pioppi, su gli stagni di piombo; e il treno rompeva quella quiete invernale e rombava verso Milano fra un turbinìo di fumo.

E lo rivedeva ancora, Lolò, il caro piccino, anche così: quando la sera, prima del pranzo, veniva a casa dalla passeggiata, tutto brinato come un sorbetto, con la testa dentro il cappuccio di lana bianca e quegli occhi liquidi da cui trasparivano le viscere dentro; povero piccino, caro piccino! Entrava nel suo studio e diceva: «Senti questa, papà»:

Pirimpin, pirimpum, pirimpana

Giovannin che vende la lana,

Con la zappa e con la pala

Pirimpum, pirimpin, pirimpana.

e ballava a tondo.

Chi gliele aveva insegnate tutte quelle sciocchezze?

Ah! la fantesca, la buona Marta, una domestica d’altri tempi, che gli aveva fatto imparare anche il segno della croce e la canzone del Bambin Gesù.

Indubbiamente: il signor Enrico ora aveva caro di ritornare nel suo appartamento; molto caro di stringer Lolò tra le braccia, di sentire presso il suo volto il calore di quelle manine, di quel corpicino. Sì, quella era la più piccola delle sue macchine e la più fragile: ma anche la più bella, la più amata.

Aveva anche caro di vedere Maria.

*

Quando fu buio e le falde di neve non si videro più, il treno si fermò lentamente. Le voci dei guardiani chiamarono con voce stanca che parea il termine di una lunga corsa:

— Rogoredo! Chi scende a Rogoredo!

Nessuno si mosse nello scompartimento.

— Tutti per Milano? — chiese una voce di fuori.

— Allora partenza! — ripetè la voce.

E il treno si rimise in moto.

*

L’orizzonte luccicò bianco. Erano giunti a Milano!

Quando il signor Enrico, nella sala degli arrivi si trovò davanti a tutti quegli occhi curiosi, dietro il cancello, gli parve di scorgere un noto e caro viso. Gli parve che fosse Maria. No, era un’altra signora. «…. a pensarci avrei potuto telegrafare….» e disse al brumista di fare presto.

Dopo mezz’ora si fermò davanti al n.º 5, via Y***, una delle vie della Milano nuova, senza botteghe ancora: quella sera poi, con la neve, non c’era nessuno; e scese: e allora vide lì una persona che si moveva lentamente sotto la neve, e un po’ si fermava. Quella figura prese subito l’aspetto di un ufficiale di cavalleria, smilzo, smilzo.

Gli passò dietro le spalle, indifferentemente, mentre pagava il cocchiere, e lasciò dopo di sè un forte odore di muschio.

Il signor Enrico aprì lo sportello, ma prima che questo si rinserrasse, sentì il bisogno di vedere che cosa faceva quell’uomo lì, in mezzo alla neve. Lo scorse andare avanti; ma poi era tornato indietro e con le mani affondate nello spencer, guardava in su allungando il collo. Ma su c’erano le finestre della sua casa! Un pensiero lacerante e repentino che non avea avuto mai, gli s’infiltrò nel cuore.

Quando quello lì ebbe interrotto le sue evoluzioni e si fu allontanato, il signor Enrico salì le scale e suonò piano.

Per primo strascicò nell’anticamera il passo della fantesca, e c’era dietro la vocina di Lolò.

— C’è la signora in casa? — domandò interrompendo con un gesto brusco l’esclamazione della vecchia.

— Benedetto da Dio! proprio….

— Zitta! c’è lei in casa?

— Nella sua stanza — rispose la donna.

Ma entrando nel salotto da pranzo, sentì qualche cosa che gli veniva dietro ai panni, in silenzio, e le mani toccarono la soffice capigliatura di Lolò.

Lo sollevò, se lo strinse sul volto, se lo pose a sedere su la tavola:

— Non mi conosci più? Sono il papà. — Lo fissava intensamente.

Ma il bambino domandava se aveva portata la cioccolata, con la voce un po’ sonnolenta e di chi non ricorda più bene che cosa è quella cosa che si chiama papà. È stato tanto tempo lontano!

*

— Ma potevi avvisare che tu saresti arrivato stasera (erano le parole di Maria ed era entrata allora), però quasi ne avevo il presentimento e volevo ritardare il pranzo.

Ed ella fu, come era usata, premurosa e gentile verso di lui. Volle che si rifocillasse e fece allestire la cena con quello che era rimasto del pranzo.

— Sei di mal’umore, hai avuto qualche disappunto?

Egli assicurò del contrario, ma il cibo gli andava giù di mala voglia e le parole trovavano impedimento suo malgrado.

— Fine di febbraio e nevica — riandava lei. — Avrai avuto freddo, imagino: io faccio del gran fuoco, mi sono tappata in casa e non esco.

Tuttavia la conversazione languiva e si udì dalla stanza vicina la voce del bambino che andava a letto: voce forte, come di una lezione imparata a memoria, che ripeteva le preghiere della sera e la Marta correggeva con gravità. «Prega per noi peccatori…. nell’ora della morte e così sia!» squillò la voce allegra di Lolò, finendo, «e domattina mettimi la caramella sotto il cuscino.»

— Che sciocchezze far dire a un bambino «il frutto del ventre tuo» e «nell’ora della morte» — disse lei.

— E non fargliele dir più, allora….

— Lascia un po’ che faccia — disse lei alzando le spalle.

Ma seduta così come ella era davanti a lui, sotto la luce viva della lampada, egli, di tratto in tratto, la riguardava. Fu sorpreso dalla sensazione di trovarla più bella, più aurea, più gonfia di quando l’aveva lasciata.

— Sembra che tu mi veda per la prima volta, — e aggiunse sorridendo: — Mi trovi desiderabile?

La domanda innocente dilatò d’un tratto come una macchia impudica. Il volto di lui si fece cupo.

— Be’? Tu non porti mica l’allegria in casa.

— Che profumo è quello che hai? — domandò lui d’improvviso.

— Quello che ho avuto sempre.

— Non è vero! Prima non avevi profumi.

— Sì, sempre!

— No, dico.

— To’ vuoi sentire? Senti! — E gli si appressò, sorridendo, col bel petto gonfio.

— Va! va! — e aveva gli occhi torvi, e si alzò, e andò via dal tinello, borbottando parole che non osava far suonar forte.

*

Quando fu sotto le coltri, il signor Enrico non potè dormire. Tre voci gli cantavano un’insolita ninna-nanna.

Una voce diceva: «Io sono il pensiero che fa piegare le labbra in giù, così che esse non rideranno più.» Una diceva: «Io sono l’insonnia che lima i nervi.» Una diceva: «Io sono il dolore che imbianca le tempie.» E tutte e tre dicevano: «Noi siamo fratelli e giriamo pel mondo. Di fuori nevicava; abbiamo trovato aperta la porta della tua casa, e siamo saliti: eccoci nella tua stanza e nel tuo letto con te!»

Ma la stanchezza era grande, e gli occhi infine gli si velarono. Gli parve aver dormito gran tempo, quando un bagliore lo destò di soprassalto. Era Maria che veniva a letto. E la aveva appena intraveduta, che se la sentì sopra di sè, una coscia gli allacciò la vita, una voce disse:

— Prendimi. Ti voglio!

Egli soffocava: si disvincolò: le mani si abbattevano nel groviglio dei capelli madidi, ampi per tutto il letto.

Riuscì a liberarsi alfine, e balzò dal letto. Ansava.

Si vestì in fretta. Vedeva ora lei col volto fisso, gli occhi vitrei.

— Tu cerchi un àlibi, eh? Tu cerchi un àlibi, eh? — diceva lui con voce soffocata.

— Che àlibi! — Parve alfine capire perchè disse: — Vigliacco!

Uscì dalla camera. A lungo stette a origliare: era lei che piangeva, ma era un pianto soffocato, quasi stritolato per non farsi sentire.

Scese lentamente le scale.

*

Quando fu nella via, respirò meglio.

La notte invernale trasmutava Milano in una città fantastica. I cornicioni, coperti di neve, davano ai palazzi risalti di castelli e badie, e il silenzio era così grande che un piccolo carretto delle verdure rimbombava come fosse stato un carro con torrioni di ferro.

Due o tre viandanti che incontrò, gli vennero avanti tutti in una volta che pareva un assalto, e poi sparirono come ombre dentro la nebbia.

Un tram elettrico che va in piazza del Duomo a prendere i primi viaggiatori, veniva da lontano con un rombo così incalzante che pareva che tutti quei palazzi dovessero crollare; e quando gli fu vicino, le rotaie mandarono scoppi come saltasse una mina e saettavano lingue bianche, verdi, di fuoco, lunghe come tutta la strada.

E lassù dove la rotella della pertica toccava il filo, c’era una stella verde che friggeva fuggendo per il filo. Passò e si allontanò. La visione di luce del tram entrò nella nebbia, il tuono si fece sordo come un brontolìo che si rinserra.

Verso la piazza del Duomo la nebbia era meno densa; e vide ombre bianche che venivano di traverso, saltando su le pozzanghere di neve.

Perchè c’erano quelle ombre bianche? Allora si ricordò che era carnevale. Erano dei pierrots.

Uno suonava il corno che voleva essere allegro; e un brumista, con voce roca di grappa, gridò dal sedile ove era tutto ammantellato:

— Va, suona alla miseria!… — e il corno si allontanò nella torpida nebbia. E andando, udì da un pian terreno venire fuori un valzer con accompagnamento di passi cadenzati. Quel suono lo fermò su la via; e si ricordò che quel valzer lo avea ballato anche lui da ragazzo quando faceva all’amore con Maria. Si allontanò di lì; e quando fu sul corso, sentì sferrarsi un suono di campana, fondo, mattutino, con la vibrazione di un petto di gigante che esala lo spirito e dice: «Io sono il momento che fugge!» Altri quattro rimbombi seguirono a pari distanza, simili al primo, e tutti dissero la stessa cosa. Avea un soffio di umanità quel suono di bronzo in quell’ora. E ciò può avvenire perchè le campane stanno sui campanili, i campanili stanno su le chiese, e sotto le chiese giacciono le legioni dei morti. Ma a quel suono rispose, poco dopo, uno squillo argentino di una campanella che certo doveva stare su di un piccolo campaniletto. Cantò la campanella e si fece sentire per tutta Milano addormentata: «Io sono la campanella e quello è il campanone che cantò or ora all’istante fuggito, e non torna più, mai più, mai più e, din, din, don. don, din, din: ma io canto mattutino: io sono la campanella che sveglio i passeri che dormono nei nidi dei campanili, sveglio i bambini che dormono nelle cune, e sveglio Lolò, e avviso che la notte al fine è passata e da quassù si vede il sole che spunta ormai.»

E lui allora rivide il Monte Rosa, che, quando con la prima corsa, d’inverno, andava al suo stabilimento — su la linea di Como — si vede là in fondo al cielo, come una gran rosa, ai primi raggi del sole.

Voleva entrare in un caffè aperto, ma un battente gli si spalancò e ne uscì prima un tanfo di caldo e poi una compagnia ubriaca di uomini, e di donne smascherate, ubriache anch’esse.

Immergevano le scarpe di raso e le calze sino alla caviglia nella neve, e ridevano. Lo stupì con quanta spensieratezza ridevano!

Dentro il caffè non c’era più nessuno, ma un fortore di vivande, un odore di muschio. Un cameriere gli portò il caffè.

I camerieri intanto con le buone mandavano via un vecchio signore in sparato bianco e pelliccia, ubriaco fradicio.

— Ma io ho i miei diritti….

— Sissignore….

— Li farò valere in tribunale! — e plan, cadeva giù, e i camerieri, sorreggendolo, lo spingevano sempre verso l’uscio.

— Il caffè è luogo pubblico…. io sono libero cittadino…, la legge è uguale per tutti….

— Sì, signor marchese — gli diceva con voce persuasiva il padrone, — tutti i diritti: ma adesso bisogna fare pulizia…. Venga da qui mezz’ora….

— Ah, pulizia…! ah, pulizia…! — borbottò come persuaso ed era giunto verso l’uscio; ma lì si voltò d’improvviso, e indicando ai camerieri il nuovo venuto:

— Ma quello lì rimane?

— Ah, quello lì è un’altra cosa….

— Un’altra cosa? — e fissando due occhiacci, quel bel vecchio con la tuba su la punta del naso, puntava il dito verso il signor Enrico e disse:

— Io sono gentiluomo, pronto sempre ai suoi comandi; quando vuole, di giorno e di notte…. Sissignore — insistè tentando di muovere il passo verso di lui — di giorno e di notte, alla spada o alla pisto….

Ma non riuscì a finire che lo avevano spinto fuori e il battente di vetro si era chiuso dietro di lui.

— Va in su la forca, porco! — gli urlò dietro il padrone.

Allora i camerieri cominciarono con le scope a frugare sotto i sedili, a pulire mettendo a due a due le poltroncine di velluto crèmisi sopra le lastre di marmo.

Un furgone si fermò, e entrò in furia un fattorino con due cestelli di panini alla francese, che lasciavano un odore buono.

Anche un barlume mattutino entrava già dalle vetriate e le lampade elettriche parevano stanche del lungo ardere.

Entrò appunto allora una signora sola che dondolava un gran corpo dentro la pelliccia.

Dal contegno appariva una cliente di quel luogo e di quell’ora. Si sedette ad un tavolo di fronte al signor Enrico.

Due mani abbastanza fini lavoravano a sganciare il fermaglio. La mantella cadde giù: poi si alzò il velo. Era ancora un bel volto di donna in piena, ma non trascorsa età. Una camicetta, di seta granata, disegnava opulenti forme non costrette dal busto; e di fatto, l’oggetto sottile che depose presso di sè, ravvolto in un giornale, verosimilmente era il busto. Si stropicciò le mani, soddisfatta, e al cameriere con gesto lento e con parola placida ordinò questo e quel cibo.

Quando il cameriere le disse che erano arrivati allora allora i panini freschi, parve moltissimo contenta.

Colui ritornò poco dopo con un vassoio; poi portò piattini e vasetti, da cui la signora levò con cura le salse e le conserve che spalmava insieme col burro sui panini. Mangiava una costoletta con l’appetito di persona che è in pace con sè e col mondo, e si sentivano i panini freschi scricchiolare sotto i denti.

Quando ebbe finito, rimase un po’ con la testa in aria curandosi i denti, poi chiamò in fretta il cameriere, e ordinò una vettura. Si ricoprì con la mantella, si levò e rimase alta e pomposa come una bella bestia mammifera presso la vetriata finchè arrivò la vettura. Allora aprì e fuggì via.

— Quella lì — disse il cameriere — finisce la sua giornata sempre verso quest’ora. Viene quasi tutte le mattine qui a mangiare, e dopo che ha mangiato, non bada più a nessuno. Ma una donna seria!

*

Fuori era giorno.

Il sole era montato e avea trionfato su le nebbie: il disco roseo saliva sopra i ricami marmorei del duomo.

 

Al signor Enrico parve di svegliarsi totalmente allora:

«Andiamo, sono un pazzo, io!»

Si fermò un po’ come fa uno che ha un male, e con la mano preme per sentire se duole ancora. «Che uno dei fatti più comuni della vita, quale una moglie che ha un amante, deva dare tanta molestia! Se fosse accaduto a te! Ma non è accaduto a te. Tu hai sognato questa notte!»

Ora ragionava, era più calmo. La luce del sole pareva gli avesse portato via il male. Però ogni tanto pareva che risorgesse un sordo dolore.

Chiamò una vettura e si fece condurre alla stazione per andare allo stabilimento.

Alla stazione provò piacere. Quelle macchine che fischiavano nella fresca mattinata e buttavano il fumo nel cielo perlaceo; il rosso fiammante dell’aurora in fondo alla vetriata; i treni pronti in partenza, avevano dell’allegro: vita che comincia! Anche il sontuoso treno del Gottardo era allegro: lucido, splendido di velluti e di specchi. C’era poi una compagnia di anglosassoni che non si poteva a meno di non contemplare: begli uomini e belle donne: teste alte, faccie sbarbate, rosee e ridenti: le donne loro avevano l’aspetto di buone compagne.

Gente serena, fresca, sana che comincia la sua giornata col sole…. Così era stato sempre anche lui. Ed ora che cos’era successo? Quale malattia lo aveva invaso? La malattia di un’idea mostruosa. Una pazzia, via! «Voglio tornare come prima!»

Dopo che fu partito il treno del Gottardo, partì il suo treno, dove vi sono sempre quegli industriali, cotonieri, setaioli, che parlano sempre delle loro fabbriche, delle loro maestranze, dei loro fili, delle loro macchine, delle trancie, delle cinghie, della selfacting mule; poi dei loro guadagni, dei loro risparmi, delle loro azioni, delle loro signore. E coi risparmi aggiungono altri sheds, fanno venire altri telai, innalzano altre fabbriche, sì che tutta piena è quella landa; e qualcuna di quelle fabbriche risplende dai finestroni di tutti i piani, anche per tutta la notte, come un castello incantato.

E quando era il mattino chiaro, si vedeva il fumo dei lunghi camini delle fabbriche scherzare nel cielo di perla come un ricamo.

Vicino alla fabbrica l’ingegner Enrico M*** aveva fatto, allora allora, costruire una villetta per venire a far campagna; con gran gioia di Maria e di Lolò, e prima di partire per quel suo lungo viaggio, aveva affidato ad un impiegato di sua fiducia, certo Manzi, l’incarico di sorvegliare i lavori di finitura, di arredamento, e di giardinaggio attorno alla villetta.

Ma quando se lo vide venire incontro lungo il vialetto, non ebbe piacere.

Il signor Manzi, chiamato anche Bismarck a cagione della sua testa pelata, delle sue ciglia feroci, dei suoi grigi baffi in giù, era becco cornuto di rinomanza conclamata.

Raccontava lui stesso.

Il disgraziato credeva di muovere l’altrui compassione e non moveva invece che l’altrui curiosità.

Quel buon uomo del signor Manzi mostrava al suo principale le piante del giardino, le piastrelle del pavimento, lo zoccolo di legno nella saletta da pranzo, i lavori di tubazione per l’acqua.

Ma il signor Enrico guardava invece lui, come era fatto uno che è becco cornuto. Si persuase che ci voleva una certa predisposizione. E mentre lo guardava, sentiva una voglia di domandargli: «e come ha fatto lei ad essere…?»

Però quelle due parole che venivano dopo, becco cornuto, contenevano una gaia indifferenza plebea, in contrasto con la severità del dolore che egli provava. Più volte la domanda risalì alle labbra, ma non domandò.

La notte, quando fu solo nel letto, si ricordò di quella parola «vigliacco» che lei aveva detto; poi del suo pianto angoscioso. «Ah, povera Maria!» esclamò. Poi ricordò che ella era di quelle brave donne, come ce ne sono a Milano, che se non ci fossero esse, non ci sarebbero nemmeno le fabbriche: istruite, eleganti, coi libri nel salotto, ma che sanno far marciare anche gli affari.

*

Il dì seguente fece venire Manzi a colazione: gli disse tanti bravo per tutto quello che aveva fatto, e — Manzi, se domani mi venisse il capriccio di portar qui la famiglia, il termosifone funziona bene?

E come ne ebbe buona risposta, stette un po’ e domandò:

— Be’, Manzi, conti su, come è stato che lei….

Un cerchio rosso di lagrime apparve attorno ai feroci occhi di Bismarck; una ouverture abituale.

— Tiremm innanz! — disse Manzi alzando le spalle, e asciugandosi i grossi occhi.

E il signor Enrico sorrise a quella vecchia frase eroica, che strideva nell’accento mezzo meridionale del vecchio.

— Ch’el beva! — disse il signor Enrico.

Bevve, poi disse con rassegnazione:

— Sono cose che accadono.

«A lei, mica a me», corresse mentalmente il signor Enrico.

*

Infine Manzi cominciò a raccontare così:

— Signore, io sono di una città di qui molto lontana. La mia età — non stupisca — è di soli quarantacinque anni. Da giovane non avevo questa fisonomia, nè questo carattere; ero un ragazzo discreto e anche molto allegro. Ero la consolazione dei miei genitori e la gioia degli amici. Sapevo cantare le canzonette napoletane, facevo i ritratti in caricatura, avevo insomma dello spirito come si dice; adesso non ci credo neppur io di essere stato così.

Lei si chiamava Sara ed era una giovane di famiglia forestiera andata a male; mica nobile: ma che si teneva su a furia di superbia e di debiti. Quanto a dote, non portò che il corredo; tutta roba molto fina, ma ricordo la povera mammina che diceva: «queste sono tutte ragnatele; a questa ragazza bisogna farci anche la camicia». Dei suoi genitori e dei suoi fratelli, tutti dati alla bella vita, chi ne diceva bene, chi ne diceva male; ma di lei, di Sara, nessuno poteva dire una parola cattiva. Aveva una gran distinzione di modi che metteva soggezione anche agli uomini. Non era quella che si dice «una bellezza», ma aveva un certo fare, una certa linea che affascinava; le palpebre degli occhi, grasse; e gli occhi ridevano da sè. Nelle feste che si davano al casino dei nobili, anche se aveva un vestito modesto, tutti guardavano lei.

Diventò più bella dopo che la sposai; ed io ho notato che le donne che sono buone mogli, si accartocciano un po’, diventano bruttine; quelle altre, invece, fioriscono meglio.

Il prefetto, un senatore, e altri vecchioni dell’aristocrazia le facevano una réclame più che se lei avesse avuto un milione di dote. La invitavano con la sua famiglia a casa loro e non facevano che spargere la voce del suo spirito e delle sue grazie. Imagini lei, signor mio, se lei avesse degli adoratori!

Anch’io, naturalmente, le facevo la corte a furia di lettere lunghe, quasi una al giorno. «Non ti verrà mica in mente di sposare quella lì! — mi disse un giorno il mio povero babbo —. Non fa per te quella roba lì.»

Un giorno mi ferma lei stessa per la strada e mi dà la mano.

«Via, non si faccia vedere così — mi disse sorridendo, — mi accompagni e andiamo ai giardini, come due buoni amici che camminano pei loro affari.»

Quando si arrivò in un viale dove non c’era gente:

«Ho ricevuto la sua ultima lettera — disse, levandosi i guanti e appoggiandosi all’ombrellino: — è scritta con molta passione e si capisce che lei è un’anima fedele e buona….» E proseguiva: «Sì, io ho bisogno di essere amata così: da un uomo buono e fedele come lei.»

Io allora le domandai se mi voleva bene e lei mi ripose:

«Adesso non le voglio dare questa soddisfazione», e allora io le domandai:

«Ma almeno lei, Sara, sarà buona e fedele con me, è vero?»

Lei mi sorrise e strinse le labbra crollando la testa: «Non abbia molta fiducia in me, io sono anzi cattiva, orgogliosa e molto capricciosa. No, no, mi lasci — e mi tirava via la mano —, è stato un sogno: io sono molto cattiva, le farei del male io: non le voglio far del male.»

Ecco: queste sono state le sole parole sincere che Sara mi abbia detto. Dopo, per anni ed anni, siamo vissuti insieme, abbiamo parlato, ma ci siamo intesi come persone che parlano lingue diverse. Ma lei se le ricordava queste sue parole, e ai miei rimproveri rispondeva: «Io sono stata sincera. Te lo avevo pur detto! Sei stato tu che mi hai voluta.»

Quella mattina, dunque, ai giardini, quando io la sentii parlare così, mi sentii trasfigurato e le dissi delle cose straordinarie sull’amor mio; e lei, dopo, si levò il fazzoletto e si toccò l’angolo degli occhi e disse: «Voi uomini quando amate da vero, siete più nobili di noi altre donne: no, io sono cattiva! Soltanto se mi saprai conquistare, io cercherò di essere buona moglie, come dici tu.» E si allontanò con quel suo passo distinto e languido, ed io rimasi estatico a rimirarla finchè scomparve l’ultimo lembo del vestito; poi diventai come inebriato: quasi avevo piacere di sentire che era cattiva. Dopo l’avrei fatta diventar buona io: mi sentivo un gigante, e la vita che è tanto grande, io ero felice di consumarla tutta per colei. Camminai come un demente per i giardini, e siccome era primavera, mi pareva che tutte le piante e che tutta l’aria avesse il profumo di lei.

Le condizioni della famiglia di lei erano note su la piazza: il padre non aveva più da far fronte agli impegni; liti e disordini in casa, ed io che la frequentavo, ne sapevo qualche cosa. Ma che si fosse al punto da non aver da mangiare, non potevo supporre.

Fu una sera che si tornava da una scampagnata, che lei mi disse chiaro e preciso come stavano le cose. Suo padre aveva il domani una cambiale in scadenza: lei temeva che si uccidesse. In casa, fratelli e padre si erano insultati come facchini e si minacciavano. Lei piangeva nel raccontare: era dolore? era paura? cos’era? io non so, ma quando me la sentii diventare fragile, umile fra le mie braccia, quando lei mi disse più che con le parole, con gli occhi: «Salvami tu, se mi vuoi salva, se no, non so cosa farò di me», io mi sentii un cuore di eroe: perdevo tutto, ma acquistavo Sara.

Poco dopo io presentavo al mio povero babbo diversi campioni di abiti di seta bianca.

«Quale ti piace di più, papà?

«Per che cosa?

«Per sceglier l’abito da regalare alla sposa.» Ero figlio unico; minacciai, e i poveri miei vecchi chinarono il capo. Per fortuna lui è morto prima! Ma lo crede, signor Enrico, che ho dovuto combattere con la famiglia di lei perchè me la dessero? Così, proprio così! I fratelli brontolavano che con un tipo come Sara si poteva fare un affare migliore, che loro erano nobili, che io, in fine, ero un misero possidentuccio e via: e suo padre mi diceva: «Sapete, caro giovanotto, cosa mi costa l’educazione di quella ragazza fra viaggi, bonnes, scuole e una storia e un’altra? Altro che la dote!

Però se proprio non ne potete fare a meno, se lei vi vuole, prendetevela. Io ci aveva fatto conto sopra per la mia vecchiaia, ecco tutto: perchè nei maschi c’è poco da sperare.»

Anche l’abito di seta ha una storia! «Quegli abiti da sposa — diceva la povera mamma — che poi si conservano tutta la vita, e si mettono quando si muore….»

«Brrr! — fece Sara. — Bastava un abito tailleur da montare in treno dopo la cerimonia.»

 

Tuttavia per accontentare i miei, ella si fece l’abito da sposa, e diceva che era diventata come le Madonne vestite dai preti.

Sara entrò poi in casa dei miei: una casa alla buona, all’antica, con vecchie cose, vecchie abitudini. I miei genitori capirono che era inutile far recriminazioni. Sopportarono tutto. Quello che devono aver sofferto non me lo hanno detto mai: ma io, signor Enrico, vorrei che ci fosse l’altro mondo soltanto per domandare a loro perdono dei dispiaceri che ho dato. Papà campò poco, come le dicevo, ma lei, povera mammina! Io era innamorato di mia moglie, ed ora che la possedevo, mi piaceva più di prima.

Qualche volta, in segreto, accarezzavo la mia povera madre come per compensarla di tutti quei sacrifici. «Basta che lei ti voglia bene e che tu sia felice», mi diceva con quella sua voce melanconica. Del resto, per i primi anni, di Sara non si potè dir nulla; fu madre buona e fu moglie fedele; sicuro già che per vivere in pace bisognò far tutti e tutto a suo modo.

A tavola, per esempio, serviva da anni una vecchia domestica che faceva di tutto; lei trovò che era poco pulita, che ci voleva la cameriera col grembiule bianco, e allora la vecchia serva venne relegata in cucina, ed era tutt’al più destinata a lavare le calze. Quelle calze! In casa nostra non sapevano nemmeno cosa fosse il tè. E venne il tè e vennero anche le signore a berlo. Avevamo in casa una stanza da ricevere all’antica, e lei trovò che non era gemütlich, una cosa che noi «gente zotica» non potevamo capire. Si spese molto a renderla gemütlich. Il mio povero padre era abituato, d’estate, a stare alla buona a tavola: si metteva in maniche di camicia, e, dopo pranzo, fumava la pipa. Lei trovò che ciò era poco conveniente; osservava che a casa sua i suoi fratelli erano abituati a far toilette per andar a tavola. Poi trovò che vicino alla stanza da letto ci voleva la vasca per il bagno, e venne la vasca.

«Ciò che non è molto pulito non è morale» ripeteva Sara.

Vecchie masserizie, vecchie costumanze: il pane fatto in casa, il bucato in casa, le galline nel cortile, il caldanino d’inverno, producevano a Sara un fastidio che non si dava più nemmeno la pena di nascondere.

La piccola economia domestica che, prima, permetteva dei risparmi, ora non bastava più. «Non sei buono a farti sentire? — diceva la mammina. — Ma che marito sei?»

Spasimando, con lunghi discorsi, cercavo di farle capire la necessità per lei, per noi, per nostro figlio — perchè avevamo anche noi un bambino — di vivere più modestamente. Cercavo in tutti i modi di penetrare nel suo cervello; ma sentivo che sotto c’era come una pietra, dove si spezzavano tutte le mie ragioni.

«Vuoi che vada a domandare i denari ai tuoi amici?»

Ella aveva l’intelligenza delle parole brutali. Io le elencavo tutte le cose superflue della sua toilette.

«Via, che se io non fossi così, non ti piacerei come ti piaccio….»

Ella, così prude, così osservante di tutte le convenienze, aveva nell’intimità scatti di impudicizia che mi atterrivano. Ah, signore! signore!

La vita, in casa, divenne un terrore. «Nemmeno il diavolo la doma più», diceva la povera mammina.

Lei ripeteva a me: «Tu hai tradito la mia vita!»

«Ma io l’ho pure questa forza di sacrificio!» le dicevo io.

«Ma a te nessuna donna ti guarda, io invece….»

Allora io tremavo tutto, e le facevo lunghi ragionamenti.

«Sì, sì, — diceva lei —, va alla messa.»

La minacciai di scacciare di casa. «Guarda — mi disse — a quello che fai! guarda a quello che dici!»

Io insistetti: mi pareva di far bene ad insistere. Ma non avevo fatto il calcolo esatto su le mie forze e allora ho detto una parola che non dovevo dire, ma l’avevo nel cuore e la dissi: «Vattene, sì!»

«Allora me ne andrò, ma tieni a mente che non sono io che vado, sei tu che mi scacci: io sono una donna che so quello che faccio; io non sono come le altre che vanno in chiesa e hanno l’amico; io sono una donna diversa, il mio uomo, io: tu puoi andare a fronte alta di tua moglie. Ma tu mi scacci, tièntelo a mente!»

Lei preparò per due giorni le valige con molta calma: io non dissi più nulla.

La sera condussi a spasso il bambino, povera anima! V’era come un tàcito accordo; lei sarebbe partita: il bambino sarebbe rimasto con me, ed io lo condussi fuori perchè non si accorgesse della partenza della mamma, a cui lui voleva un gran bene.

Era quella una sera fredda e nera d’autunno, e l’ho qui nella mente: andammo fuori di porta, io e il bambino; camminammo sotto i platani che stormivano per il vento e cadevano sul capo le foglie dei platani. Io lo tenevo per mano, avrei voluto parlare, ma non sapevo cosa dire.

Tenevo la sua mano dentro la mia e non parlavo: ad un tratto lo sentii piangere. «Perchè piangi? non sei contento di andare a spasso col tuo papà?» Lui avea sei anni. Mi ricordai tutte le cose che egli desiderava: cioè la bicicletta a tre ruote, il cavallo che dondola, la macchina che fischia e cammina da per sè; e io gli promisi che gli avrei comperato tutto. «Ma perchè piangi?» e lui piangeva senza spiegarsi, e quel pianto mi metteva nell’anima un gran male. Allora lo minacciai; là nel buio, minacciai di percuoterlo. Ma al lume di un fanale che faceva luce a una Madonna, lo scorsi pallido pallido, esterrefatto, tremante davanti a me. Io dovevo aver parlato con grande ira e non me n’ero accorto.

Mi cadde l’animo al vederlo così e mi vergognai: era lei che io avrei voluto percuotere  a morte e invece stavo per percuotere lui, l’innocente. «Perchè piangi?» — «La mamma!» singhiozzò con uno scoppio di passione che mi fece quasi paura. «Vuoi veder la mamma?» Fece cenno di sì, e vedendo che io acconsentivo, mi prese lui stesso per mano e mi tirava, e mi ricordo che il vento ci era di fronte, un vento forte e lui tirava e diceva: «Fa presto, papà, la mamma va via!» Così facemmo tutto il viale sotto i platani che si rabbuffavano indietro sul nostro capo.

Io no, no! non le avrei mai detto di restare: morire piuttosto: al punto in cui erano le cose, no! ma speravo nel bambino: si sarebbe commossa alla sua vista e sarebbe rimasta. Per questa ragione lo ricondussi.

Entrammo in casa. Lei aveva disposto le valige e attendeva la carrozza per andare alla stazione. Io tremo anche oggi a pensare a quella notte.

Mia madre coi capelli scarmigliati, con le braccia in croce davanti alla porta, diceva:

«Di qui non si passa: è casa mia!

«Via, vecchia megera, pinzochera, voglio andar via da questa casa maledetta — diceva lei.

«No, non va via una sposa giovine, di notte!

«Ho il mio orgoglio che mi difende, via da questa casa maledetta.»

E le sue mani minacciavano. Io la presi allora perchè non nuocesse a mia madre, la strinsi forte su di me e lei mi graffiò il volto e mi lacerò i capelli.

«Andrai via domani, senza scandalo!» le dicevo con sarcasmo, piano, all’orecchio. «Sì, ti voglio mandar via: ma domani!» Avevo anche io un demonio che mi tradiva. Il bambino aggrappato alle sottane di lei, faceva pietà; supplicava me, supplicava lei con una voce che quando morirò la sentirò ancora, ma lei, lei non l’udiva.

Ma ricordo una frase orribile e strana in un bimbo, che pronunciò in quella sera. Pallido, con la testolina che crollava indietro come avesse avuto il tetano, aggrappato a noi, diceva: «Ma allora io voglio morire, fatemi morire!» Ed ella non udiva. E pochi mesi prima lo avevamo vegliato io e lei nel suo lettuccio, perchè era ammalato!

Fuggì quella notte e portò via mio figlio.

La mattina seguente io e mia madre ci guardammo come smemorati, senza dir nulla. Io la volli confortare e le dissi: «Meglio così, tutto è finito!» I primi tre giorni, sotto l’eccitamento del fatto, mi sembrò di essere quasi contento: poi cominciai a perdere il sonno, a fissarmi in Sara. Io e mia madre ci incontravamo come due fantasmi nella vecchia casa. La stanza nuziale venne disfatta: io mi volevo mostrare assai calmo. Ma tutto il giorno non parlavo, a tavola non parlavo, il cibo mi andava via dalla gola come avessi avuto il vomito. Cominciai ad ubbriacarmi, per sistema, il giorno e la notte a prender l’oppio per dormire. Ma l’oppio, se mi buttava giù nel letto per una mezz’ora, dopo mi svegliava con un riscossone e con gli occhi aperti come ci fosse stata una molla a tenerli su: così rimanevo tutta la notte.

E perchè capisca in quale stato io ero, a ogni treno andavo come un sonnambulo alla stazione perchè speravo che tornasse, che si fosse pentita, che avesse compreso quale grande delitto avesse commesso di abbandonare la casa del marito a cui aveva data la fede.

Andando alla stazione, questionavo con me stesso per decidere se le avrei perdonato: finivo sempre col perdonarle, ma era lei che non tornava. Dicevo fra me: «Una donna divisa così dal marito, rimane vituperata.» Non pensavo che il vituperio del mondo può cadere su una donna debole o brutta: ma su una donna bella e forte come era Sara, non cade insulto; il ridicolo, quello sì piove sull’uomo! Allora diventavo furibondo e dicevo: «Ti farò citare davanti al tribunale, ti farò svergognare come una madre, una moglie che abbandona il marito.»

Sara mi mandò due lettere da un paese lontano della Svizzera, con le insegne superbe di un hôtel. Nella prima mi spiegava col solito orgoglio la sua condotta precisando a suo modo i fatti e mi dava notizie del bambino «giacchè di questo — scriveva — ne avete il diritto», e mi domandava poi i suoi gioielli. Era partita con quasi niente di denaro. Io non risposi. Nella seconda, domandava tutti i suoi abiti ed aggiungeva che tutto (ed  ra sottolineato) anche fisicamente, era finito fra noi due e che se anche lei avesse voluto, non avrebbe più potuto vivere con me: e che io «le facevo ribrezzo!»

Allora, ma solo allora, pensai a quello a cui non avevo mai fino allora pensato: «la tua donna si infila nel letto con un altro, ridendo.» Allora diventai pazzo. Sarei partito in quell’ora stessa che ricevetti la lettera, ma non avevo i soldi, capisce? li dovevo rimediare; e intanto le scrissi una lettera in cui mi umiliavo e che fece pietà a me stesso, tanto che non ebbi coraggio di rileggerla.

Lei mi rispose dopo una settimana così: «Mi dispiace che tu sii ammalato, ma se tu sei uno squilibrato e uno più buono a niente, non è questa una buona ragione perchè io, che ora mi sento assai bene e ho molta voglia di star bene, debba tornare ad unire la mia vita alla tua. Il bambino sta benissimo. Poscritto: La mia coscienza non ha bisogno del tuo perdono».

Allora io dissi a mia madre: «Io voglio andare a riprendere il bambino che mi portò via come un ostaggio; non posso vivere senza di lui!» — «Va, e riprendi anche lei — mi disse la mamma — Tu così ti rovini la vita, figlio!»

Partii e dopo due giorni di viaggio in terza classe, giunsi in Svizzera, in quel paese. Era un hôtel che aveva quella grand’aria di lusso che era stato sempre negli istinti di Sara. Incontrai signori e signore superbe davanti ai quali il mio aspetto era una viltà: cameriere in cuffia e camerieri in sparato bianco, che parlavano una barbara lingua, ma al cui confronto le dolci mie parole italiane suonavano come un’umiliazione.

Mi vergognavo di dire il mio nome, di dire a quei camerieri che io ero marito di quella signora lì sola in quell’albergo. Dissi che ero un parente, ma dal contegno di quella gente capii che aveano letto in volto la mia vera qualità, e mi fecero entrare nella stanza di lei benchè fosse mattino.

Mia moglie si puliva i denti. Mi guardò senza nessun turbamento. Seduto sul tappeto, per terra, c’era il piccino che si metteva le scarpe e mi guardava con occhi meravigliati, e non disse nulla.

«Sei tu? non ti aspettavo!» pronunciò con voce tranquilla: ma poi guardandomi,  mi dovette trovare molto stravolto, perchè mi domandò con voce che era divenuta incerta e paurosa suo malgrado:

«Sarebbe interessante di sapere cosa sei venuto a fare qui.»

Anch’io ero determinato ad essere calmo, giacchè nel viaggio avevo prestabilita la mia condotta, benchè il cuore e, ho vergogna di confessarlo, i miei sensi mi spingessero a domandarle perdono. Era l’ultima riserva della mia energia di uomo che lanciavo: e aveva così stabilito di fingere, di volere una separazione per via legale, e intanto portarle via di sorpresa il figlio.

Mi sedetti su di una poltroncina e le parlai in questo senso.

«Oh, benissimo», diceva lei senza voltarsi dallo specchio.

E vedendo il letto, disfatto, chiesi:

«Si deve dormire molto bene in questi letti.»

«Stupendamente…, sonni profondi: permettete….» e si slacciò il bottone della camicia per lavarsi.

Quell’atto mi ricordò di una sua frase abituale, cioè che una signora per bene davanti al cameriere si può anche slacciare perchè un cameriere non è un uomo. Fremetti, e senza muovermi dalla sedia, pronunciai quella parola semplice che molti di noi crediamo sia un’offesa: Puttana!

«Cosa dici?»

E io ripetei quella parola. Lei alzò le spalle ed io nello specchio vedendo il suo volto mi parve che a fior di labbra mormorasse: «Stupido!»

Il cervello mi si infiammò di furore; ma una cosa più grande succedeva: io vidi, quasi con questi occhi, materialmente, la mia casa che crollava. Lei sa, è vero? Quando la casa muore è come quando moriamo noi. E allora il resto che vale?

Il piccino aveva finito di mettersi le scarpe, ma male.

«Perchè non l’aiuti tu ad allacciarsi le scarpe?» le domandai.

«Perchè io non faccio la serva a mio figlio!»

In quel punto bussarono alla porta. Trasalii. Ella disse tranquillamente, facilmente in tedesco, come se quella fosse stata sempre la sua lingua, di entrare. Entrò la cameriera col vassoio: era la colazione col burro, la confiture: una cosa splendente, grandiosa.

Il bambino parlò allora per la prima volta e disse: «Qui, vedi, papà, si mangia bene; sempre burro, cioccolata, dolci; mica come là dalla nonna! se poi vedessi a pranzo che tavola grande, sempre coi fiori, e quanta gente, quanti piatti, oh! È molto bello così!»

Una voce immensa nel mio cuore mi veniva su e voleva dire a Sara: «Torneresti a casa?» Ma ebbi pudore di pronunciare il nome di mia madre davanti a lei. Soffocai quella voce e la pregai di vestire il bambino che lo volevo condurre a spasso. Volevo portarlo via subito. Lei lo vestì, e disse: «Ecco pronto.»

Siamo usciti io e il bambino.

Ma quando fui nel corridoio, camminai in punta di piedi e poi mi fermai: un’illusione, pazza da vero, mi teneva incatenato lì nel corridoio, cioè che lei mi richiamasse indietro. Ritornai invece io indietro, origliai e sentii il rumore del busto. Sara continuava in pace la sua toilette.

Nell’albergo c’era un giardino con grandi alberi puliti e molti sedili.

Io conduco qui il bambino e parliamo.

Lui mi raccontava tutti i piatti che si mangiavano alla table d’hôte. «Vuoi tornare dalla nonna? — dissi io con le lagrime. «Sì, se mangeremo ancora tanti dolci come qui.» E parlava ancora, quando a un certo momento scappò via. Era corso via! Sotto un albero c’era un giovane signore che lo prese fra le ginocchia.

Io guardai.

Il bambino, dopo, corse ancora da me, e quel tale si alzò e si allontanò.

«Chi è quel signore? — domandai.

«Quello che tiene sempre compagnia alla mamà! — mi rispose il bambino.

Allora risalii da solo le scale, e irruppi nella stanza di Sara.

«Chi è quel signore che ti tiene sempre compagnia?»

Il suo volto diventò brutto. «Ci mancava anche questa per fare il terno», sentii che disse, e poi non so più nulla. Urlò. Venne gente, mi strinsero, mi strapparono una rivoltella.

Mi hanno fatto poi il processo per mancato omicidio. Mi hanno fatto vedere il revolver con una pallottola di meno. Sarà anche stato, ma io non me ne sono accorto. Basta, dopo fui assolto; ma da allora diventai come stupido, con una gran debolezza di nervi. Poi, col tempo, mi sono rifatto; cominciai ad andar fuori di casa mentre prima mi vergognavo: ma non mi curavo più di niente. Bisognava che mia madre mi mettesse lei la biancheria sul letto perchè io la cambiassi. A lei, a Sara, però ci pensavo spesso: mi ricordavo il grande albergo dove l’avevo trovata; vedevo i vassoi d’argento, le tavole coi fiori e altre cose vedevo, e dicevo: «Già lei era nata per questa gran vita.» E per una certa lucidezza mentale, mi ricordavo di certe sue frasi come questa: «Che colpa ho io se piaccio agli uomini?» E allora provavo come dei brividi di desiderio, e con stupore dicevo: «Sì, cara, se tu non vuoi sporcarti le mani, li laverò io i piatti: ma torna con me.»

Due o tre volte all’anno per Natale, per Capodanno, ricevevo un biglietto del bambino, in cui mi diceva che lui stava bene.

Adesso glielo dirò: si sente dire e si legge, o signore, che una via, come quella battuta da mia moglie, conduce di gradinoin gradino alla abbiezione. Quasi me lo auguravo di trovarla degradata e in miseria pur di riprendere la vita con lei e con lui.

Seppi che lei era a Roma. Andai dunque a Roma, girai, domandai e un dì vidi pel corso una figura di donna, che assomigliava a Sara. Quei cinque anni di strazio, che mi avevano distrutto anima e corpo, non erano passati per lei. Era come prima, solo un poco più matronale. Da prima non mi conobbe, ma poi la mia vista o la atterrì o la commosse, perchè mi accolse benevolmente, soltanto non potè a meno di dire: «Come siete invecchiato!» E mentre eravamo lì fermi sul marciapiede fra la folla, mi accorsi che due o tre signori di molta distinzione la avevano salutata. Lei mi invitò a salire a casa sua, e camminando fra quella calca, io mi vedevo negli specchi delle vetrine, miserabile e vecchio dietro di lei.

Arrivammo ad un palazzo. Il portinaio di quella casa la salutò levandosi il berretto e guardò me come a chiedere: chi è costui?

«Potete salire senza timore per la vostra rispettabilità — disse Sara con ambiguo sorriso — qui abitiamo noi soli.»

Il giovanetto, nostro figlio, domandava piano a lei:

«Chi è? È il papà quello lì?» e lei faceva cenno di sì, e raccomandava di star zitto.

Era un appartamentino piccolo, ma messo bene.

Io mi misi a piangere e benchè mi frenassi, non potei impedire al singhiozzo di prorompere.

«Perchè piange il babbo?» «Per il piacere di vederti» lei disse, e a me disse piano: «Adesso parleremo, ma vi prego, niente tragedie; ne ho avute anche troppe!»

«Adesso tu va a studiare» — disse poi al figlio —; «e se volete….» — disse a me: ed entrammo nella sua stanza dove c’era un lettino bianco, delle poltroncine bianche.

Prevenne le mie domande: viveva — diceva lei — dando lezioni di tedesco e di piano.

Dissi io allora queste parole: «Ma il giuramento di fedeltà che tu hai dato….»

Ella chiuse gli occhi, posò la mano su la fronte, disse…: «Parlando con voi ho l’impressione di parlare con un revenant d’altri tempi….»

Nel mio paese, signor Enrico, c’è un fiume dove non hanno mai potuto piantare le palafitte per mettervi un ponte; la melma è tanta che le travi non sono mai arrivate a trovare il sodo e un giorno un manovale, che con una lunga pertica volle scandagliare quel fango, vi si sommerse e non l’hanno più ritrovato.

Io ero realmente un fantasma. Per riconquistare Sara sarebbe stato necessario che io fossi apparso giovane, forte, terribile.

Mi sentii come recidere i nervi, e allora udii queste sue parole: «Dopo tutto, i soli momenti di gioia della vostra vita sono io che ve li ho dati.»

Venne la cameriera e bisbigliò non so che a Sara.

«Ah, sì! me ne ero dimenticata. Io sono desolata, — disse a me, — ma sono venuti a prendermi per una conferenza….»

Mi buttò sotto gli occhi un cartoncino: Sotto la presidenza di S. A. R…, ecc., l’illustre conferenziere, ecc., parlerà oggi alle tre sul fenomeno del femminismo presso i popoli latini e presso i popoli germanici.

«Vostro figlio è là, potete stare con lui» — disse uscendo.

Io mi alzai come un uomo straniero che è in casa altrui.

Però dissi: «Allora sono io il debitore verso di voi.»

«Abbiate pazienza, ne riparleremo. C’è giù la carrozza che aspetta.»

Entrai nella camera di mio figlio.

Era tiepida e profumata di lindura la stanza di mio figlio, ma io sentivo un senso di gelo. «Cosa fai?»

«Il compito di latino.»

«E questa è la tua stanza?»

«Sì, ti piace?»

«La mamma è buona con te?»

«Molto buona, ma anche molto severa.»

«Dici le orazioni?» — domandai vedendo un Cristo sopra il capezzale del suo letticciuolo.

«No, cosa sono le orazioni?»

«E allora perchè tieni quel santo?»

«Perchè mamma trova che sta bene.»

«Che classe fai?»

«La seconda ginnasiale.»

«Studi?»

«Sono uno dei primi.»

«Allora ti piace il latino….»

Fece una smorfia. «Tutti a scuola diciamo che è inutile. Anche il senatore dice così, e speriamo nella caduta del Ministero.»

«Allora perchè studi il latino?»

«Ah! per la bicicletta: la bicicletta for ever!»

«Ti ha promesso la mamma la bicicletta?»

«No, il senatore: quello che adesso è venuto a prendere la mamma. Ne ha dei soldi….»

Uscii in silenzio da quella casa di marmo.

Non ci siamo più riveduti: c’erano dei morti fra me e lei; ed anche quelli che erano vivi erano come morti.

*

Questo fu il racconto del signor Manzi, detto Bismarck.

Questo racconto fece bene al signor Enrico. Quando si è come Bismarck, si capisce che accadano certe cose.

Una lettera di Maria, mandata di premura, dove lo pregava di dargli spiegazione della sua «inesplicabile» condotta, gli fece molto bene: più del racconto di Bismarck.

Ci pensò la notte: un ufficiale profumato; lei profumata; e per questo? Quell’assalto notturno di lei, nella notte, piuttosto! Ma ora ricordava: lo aveva letto in treno, in uno di quei fascicoli di novelle che vendono alle stazioni: di una moglie, che per crearsi un àlibi, si butta sul marito come una meretrice. Effetti di suggestione! Mai leggere novelle!

*

Ritornò a Milano il dì seguente verso le cinque.

La quale è placidissima ora.

Le ampade elettriche splendono nel cilestrino crepuscolo come lune: i bars si riempiono; e le donne mondane uscite dal diurno riposo, dondolano sui marciapiedi come navi pronte a slegare gli ormeggi.

I negozi dei pasticcieri rigurgitano di leccornie, e l’aria è qua e là pregna del caldo profumo delle carni in istufa presso gli aristocratici salumieri.

Entrò dal pasticciere per comperare qualche dolce per Lolò; e per l’appunto ad una parete del negozio era affissa una réclame per il romanzo d’appendice di un giornale cittadino.

Il cartellone réclame rappresentava un signore seduto che si puntava alle tempia una rivoltella con la tranquillità di uno che si netta le orecchie. Alla detonazione entrava una bambina e su la porta si affacciava una signora elegante, nell’atto di esclamare con garbo: Orrore! Il titolo del romanzo era: «L’onore del marito».

Allora provò un dolore lancinante. Ma non era guarito?

Quella stupida réclame!

*

Maria stessa venne ad aprire e lo baciò come era solita.

— Dopo pranzo ne parleremo, — disse il signor Enrico.

— Come vuoi tu; ma Lolò è molto impermalito verso il suo papà. Lolò domanda perchè non sei venuto a casa ieri sera, vero? — e difatti Lolò ebbe seri rimproveri verso suo padre e soltanto i dolci ebbero la virtù di fargli fare la pace.

Quando Lolò fu andato a letto:

— Adesso avrai la bontà di spiegarti, è vero? — ripetè Maria.

— Sono ritornato per questo, ma da te aspetto una parola sincera; — e cominciò a raccontare con voce lenta, ma non così tranquilla che le labbra non tremassero, tutto l’inferno di quella notte.

E Maria recingendo a forza il collo di lui, posò il suo volto presso il volto di lui, e la sua gracilità femminea si avviticchiò al petto di lui e cominciò a singhiozzare prima, poi a piangere dirottamente, e piangeva soltanto.

— Be’? Cos’è questo pianto?

— È una cosa orribile! Un ufficiale, tu hai detto? un ufficiale di artiglieria….

— No, di cavalleria.

— Che guardava in su. Scusa, e a che piano? Ah, e poi il profumo. Anch’io ero profumata! Ma avevo fatto il bagno poche ore prima. Domàndalo a Marta. E non hai altro? Ah, perchè dopo, quando tu eri a letto, ti ho svegliato…. Ah, Enrico! proprio non capisci.

Ed ella riprese a lagrimare, e accostava a lui la faccia lagrimosa.

Ma egli le faceva dolce violenza allontanandola.

— Non son mica Bismarck, sai io — diceva.

— Chi, Bismarck?

— Un disgraziato, laggiù nella fabbrica, che mi ha raccontato una sua storia. Non sono mica un sentimentale, io. Io, quando arrivo, taglio netto.

La notte fu convulsa. Egli sentiva la mano di lei, che ogni tanto si posava su di lui, un po’ materna, un po’ carnale come si fa quando uno è infermo, e si sente se ha la febbre. Un soffio di voce diceva con la accoratezza, con cui avrebbe parlato a Lolò: «Dormi, caro, non ti tormentare.»

Si addormentò alfine. Ma un riscossone dàtogli, non sapea da chi, lo destò.

Maria dormiva placidamente.

Si sentivano passare per la via i primi carri. Dunque era mattino, oramai.

Stette eretto su di un gomito a contemplare la sua donna dormente. Al riverbero della lampada notturna, vedeva la testa di lei composta in pace sull’origliere. Stette così a lungo e il suo cuore aveva degli arresti come per il timore che un nome, un lamento uscisse rivelatore dalle labbra di lei.

Dormiva composta in pace.

Ma così contemplando la sua donna, la imagine di lei gli si sdoppiò. Ella era composta in pace; ma i capelli erano scomposti. I capelli erano svegli; si rigonfiavano su l’origliere, e, fosse effetto del tremolar della lampada, essi parevano muoversi con quell’ondulamento che hanno le serpi: invadere il letto. Maria era innocente, ma i capelli erano peccaminosi. Sotto le ascelle, giù nel pube pur vigilavano crini peccaminosi.

Provò come un impulso folle di denudarla d’un tratto buttando via le coperte: poi di stritolarla quasi contro di sè.

Ma si rattenne. Si ricordò di Bismarck. Si ricordò di quelle parole che Bismarck aveva riferito: «dopo tutto i soli momenti di gioia della vostra vita sono io che ve li ho dati».

Quelle parole della donna vincevano tutti i ragionamenti dell’uomo. La donna, che non ha nome, nè Sara, nè Maria, ma la donna.

Allora per non cedere alla tentazione, uscì lentamente dal letto.

*

— Truce! — fu il saluto di Maria al mattino quando egli entrò nella sala da pranzo dove già la tavola era preparata per la colazione, e in mezzo di essa in un vasetto di cristallo trasparente, vi erano alcune rame di calicanto che diffondevano un olezzo come di neve profumata.

E dal caminetto ove la legna scoppiettava in rosse faville, ella gli era venuto incontro porgèndogli le mani e le aveva spinte contro le labbra di lui perchè le baciasse. — To’, bacia!

— Truce! — e sorrideva ansiosamente guardandolo. — L’uomo ha bisogno di essere allegro, se vuol lavorare, — disse lei. — Lo sai?

E terminò dicendo: — Un’altra volta, se devi andare via, mi condurrai con te. Questo è quanto!

Allora, d’improvviso, lui disse: — Via! Prendi la tua roba, quella di Lolò. Qui si chiude casa; si va a stare a ***, alla fabbrica.

Gli pareva come una prova.

— Oh, alla grazia di Dio! Lolò, Lolò, lo sai? Si va a stare in campagna. Così si farà almeno colazione tutti insieme.

E Lolò che aveva ascoltato tutto quel discorso con grande attenzione, concluse lui nel modo che gli sembrò più conveniente; saltò su la sedia ed esclamò: — Un bacio! un bacio!

— Un bacio a chi?

— Al papà.

La signora Maria si era levata dalla sua sedia e fattasi presso al signor Enrico, lo avea baciato su la fronte.

— E perchè il papà non ti ha dato anche lui il bacio? — chiese Lolò.

— Perchè lui è il padrone, e dà i baci quando vuole.

— Anche di me è il padrone?

— Certamente di me e di te; non vedi, bambino mio, che occhi terribili?

Ma la felicità di Lolò non ebbe più limite quando seppe che, in campagna, avrebbe avuto un giardino interamente a sua disposizione. Per il bambino andare in campagna equivaleva a vedere la primavera anche prima del tempo.

*

10 marzo.

— Sei malinconica, sei distratta, sei strana. Ma cos’hai?

— Come una rivoluzione si compie dentro di me. Ma un po’ è anche colpa tua, di voialtri uomini, ecco….

— Sarebbe a dire?

— Che soltanto adesso, qui, vedo chi sei, quello che fai, quello che vali. A Milano? Io ti vedevo, a Milano, andar fuori di casa il mattino e tornare a casa alla sera, quando tornavi: sapevo che tu guadagnavi del denaro, ma e poi? «Maria, vuoi quella pelliccia? quel vestito? quei gioielli?» Così, come per una bambola. E si finisce col diventar bambole.

*

Così nell’ora che il sole tramonta su la campagna, venivano ragionando i genitori di Lolò, ed erano arrivati davanti al cancello della villetta dove, nel giardino, era Lolò e Bismarck.

Il giardino era libero dalla neve, e apparivano le aiuole co’ loro disegni e co’ loro rilievi: la terra era stata mondata col rastrello e col vaglio dai piccoli sassi.

— Mamma — esclamò il bambino — imparo anch’io a fare il giardiniere: è il signor Bismarck che mi insegna, e questa sera si pianteranno gli alberi delle mele e delle pere!

Il signor Manzi aveva in mano tre magliuoli, e disse: — Sono qui da un’ora a spiegare che non sarà possibile domani cogliere i frutti. Ma lui prende dell’erba, delle foglie e dei rami e li pianta in terra così come sono.

Ma tutto muore così!

*

15 marzo. (Giorno di azzurro e di sole senza vento. Lolò e Bismarck vanno per il sentiero di bianco spino. Nel cuore più che nell’aria è l’odore della primavera).

Dice il vecchio Bismarck: — Piccolo Lolò, guarda quell’uccellino con la testa bianca che salta sempre, che strilla. Quella, vedi, è la cìncia, la cìncia allegra, la prima che viene ad annunciare la primavera. Senti? Pare che faccia dei complimenti, dei ringraziamenti, che dica: «Io sono tanto felice!»

— A chi dice così?

— Forse al sole.

— E dopo?

— Dopo verranno le rondini con un bell’abito bianco e nero. Poi verrà il rosignolo.

— E che cosa fanno?

— Cantano e vivono. Adesso guarda quest’alberino di mandorlo, come è grazioso con tutti quei bei fiorellini bianchi: beve il sole senza vento.

— Beve il sole senza vento? E quelle brutte bestie, lì ferme, cosa fanno?

— Le lucertole? Bevono il sole e vivono.

— E allora perchè, se tutto vive, si dice che c’è anche la morte?

— Questa, bambino mio, è una brutta parola: ma gli uccelli, le piante, non lo sanno.

— Quando anche tu, Bismarck, eri bambino, tuo papà ti conduceva intorno a vedere la primavera, anche a te?

— Sì, Lolò.

— E perchè adesso piangi?

— Perchè io non sono come la cìncia.

— Io sì! Io voglio essere sempre allegro come la cìncia.

*

19 marzo. (Nel giardino: dopo che la sirena della fabbrica ha dato il segnale che la giornata è finita).

Bismarck a Lolò:

— Quale è, piccolo Lolò, la cosa più bella che ti piacerebbe di vedere?

— I peri ed i meli del mio giardino quando avranno i frutti, ed io li mangerò.

— Bambino mio, ce n’è una anche più bella: tua mamma e tuo babbo che si vogliono bene. Li vedi laggiù?

*

24 marzo. (Nell’ora del tramonto: nel giardino).

— Va su, Lolò, nella mia stanza a prendermi le forbici nel cestino da lavoro.

— No, io solo, no, io solo non ci vado!

— Vede, signor Manzi, che inesplicabili terrori? Guardi, si è fatto pallido, trema tutto; è un fenomeno impressionante.

— No, mamma, non ci vado solo. Ho paura, ho paura: la biscia!

— Lolò ha veduto una biscia, signor Manzi?

— Mai, che io sappia: qui di biscie non ce ne sono. Perchè, piccolo Lolò, non vuoi ubbidire alla mamma? Di sopra non c’è nessuno. Vedi? Tutte le finestre sono aperte, noi ti sentiamo di quaggiù. Va dunque, ubbidisci.

La signora aggiunse: — Lolò, voglio che tu ubbidisca.

Ma il bambino trema tutto e l’occhio si fissa su di un punto con un’espressione di terrore.

— Aspettiamo un po’ e poi vediamo di persuaderlo con le buone — disse Bismarck.

— Aspettiamo; ma non voglio che si abitui pauroso. Ora però mi ricordo che altre due o tre volte si è destato in piena notte, d’improvviso, con un urlo disperato. Lo abbiamo preso nel nostro letto, io e suo babbo: abbiamo acceso il lume e gli abbiamo fatto vedere che non c’era nessuno fuori che noi due. Stava con gli occhi dilatati e guardava sui cuscini, fra le coperte del letto. Una pena! Ora il fenomeno si ripete. È strano, di giorno…. Ma non lo dica a mio marito. Lui, Lolò, quando gli è passata, non se ne ricorda più.

— Di’, Lolò — disse il signor Manzi —, vuoi che andiamo insieme di sopra a prendere le forbici della mamma? Ti farò vedere io che non c’è proprio niente.

— Se mi prendi in braccio; se mi terrai su in alto, ma alto!

— Dev’essere quella stupida della Marta con le sue storie del serpente, del diavolo, dei santi….

Così disse la signora, mentre Manzi sollevava il piccino.

— Così in alto, sei contento? ma non mi stringere il collo. Adesso entriamo: queste sono le scale, guarda! questa è la sala da pranzo, vedi? non c’è nessuno, lo vedi? guarda qui: questa è la stanza da letto del babbo e della mamma. Vedi tu niente? Niente, e allora di che cosa hai paura? Ecco le tende….

— No, le tende! no!

— Ma non urlare, ma sta quieto, bambino, dietro le tende non c’è niente.

— Sì, c’è la biscia, non toccare: c’è!…

— Ma dove l’hai vista?

— Nel giardino….

— Ma no, bambino mio, nel giardino non ci sono biscie, io lo so.

— L’ho vista, ti dico che l’ho vista.

— È stata la Marta a raccontarti la storia della biscia?

— No!

*

27 marzo. (Le sere degli ultimi di marzo fanno rabbrividire le tenere piante del giardino e la legna che dopo pranzo scoppietta nel camino, non è disaggradevole davvero).

— Lei mi pare — disse la signora al vecchio Manzi — che non sia mica troppo favorevole per le donne…. (Si parlava della maestrina che doveva, dopo Pasqua, venire per l’istruzione di Lolò).

— C’è il peccato d’origine! — disse lui cupamente.

— Ho sempre inteso dire, da quando imparavo il catechismo, che il peccato d’origine era di tutti e due, di Adamo e di Eva.

— No, no! È di Eva!

— E in che cosa consiste il peccato d’origine del nostro sesso?

— Un veleno — disse il Manzi — che hanno nel sangue.

— Tutte le donne? Ma lei si vede che non ha conosciuto mai una signorina per bene….

— Può bene essere, signora; ma io penso così.

— Sa che lei è poco gentile?

— Mi perdoni, signora. Ma è lei che mi ha interrogato.

— Ti sei accorto — disse poi la signora al marito — che quell’uomo puzza di grappa? È odioso.

*

Fine di marzo.

La settimana di Pasqua è vicina.

È stato deciso che le feste di Pasqua il signor Enrico, la signora e il piccolo Lolò le andranno a passare a Noli, presso la nonna. I giorni sono splendidi e la felicità canta nel cuore del piccolo bambino.

La signora è partita alcuni giorni prima per Milano dove porrà in assetto tutta la mobilia dell’appartamento, giacchè è anche deciso di stabilirsi per sempre nella villa. Ella così vuole. È partita con la cameriera, una allegra giovanetta, e raggiungerà il marito e il figlio a Noli.

Oggi sono partiti: il signor Enrico e Lolò in carrozza per la stazione di Y***, dove passa il treno per Genova.

Quante cose felici erano giunte tutte in una volta per il piccolo bambino! la Primavera, la Pasqua, il viaggio! E la tiepida aurora nel giorno della partenza lo aveva destato prima dell’ora, susurrandogli amiche cose; ed i bimbi si destano e cantano.

Si destò, e fu per lui desta tutta la casa.

La vecchia fantesca, in mancanza della mamma, gli ravviò i capelli, quella mattina, lo pulì, e ce ne volle della pazienza perchè egli avea gran fretta, chè il treno partiva! Salì nella carrozza col babbo; e rivolto indietro:

— Addio Marta — diceva —, ti porterò la ciambella di Pasqua!

*

Poichè la testa bionda di Lolò fu disparita, e la vecchia fantesca risalì piano piano le scale.

«Oggi, signori, sarà una giornata di grande lavoro: voi dovete quindi essere buoni e ubbidienti e farvi ben pulire, perchè è Pasqua». Parlava ai mobili.

Era una buona bestia da lavoro la Marta, e siccome gli altri non parlavano troppo con lei, lei parlava alle casseruole, ai mobili e alle galline.

Tutto il resto, anche il cervello, valeva poco; ma le braccia erano ancora di buona montanara. Tirava, smoveva i mobili gravi con molta facilità.

Lavorò tutto il dì, strofinando, scopando.

«Cominciamo dalla stanza da letto…. Oh, fuori voi!» e sciorinò le lenzuola di bucato che ondeggiarono sul tàlamo: le stirò con le mani. «E anche voi, piccolino, birichino di Lolò, li volete i lenzuoli puliti? Puliti sì, ma non nuovi. Non si sa mai!».

Poi guardando la toilette della signora, diceva: «Io preferisco fare la lavanda ai piedi di tutte le sedie, piuttosto che mettere in ordine tutte quelle pomate. Io? un po’ d’acqua, e basta! Siete pure andata alla fiera, la mia signora! Il padrone l’avete trovato. Non vi basta quello?».

E quando la giornata dolce e tranquilla declinò, aveva finito.

«Ora va là, va in riposo anche tu, povera scopa, tu sei come me!»

Ma la scopa riposò, ella no. Per una lenta abitudine ed una svanita memoria di ciò che si faceva nel suo paese di montagna, volle lucidare i rami della cucina «…. si appendevano sopra la cappa del camino e poi si mettevano in mezzo belle frasche di palme…!» E non solo lucidò i rami, ma pose in pieno assetto ogni altra cosa, poichè la dimane, che era la domenica dell’olivo, non avrebbe toccato neppure il manico della scopa.

*

Ma la giovanezza del sole al mattino batte alle vecchie pupille, dicendo: «Destati, Marta! per chi è vecchio, meglio è vegliare che dormire: di dormire è vicino il gran tempo: oggi è la domenica dell’olivo!»

E allora si levò e ripulì anche le sue vecchie carni e poi tolse gli abiti festivi.

Si vestì e andò alla chiesa.

C’erano dei fiori, degli incensi, dei canti: Agnus Dei qui tollit peccata mundi. La vecchia Marta, avea comperato alcune palme e con quelle entrava a passo lento nella villa.

Nell’appartamento vuoto e quieto entrava il sole e si rifrangea sui mobili lucidi, su le vernici fresche delle stanzette gaie.

La Marta girò per tutto l’appartamento con le rame dell’ulivo in mano; passò in rivista tutte le sue stanze pulite. Ma nel mezzo della stanza si arrestò come spaurita.

Era la molla dell’orologio grande sul caminetto della sala da pranzo che si discioglieva: e il martelletto s’alzò su la campana metallica e ricadde con uno squillo d’argento: battè le ore chiare, penetranti per tutto il silenzio dell’appartamento; dodici volte s’alzò e ricadde dodici volte con lo stesso suono.

La Marta le contò su le dita, ferma nel mezzo della stanza. «È mezzogiorno — disse. — Ecco perchè c’è tanto silenzio; perchè è la domenica dell’ulivo! Le campane non suonano oggi! Oggi, come sarebbe mille ottocento novanta anni fa,  è morto Nostro Signore» e si inginocchiò e si segnò la croce su la fronte.

Nel mezzo del cielo il sole faceva il suo viaggio.

La memoria si disugellava alla vecchia fante. Dopo tanti anni che non vedeva se non piatti da risciacquare, scarpe da lustrare, rivide la sua montagna, là nella Càrnia: chiesetta nera, casette nere di pietra, boschi di castagni: ma sotto i castagni che verde! un verde smeraldino che lo aveva sempre negli occhi e non l’aveva riveduto mai più! E sul verde, occhi d’oro del sole; e la leggenda della fata degli occhi d’oro, chiamata Drianna, che fu sepolta lì, e in nessun luogo il sole era lucente come lì.

Lì, quando era bambina, con altri bambini, consumava i giorni della settimana santa, nelle lunghe ore che la campanella non interrompe più. Si incantavano a far mazzi di fiori stellati e bianchi, e la notte dormivano profondamente.

Buona gente lassù in Càrnia! Si conoscevano tutti. Si poteva lasciare la biancheria al sole che nessuno la toccava, e la porta di casa aperta di notte.

Le venne poi malinconia, lì sola. C’era quell’altro pur solo, il Manzi, e lo andò a chiamare. Era oramai come di casa, quello lì.

— Mi aiuti — disse — a mettere le rame d’olivo sopra i letti, ma ben in alto, chè se anche non le vogliono, faranno fatica a portarle via…. Sopra il letticciuolo di Lolò mettiamoci una bella rama. E anche sopra il loro…. Veramente non se lo meriterebbero.

— Ma ci credete voi Marta, a queste cose?

— Se ci credo? E se non ci credessi, che cosa sarei io? Oh, buon uomo, anche tu credi che io sia venuta a questo mondo soltanto per lustrare le scarpe? Via! C’è un po’ di carne nella pentola, delle uova sode e del salame. Volete mangiare con me?

*

E allora in quell’ora tranquilla del giorno della domenica dell’ulivo, fu udito un forte squillo di campanello.

Era un fattorino che recava un dispaccio per Manzi.

Era tanto tempo che la posta non funzionava per lui, che fu colto da un tremito.

Ma ebbe appena disuggellato il dispaccio, che, percorrendo quelle strisciette bianche, capì che la cosa non riguardava lui.

Poi capì che dicevano una cosa breve, ma non la capiva bene.

— Che cosa dice? — domandò la Marta.

— Dice che la signora è ammalata e che io vada sùbito a Milano. Sapete voi che la signora fosse ammalata?

— Ammalata la signora? È stata sempre bene da quando la conosco. Mi faccia il piacere legga il dispaccio. — E quando Manzi ebbe letto esclamò:

— Ma questa è una disgrazia!

— Ma la signora non doveva a quest’ora essere a Genova dai parenti che hanno da quelle parti?

— Sicuro che doveva. Si era rimasti anzi d’intesa che lei sarebbe rimasta a Milano due o tre giorni per imballare e spedire la mobilia: e poi avrebbe raggiunto il padrone.

— E invece?

— E cosa vuole che sappia io? Il telegramma canta chiaro, che la signora sta male e che lei vada subito a Milano.

— Ma cosa c’entro io?

— Oh, Santa Madre! — rispose la Marta. — Se stiamo anche a parlare fino a stasera, vedrà che non spieghiamo niente. Piuttosto si muova, si scuota, il treno parte alle tre, sa? e appena arrivato mi mandi due righe perchè anch’io sto in pena.

E il signor Manzi si avviò a casa sua pensando a che cosa potesse essere.

«Che cosa potrà essere?» ruminava tra sè, e nel presentimento di andare incontro ad una disgrazia, camminava adagio come trascinato. E come fu salito nella sua stanza, tolse da un armadietto una bottiglia scura e tracannò. E si mise il soprabito e il cappello duro per andare a Milano. Ma aveva paura di andare incontro a una disgrazia, e allungò la mano nell’armadio e prese ancora quella bottiglia e tracannò ancora.

Non vi era nessun rumore nelle campagne, e le macchine non rombavano, e i telai della fabbrica non correvano, e i fumaioli non spiegavano il fumo.

«Cristo è morto, Cristo è morto! — diceva Manzi, vestendosi. — Ma non sei mica morta tu!» E indicava su la parete il ritratto di una giovane e vezzosa donna in cappello e veletta, ridente, con la testa inchinata, Sara.

Ma il foglio giallo del dispaccio lo richiamò alla realtà presente: «certamente deve essere succeduta una disgrazia; facciamosi coraggio (e rimise alla bocca la nera bottiglia e tracannò). Io non ho più molta forza per andare incontro alle disgrazie! Ma intanto, qui, qui al soprabito manca un bottone. Ci metteremo uno spillo. Ora trovare lo spillo!».

Uscì, ma nell’uscire una donna che faceva da portinaia, lo vide da una stradicciuola da cui veniva e gli fece segno di aspettare. Quando lo ebbe raggiunto, disse: «C’è una lettera per lei: stamattina non glie l’ho potuta consegnare perchè io era andata alla messa» e gli porse una lettera.

Manzi riconobbe subito la scrittura del signor Enrico e una nuova trepidazione si aggiunse alla prima.

— Lascia qui il bastone?

— No, date qua — e messosi il bastone sotto l’ascella fece per aprire la lettera, ma poi volle guardare l’orologio, ma nel taschino del gilet non lo trovò, e allora voleva tornar di sopra a prenderlo; poi si pentì e chiese alla donna: — Sapete che ora è?

— Se non sono suonate, ci deve mancar poco alle tre.

E il poveretto si mise a camminare in fretta con gran fatica perchè la strada che conduceva alla stazione era lunga, e così andando aveva strappato la busta che non si voleva far lacerare e aveva cercato di decifrare i caratteri che gli ballavano sotto gli occhi. Ne indovinò il senso più che non ne leggesse le lettere. «Dev’essere una disgrazia grossa» e questa idea lo faceva fermare, mentre invece doveva correre per non perdere la corsa. Ma giunse infine in vista della stazione. Essa si innalzava bianca, tranquilla come abbandonata nel verde, e sul cielo azzurro spiccava il tetto rosso. Nessun fischio nell’aria ferma, nessun fumo di locomotiva per la linea che si vedeva benissimo fin da lungi. Precipitò nel piccolo caffè della stazione.

— È mica partito il treno?

— C’è ancora un quarto d’ora, sempre se è in orario.

— Meno male — e respirò. — Mi porti allora un vermut che ho fatto una gran corsa.

E la padrona dall’angolo dietro il banco dove agucchiava placidamente, si levò, pulì il bicchierino a calice, lo fermò sul vassoio di ottone e versò il vermut. — Belle giornate, eh?

— Sì certo, bellissime — e spiegò la lettera e lesse e poi disse: «Dunque anche lui non sa che sua moglie è a Milano e che è ammalata. Mi domanda di urgenza se è tornata qui. Ma qui non è tornata», e stava in procinto di telegrafare dalla stazione che lui non sapeva niente di niente, ma poi gli parve meglio veder prima di che si trattava.

Il guardiano della stazione stava costruendo nel piccolo giardinetto attiguo alla stazione una specie di gabbia per le sue galline; riconobbe il Manzi e gli chiese: — Va a Milano a divertirsi un poco, eh?

Il treno apparve in fondo alla linea: un treno piccolo che era quasi vuoto. Manzi salì in un carrozzone dove era solo: il treno partì e poi si fermava a tutte le piccole stazioni senza raccogliere su nessun viaggiatore. Pareva che si avviasse verso una città morta.

— Com’è che non monta su nessuno? — chiese il Manzi al frenatore che saliva su la garetta.

— Perchè di Pasqua quelli di fuori stanno a casa loro, e quelli di Milano, se hanno comodo, vanno fuori.

E giunse a Milano che il sole era ancora alto e tutto un lato della via Manzoni ne splendeva da suoi eccelsi palagi. Dame e signori con grave andare muovevano su due marciapiedi, lungo le botteghe chiuse, come chiamati dalle foglie tenere laggiù dei giardini. Nel mezzo della via larga il tram si scontrò con due o tre cocchi signorili lucidi, ondeggianti su gran molle e tratti da cavalli dal collo ricurvo. C’era per gli occhi di Bismarck dell’automatico in quei passeggieri, in quei tram, in quei cocchi; c’era del silenzio dietro a quel rumore di grande città; c’era della tristezza dietro il lusso di quella gente adorna nel giorno festivo.

*

Una nappa di seta verde svanita, che, in vece del bottone elettrico pendeva su la porta chiusa, pareva dovesse destare echi lugubri, e corrispondere a cose e persone che già andavano per lontana via ed era inutile richiamare. Tuttavia il signor Manzi tirò la nappa, e un suono di campanello risuonò nell’interno della casa, ma più forte nel cuore di lui.

Venne ad aprire la porta una giovine che era la cameriera della signora, e quella al lume diurno che ancora pendeva su le scale deserte, in quel dì festivo, riconobbe il signor Manzi ed esclamò:

— Finalmente, venga avanti!

Era una leggiadra biondina, di adolescente età. Da poco tempo era al servizio in quella casa, e il Manzi la aveva a pena intraveduta due o tre volte nella villa, chè ella il più del tempo trascorreva nelle stanze della signora: però ricordava il suo allegro riso e la sua lieta voce squillante. Ora quelle parole le aveva pronunciate in un modo così diverso che ben si capiva che qualche cosa di terribile accadeva in quella dimora in cui egli allora poneva il piede.

Egli venne avanti, ma l’anticamera era quasi buia, e le masserizie che la ingombravano, confuse e ammucchiate, rendevano più difficile l’avanzarsi, e perciò rimase lì quasi presso l’uscio e chiese:

— Come va?

La giovane si strinse nelle spalle e poi gliele voltò, e Manzi cercò di venire avanti, come più si abituava l’occhio alla penombra.

Da una stanza apparve una donna, la quale chiese alla giovane distintamente e con premura:

— È il marito quello lì?

— No, quello è il signore a cui abbiamo telegrafato dopo — rispose la giovane accostandosi alla donna.

— Ah! — fece costei come a dire: «allora è un’altra cosa» e — venga pur avanti — completò il suo dire, — ma piano, come può: anch’io sono poco pratica di questa casa. C’è almeno un lume, la mia tosa? — domandò alla cameriera.

— Adesso vado a vedere se trovo un’altra candela, ma sarà un affar serio: il droghiere ha già chiuso.

— Immagini — seguitò quella donna a dire al signor Manzi — che per scaldare un po’ d’acqua, per fare un po’ di brodo abbiamo dovuto accendere il carbone. E per trovare una tazza, i tovaglioli ce n’è voluto!… Era tutto fatto su. Oh, finalmente!

E la chiusa del discorso fu rivolta alla cameriera che entrava con una lampada a petrolio.

— Ho trovata questa qui sopra il camino: sento, era piena di petrolio.

— Allora siamo signori — disse quella donna. — Io ho mandato la portinaia alla società del gas perchè venissero a slegare il contatore, ma sì!

Allora il signor Manzi trovò il momento di domandare a quella signora, chi era.

— Non mi conosce?

— Io no.

— Io sono la levatrice — e fece il nome e disse dove era stata diplomata.

Il signor Manzi chiese perchè c’era lei lì, nella casa.

— Come, non lo sa? Perchè la signora ha fatto un aborto, e adesso se ne va.

— Se ne va? — e diede indietro atterrito su la sedia, a quella frase tranquilla.

La donna fece un gesto che voleva dire: «se la piglia con me?»

— Ma lei, signora….

Il povero Manzi aveva appena cominciato a dire così che colei si levò come una vipera.

— Mi meraviglio! Che c’entrava lei? Lei era stata chiamata dopo. Vada da quella che ha fatto marrone! Lei era una levatrice onesta.

E non si acquietò se non quando il Manzi ebbe chiesto scusa.

— È che bisogna stare attenti a parlare. Dopo tutto quello che si è fatto, in una casa tutta messa su, che non si trovava nè un lume, nè un fiammifero, nè una pentola da far bollir l’acqua…. Son due giorni sa, che siamo qui, con quella là disperata, che sino a stamattina non voleva che si avvisasse il marito….

— Allora lui non sa niente….

— Mi so no. I mariti sann nagotta!

— Già! — Non capiva però bene. Soltanto un mistero mostruoso gli era davanti.

— Ma si possono fare queste cose?

— Non si possono fare, ma per la pace in famiglia, si fanno. Mica così da cani però….

— Cioè?

— Scusi, pare mica un uomo lei. Non capisce che è sopravenuta la peretonite e siamo alla fine?

Gli tremavano le gambe a Manzi.

— E perchè…. — domandò.

— Perchè? Vuol che lo sappia io perchè? se non lo sa lei che è di casa….

Allora Manzi fece per andar di là a vedere la signora: gli pareva una cosa impossibile, una fiaba lugubre, che la signora, che nove giorni fa aveva veduto partire piena di salute, dovesse essere in quello stato come affermava quella donna.

— È inutile, caro lei, che vada di là a vedere; già tanto lei non le può far niente; adesso riposa un poco e ne avrà abbastanza quando arriverà il marito, e con un braccio lo fermò su la sedia.

— Ma come è stata? — ridomandò ancora e lo prese il tremito nelle gambe.

— Lo domanda a me come è stata? Io non so niente, sono qui da ieri l’altro mattina e l’ho vegliata tutta la notte: ho un sonno che mi cadono gli occhi!

— Ma c’è davvero questo pericolo? — e sentiva il sudore freddo venirgli giù dalla fronte.

— Sentirà il medico che deve venire prima di sera.

In quel momento suonò un campanello, uno squillo lieve: veniva dall’interno, non dalla porta.

Il Manzi trasalì. La levatrice disse alla servetta: — Vada a vedere cosa vuole!

E la giovane andò là in punta di piedi.

I due tacquero.

Si affacciò poi la giovine all’uscio e disse: — Vuol sapere se il signore qui è arrivato, le ho detto di sì e ha detto che lo vuole.

— A me?

— Sì a lei.

— Faccia piano — ammonì la donna — non parli e non la faccia parlare.

E Manzi andò di là col cuore che gli si gonfiava e la levatrice gli venne dietro.

Sul letto, sollevato in su, vide il volto esangue della povera signora: i capelli vigilavano ritorti, attorno a quel volto cereo e fermo. Stentò quasi a riconoscere quel volto. Capì che era vero quello che le due donne dicevano.

Ogni parola gli si smorzò nella gola ma udì distintamente il soffio della voce di lei che pronunciava queste parole:

— Alle dodici arriva lui, gli ha telegrafato il medico…. lo prepari…. grazie.

— E adesso venga via — gli sussurrò all’orecchio la donna e alle parole aggiunse l’azione e lo trascinò fuori della stanza.

E lo lasciò solo nella stanza dove la lampada a petrolio spandeva la sua luce rossa. I mobili all’intorno erano coperti di tele e di fogli di giornali e su le pareti rimanevano due o tre quadri.

Guardò e ne riconobbe uno: era un ricordo di Lolò, dipinto ad olio. Il bambino era di profilo con la cuffiettina bianca così che non si vedeva se non la guancia tondeggiante e la puntina del naso a pena. Eppure rideva! Certo era Lolò, più piccino, ma poteva certo essere il ritratto di qualunque altro placido bimbo che vive nella casa tiepida ed ampia.

Allora i vecchi occhi ricominciarono a lagrimare.

— Si ricordi che il treno da Genova arriva alle undici e tre quarti — ammonì la cameriera, — se sapesse, signor Manzi, che martirio in questi giorni! Il dottore è dovuto diventar matto per farle capire che il suo stato era grave, e bisognava ben dirglielo perchè lei non voleva che si telegrafasse al signore, ma come si poteva fare diversamente? Fortunato lei che non c’era!

— Ma il medico non viene più? Ma la si lascia morire così?

— Sarà quello che suona adesso, sarà.

E un piccolo suono di campanello squillò dall’anticamera, e la fanciulla e e l’altra donna corsero ad aprire.

Entrò un signore di molto distinto aspetto. Domandò come stava, sentì le risposte che gli dava la donna e crollò il capo. — Andiamo a vedere — e si levava adagio adagio i guanti.

E Manzi rimase ancora solo nella stanza dove il lume della lampada a petrolio spandeva una tranquilla luce rossa e il ritratto di Lolò rideva dalla sua tela.

Quando dopo un quarto di ora tornarono, Manzi chiese:

— Ma è così grave la cosa?

— Gravissima, signor mio, e sarà molto se arriveremo a tenerla su fino a domattina — rispose il medico, sedendosi su di una seggiola che la levatrice aveva prima liberata da altri mobili. — Centocinquanta pulsazioni.

Era un bisbigliare quieto, sommesso, in quella stanza, con tutti i mobili imballati, che avevano finito di vivere lì. Centocinquanta pulsazioni! Perchè la vita del cuore, in sul finire, si accende?

Manzi aveva il terrore di sentire quella quiete che si sarebbe rotta per il grande urlo del povero ingegnere.

Gli pareva al Manzi di essere entrato in un sogno e che tutto quello che gli accadeva da poche ore fosse una cosa lontana che toccasse altre persone ignote. Ma quando quegli fece per andarsene, il senso della realtà lo vinse e disse:

— Per carità non se ne vada, signore!

— Ci posso far ben poco io, sa? la donna che è qui può fare quello che posso fare io.

— Ma non dico per lei, dico per lui che deve arrivare: cosa dirà? cosa penserà vedendola qui sola abbandonata? Dirà che la abbiamo lasciata morire come un cane….

L’uomo aggrottò le ciglia e disse: — Tornerò più tardi.

— Faccia di meglio, per carità, venga con me alla stazione, che cosa vuole che io possa dire al signor Enrico?

Colui parve turbato alle parole del Manzi, si passò la mano su la fronte.

Pure la levatrice pregò il dottore di rimanere a scanso anche della sua responsabilità.

Allora sembrò persuaso e decise di rimanere.

— Mi troverò nella sala d’aspetto alle undici e mezzo, lei mi cerchi che sarò lì — disse al Manzi e mosse verso la porta.

Ma il vecchio lo fermò per un braccio prima che se ne andasse.

— Cosa c’è adesso? — domandò.

— Proprio, proprio, crede che non possa guarire?

La giovane fra quei due uomini faceva lume e guardava l’uno e l’altro.

Il medico parlò e diede delle spiegazioni scientifiche che il vecchio non capì certo perchè tornò ancora a domandare:

— Dunque non può guarire? nè meno un miracolo?

— Ci crede lei ai miracoli?

Manzi rimase con la bocca aperta.

— Buona sera, e allora alla stazione.

Uscì, e chiuse l’uscio.

— Anche questa è fatta — sospirò la levatrice e il Manzi la sentì insieme alla giovane parlare, accudire a varie faccende, piano per le stanze con passi inavvertiti, ma più che la loro voce sentiva approssimarsi la fine, la dea della fine col suo sacco feroce, come il sacco degli spazzacamini che portano via i bambini cattivi: anche la morte ha il suo sacco: prende e mette dentro tutto, cose buone e cose cattive, prende tutto e butta via: e quando appare, è inutile dirle come allo spazzacamino: «adesso il bambino è buono, va via!» Ella non va via e il suo avvicinarsi fa sentire strani rumori nella casa e nel cuore, e fa tremare le gambe ed ha un passo così terribile che anche le cose in piena vita sembra che debbano andarle dietro per il viaggio per cui lei si avvia.

*

— Guardi che è ora che lei vada alla stazione — ammonì la levatrice: — è pratico, è vero, di Milano? Dico perchè non si sbagli, caso mai prenda una vettura.

Andò alla stazione. Il dottore non era ancora arrivato.

Certi sibili lontani di macchine che manovravano, lo facevano sussultare. Ogni tanto nel buio fuori della tettoia i fanali rossi o verdi dei dischi si spostavano sui loro lunghi bracci di ferro, come i fantasmi che fanno un gesto automatico, e gli occhi del vecchio erano attratti da quelle luci che si muovevano come il balenare sinistro di un volto che è laggiù, nel buio, che non si vede se non nelle pupille.

Arrivò il dottore, si parlò del caso. — Già, un caso disgraziatissimo. Una signora prudente quando si decide a certi passi, lo fa a tempo, si rivolge a persona dell’arte. Ma chissà? la paura! la fretta…. La cosa più dolorosa adesso è lui. Sono incerti del mestiere. Era una fabbrica che andava bene, vero?

In quella rombò il diretto da Genova e Manzi vide passare, davanti, la testa di lui; pareva la testa della Medusa. La barba pareva scomposta come quando uno si trova in mezzo a un temporale.

*

Ma in verità le cose passarono con più tranquillità che il Manzi non avrebbe pensato.

L’uomo era disfatto, sì bene; ma non uscì alcun grido. A lui disse: «Grazie anche a lei, Manzi.» Durante il tragitto in carrozza, parlava col dottore. Lui, di fronte ai due, era come intontito.

Sentiva queste parole di lui: «Infelice, infelice!» E poi diceva che se lo sentiva, che doveva succedere così.

Quando entrarono in quella casa, Manzi aveva una gran paura: di sentire gli urli, gli urli di quell’uomo. Ma non fu nulla di tutto questo.

Quell’uomo entrò. Lui Manzi non ebbe coraggio. Diceva fra sè: «come è coraggioso quell’uomo!»

Anche la piccola cameriera aveva paura. Diceva al Manzi che quella era la prima volta che vedeva morire una persona.

— Muore, muore davvero! — diceva con terrore.

Lei credeva che si potesse arrivare sino a morire, ma morire proprio non credeva.

Poi, nel terrore, raccontava cose che al Manzi suonavano strane per una giovanetta: che lei col suo amante avrebbe fatto tutto, fuori che quella cosa per cui si rimane incinta. — Ah, mai più, mai più! — ripeteva.

Manzi, ogni tanto era attratto là, verso quella stanza. Gli pareva che ci fossero tanti lumi, là.

Vedeva lei avviticchiata al collo di lui; ma poi un rantolo, un singhiozzo, lo respingevano indietro.

Ogni tanto passava la levatrice per questo e per quello.

Diceva: — Una donna robusta. Stenta a morire. Ma è già via con la testa: adesso dice che vuole andare a fare Pasqua con Lolò e con la nonna.

Ma poi si udì un grido di là.

Manzi ne ebbe come una lacerazione, e balzò. Vedeva lei che si veniva distaccando da lui. Quei grandi capelli di lei strisciavano sul volto dell’uomo, e seguivano la testa di lei.

Lei si era rovesciata sul cuscino.

Allora lo condussero via, quell’uomo.

Guardava tutti con occhi inebetiti come per interrogare.

Rispose la levatrice e disse con voce forte, come con voce piana avea parlato sino allora. — Sì, possiamo aprire le finestre.

E fu una cosa curiosa. Quando furono aperte le finestre non era più notte e nè meno l’alba: era giorno col sole.

E il sole entrò.

Il cero che prima ardeva e pareva così grande, impicciolì e si allontanò anche lui.

Anche quel cadavere di femmina adultera che giaceva, parve allontanarsi.

L’uomo fece per accostarsi al letto, ma il fantasma del dramma che si era svolto in quell’anima e in quel corpo, si rilevò tutto grande e mostruoso davanti a lui, e lo tenne indietro.

Le coperte segnavano la curva di quelle miserabili carni che la concupiscenza avea un tempo toccato col suo fremito.

Il ventre si disegnava nettamente rigonfio come una tumefazione di male che ella, la martire, austera ora, trascinava dietro a sè, e a qual torso erano congiunte le braccia rigidamente, e le gambe. La passione le aveva agitate in ignoti amplessi; ora giacevano rigidamente.

L’amante non avrebbe più osato accostarsi.

L’uomo tradito fece ancora un gesto per avvicinarsi a quella che era stata la sua Maria; ma ella stessa si era già allontanata.

E mentre nessuno parlava più, si udì bene la voce della giovane che chiedeva con angoscia:

— Ma non c’è in tutta la casa una croce da mettere sul petto della povera signora?

Milano, 1899.