I.

UN BAZAR DI NUOVO CONIO.

— Diciotto braccia di buona tela casalina…. — Cinque carantani di questo pastrano — Una caldaia! la fodera di un pagliericcio…. — Due fiorini una bella coltrice nuova. — Chi vuol comperare questa sottana? Un paio di calzoni, fazzoletti, camicie. — Una camicia di bucato…. due paiuoli. — Tutte le masserizie d’una cucina per dieci fiorini. — Donne, madonne, messeri! ci sono dei bei vestiti…. — Guardate questa gonna di fioretto per metà prezzo! — Vendo i cavalli a chi dà venti fiorini. — Chi vuol dare una svanzica di un lenzuolo?… Belle ragazze, comprate, ci sono dei grembiuli…. Comprate il rigatino nuovo a un carantano il braccio…. — Un giustacore per un carantano! — Una copertina da letto per un fiorino! — Messeri, madonne, comprate, comprate!….

E una quantità di gente s’era affollata d’intorno alle due carrettaccie dalle quali una mano di soldati andava scaricando alla rinfusa diversi arnesi, suppellettili d’ogni maniera e di ogni uso, robe vecchie e nuove, gridando il prezzo che ne volevano ritrarre come se si avesse trattato d’una vendita all’incanto. Codesto accadeva su su d’un piazzale, dinanzi alla chiesa in un villaggio tra l’Isonzo e il Nadisone. Era la seconda festa di Pasqua. La stagione lieta per l’apparire della primavera, faceva una consolazione del sereno dei cieli e della verzura della campagna. Diffuso un giubbilo per tutto il creato e nell’aria tepente delle ore meridiane gli effluvi del biancospino e delle prime viole; il mormorio del fiume in armonia coi canti degli augelletti di già solleciti del nido; l’orizzonte limpido; solo di là dalle acque verso ponente, qui e colà, in diversi punti vedevi ancora sollevarsi alcune colonne di fumo; erano i villaggi incendiati nella passata settimana santa.

La chiesa aperta e tuttora inondata d’incenso annunziava come fosse in quel punto terminata la funzione; ne uscivano ancora alcune comari, e veduto lì sulla piazza quella confusione non guardavano ad anima viva, ma intenti all’oggetto agognato, pareva che per lo sforzo di quella per lei ardita intrapresa, fossero vicini a gonfiarseli di lagrime. Giunta a farsi largo, afferrò colla mano tremante il lembo di una coltrice, che il soldato aveva in quel punto dispiegata, ed — Io, disse, vi do i due fiorini! La sua voce argentina impose silenzio alle altre comari, che stavano d’intorno, e ritirate le lasciarono conchiudere il contratto. Poi cavati dalla saccoccia altri danari, comperò la lentima di un letto nuziale, una copertina di rigato e non so che altri oggetti, dei quali fatto un fardello se lo caricò sulla testa, e lieta della sua buona ventura tornò a traforare la folla. — Ehi Mariuccia! le gridavano le amiche, non occorre più dirci che il tuo damo l’ha da nascere. — Che sì, che cotesto l’è un bell’apparecchiarsi il nido! — Guardate la Mariuccia quanta roba si porta via! — E le correvano dietro per esaminare con più agio gli avvantaggi dell’affare ch’ella aveva conchiuso. In grazia di que’ prezzi così facili, in poco d’ora tutta la mercanzia fu smaltita. Come un cesto di piuma gittato dalla finestra quando soffia la borra, quelle suppellettili, quegli arnesi, e persino i cavalli e le carrette sparirono. Nettata la piazza, i soldati entrarono all’osteria, e bevuto e sghignazzato, tornavano per d’onde erano venuti a’ loro quartieri. Nel passare il torrente s’incontrarono in altre carrette cariche di roba razzolata tra le macerie dei villaggi incendiati. Erano villici, che più avveduti non avevano aspettate di comprare da essi, ma erano stati da soli a far raccolta, ed ora allegramente se ne tornavano col bottino. Quell’incontro non fu per certo una buona ventura. I soldati, quantunque briachi, pretesero che lor si dovesse almeno il tributo dell’acquavite. Convenne vuotare le saccocce contenti di asciugarla al costo di pochi carantani e di qualche piattonata. Quando entrarono i contadini nel villaggio, si sentiva ancora di là delle acque rimbombare nell’aria gli urrà della brigata militare.

 

II.

CHI ERA LA MARIUCCIA.

Nata in una numerosa famiglia di contadini, dove non regnava la pace domestica, la Mariuccia assaggiò assai per tempo il tristo calice della sventura. Da bambina mal gradita alle zie ed all’ava paterna, che in lei puniva il carattere bisbetico e la lingua insolente della nuora, cresceva a stento fra una turba di fanciulli e quasi coetanea ad una bella cuginetta che divideva con lei i giochi puerili, ma non le carezze e l’affetto dei vecchi. Trascurata e spesso maltrattata quando ancora aveva lo scudo della madre, perduta questa, nessuno più pensava alla povera piccola, e la si lasciava languire priva perfino delle cose più necessarie. Le contese sempre più acerrime che sorgevano fra i diversi membri della famiglia, sovente finivano collo scaricare la tempesta sul suo capo innocente, e quando il disaccordo giunse a tale da partorire la divisione, ella col padre cacciata di casa, dovette mettersi nella meschina condizione di chi vive del lavoro giornaliero. Poichè le suppellettili, gli animali, gli attrezzi agricoli che in unione bastavano a farli campare onestamente su d’un terreno da coloni, così ripartiti, furono per tutti una miseria. Quella divisione l’era sempre rimasta impressa come il più gran dolore della sua infanzia; non già ch’ella avesse compreso le conseguenze che ne dovevano nascere, ma lo staccarsi dalla cuginetta e dagli altri fanciulli che con lei ridevano e giocavano, il cambiare la buona casa colonica fino allora abitata, in una miserabile abitazione da sottani dove le toccava di rimanere quasi sempre soletta, anche così bambina le facevano capire ch’era una disgrazia. I sottani, cotesta piaga delle nostre campagne, sono la più meschina e la più infelice delle classi della società; quella su cui pesa maggiormente il lavoro senza compenso, e dalla quale scaturiscono i mendicanti, i vagabondi, e spesso anche i ladri e gli assassini. I possidenti che vanno in rovina danno sovente origine alla loro esistenza, perchè cominciano dall’alienare i fondi produttivi, e in ultimo affittano o vendono le case mezzo diroccate a una specie di speculatori che poi le subaffittano a dei miserabili, che, o per disgrazie, o per discordie domestiche divisi, non hanno più la possibilità di condurre una colonía. Questi speculatori, per lo più possidenti di fresca data, a tali orribili tuguri, uniscono uno o due campicelli, dei quali esigono affitti spropositati. Coloro che accettano, sanno che se anche l’annata andasse propizia, l’assiduo lavoro e la più industriosa diligenza non faranno mai che il fondo produca tanto da soddisfare al debito assunto; ma la necessità di un po’ di tetto che li ripari, e di un campo dove raccorre almeno le legna per riscaldarsi l’inverno, o che se non altro serva di pretesto a ciò che altrove si raccoglie, fa che pieghino il capo a tutte l’esorbitanze del locatore. Malattie, tempi burrascosi, mancanza di lavoro, sono poi disgrazie ch’essi non prevedono, o che certo non entrano nei loro calcoli. Colui che affitta sa bene anch’egli che il suo campo, se anche fosse la terra promessa, non potrebbe giammai dargli il provento che richiede; ma egli spera d’aver a fare con gente avveduta che sappia ingegnarsi e profittargli, e, pur che paghi, il modo non importa; se no, guarda a ciò che portano sotto i suoi coppi, e alla fine dell’anno col sequestro fa il conto rotondo. Anzi vi sono di quelli che nelle quattro pecore, nelle vaccherelle e ne’ pochi attrezzi dell’inquilino, veggono preventivamente il loro affitto. Così gli sciagurati, che si trovano nella necessità di abbracciare tal vita miserabilissima, passano d’uno in altro tugurio sempre più nudi, finchè, spogli di tutto, vanno ad ingrossare la schiera dei mendici e dei vagabondi. Infatti il padre della Mariuccia in pochi anni consumò tutto quel poco che aveva redato, e dopo aver fatto soggiorno in questo e in quel villaggio sempre nei peggio abituri, finì coll’ammalarsi e morire all’ospitale. Cosicchè a dodici anni la povera fanciulla, coperta di cenci e ridotta sulla strada, andava elemosinando. Un giorno ell’ebbe la buona ventura di capitare alla porta di un contadino benestante, la cui moglie colpita dalla sua bella fisonomia, la prese seco a servire. I contadini trattano per solito i loro servi come tanti membri della famiglia. Se non possono dar conveniente salario, non fanno almeno sentir tanto la diversità della condizione. Cibo e lavoro in comune, quasi nessuna disuguaglianza di vesti, e quel che val più, non disprezzo ne’ modi, non imperiosa acerbità ne’ comandi. La povera creatura, che non aveva mai goduto il bene di trovarsi in una famiglia dove regnassero l’ordine e la pace, si affezionò ben presto a’ suoi padroni. Lavorava con essi nei campi, filava la sera nella stalla o d’accanto al fuoco con le figlie del suo padrone, che la trattavano come sorella, imparava da esse e dalla loro madre a trattar l’ago, ad accudire alle faccende domestiche. Era divenuta una bella ragazza, e rimpannucciata e rinsanichita e in comunione del loro affetto, più quasi non s’accorgeva d’essere un’orfana. Ma quegli anni spensierati volano rapidi e succede un’epoca nella quale ci si accorge di avere il cuore, e i suoi palpiti fanno pensare all’avvenire.

Una domenica di agosto la Mariuccia insieme con la Lisa, la figlia de’ suoi padroni, trovavasi alla sagra di Madonna di Strada. Una quantità di gente era là convenuta, e le due giovanette l’una al braccio dell’altra giravano amorosamente chiacchierando insieme, e soffermandosi ogni qual tratto a guardare le tavole di ciambelle e di frutta esposte in vendita sul praticello dinanzi alla chiesa campestre. Alcuni giovinotti le avevano notate e lor tenevano dietro, desiderosi di entrare con esse in discorso. Il sole, benchè oramai vicino al tramonto, dardeggiava ancora i suoi raggi cocenti sulla testa della moltitudine. Le due fanciulle ripararono all’ombra dell’un dei cipressi che fiancheggiano l’entrata nel praticello, e lì sedute sul basso del muricciuolo, si facevano fresco coi lembi dell’ampio fazzoletto a croce, che loro adornava la testa, mentre lanciavano sorridendo qualche furtiva occhiatina che diede coraggio ai giovanotti di farsi dappresso e cominciar la conversazione. In poco d’ora s’erano fatti amici. Esse offerirono cortesemente la sagra che avevano comperata. Un giovane accettò un paio di noci dalla Mariuccia e le regalò in ricambio un bel garofano ch’ella adattò subito nella sua cintura dalla parte del cuore. Era un bruno ancora quasi imberbe, alto e ben fatto della persona, con un certo cappellino di paglia, messo un po’ alla bula e che dava risalto ai molti capelli neri, che tutti uniti gli scendevano fino alla metà del collo e gli lambivano la candida camicia arrovesciata sulle spalle. I suoi occhi neri avevano un non so che di dolce, e con qualunque degli astanti avesse parlato, quasi sempre s’incontravano in quelli di lei. Venne l’ora della partenza e i giovani vollero accompagnarle fin presso al villaggio. Da quella sera la Mariuccia non dimenticò più quello sguardo, e anche appassito conservò come una reliquia quel fiore. Ma la sua fronte ilare era divenuta pensierosa. Più non rideva così facilmente, nè più la sera con le compagne si lasciava andare al solito allegro cicaleccio; meditava invece, e una leggera tinta di malinconia s’era impossessata di tutti i suoi atti. La povera fanciulla aveva saputo che quel giovane apparteneva a una buona famiglia di contadini del vicino villaggio. S’egli avesse eletto la meglio ragazza del paese, certo i genitori s’avrebbero baciato la mano nel concedergliela, perchè l’entrare in quella casa era tenuto da tutti una fortuna. Or ella non era che una povera orfana, una serva…. Che cosa gli avrebbe portato in dote se poteva appena campare? Ma Vigi veniva tutte le domeniche a funzione nel villaggio di lei, l’accompagnava a casa nel sortire di chiesa; se talvolta la mandavano in su quell’ora ad attignere, egli le portava la corda, l’aiutava sul pozzo in presenza di tutti, e oramai non v’era più dubbio sulle sue intenzioni. Allora la Mariuccia divenne più attiva nel pensiero di apparecchiarsi un po’ di mobile. Stava in fin tardi a filare di guadagno. Alzavasi prima di tutti la mattina, affinchè i suoi padroni fossero contenti di lei e le concedessero qualche ora di lavoro per suo conto. Se buscava qualche carantano, guardavasi bene dal gittarlo in ispese inutili. La vecchia Maddalena, che l’amava come se le fosse figlia, s’era accorta di queste sue cure e procurava di facilitarle qualche piccolo provento. Ma per accumulare quanto bastasse alla compera almeno del letto nuziale e dell’indispensabile coltrice, ci voleva! Passarono così alcuni anni, quando in quel villaggio avvenne il mercato ch’io qui sopra accennai. Chi può dire la consolazione della Mariuccia nell’aver potuto così utilmente impiegare i suoi risparmi? Ella si aveva portati a casa quegli arredi, e se li custodiva nella sua cameruccia e se li guardava con quell’affetto istesso di adorazione con cui l’avaro, quando è solo, contempla i suoi ricchi tesori.

III.

LA VISITA.

Per lo stradale che da Gorizia mette a Udine due magnifici cavalli neri facevano volare una elegante carrozza discoperta. Dentro a fianco d’un signore piuttosto avanzato in età stava mollemente adagiata una gentile damina, la cui mise, benchè da viaggio, annunziava il buon gusto della capitale. I suoi bellissimi occhi intenti al sole che tramontava avevano un’espressione piuttosto melanconica. Era d’estate. La vasta pianura rinfrescata da un leggero venticello moveva placidamente il ricco suo verde indorato dagli ultimi raggi. Una quantità di picciole nubi tinte nei più vaghi colori dell’iride s’andavano agglomerando sull’orizzonte come per far corteo al sole moribondo che già cominciava a tuffarsi nella lontana marina. Parevano i flutti di un immenso mare di porpora, parevano un’infinita turba di pecore dal vello d’oro che dopo aver pascolato tutto il giorno pegli azzurri campi del cielo or si riducevano all’ovile dietro i passi del loro sfolgorante pastore. La giovinetta, innamorata della magnifica scena, metteva sì poca attenzione agli animati discorsi del suo compagno da viaggio, che questi a trovar la parola che pur le penetrasse l’udito dovette cercarla in un’allusione a quel bellissimo tramonto.

— O mia Cati! ei le diceva, se il nostro progetto s’avvera, i miei ultimi giorni saranno lieti e io terminerò felice la mia mortale carriera, come quel sole che ora in sì placida e maestosa pompa discende all’occaso. Una lagrima corse per le guance alla giovinetta. — Dio, che mi vede l’anima, sa come io lo preghi, padre mio, di concedervi una lunga vita e tutta felice, — diss’ella con un timbro di voce così soave che pareva un’armonia. — Oh! io lo sarò felice e pienamente, ripigliò il vecchio, quando ti vedrò in possesso della bella fortuna che ti si prepara. Fin da quando tu eri fanciulletta nell’istituto delle Dame X*** a Vienna, e io ti vedeva crescere ogni giorno più aggraziata e gentile, cotesto era il più caro de’ miei voti; ma non ardiva pensarci da senno, perchè troppo grande mi pareva la distanza fra te umile figlia di un barone di provincia ed egli sangue di principi, collocato sì dappresso alla santa maestà del trono. Chi mi avrebbe detto che proprio nel momento in che la sua fortuna fatta di tanto più cospicua pe’ segnalati servigi prestati al nostro buon Imperatore, io fossi così vicino a veder realizzata cotesta mia secreta speranza? Eppure la lettera della tua nobile zia e l’invito della Contessa che ora ci chiama in sua casa, dov’egli ritorna dopo la sua gloriosa vittoria, mi danno certezza che il mio è qualche cosa di più di un castello in aria. Mia Cati, poichè egli desidera di rivederti, credi, non può essere che per deporre a’ tuoi piedi la sua immensa fortuna. E quando ti avrà riveduta non sarà, no, più sogno il mio! Le tue adorabili qualità lo faranno superbo della sua scelta, nè l’amore grandissimo che io ti porto mi fa ora velo dinanzi agli occhi. Allorchè mio fratello moribondo ti confidava nelle mie braccia, io mi accorsi subito che l’orfanella era un grande tesoro… — Tesoro, padre mio, è stata la vostra bontà, le cure e l’affetto più che paterno che voi sempre mi prodigaste, al quale, soggiunse ella abbassando la voce e facendosi sempre più melanconica, al quale io sento rimorso di non saper corrispondere come dovrei!… — Senti, Cati, noi vogliamo vivere sempre insieme. Quando sarai maritata, io mi stabilirò a Vienna vicino a voialtri: ti vedrò ogni giorno, la tua felicità sarà tanta vita per me. Vienna è un gran bel paese! L’allegra, la gaia Vienna, il paradiso terrestre delle feste e dei piaceri! Oh si sa vivere a Vienna!… Qui, poverina, tu se’ fuori di sito. Chi sa comprenderti qui? Cotesti rozzi provinciali non possono apprezzare le grazie squisite della tua nobile educazione; le tue amabili maniere, il tuo buon gusto, i tuoi distinti talenti qui sono perduti, sprecati, e per questo mi sei così melanconica. Ma a Vienna avrai campo di brillare. Tu se’ nata fatta per essere la delizia di una capitale, per destare l’ammirazione e la simpatia nei nostri eleganti salons. Oh pensa la mia gioia quando ti vedrò finalmente collocata nella luminosa atmosfera che unica ti si conviene! Il riverbero di tanto splendore farà ringiovanire il povero vecchio. Non dubitare, torneranno i bei tempi della pace. In breve le armi vittoriose del nostro sovrano finiranno di ristabilire dovunque l’ordine e la tranquillità. Una volta estirpata la ribellione, tu pure tornerai lieta. Il tuo cuore sensibile non è fatto pe’ trambusti della guerra. Essi ti turbano, ti fanno male, ed è perciò che le tue belle guance si sono illanguidite. Povera la mia Cati! Tu se’ un nobile fiore, ma dilicato: coteste villane bufere ti offendono, ed hai bisogno della ricca e tepida serra per poter spiegare tutto il tesoro de’ tuoi colori e de’ preziosi profumi. La tua serra è la capitale. Là mi tornerai fresca ed allegra, colle tue belle rose sul volto, cogli occhi pieni di vita e di brio…. Ed entusiastato continuò per buona pezza a discorrere dell’avvenire che gli prometteva un così dolce sorriso. La fanciulla taceva, e contemplava gli ultimi sprazzi della luce che quietamente facevano rubiconda la cima dei nostri monti. Una volta nel passare dinanzi a un cimitero campestre i suoi occhi si fermarono sui tumuli coperti di recente erbetta a’ piedi degli ulivi le cui frondi commosse dall’aura vespertina tremolavano or bianche ed or verdi lasciando piovere la porpora del tramonto che come un affettuoso addio pareva accarezzare quei poveri morti, e sentì che a tutte quelle gioie mondane ella avrebbe preferito di dormire eternamente, ma lì nella sua terra nativa. Frattanto la carrozza giunta a N*** s’era soffermata alla sbarra dove si paga il pedaggio. Vedendo signori, una povera donna trasse innanzi a chiedere l’elemosina. La seguivano tre bambini, portava il grembo fecondo di un altro. L’atto strano con cui stese la destra volgendo dall’altra parte la faccia vergognosa e queste parole: Abbruciati di Jalmicco! — ch’ella proferì invece di preghiera, ferirono il barone. Ei rimise nel borsellino la moneta che già stava per gittarle e guardandola con severo cipiglio — Ribelli eh? disse, oh bene vi sta la terribile punizione che vi tiraste addosso! A simile genia nessuna compassione! — e ordinò al cocchiere di sferzare i cavalli. Come l’inesperto, che nell’adoperare un coltello a due tagli s’insanguina le mani, così quel rimprovero ferì tremendamente da due parti. La pietosa fraile vide quella povera donna farsi di bragia e tirare a sè l’ultimo de’ suoi bambini che stendeva ancora le mani ad implorare misericordia dalla carrozza che partiva, videla accarezzarlo con un sorriso d’indefinibile amarezza, mentre inavvertite le gocciavano a quattro a quattro le lacrime sulla bionda testa dell’innocente. Un’orribile scena d’incendio, di rapine, di dolori e di miseria le si dipinse dinanzi all’anima commossa… Quai che si fossero le colpe di quella meschina, ella pativa: pativano quei poveri fanciulletti che certo non potevano aver colpa. Chi sa quante lacrime erano condannati a versare!… Quella moneta rifiutata avrebbe pur potuto tergerne qualcuna! ed ella, che in tal momento avrebbe voluto tergerle a costo di sangue, sentiva di abborrire quel metallo rimasto lì inerte. Oh! ei le pesava sul cuore come un rimorso. E le pareva peccato pensare a comparir bella e spiritosa nell’istessa ora che quella raminga piangeva per non aver pane da dare alle sue creature; far pompa di mille inutili adornamenti, godere una lieta serata, tutti i comodi e il lusso della vita, mentre colei senza tetto, gittata su d’una strada nel profondo della miseria rammemoravasi forse la crudeltà di quei signori, che invece di soccorrerla l’avevano rimproverata…. E lo sforzo terribile di dimandare l’elemosina pagato con un rifiuto!… Doveva averle costato quell’umile dimandare l’elemosina! Tutto il sangue l’era corso alla faccia. L’aveva ben’ella veduta come si nascondeva e come le tremavano le labbra, quando proferì quella solenne parola: Abbruciati di Jalmicco! E le si ridusse dinanzi alla memoria la sera in cui salita sulla terrazza della sua casa aveva veduto ardere quel povero villaggio insieme cogli altri in quella notte distrutti. Quando smontò nel cortile della Contessa, e fatta salire nella camera da ricevere ella fu accolta con ogni maniera di cortesia così dalla padrona di casa come da diversi graduati austriaci che lì stavano aspettandola, la sua mente funestata non ravvolgeva che tristi pensieri. Era pallida fuor di misura, un cerchio di ferro le strigneva le tempia, di modo che parevale sentirsi scoppiare il cervello, la luce dei doppieri le offendeva la vista; nondimeno procurò di raccogliere tutta la sua forza per corrispondere ai gentili complimenti che le venivano indirizzati. Un bel giovane biondo dalla tinta dilicata e dagli occhi cerulei le si assise dappresso. Parlavano della capitale, dov’ella era stata educata, delle conoscenze comuni ad entrambi, di un magnifico giardino, che da fanciulli avevano una volta visitato insieme…. Procurava di comporre al sorriso le labbra smarrite; discorreva di fiori, e cogli occhi dell’anima non vedeva che macchie di sangue. Le pareti della stanza erano adorne dei ritratti dei più famosi tra i generali dell’armata austriaca. La luce dei doppieri dava nei vetri e nelle cornici dorate dei quadri, e quel riverbero agli occhi ammalati di lei pareva lo splendore infausto degli incendi altre volte veduti e dappoi continuamente meditati; cominciò ad offuscarsele la vista. I lumi, la stanza, le persone che la circondavano, i quadri, tutto le si mesceva. Quelle immagini ch’ella vedeva come a traverso le fiamme, le si tramutavano dinanzi: assumevano le forme esecrabili di cadaveri scarnati, di serpenti, di luridi vampiri. I muri le si mostravano tutti insozzati di larghe strisce di sangue, il pavimento un bulicame di sangue; perfin la croce di brillanti che scintillava sul petto del suo giovane interlocutore le parve grondante di sangue. Chiuse gli occhi inorridita e lasciò sfuggire un gemito. Tutti s’accorsero che le veniva male, e la contessa s’affrettò a condurla sulla terrazza a respirar l’aria fresca della notte. Rimbombava il cannone di Palma e l’aria appariva ad intervalli accesa dalle bombe che da quattro lati lanciavansi contro la fortezza. I loro scoppi facevano tremare fin dalle fondamenta la casa, e talmente offesero i nervi di lei, che spaventati per la sua vita dovettero subito pensare a coricarla.

 

IV.

I RIBELLI.

— Lela! su po’, Lela, cammina! gran fatto che stasera tu non possa tenerci dietro.

— È colpa Tinetto, mamma, che va come una lumaca.

— Ho perduto uno zoccolo io,… piagnucolava zoppicando il piccino, e mi fa male al piede, e non ci posso ire io….

— Butta via anche l’altro, gli diceva la sorella, chè già gli è tutto sdrucito, e si va meglio scalzi. Ma il fanciullo piangeva, e udivasi sempre più distante lo scalpitare della madre e dell’altro bambino ch’ella si strascinava seco.

— Mamma, Tinetto non può piue; me lo piglio in braccio?

— Oh sì davvero! volete rompervi il collo? — e fermatasi, — Santa Vergine! esclamava, che pena con queste creature! Se non fosse stato quel birbo di quel signore, che co’ suoi rimbrotti ci ha tutta inimicata la gente, già colui della sbarra ci dava da dormire. Ora bisogna andarsene all’altro villaggio; quando arriveremo, saranno già tutti coricati, e ci toccherà di serenare sulla strada. Lela, vuoi camminare tu con Giacomino, e io procurerò di prendermi in braccio l’altro? Ma fatti alcuni passi, il suo stato l’obbligava a metter giù il fanciullo e a sedersi sull’orlo d’un fosso per riposare. — Mamma, e non ci darai pane questa sera? chiedevano i bambini. — Povere le mie viscere! E non avete veduto come ci hanno maltrattati? Oh Dio, Dio!… Ahi! che lampo d’inferno. Vogliono proprio abbruciarla quella povera fortezza! — diss’ella abbarbagliata dal vicino splendore d’una delle tante bombe, che in quella notte si lanciavano contro Palma; e tornò ad alzarsi come per fuggire al fracasso che la intronava. E così trascinandosi alla meglio giunse finalmente al villaggio che giace alla diritta della strada postale.

Non lungi dalla chiesa, in un cortile dinanzi a una casa colonica vedevasi un focherello d’intorno al quale si agitavano alcune persone. Ella si diresse a quella volta. Erano contadini che avendo i bachi in cucina preparavano la cena lì all’aperto. — O, di casa! disse la donna. Potreste darci ricovero per questa notte? La fecero entrar subito, e vedendola in quello stato, vollero che si assidesse in loro compagnia, mentre aggiugnevano un po’ d’acqua nella caldaia. Chiacchieravano delle vicende della guerra, e la poveretta, rinfrancata da quell’accoglienza ospitale, osò dire ch’era di Jalmicco…. — Oh la disgraziata!… sclamò la padrona di casa lasciandosi cader di mano la mestola con cui gettava nel paiuolo la farina, e tutti gli astanti cangiarono d’aspetto e si misero a sogguardare sospettosi la forestiera e i suoi piccoli, come se quella parola fosse stata una bestemmia. — Voialtri Italiani, disse un vecchio venerando che dai bianchi capelli e dal rispetto con cui veniva trattato pareva il capocchia della famiglia, foste severamente puniti. Io non sono stato a Jalmicco, ma mi dicono che sia una vera desolazione.

— O messere, rispose la poveretta, là non c’è più una sola casa in piedi! Mucchi di sassi anneriti dal fuoco, calcinacci che ingombrano la piazza e le strade, la nostra bella chiesa tutta rovinata, fin le pietre de’ sepolcri spezzate, le reliquie e le immagini dei santi disperse, mutilate, insozzate…. Oh mio Dio!… e in mezzo a quella distruzione acquartierati i soldati che insultano a’ meschini che osano rovistare tra quelle macerie….

— Eravate in paese quando diedero il fuoco?

— Mio marito era ne’ campi. Io meschina a casa colle creature. Mia suocera spaventata corre ad avvisare che vengono. Per paura dei soldati, fuggo. Avevo al collo il cordon d’oro, mi penso che potrebbero rubarmelo, lascio i piccoli sulla via e torno addietro a nasconderlo nella cassa…. Oh! Io aveva una bella cassa, piena zeppa di biancheria e tanti vestiti da far invidia a una regina. Mi cavo perfin la pezzuola ch’era di seta, e stupida la ripongo colle altre robe per prendermi cotesto straccio che solo mi è rimasto. Poi via per i campi, e dietro s’udivano le fucilate e lo scalpitare dei cavalli e il parapiglia dei miseri paesani. Oh Dio! non avevo fatto un miglio, quando un gran fumo cominciò ad alzarsi nel sito del nostro villaggio e poi a’ quattro lati le fiamme, e poi qui e colà altri villaggi ardevano. Che notte di orrore! e non saper niente di mio marito! Ogni qual tratto ci raggiugnevano turbe di fuggenti coi bambini in collo, coi vecchi e cogli ammalati che strascinavano, e chi ci diceva che lo avevano fucilato, chi ch’era morto sul campo calpestato dalla cavalleria. Tre giorni stetti ramingando come forsennata appiattandomi nei fossi. Finalmente ei venne, e mi disse che di tutta la nostra roba non ci rimaneva più nulla come qui su questo palmo di mano.

— Poveretta! poveretta! dicevano singhiozzando le donne commosse da quel racconto; e dimenticate che si trattava di ribelli. — E la casa? era vostra la casa?

— Era mia, diss’ella, e ci avevamo speso ad aggiustarla ducento ducati; tutti i nostri risparmi, l’anno passato.

— Non avete nessuno dei vostri che possa soccorrervi?

— I miei fratelli sono su d’una buona colonía e per mangiare polenta se la campano, ma sono entrambi pieni di prole: una sorella moglie del gastaldo del conte B; le altre due maritate lì nel villaggio adesso sono a pane esse e i loro figliuoli: e mio padre? e mia madre che non hanno più nulla…? O mio Dio, ci vuol altro per soccorrerci tutti…! Dev’essere in questi contorni una mia cugina, aggiunse ella, dopo un momento di pausa nel quale s’aveva asciugato col dorso della mano le lagrime che le scorrevano lungo le guance macilenti. Sono tre anni che ho saputo ch’ell’era a servire in una buona casa di contadini, e siccome quand’eravamo fanciullette e vivevamo insieme, ella mi voleva un gran bene, così di quel poco che poteva, cercai di aiutarla…. Forse ch’ella adesso si sarà maritata….

 

— Volete scommettere, Mamma, ch’ell’è la Mariuccia…? sclamò una ragazza.

— Appunto, quest’era il suo nome.

— Ell’è a servire qui dirimpetto….

— Oh la vedrò pur volentieri dimani! disse la poveretta.

— Anzi quest’anno la va a marito, e in una casa di benestanti, che proprio l’ha trovato fortuna. — E continuarono tutta la cena a discorrere di lei, del fidanzato, della sua famiglia, e di quella dov’ell’era a servire, finchè venne l’ora di coricarsi. La condussero insieme coi bambini sul fenile, e la meschina, refocillata dal cibo e lieta per le buone notizie ricevute, dormì un lungo sonno, nel quale le parve d’esser tornata nella sua casuccia insieme col marito e coi figli, e ch’ella sciorinava da una gran cassa tutte le sue suppellettili abbruciate, che aveva tanto pianto.

V.

LA CUGINA.

Nel dimani, prima che il dì fosse ben chiaro, ell’era già sulla strada, ad aspettava che s’aprisse la casa che le avevano accennata.

Mostrava di voler farsi una gran bella giornata: il cielo era nitido; i monti spiccavano azzurri nell’atmosfera purissima e leggermente dorata dai primi crepuscoli; un fresco venticello foriero dell’aurora increspava il verde allegro dei cólti di frumento che dalla parte di ponente le si dilatavano dinanzi come l’ondeggiare d’una vasta marina.

Il cannone tuonava ancora, ma questa volta i colpi partivano dalla fortezza e parevano i nitriti di un immenso cavallo da guerra che laggiù nel folto della campagna schizzando fiamme dalle narici e percotendo colle gambe il terreno sfidasse l’ira dell’inimico. Quando il sole fu sorto, apparve la fortezza, ed ella distingueva sui baluardi il lampeggiare del fucile delle vedette: il culmine del duomo scintillava, e più in alto nell’aria serena inondati di luce sventolavano i tre colori della bandiera italiana.

— Povera Palma! sclamò la donna commossa, almeno tu se’ viva ancora! — e s’inginocchiò a ringraziarne il Signore. Sia che la solenne maestà dell’ora le infondesse un religioso raccoglimento, o che ve la spignesse un ignoto affetto del cuore, lungamente pianse e pregò. Ella amava Palma come si amano le memorie dei giorni più lieti. Là era stata insieme collo sposo a scegliersi gli anelli delle nozze; là aveva comperato il suo primo fazzoletto di tulle e i vestiti dei giorni festivi. Su quella bella piazza circolare, all’ombra degli odorosi acaci che le fanno viale all’intorno, ell’era stata tante volte a vendere le uova delle sue galline, i pulcini primaticci, i paperottoli, gli erbaggi dell’orticello. Anzi quando stava nella sua casuccia a Jalmicco, e non sapeva come raggranellare qualche carantano per i bisogni della crescente famigliola, presto faceva un mazzolino di timo, di maggiorana, di salvia e di altre erbucce fragranti, o raccoglieva un bel piatto d’insalata od alcuni cavoli fiori, e giù a Palma, e sempre a tornare col denaro desiderato. Or ella sentiva gratitudine per quelle note e care contrade, e pregava il Signore che le salvasse dal ferro e dal fuoco che avevano sterminato il suo povero villaggio. Usciva intanto da una casa vicina una bella giovinetta e coll’arconcello sulle spalle avviavasi ad attignere. Quando furono l’una appresso dell’altra si guardarono entrambe un istante perplesse, e la giovane, deposte le secchie — Oliva! gridò, siete veramente Oliva?

— Mariuccia, mia buona Mariuccia, che gusto di rivederti dopo tanto tempo bella ed allegra…! E corse ad abbracciarla con tutto l’affetto dell’animo.

— Ma voi siete così patita, Oliva, che quasi stentava a ravvisarvi…

— Eh! dopo tante disgrazie, è miracolo esser vivi, — diceva la poveretta, e sul pozzo e per la via l’accompagnava narrandole i tanti flagelli che l’avevano colpita e la vita raminga e desolata che da più mesi conduceva. La Mariuccia la fece entrare co’ bambini nella casa dov’era a servire, e parlato co’ padroni si mise insieme con essa a preparare un po’ di foglia pei bachi. Quando furono sole, — La è andata più bene di quel che credeva, disse la Mariuccia. Avevo paura che non vi vedessero volentieri, perchè qui, non l’hanno mica troppo con voialtri Italiani… Vi trattano, che so io, da gente turbolenta, da ribelli…

— Lo so, Mariuccia…! Credi tu che se la necessità di stendere la mano, per non vedermi morire di fame queste povere creature, non mi avesse da lungo tempo fatta dura la pelle, ch’io sarei stata mai capace d’affrontare i sarcasmi con che, appena passato il confine, si fanno tutti un dovere di punire la nostra sventura? Oh! ma che cosa abbiamo fatto? Che cosa ha fatto, dico io, il nostro povero villaggio? In che mai possono avervi offesi questi meschini fanciulletti, che non sanno ancora neanche parlare?

— Dicono, che vi siete dichiarati Italiani….

— Diacine! E voialtri, che cosa siete voialtri?

— Qui siamo Imperiali.

— Imperiali! Oh sì! perchè v’è colà su d’una via comune, in mezzo a’ campi nostri e vostri senza distinzione, un vecchio confine di pietra, che i fanciulli di ambi i paesi avranno rovesciato, se basta, almeno almeno un migliaio di volte! Ma senti, ti prego, come parlate, come vestite, che Signore si prega nelle vostre chiese? Io trovo che siamo tutti cristiani e fratelli, perchè voi intendete me, io intendo voialtri, e preghiamo tutti insieme quell’istesso Iddio e quell’istessa benedetta Madonna. Quei cani di soldati, vedi, che sono venuti ad abbruciarci, bestemmiavano in una lingua che a noi poveretti pareva tutto l’abbaiare delle bestie, ed avevano certi visi tutti differenti dai nostri, e bisogna poi che non pregassero niente affatto il nostro Signore e la nostra Madonna, perchè altrimenti non avrebbero osato far tutti quegli orrori nella nostra chiesa dinanzi al Sacramento; anzi contro la Chiesa e contro il Sacramento!

— Eh, voi avrete ragione, rispose la Mariuccia. Ma vi so dire che qui la pensano bene altrimenti. Bisognerebbe che sentiste le belle prediche che fa su questo argomento il nostro bravo pievano.

— Oh, io non so di lettera! conchiuse Oliva alquanto corrucciata; ma credo che tutto il latino di questo mondo non potrebbe giammai persuadermi che sia ben fatto maltrattare quelli che patiscono!

Allora la Mariuccia procurò di barattare discorso, e le chiese d’un loro vecchio zio, che quando vivevano insieme era sempre malaticcio.

— È morto, rispose mestamente Oliva, ed anche la povera zia Giustina è morta.

— Forse laggiù?… allora dell’incendio?

— No: dappoi; egli a Claujano, e la zia all’ospitale… Oh, la è un’orribile istoria! Tu sai, ella continuò dopo un momento di pausa, che quando la nostra famiglia si divise, egli e la zia Giustina, che non erano maritati, fecero casa insieme. Coi loro risparmi avevano comperato a Jalmicco una picciola casuccia, tre camerette; la zia tesseva, e se la campavano abbastanza bene. Ultimamente il pover’uomo era quasi sempre ammalato, e quando vennero i soldati, trovavasi a letto e non poteva fuggire. La zia non volle abbandonarlo, e s’inginocchiò sulla porta della camera sperando di commuoverli a misericordia. Oh sì! misericordia. Vennero; lo cavarono nudo dal letto, lo gettarono da una finestra nel cortile ed appiccarono fuoco. Ella, raccolte le lenzuola, le coperte e quel più che poteva di filati e di cenci, e con essi ravvolto alla meglio quel misero corpo tutto insanguinato e pesto dalla caduta, s’ingegnava di strascinarlo fuori dalle fiamme in riva al torrentello che attraversa il villaggio. Alcuni fuggenti, impietositi dalle grida del pover’uomo, lo trasportarono con loro a Claujano, dove morì narrando tali orrori da far raddrizzare i capelli. Ella stette lì diversi giorni immobile come mentecatta a guardare l’incendio. Quando tornarono i nostri a cercar nelle rovine, la trovarono che più non conosceva nessuno. Teneva a sè dappresso alcuni pezzi mezzo abbruciati del suo telaio ed un gran mucchio di filati cavati fuori dal fuoco, a cui stava appoggiata. I soldati, forse per dileggio, le avevano messo a’ piedi una scodella di vino con della salsiccia tagliata dentro a mo’ di zuppa. Non poterono farle pronunziare una sola parola. Guardava stralunata con un certo sorriso così strano che cavava proprio le lacrime. Pareva che i suoi occhi, dinanzi ai quali era passata tutta quella orrenda scena di distruzione, non potessero più ravvisare anima viva. Volevano menarla via, ma non fu possibile; strillava, si strappava i capelli, mordevasi le dita. Il nostro buon parroco, che in tutta quella tremenda disgrazia non ci ha mai abbandonati, avvisato del caso, venne a vedere di lei. Parve un istante riconoscerlo, perchè gli prese il lembo del vestito e glielo baciò con grande affetto; ma non fu nulla di farla muovere di lì, e dovette andarsene com’era venuto. Egli si adoperò per trovarle un posto nell’ospitale di Udine. Quando vennero a levarla, comprese e si mise a piagnere e s’inginocchiò, e tornatole l’uso della parola, scongiurava per le viscere di Cristo che non volessero metterla all’ospitale! La condussero per forza, e tre giorni dopo era morta!

— Povero zio Coletto! povera zia Giustina!.. Che fine deplorabile! Ah, per pietà, Oliva, non parliamo altro di queste brutte vicende! — disse tutta rattristata la ragazza. E Oliva con quel suo accento indurato da’ patimenti,

— Ti fa male eh? pensa poi chi le vede coi propri occhi; chi ne fu parte! E s’intende, non ti ho narrato che di due soli. Sai tu quante storie di lagrime e di sangue potrei ancora accumulare?… Oh! cotesto non è appena il quartese. Chi potrebbe numerare i tanti periti miseramente dopo proprio scappati dal fuoco? E quelli che periranno in grazia degli stenti e della miseria? Lascia che venga l’inverno!…

Entrò nella stanza la figlia della padrona di casa, e con bel garbo invitò le donne e i fanciulli in cucina a far colezione. Le due cugine si sedettero l’una appresso dell’altra, e così mangiando, la Mariuccia tirò fuori il discorso del suo fidanzato. Oliva si rasserenò alquanto pensando alla fortuna della ragazza, e questa, finita la colezione, la fece salire nella sua cameretta per mostrarle quel po’ di mobile che aveva apparecchiato, e di quella strada nell’intenzione di cercare nelle sue robe se trovava qualche cencio pe’ bambini e uno straccio di camicia per lei. Erano lì tutte intente a sciorinare vestiti, biancheria, quando Oliva diede d’occhio alla coltrice pulitamente piegata in quattro nell’armadio. L’afferrò colle mani tremanti, la dispiegò tutta quanta.

— Questa è la mia coltrice! gridò meravigliata.

— Oh! vostra…, balbettò Mariuccia.

— Eh! mio Dio, non vuoi che la riconosca, se la ho cucita colle mie mani? Aspetta, aspetta…. e cotesta, diss’ella, è la copertina del mio letto nuziale!… Ma come va questa faccenda? Mio Dio! e qui, se non isbaglio, hai la lentima del mio pagliericcio? Ma non ho mica le traveggole, sai; questa è tutta roba mia…

— Come diacine volete che sia vostra, se la ho comperata?…

L’altra fuori di sè per la contentezza non l’ascoltava. Fatta rossa in volto come una bragia, piangeva, rideva, baciava or l’uno or l’altro di quei capi. — E chi mi avrebbe detto, sclamava, di trovar qui le mie povere robe che ho tanto piante…. che credeva abbruciate!… Ah mio Dio, me lo sono bene sognata io questa notte! E poi diranno che non s’ha da credere a’ sogni! Oh Mariuccia, che consolazione! Và che tu lo sapevi, ed hai voluto farmi una sorpresa!

— Se vi dico che le ho comperate…. Mi costa due fiorini la coltrice!…

— Due fiorini?… Ma non capisci che la ne vale almeno almeno quindici? La pura fodera l’ho pagata io in bottega a Palma dieci belle svanziche. La ragazza mortificata piangeva.

— Or via, non ti affliggere. Sai che cosa faremo? Anderò da’ miei fratelli, dalla sorella ch’è gastalda del conte, da tutti quelli che conosco; narrerò il caso: è possibile che qualche buon’anima non m’aiuti, e che non arrivi ad accumulare il denaro che puoi avere sborsato?

— Ma io non posso cedervela! disse la fanciulla costernata. Si tratta della mia fortuna…. Mio Dio! Gli è tanto tempo che stillo per prepararmi un po’ di mobile, e adesso che il Signore mi ha aiutata col mandarmi una tal base, dovrei perderla?… Se anche voi mi restituiste i quattrini che ho spesi, dove più comperare a così buon mercato?

— Vorresti dunque tenerti ciò ch’è mio? Ti trovo mille testimoni che conoscono questa roba. Ella è evidentemente rubata, capisci?

— Oh no rubata!

— Come no? Basta a provarlo i prezzi vili che dicesti. O Mariuccia, non voler essere cattiva! Pensa alla mia situazione…. alle mie creature che sono nude! Verrà l’inverno; a me povera mendica toccherà di partorire sulla strada, o su qualche fenile esposta a tutte le intemperie: e tu potresti in buona coscienza tenerti questa roba ch’è sangue mio?

Mariuccia non rispondeva, ma nel pensiero le tornavano tutti i suoi pensieri di felicità. Che cosa avrebbe detto il fidanzato, quando l’avesse saputa spogliata di quel po’ di mobile di cui tante volte ella gli aveva parlato? Che la famiglia di lui? Doveva dunque andar in casa proprio nuda di tutto?…

— Non rispondi? replicò Oliva. Oh! se ti ostini, pensa che il Signore ti castigherà. Egli ha lunghe le mani, vè!

— Ma perchè ha da castigarmi? In fin dei conti, io ho comperato in pubblico, che tutti han veduto. Se questa roba era vostra, aggiunse ella colla voce tremante e tutta rossa in viso, voi foste ribelli! e il saccheggio e l’incendio, io l’ho sentito in predica le cento volte, fu una giusta punizione di cui possono approfittare i sudditi fedeli del nostro buon sovrano.

— E tu Mariuccia, tu mia cugina, tu che mi volevi tanto bene, ardisci proferire una sì orribile bestemmia?… gridò la donna indignata. Ebbene! tienti pure cotesta roba, la ti farà buon pro! Io nuda e raminga, non vorrei per certo sulla coscienza di simili acquisti. Mentre tu dormirai tranquilla sotto quella coltrice ch’è mia, io mi morirò forse di freddo; ma ogni volta che la ti toccherà la pelle, tientelo bene a mente, tu avrai sull’anima, non uno, ma sette peccati mortali! — E corse giù per le scale a precipizio, e presi i suoi figliuolini uscì da quella casa pregando Iddio che facesse giustizia.

 

VI.

LA FRAILE.

Nella parte interna di un bel palazzo sul Traunick a Gorizia, in una stanza riccamente addobbata, sui cuscini d’una magnifica dormeuse giaceva languidamente cogli occhi semichiusi una persona di nostra conoscenza, la fraile Cati. Le doppie cortine di seta abbassate lasciavano penetrare appena tanto lume da discernere gli oggetti. Avviluppata in una candida vestaglia di mussolina, le cadevano sul collo negligentemente due grosse trecce di capelli neri; le braccia abbandonate, le mani e la faccia tanto bianche, che se non fosse stato il lieve palpito del seno a palesarla viva, l’avresti tolta per la bella donna descritta da messer Francesco nel Trionfo della Morte. A lei dappresso, in piedi, una giovane fantesca agitava un piccolo ventaglio, ma con tanto riguardo che niun rumore n’udivi, tranne il pendolo dell’orologio, che in forma di tempietto colle sue colonne d’alabastro sull’un dei tavolini laterali misurava lentamente il tempo. Quell’orologio, i candelabri d’argento, le molte porcellane, gli stipi, le sedie ad intaglio, la spalliera ed i bracciuoli della dormeuse foggiati a fiorami inargentati che venivano a cadere sul velluto dei cuscini da cui pendevano ricche frange di ciniglia colore amaranto in armonia con quelle delle tende, le tavole di tarsia, le cornici dei quadri che adornavano le pareti, gli specchi, le scansie, tutto era manifattura viennese. Il barone nel suo affetto per la capitale voleva che ogni cosa gli venisse di là, perfino la servitù; e bene te ne accorgevi guardando alla sottile cintura, alla forma delle spalle e alla tinta biancastra della cameriera che assisteva alla fraile. Peraltro in quella stanza scorgevi un oggetto che non era di Vienna. Dinanzi alla finestra, tra le frange dei ricchi cortinaggi, in forma di lampada pendeva un picciolo vasellino di ghisa e dentrovi una pianticella rampicante. Non prezioso nè per metallo nè per ricchezza di adornamenti, egli era elegantissimo per le sue svelte e semplici proporzioni che ricordavano quelle graziose lucerne funerarie, che anche qui nel Friuli escono talvolta dal seno della terra a farci fede del buon gusto artistico dei nostri antichi. In evidente contrasto con tutti quei mobili sopraccarichi di minuzioso lavorío, finitissimi se vuoi in ogni loro dettaglio, ma pesanti nell’insieme, pareva che in quella stanza ei non avesse analogia che colla sola ammalata. Pallida il viso, colle trecce disciolte, senza ornamenti e negligentemente avvolta in quella semplice mussolina che nella sua leggerezza permetteva l’apparenza delle membra, anch’ella era bella più che per altro per la purezza delle forme e per quel non so che di armonico e di gentile che traspariva da tutta la sua persona. Ma un’altra somiglianza pareva ch’esistesse tra la giovinetta e quella pianticella destinata a vivere lì nella sua camera. Circondate da un’atmosfera fittizia, in mezzo ad oggetti stranieri, erano entrambe come prigioniere. La pianticella nel pallido suo verde stendeva gli esili germogli verso il raggio di luce che a traverso le griglie e le tante cortine veniva debolissimo a visitarla, e pareva con mesto desiderio anelare al suo clima originario, al sole e all’aria aperta del suo lontano paese. La fanciulla nella profumata penombra di quel magnifico boudoir pareva anch’ella languire come uccellino in gabbia dorata. Forse che nel core le batteva il desiderio d’una più libera vita; forse che dinanzi alle chiuse pupille le passavano memorie di altri tempi e di altri luoghi, e vólti di persone amate e le gioie e i sogni della infanzia; forse che mentre ella giaceva lì nel silenzio, colla persona gittata in quel suo mesto abbandono, la sua anima spaziava per le convalli della sua patria, e vedeva le cognite cime delle sue belle montagne, e respirava l’aria purissima del suo cielo nativo, e nell’orecchio le sonavano come canti le voci del dialetto che primo imparò dalla madre. Nata su quell’ultimo lembo della terra italiana, laddove due grandi nazioni si toccano e aspettano il giorno di strignersi con affetto fraterno la mano, ell’aveva nella fisonomia l’impronta d’entrambe. Quei due tipi gentilmente confusi la facevano più bella, come i torrenti e le montagne delle due diverse regioni ravvivano ivi e fan più dilettoso il paese. Indarno l’avevano da fanciulletta strappata di là per farla educare in uno dei primari istituti di Vienna: la capitale con tutti i suoi prestigi, la maestà della corte che aveva veduto dappresso, la vita elegante dell’alta società a cui il barone nel suo orgoglio la destinava, non avevano mai potuto farle uscire dal cuore l’affetto alla sua terra natale. Cresceva melanconica e straniera come il fiorellino della torrida, che a forza di stufe si vuol fare allignare in un clima agghiacciato. Oh quante volte ella, povero punto invisibile perduto nell’immensa congerie de’ bianchi fabbricati che costituiscono la capitale, sospirò per amore della patria lontana! Era cotesto il sogno delle sue notti e il desiderio incessante di tutti i suoi giorni. Come se la sua anima fosse stata un’emanazione della terra italiana e del sole che vi risplende, o che ve l’avesse creata la porpora dei nostri tramonti, o l’effluvio dei tanti calici che adornano le nostre convalli, ella era legata a quei luoghi, e divisa deperiva. Continue visioni del suo paese, a guisa di grandi quadri le passavano dinanzi alla fantasia e la chiamavano potentemente all’Italia. Un dì, insieme con le compagne l’avevano condotta sulla sponda del Danubio a veder la partenza d’un piroscafo. Guardava quell’immenso volume di acque livide che a guisa di mare procede maestoso incontro all’oriente; repentinamente le parve d’essere a Cividale a contemplare dal ponte gigantesco l’azzurra corrente del Nadisone che passa inabissata sotto i due archi ineguali, e vedeva il sasso su cui l’ardito architetto non dubitò di basare la superba sua mole; e le sponde screpolate coperte di lunga erba e di cespugli; e le case antichissime che paiono imminenti al precipizio; e i comignoli dei svelti campanili che qui e colà accennano all’epoca longobarda; e udiva i canti delle lavandaie che inginocchiate sulla ghiaia dell’alveo profondo sbattono in cadenza i loro candidi panni: poi la scena le si cangiava, ed era sull’Isonzo, e vedeva le verdi sue acque incoronate di schiume correre frettolose tra le rive ridenti seminate di pittoreschi villaggi, di villaggi che ad uno ad uno ella raffigurava e riconosceva con un palpito sempre crescente, finchè l’infinito desiderio della patria la fe dare in un dirotto di pianto. Un’altra volta, nel tempo delle vacanze estive, passeggiava di sera insieme con lo zio sull’alto dei bastioni. Dall’una parte la romorosa città co’ suoi eleganti equipaggi, colle sue vie illuminate a gas, frequenti di popolo infinito; dall’altra il silenzio delle fosse deserte e qualche raro lume perduto nel verde dei glacis; più lungi le linee di fanali degl’immensi sobborghi che fuggivano dinanzi alla vista, e taluni si specchiavano nell’onda quieta del fiume. Una nebbia leggiera, a guisa di velo trasparente gittato su d’una bella che dorma, avvolgeva tutta la vasta capitale e lasciava trapelare sovr’essa muti e bianchi i raggi della pallida luna. Ella affisò quel disco sparuto e vaporoso, e un istante le parve di vederlo brillare nello schietto argento che illumina le nostre notti; ma non era Vienna ch’ei rischiarava: un’altra città le si andava dispiegando dinanzi all’innamorata fantasia, una città di provincia ch’ella aveva più volte visitato da fanciulletta, Udine colla sua bella piazza contarena, e in quel vivace chiaro di luna gli svelti colonnami del corpo di guardia, in grazioso contrasto colla fontana e col gotico palazzo del Comune, e sovr’essi eminente in iscorcio il castello che si perdeva nell’ampio stellato immensurabile allo sguardo. Oh ella aveva coll’anima varcato le Alpi! La pianura del Friuli le stava dinanzi, e rammemorò i gentili venticelli che in quella stagione e in quella dolce ora vengono dal mare ad accarezzarla, la freschezza e la pace diffuse nella limpida atmosfera, gli effluvi della terra inumidita dalle rugiade, i canti armoniosi degli usignoli; e un impeto di affetto la riempì di cordoglio, e in quella sera si coricò tanto melanconica che la credettero ammalata. E lo era difatto: quell’interno desiderio, ch’ella nutriva in segreto, convertito in passione agía potentemente sul suo fisico, di modo che il barone credette che ne fosse colpa la vita troppo occupata ch’ella menava, e la levò dall’istituto. La speranza di ritornare in patria le sorrise allora con tutta la sua forza, ed ella rianimata cominciò subito a guarire, lo sguardo le si aperse alla gioia e le brillò di una luce inconsueta, le rifiorì il colorito, e divenuta vispa ed allegra, si faceva ammirare per la sua non comune bellezza che parve in quei giorni aver raggiunto il suo massimo splendore. Chi può descrivere la contentezza che le raggiava dalla faccia, allorchè vestita da viaggio insieme collo zio montò sulla strada ferrata? Il volo del vapore era assai men rapido del suo ardente desiderio, e guardava con ansia al sole che le pareva non volesse mai tramontare. La notte, mentre la maggior parte dei viaggiatori dormivano, ella, aperta la finestrella, contemplava la colonna di ardenti scintille della locomotiva che il vento arrovesciava all’indietro come la chioma del serafino che attraversa il deserto, ed era da lei benedetta più della nube che guidò gli Ebrei alla terra promessa. Quando apparve l’alba, le si dispiegò dinanzi la bella vallata di Gratz, e il sole nascente si specchiava nelle acque del fiume che là corre. A Lubiana udì i primi accenti del suo caro dialetto, e sull’alto del Prevalt le parve di sentir l’aura che veniva dal suo paese…. Oh la patria! la patria!…. e il cuore le batteva rapido, le tremavano le ginocchia, e commossa dall’infinito affetto lacrimava.

Ma giunta a Gorizia nel palazzo dello zio, dove tutto ricordava la capitale e dove frequentavano i primi signori del paese che avevano per onore di affettare i costumi e la lingua di là, le parve d’esser tornata di nuovo straniera. Aggiugni, che in quell’epoca era scoppiata la rivoluzione in Italia, e Gorizia era piena zeppa di militari austriaci che inondavano la sua casa di visite tedesche, e la conversazione si aggirava sempre intorno a truci progetti di guerra e a tristi novità di sangue che a lei cresciuta malaticcia e dilicata di fibra facevano male. Non già ch’ella scusasse i ribelli. Semplice giovanetta, nuova nel mondo e avvezza a rispettare l’autorità di chi credeva più sapiente di lei, non le passava neanche per la mente di contrastare alle altrui opinioni, tanto più che sarebbe stato un opporsi allo zio, da cui era amata come un idolo, e al quale la legavano la più viva gratitudine e il più tenero affetto figliale. Ma il suo cuore sensibile, ad onta della sua ragione, la faceva sempre simpatizzare per quelli che pativano. Quando cominciarono le ostilità, ella vide con ispavento avviarsi alla distruzione tutte quelle orde di soldati; e i cannoni e le bombe e i razzi innumerabili che seco loro trascinavano la facevano raccapricciare. Tremante come una foglia aspettò il primo rimbombo della battaglia, e la vista dei villaggi incendiati la inorridì. Stette tutta la notte su d’una finestra a guardare il fuoco, che come tante bocche d’inferno, qui e colà, in mezzo al verde dei campi divampava sempre crescente a devastare il suo amato paese. Oh s’ella avesse potuto salvarlo! Piangeva e pregava desolata, or gittandosi inginocchioni, ora strappandosi i capelli. Nel dimani più morta che viva la strascinavano in carrozza incontro alle schiere che ritornavano vittoriose. Gorizia era tutta in trionfo, le vie piene di gente che faceva echeggiare i più lieti evviva, sulle finestre parate a festa donne eleganti coronate di fiori che sventolavano i loro bianchi fazzoletti. La musica annunziò che venivano. Ella bianca come una statua guardava agghiacciata quei soldati ancora briachi della carneficina, che i suoi concittadini accoglievano con tanto applauso. Passavano, passavano, e nel mezzo conducevano una ventina di prigionieri, mutilati, sanguinosi, che si facevano marciare coi calci del fucile e a piattonate. Oh lo sghignazzare del popolaccio! le beffe e i sarcasmi che piovevano su quegli infelici!…. Si gettavano loro addosso ogni sorta d’immondizie, e vi fu una signora che dall’alto della sua carrozza si degnò di sputare in faccia ad uno di essi…. La fraile a quell’atto orribilmente villano si coperse il volto; avrebbe voluto esser sottoterra, e stette lì in tutto quel baccano cogli occhi e colle orecchie chiuse come se fosse morta di vergogna. Tornata a casa, si serrò nella sua camera, nè potè più mai cavarsi dalla mente l’immagine di quel giovane italiano, ch’ella aveva veduto così indegnamente ingiuriato. Molto tempo dappoi ella sognava ancora il suo volto pallido, i grandi occhi neri fieramente riguardanti, e i bellissimi denti, ch’egli discoperse un cotal poco sotto la bruna basetta in quel suo ironico sorridere, con cui parve che promettesse il dì della vendetta. Indarno nel Venerdì santo alcune di quelle signore vennero ad invitarla perchè facesse parte d’una lieta comitiva di Goriziani che volevano accompagnare le truppe che marciavano sovra Udine. Quai che si fossero le colpe di quella città, ella l’amava, e fremeva alla sola idea che fosse minacciata. Così più tardi, quando quasi ogni sera una processione di fiacres conduceva al monticello di Medea il bel mondo di Gorizia che là si adunava per godere lo spettacolo di Palma bombardata, ella aborriva dalla loro compagnia. Quella curiosità le pareva esecrabile, come gli osceni tripudi della plebaglia quando accorre in folla all’esecuzione di un delinquente. Nei giorni poi in cui si festeggiavano le vittorie degli Austriaci, ella si chiudeva nella sua camera, e negava di lasciarsi vedere da chi che si fosse. Cotesta malinconia, cotesto languore dopo la visita di N*** s’erano accresciuti fuor di misura. Passava le intere giornate a letto, od abbandonata sulla sua dormeuse cogli occhi chiusi in tetro silenzio, e dovevano usare tutte le precauzioni perchè a lei giammai non si parlasse nè di guerra nè di stragi e le giugnesse il meno che fosse possibile il rimbombo dei cannoni e il baccano della città festeggiante, mentre era evidente che le raddoppiavano il soffrire. Il barone era in pena, e temeva di qualche occulta malattia che distruggesse in secreto quella per lui carissima vita. Indarno aveva consultato i più riputati medici del paese: la ritrosia di lei congiunta alle loro disparate opinioni accrescevano l’imbarazzo. Ora avvenne, che proprio in quei giorni capitasse a Gorizia un celebre professore del Giuseppino di Vienna, chiamatovi ad assistere il principe di W*** tornato dall’Italia gravemente ferito. Il barone desiderò di fargli vedere la nipote. A quell’annunzio un impercettibile senso di disgusto trapelò dalla smorta fisonomia della malata; nondimeno accondiscese alla visita, e composta nella sua consueta impassibilità lasciò che il dottore la esaminasse e discorresse lungamente nel suo dotto tedesco con lo zio, senza ch’ella mai aprisse la bocca. Suggeriva un’altra vita, una vita di moto e di svagamento, e soprattutto un viaggio a qualche stabilimento di bagni. Ma dove condurla in quel momento di terribile agitazione politica? E in Italia ardeva la guerra, e le vie presentavano poca sicurezza, particolarmente per lei che tanto aborriva ogni sorta di trambusti. Al barone si presentò subito l’idea della capitale e degli eleganti bagni di Baden, a’ quali si avrebbe ogni giorno potuto trasferirsi col mezzo del vapore per le di cui corse ella aveva in altri tempi mostrato così viva simpatia. Ma la giovinetta si turbò tutta quanta, e giugnendo le mani supplicava: Oh, no a Vienna!…. fucilano a Vienna!…. — ed atterrita da feroci immagini di sangue s’impallidì come un cadavere, e tale un tremito le si diffuse per tutta la persona, che ben compresero come quel progetto sarebbe stato morte per lei. Quando partito il dottore ella fu sola con lo zio, che appoggiato sulla spalliera della sua dormeuse stava contemplandola con accorata tenerezza, si lasciò cadere colla faccia lagrimosa sulla mano di lui, e mentre gliela copriva di baci, — Oh! mio buon padre, supplicava, per pietà salvatemi voi!

— Ma che posso io fare per te? Parla, angiolo mio! le rispondeva il barone; e chinandosi tutto sovr’essa aspettava coll’anima aperta che la gli chiedesse magari il sangue.

— Andiamo via di qua! diss’ella; andiamo a vivere nella nostra romita villetta sulle sponde del Nadisone: la pace dei campi e l’aria balsamica che vien giù colle acque del torrente mi guariranno!

— Ebbene, se lo desideri, noi partiremo anche domani; solamente, rifletteva il barone dopo un momento di pausa, io non potrò mica assentarmi per molti giorni da Gorizia, adesso che passa tanto militare.

— Oh! io non vi chiedo un tale sacrifizio, rispose la fanciulla. Voi rimarrete qui con tutta la famiglia: a me basta l’assistenza della vostra buona gastalda, che mi voleva tanto bene quand’era piccola, giacchè io voglio là mettermi a una vita semplice e affatto campagnuola. Farò con lei delle lunghe passeggiate; se me lo permetterete uscirò anche talvolta coi cavalli, e vedrete che in breve quando voi verrete a trovarmi io sarò affatto risanata. — Il barone contento di quest’ultima parola che rivelava in lei viva ancora la speranza, le promise di contentarla, ed uscì a disporre perchè nel dimani fosse tutto pronto per la partenza.

 

VII.

LA PROCESSIONE.

— È inutile, buona donna; non vedete i cavalli già pronti? figuratevi s’egli ha tempo adesso d’ascoltare i vostri piagnistei!

-Ah! per carità, signor Franz, un solo minuto; si tratta del mio Vigi che vogliono fare soldato…. — Queste parole si cambiavano nell’atrio del palazzo del barone tra un cameriere tutto attillato e una vecchia contadina che insisteva per essere presentata al padrone. Ella aveva seco il figliuolo, un bel ragazzotto bruno, che, se non isbaglio, noi abbiamo veduto alla sagra di Madonna di Strada, e sulla porta, colla testa china e tutta chiusa nel suo ampio fazzoletto a croce, stava la Mariuccia, che nel suo dolore li aveva seguiti a Gorizia, sperando, la semplice, di poter redimere l’amato giovane, se non altro a forza di lacrime. — Ma se vi ho detto che questo non è momento di disturbare i padroni! Or via, capitela una volta e andatevene in vostra malora! brontolava il cameriere. Sono tre grosse ore che si aspetta qui coi cavalli attaccati, e adesso che la fraile s’è finalmente alzata ci vorrebbe proprio anche quest’altro impiccio! — In quella vestito da viaggio il barone scendeva le scale. La donna corse a baciargli la mano, e tutta lagrimosa gli narrò del figliuolo. — Oh! oh! diss’egli; ma che cosa v’immaginate? ch’io possa farlo restare a casa quand’è l’Imperatore che lo chiama all’armata?

— O signor barone! ella che ha tante conoscenze a Vienna…. una sua parolina che ce lo salvasse come già anni il figlio di Piero!…

— Erano altri tempi, madonna. Adesso si tratta di servire la patria…. e poi la vita del soldato non è mica la così grande disgrazia! Gli è un bel giovane, robusto…. Fátti in qua! diss’egli a Vigi che cavatosi il cappello gli si appressò tutto rispettoso. Perdinci! gli ha una figura da vero granatiere. Su via, giovinotto, coraggio! — Ma egli accorato guardava la Mariuccia, che a quelle parole s’era messa in un dirotto di pianti. — Eh! non bisogna badare all’amorosa, sclamò il barone. La fortuna la va pigliata quando la viene, e la carta che vi chiama soldato in questi momenti la è una vera fortuna, capite! Doppia paga, ben trattati, carriera aperta…. E poi in una guerra d’insorgenti come questa, in un paese ricco come l’Italia, se saprete farvi onore, non vi mancherà certo la vostra parte di bottino; e quando cotesti matti si saran finiti di quietare, che già non anderà a lungo, poichè le nostre armi finora sono state sempre vittoriose, m’impegno io di procurarvi un congedo. Tutto al più un paio di anni, giovinotto, e poi tornerete a casa colle tasche piene di napoleoni, con una bella croce sul petto, e cotesta pazzerella che ora piagne, se avrà tanto giudizio da aspettarvi, sarà ben contenta di cangiar stato e di diventare la vostra signora moglie! Addio, addio; vi ricorderete di me e mi farete un brindisi al primo bivacco, quando sarete in campo! E gettò al giovane una moneta. — Partirono mortificati. Ma le parole del barone erano un seme che doveva dare il suo frutto. Il giovane le andava ruminando continuamente, ed esse avevano acceso ne’ suoi neri occhi una specie di fiamma sinistra che consumò ben presto le lacrime che il pensiero della Mariuccia gli faceva versare. L’Italia, questo paradiso terrestre, questo paese dell’abbondanza e della ricchezza ch’egli aveva tante volte sentito magnificare, gli stava sempre nella mente. Se incontrava un ricco, se per caso vedeva lo scintillare d’un anello, di un monile, o di qualunque altro oggetto prezioso, subito gli veniva l’idea che di codesti in Italia ne dovevano essere a migliaia, e senza scrupolo nel secreto del suo cuore agognava all’oro dei ribelli, come a preda lecita e promessa. Insomma, egli s’andava ogni dì più formando al destino che l’attendeva, e questi pensieri gl’infondevano una certa aria marziale e uno spirito d’intrapresa, di modo che quando venne l’ordine di partire per l’armata, egli era di già soldato nell’animo e in gran parte disposto a dar prove non indegne dell’austriaco valore.

Frattanto il barone che aveva accompagnato in campagna la nipote, se ne tornava contento che il piccolo viaggio, invece di esacerbarne le sofferenze, l’avesse anzi alcun poco esilarata. Nei tre o quattro giorni ch’egli si trattenne in quella sua romita villetta abitata da soli contadini, aveva dovuto starsene affatto digiuno di notizie politiche, ed era impaziente di conoscere alcuni dettagli e i progressi dell’ultima vittoria. Nell’attraversare la strada postale, si ricordò che proprio in quel giorno alcuni graduati austriaci, tra’ quali un generale suo amico ch’era alla direzione del blocco di Palma, dovevano trovarsi a pranzo in un villaggio vicino in casa d’un conte suo congiunto di sangue, per solennizzare la ricuperata salute del nipote del maresciallo S***, che ferito sotto Udine, era là stato trasportato, e ordinò di dirigere a quella volta i cavalli, proponendosi di godere anch’egli di quel lieto convegno, e sperando di risapere da loro alcun che di preciso intorno ai grandi avvenimenti in quei giorni consumati. Ma non aveva fatto due miglia che dovette fermarsi. Una quantità di gente ordinata in lunga processione, col capo scoperto e alternando divote salmodie, gli veniva incontro proprio per la strada ch’egli doveva tenere. Erano gli abbruciati di Jalmicco che trasportavano l’immagine della Madonna e le reliquie dei loro Santi. Un buon prete impietosito dai lamenti dei miseri che andati a rovistare fra le macerie dei loro distrutti focolari avevano veduto quegli oggetti venerati esposti alla profanazione della soldatesca ivi accampata, aveva loro ottenuto di raccoglierli nella chiesa ospitale del vicino villaggio. Appena udita la nuova di questo permesso, la dispersa popolazione accorse da tutte le parti, e nel trovarsi lì riunita sulle rovine dell’amata terra natale, nel rivedersi dopo tante sventure, nel salutare il loro buon parroco venuto anch’egli per sì pietosa funzione, lacrimavano consolati, si strignevano in dolci abbracci, e alcuni arditi s’erano arrampicati sul campanile ad onta che il fuoco non vi avesse lasciato che le nude muraglie, ed avevano cominciato una scampanata che tuttora percoteva le orecchie del barone. Venivano prima le croci annerite dall’incendio, poi i gonfaloni, gli stendardi intorno ai quali sventolava ancora qualche brandello di seta arsiccia, indi i preti che portavano gli avanzi dei vasi sacri, degli arredi sacerdotali e le reliquie dei Santi, ultima l’immagine della Vergine, mutilata, col bambino cincischiato la faccia, monco le mani, e cogli occhi cavati. Seguiva una turba infinita di donne, che ad ogni versetto del salmo intonato dai preti e da’ cantori alternava nel suo linguaggio questi pietosi lamenti:

— Madre nostra benedetta, noi che vi avevamo vestita come una regina, col manto ricamato, coll’abito di seta colle frange d’oro; e vi hanno denudata e vi hanno tolta la corona dal capo, i veli dal seno….

— Madre nostra amorosa, noi che vi avevamo donato gli orecchini, appeso al collo e intorno all’arca il nostro cordon d’oro, riempite le mani dei nostri anelli; e vi hanno strappate le orecchie, insozzata la faccia, tagliate le dita!…

— Noi che ogni sera venivamo a recitarvi il rosario; e vi hanno invece maltrattata, bestemmiata, come noi cacciata di casa!…

— O cara nostra Madre tanto bella, tanto santa! chi più vi riconosce?

— O povera Madre nostra, che cosa hanno fatto del vostro divin bambino? Dove sono le croci d’oro che gli fregiavano il petto? Dove le tante rose di cui vi avevamo nei dì solenni adornata?…

E continuavano variando all’infinito cotesti lor treni. Quelle facce sparute e lacrimose, quei tanti fanciulletti scalzi e macilenti che seguivano le loro madri, quella popolazione tutta cenciosa che colle mani giunte e in divoto raccoglimento gli sfilava dinanzi trasportando, come gli esuli dell’antica Troja, gli avanzi venerati del suo culto, quelle preci e quei mesti lamenti conturbarono il barone e quasi suo malgrado lo commossero. Indarno per cancellare quella triste impressione egli procurò d’immergersi con tutta l’anima nella gioia del convito. Nè la lieta accoglienza che ricevette, nè le strepitose notizie venute proprio in quel momento dall’Italia, nè i reiterati evviva al magno Radetzki poterono in nessun modo cavargli dalla memoria il miserando spettacolo di cui era stato testimonio. Fra i bicchieri colmi di vino e l’allegria degli entusiastati compagni, altro ei non vedeva continuamente che la lunga e lugubre processione degli abbruciati di Jalmicco.

VIII.

GUSTI DELLA CAMPAGNA.

Non andò guari che la fraile Cati cominciò a risentire il benefico influsso dell’aria libera dei campi, ch’ella aveva tanto desiderato. Appena partito il barone, ella s’era messa a godere con tutta pienezza di quella vita campestre, e rinunziato ad ogni etichetta pranzava in compagnia della gastalda e di suo marito, usciva a far delle lunghe passeggiate colla Rosina loro figlia, una ragazzetta di quindici anni che le si affezionò ben presto come se le fosse nata sorella; vestiva semplice, e trovava un gran piacere a conversare così alla buona con essi e colle comari del paese facendo uso del suo nativo dialetto, le cui frasi erano sopravvissute nella memoria ad onta della straniera educazione, ed ora nel riudirle e nel tornarle a proferire le pareva di rivivere negli anni beati dell’infanzia.

Alzarsi ogni dì mattutina per respirare l’aura balsamica dell’alba e ricrearsi dello spettacolo del sole nascente, del canto degli uccelli, delle danze fantastiche delle variopinte farfalle; vederlo tramontare assisa in riva al torrente, le cui onde illuminate dagli ultimi raggi le passavano dinanzi in rapidi volumi di oro e di porpora; bevere gli effluvi dei tanti fiori che su quell’ora malinconica prima di chiudere al riposo i vaghi lor calici sogliono esalarli più dilicati come un addio alla luce moribonda; contemplare nei notturni silenzi l’immenso stellato dei cieli e la mite vaghezza dei raggi lunari, quando si diffondono come piove d’argento sul vaporoso creato; coteste erano delizie ch’ella preferiva a tutti gli spettacoli che l’arte più raffinata avesse potuto offerirle nella società in cui aveva fino allora vissuto. Ma un’altra sorte di piaceri assai più cari al suo cuore ella sapeva procurarsi in quella solitudine. La sua ricca condizione e la liberalità dello zio la ponevano in istato di poter soccorrere molti disgraziati, ed ella come angelo di consolazione volava dappertutto dove sapeva di poter tergere una lacrima. In breve si sparse la fama della sua beneficenza, e in que’ contorni ell’era conosciuta ed amata come la madre dei poveri. Un dì, sul finire dell’autunno, sedeva al solito su d’una pietra dirimpetto al pozzo col cestellino al fianco, e agucchiava lesta lesta ricambiando ogni qual tratto gli affettuosi saluti delle contadine che s’avviavano ad attignere. In fondo al villaggio vedevasi aperta la porta della Chiesa; alcuni fanciulli s’andavano aggruppando là intorno, come se avessero aspettato qualche novità, e il concorso delle donne all’acque era in quella sera più dell’usato numeroso.

— Che abbiano proprio da battezzarlo nella nostra chiesa? interrogava una di esse.

— Ma sì! almeno questa mane sono stati ad avvisarne il curato; e poi non vedete il sagrestano che aspetta?

— Se fosse vero dovrebbero venir innanzi….

— Mi par grossa, diceva un’altra, che una creatura di quei di là s’abbia da battezzare in chiesa di cristiani!

— Oh bella! quand’è nata sul fenile di messer Valentino, vorresti che la portassero fuor di paese?

— Il fatto sta, ch’egli è un bel pezzo ch’io sono ad attignere e ancora non si vede anima viva.

— Non la battezzano, no, comare, state certa. I ribelli sono tutti dannati, e non è mica un’oca il nostro curato per impacciarsi con simile genía.

— Ecco mo che vengono! sclamava una giovinetta; e tutte a guardare a quella volta.

— Ah mio Dio, non c’è che la levatrice!…

— E la creatura?…

— Eh perdinci! Trattandosi di roba sua, il diavolo se l’avrà sul fatto inghiottita.

— Oppure, soggiugneva una vecchia, la madre che dev’essere una strega maledetta, poichè dicono che in quello stato ha potuto scappare di mezzo alle fiamme, l’avrà partorita con un piedino di porco, e si saranno accorti, ed ora non la si potrà battezzare.

— Vedete la Menica che parla colla levatrice!… Ella saprà com’è questa faccenda…. — E tutte lasciato l’attignere si fecero curiose intorno alla nuova venuta.

— Non ponno trovare in tutto il paese chi voglia tenerla al battesimo, disse quest’ultima, poichè si tratta di ribelli, capite!

A queste parole la fraile si alzò dal sedile, e fatto segno alla Menica d’accostarsele, — Buona donna, le disse, vi prego, avvisate subito il curato che sarò io la santola di quella povera creatura. — E s’avviò a casa; indi di lì a pochi minuti era in chiesa tra una folla di curiosi, e con devoto raccoglimento teneva al sacro fonte una fragile creaturina i cui pianti prolungati pareva che implorassero la compassione degli astanti. Finita la cerimonia, le campane sonarono a festa, e furono forse la sola voce di gioia che si congratulasse colla madre di quella nuova animetta ch’ella aveva messo nel numero dei viventi e che allora era entrata nella fede de’ suoi padri. In quell’istesso giorno la fraile si fece accompagnare al fenile di Valentino e volle salutare la puerpera. Ma qual fu la sua sorpresa, quando nella meschina che giaceva su d’un po’ di paglia in quel luogo esposto a tutte le intemperie, ravvisò la poveretta di N***, a cui pochi mesi prima il barone aveva così crudelmente negato l’elemosina! E anch’ella, la donna, parve l’avesse subito ravvisata, poichè si turbò tutta quanta, e divenuta di bragia, colle mani si nascondeva la faccia. La fraile le si appressò, le si assise d’accanto, e con voce affettuosa: — Noi ci siamo vedute ancora, le disse, e in cattivo momento…! Or via, facciamo la pace, poichè io voglio per quanto posso riparare l’offesa di quella brutta sera, e oggi che ci siamo fatte parenti, e che in qualche maniera sono anch’io la madre della vostra creaturina, voi non potete negare di strignermi la mano in segno di perdono e di amicizia! — Oliva gliela baciò, e rassicurata da quelle benevole espressioni, osò pregarla che procurasse di far sapere a suo marito lo stato miserabile in cui si trovava. Dopo l’incendio, egli s’era messo a giornata in una bottega da falegname. Un contadino dell’Illirico, che possedeva alcuni campi a Jalmicco, aveva più volte tentato di acquistare da lui il fondo della casuccia distrutta. Sperando sempre in qualche risorsa, essi non avevano voluto acconsentire; ma finalmente costretti dal bisogno s’erano rassegnati, e Oliva, lasciati i fanciulli a una sua sorella, s’era avviata per trattare coll’acquirente. Gli stenti, la fatica del camminare e l’afflizione le accelerarono il parto: sorpresa dal male, aveva dovuto pregar ricovero in quel fenile, ed ora si consolava nell’idea di poter ancora protrarre cotesta vendita dolorosa al cuore. La fraile le promise di mandar subito a vedere di suo marito, e chiamato messer Valentino, gli ordinò che provvedesse in suo nome tutto ciò ch’era necessario per la puerpera; poi la sera colla gastalda cercò di combinare il modo di alloggiarla. In pochi giorni una polita casetta lì nel villaggio fu allestita con tutto l’occorrente per lei e pei fanciulli, e quando venne il marito trovò preparata una botteguccia da falegname con gli utensili che gli facevano duopo, sicchè per vivere egli e la famigliuola bastava che avesse lavorato. Quei poveretti piangevano di consolazione e di gratitudine, e la fraile era divenuta l’amica dell’Oliva e la madre de’ suoi figliuolini, ch’ella spesso visitava, e le cui innocenti carezze e l’affetto ingenuo le compensavano in gran parte le molte lagrime ch’ell’era destinata a versare. L’inverno era intanto venuto, e il barone con lettere e visite frequenti la sollecitava a tornarsene alla città; ma essa a forza di preghiere seppe persuaderlo a lasciarla ancora in quella solitudine per lei piena di attrattive ad onta di tutti i rigori della stagione. S’occupava continuamente di qualche benefico provvedimento pe’ suoi amati poverelli; una quantità di fanciulletti venivano a trovarla, ed ella aveva per tutti qualche regaluccio e qualche affettuosa parola. Alle giovinette insegnava alcuni facili lavori muliebri. Per la gente di campagna l’inverno ha molte ore disoccupate, ed esse se ne valevano per imparare dalla buona fraile a ricamarsi il fazzoletto de’ dì solenni, a cucir con garbo un grembialino, e talune anche a leggicchiare qualche libretto instruttivo ch’ella, a forza di pazientemente tradurre nella lingua nativa, aveva loro appreso a capire. Talvolta venivano a cantarle le villotte del paese, ed ella le ricambiava coll’insegnar loro qualche bella canzoncina italiana, o qualche divota preghiera. Passò così gradevolmente l’inverno, e parve che in grazia di quella vita semplice e di quelle dolci abitudini di campagna le si fosse a poco a poco rifiorita la salute, tanto la sua faccia era divenuta serena e tornato lo sguardo a rianimarsi d’una secreta speranza.

 

IX.

IL CANNONE DI MARGHERA.

Non era ancora comparsa la primavera, ma già diffuso nell’aere quel non so che di voluttuoso, che n’è il preludio, come se fosse l’alito della terra innamorata incontro al sole che deve farla germogliare e rivestirla del magnifico suo verde. La fraile aveva incominciato le sue liete passeggiate in riva al torrente. Spesso le allungava fino a un casale, dove una contadina sua amica allattava l’ultimo bambino dell’Oliva. Erano stati a cercare di lei per una sua parente gravemente ammalata, che prima di morire implorava di vederla, e la fraile, che l’aveva consigliata a contentare questo pietoso desiderio, nella sua assenza, aveva ella assunto la sorveglianza della famigliuola e le cure di madre per l’abbandonata creatura. Cotesta gita, ch’ella si aveva imposto come un dovere, l’era diventata così cara, che pativa se per caso trovavasi obbligata ad ometterla. Usciva per solito mattutina, portava seco qualche regaluccio per la balia, e camminava lesta lesta pensando al bimbo ch’ella ogni giorno vedeva crescere e farsi più grazioso. Doveva pur venire il momento ch’ella avrebbe discoperto su quella faccia infantile la scintilla dell’intelligenza! Oh sì! doveva in breve comparire l’anima in quei cari occhietti azzurri; e chi sa che il loro primo sorriso non fosse stato per lei, od almeno chi sa che un giorno o l’altro non l’avessero finalmente riconosciuta e ricambiato l’amore con cui ella così sovente li contemplava! Più d’una volta ella s’aveva goduto a spiare il bottoncino della rosa, o i teneri pinnocchietti della reseda per cogliere l’istante in che esalavano il loro primo profumo; ma sorprendere il primo lampo d’affetto nella creatura umana doveva essere ben più dolce! Assorta in codesti pensieri i suoi occhi vagavano commossi sulla magnifica scena che così camminando le offeriva il paese. Ivi il torrente scorre attraverso una vasta pianura. La nuova e l’antica capitale del Friuli, l’una dirimpetto all’altra, campeggiano sull’orizzonte a destra: Udine, che vista da quel punto sembra maestosamente assisa a’ piedi delle Alpi, col suo bel castello che guarda all’Italia; e in fondo alla pingue campagna che si dilata fino al mare il campanile d’Aquileja, colla sua bruna aguglia ch’esce dal folto come piramide destinata a sfidar l’ira dei secoli. Le ridenti praterie della sinistra paiono distendersi fino alle colline che da Butrio vanno a Rosazzo, e una quantità di paesuzzi seminati alle loro falde, in armonia cogli allegri casini campestri e coi cipressi che qui e colà ne incoronano le vette, dánno un aspetto pittoresco a quel lembo di paese che lì tutto ad un tratto si dispiega dinanzi allo sguardo del viaggiatore che viene da Trieste. Spesso nel tornarsene a casa ella sedeva a riposare in cospetto di quella bella natura, e consumava molte ore meditabonde spaziando col guardo innamorato or per l’infinito de’ cieli, ed or per la svariata prospettiva che le stava dinanzi. Una gioia segreta le balenava talvolta negli occhi, come se nel fondo del suo cuore si ridestasse qualche grande speranza, che gli uomini e gli eventi avessero indarno tentato rapirle. Allora la sua fisonomia assumeva un’espressione di tanta felicità, che pareva inspirata; ma ciò che le innalzava l’animo a quella specie di estasi non era nè lo spettacolo delle Alpi gigantesche che a guisa d’anfiteatro la circondavano, nè l’amena pianura già imbalsamata dal primo soffio primaverile, nè l’immensità e la purezza de’ cieli che le stavano sul capo, nè tampoco il pensiero della gentile creaturina ch’ell’era stata a visitare. Per quanto soave fosse l’immagine che questi oggetti le procuravano, v’era qualcosa di più profondo e di più sublime che in tali istanti aveva potenza di agitarla. Il suo occhio si posava sulla neve delle Alpi, sul mandorlo che incominciava a fiorire e a cui d’intorno ronzavano i mille insetti della terra svegliata, sulle acque del torrente, sulle prime farfallette della stagione che le danzavano innanzi nei due colori che pochi anni addietro nel nome del suo Pontefice avevano rianimato l’Italia; coteste erano dolci impressioni, ma quasi inavvertite. Ciò che la scuoteva siccome scintilla elettrica mettendole nell’anima il sussulto della vita e negli occhi il fuoco e il brio della giovinezza, era il cannone di Venezia che udivasi distinto rumoreggiare ogni tratto, e che le montagne ripercotevano da lungi. Sì! il rimbombo del cannone che tante volte l’aveva offesa, ora l’entusiastava e la riempiva di gioia ineffabile. Divisa dal mondo, relegata in quella sua volontaria solitudine, poco o nulla ella sapeva degli avvenimenti che in quell’epoca si consumavano; ma il cannone l’avvertiva che Venezia viveva tuttora, e che le sorti della sua patria non erano peranco decise. Legata per una specie d’istinto alla causa che là si difendeva col sangue, indarno le avevano insegnato a riguardar come un delitto la rivoluzione italiana: ad onta di tutti i ragionamenti ella sentiva nel cuore che là era raccolta come nei palpiti di un moribondo tutta l’energia della sua povera nazione, e pregava perchè ella potesse resistere e trionfare della prepotenza delle tante armi che la circuivano. Per lei, quella era quistione di vita o di morte, e così lontana lottava anch’ella coll’anima e respingeva il nemico, e le fluiva nel sangue quell’istessa ardita speranza che faceva prodi le scarse legioni che difendevano Marghera e la tanto contrastata piazza del ponte. La stagione avanzava, i monti s’erano oramai vestiti di verde, infoltivano gli alberi, coprivasi di fiori la terra, ed ella continuava ogni giorno ad uscire all’aperto, avida di quel cannoneggiamento, come di musica che le mettesse nell’anima l’entusiasmo, e nei giorni ch’ei taceva, malinconica ed ammalata, quasichè le fosse mancata la sorgente che le alimentava la vita.

Un dì, era digià l’agosto, invitata dalla dolce frescura che sul tramontar del sole dalle acque del torrente si diffonde a refrigerare la campagna, ella si trasse così passeggiando solinga fino alla chiesetta campestre che dicono di Madonna di Strada. Erano più giorni che non s’udiva il cannone, ed ella seduta sul muricciuolo del cimitero, a piedi d’un cipresso, mesta e pensierosa intendeva con ansia l’orecchio alla lontana laguna. Alcune nubi oscure a guisa di panno funebre velavano l’occaso, e dietro ad essa come macchiato di sangue calava muto e senza raggi il sole; giaceva in un profondo silenzio il creato, e per quanto ella aguzzasse l’udito, l’aria lo vellicava tranquilla senza portarle il fremito di nessun rumore. Stette così buona pezza in attenzione, quando la scosse il salmeggiare di alcune voci monotone che si facevano sempre più d’appresso. Vide luccicare tra il verde degli alberi alcuni fanali, poi una croce. S’avvide ch’era un funerale che veniva alla sua volta; ma i suoi pensieri da qualche ora erano divenuti così tetri, che l’idea di un cadavere e della triste cerimonia che andava a compiersi lì sotto a’ suoi occhi, lungi dal farla fuggire, aveva anzi qualcosa di analogo colla terribile malinconia in cui era caduta, e unì la sua voce a quella dei sacerdoti, e pregò anch’ella la requie e la luce eterna per lo sconosciuto che all’ombra di quella devota chiesetta veniva ad aspettare il dì del tremendo giudizio. Intanto il funebre corteo s’era arrestato, avevano deposto la bara sul limitare del cimitero, e i sacerdoti attendevano in lugubre silenzio. In antico due villaggi che formavano una sola parrocchia avevano di comune accordo eretto alla Vergine quella chiesetta e consacrato ai loro defunti il praticello che la circondava. Caduta la Repubblica Veneta, la spada dei vincitori segnò a capriccio un confine politico che squarciò quel luogo tra due diverse province. Ma ad onta di tai regolamenti, il cimitero di Madonna di Strada era rimasto promiscuo, e Veneti ed Illirici, riuniti almeno dalla morte, dormivano indistintamente e confondevano insieme le loro ossa in quella terra consecrata dalla pietà dei loro padri. Solo il villaggio italiano per la tumulazione dei suoi era obbligato ad aspettare un sacerdote dall’Illirico; perciò avevano ora deposto il cadavere a’ piedi del muricciuolo, e finchè fosse venuto, rimaneva interrotto il funerale. La fraile nel tornarsene a casa pensava addolorata alle tante divisioni che laceravano la sua povera patria. La malinconia dell’ora, l’ostinato silenzio della laguna, un presentimento funesto ch’ella si sentiva nel cuore, quel morto, che a guisa di sinistro augurio era venuto a turbare la sua solitudine, avevano potentemente agito sulla sua immaginazione, di modo che in quella sera, taciturna e scoraggiata si ritirò nella sua camera prima del consueto. Si appoggiò coi gomiti alla finestra che guardava verso mezzogiorno, e contemplando la notte si abbandonò di nuovo alla voluttà del meditare. Era sórta la luna, e illuminata da lei le si spiegava dinanzi la pianura che si confondeva col cielo senza che l’occhio arrivasse a discernerne i confini. Là era l’Italia! Il pensiero gliela figurava tutta intera nella sua forma geografica, tra i due suoi mari e coll’estrema sua isola vòlta al limite africano…. Oh! se l’alito di Dio la rianimasse ancora una volta, e riunisse in un solo pensiero di vita i ventiquattro milioni della sua popolazione, come quando spirò dai quattro venti a far rivivere le ossa dei morti che il Profeta della risurrezione vide schierarsi sulle rive del Chobar in compatto ed onnipotente esercito!… E pregò perchè il Signore fosse santificato, e venisse sulla terra il regno della sua divina giustizia. — Si coricò, chiuse le stanche pupille, e giunse finalmente ad addormentarsi; ma quantunque in altra forma e diversamente colorate dal sonno, le stesse fantasie continuavano a germogliarle nel cerebro. Le pareva d’essere vestita a lutto, come quando l’era mancata la madre, e che un velo nero le copriva la fronte e discendeva fin quasi alle calcagna: era assisa come al suo solito in riva al torrente, ma le sue acque avevano cangiato colore: erano fosche e scorrevano in tanta copia, ch’ella pensò che si fosse tutto ad un tratto liquefatta la neve dei monti. Guardò; ma i monti erano spariti, e in quella vece s’allargava una campagna senza limiti, il cui lontano orizzonte si perdeva nella nebbia. Allora non riconosceva più il sito: le pareva d’esser trasportata in un deserto, dove a confine del creato scorresse quel volume di acque nerastre. Guardava atterrita a sè d’intorno, e non scorgeva che ghiaie interminabili, terre aride e campagna desolata. Solo dalla parte di mezzogiorno vedeva in lontananza una specie di giardino i cui alberi fioriti digradavano in ogni più vago colore; ma s’era sollevato un vento impetuoso che malmenava quelle loro teste gentili e delicate come piuma: il cui soffio agghiacciato giugneva sino a lei, le scomponeva i capegli e le faceva stridere intorno alla persona il lungo velo e le vesti di seta. La bufera s’andava sempre aumentando, e nuvole di fiori schiantati avvolti in turbini di sabbia venivano spinti attraverso la corrente del nero fiume. Il rugghio della procella era divenuto tremendo; pareva il tuonare d’innumerevoli artiglierie, pareva il grido d’infinite migliaia di morenti. Il giardino era già devastato, gli alberi a guisa di scheletri torcevano le braccia denudate, il fiume era tutto coperto dalle loro spoglie. Come quando fiocca la neve, o quando in primavera si sciamano le api, così spesse ed agglomerate in vortici di sabbia passavano continuamente e sempre più a lei dappresso, e il sibilo che mettevano pareva lamento d’infinite voci umane. Allora il sogno le si cangiò in tremenda visione. Que’ globi oscuri, quelle nubi travolte dalla bufera che incessanti valicavano il nero fiume, erano turbe di anime; erano i morti per la patria ch’ella vedeva passare all’altra vita. Una processione di venerandi vecchiardi colle braccia incrociate sul petto:

— Noi, le dicevano, noi le viventi barricate di Palermo! Noi lo scudo dei combattenti per la libertà!… Oh prega, prega per il nostro povero paese!

— Noi i traditi a Curtatone…. — Noi gli abbandonati sulla Piave…. — Noi i venduti a Milano!… gridavano altre legioni.

— Siamo morti contenti per l’Italia! Una speranza ci ha rallegrato gli spasimi dell’agonia…. Oh prega che il nostro sangue non sia sprecato!

Sacerdoti avvinti di catene, sacerdoti col crocifisso nella destra, altri sacerdoti colla spada al fianco:

— O giovinetta, le dicevano, siamo morti in difesa del nostro gregge; siamo morti a’ piedi dei profanati altari…. Uno Iddio! Una giustizia! Prega che venga il suo regno!

Poi fra una turba di guerrieri tutti coperti di sangue, ella vide una donna di maestoso aspetto, ma di straniera fisonomia. Aveva le chiome bruttate di fango, le vesti squarciate, e scalza e insanguinata i piedi gentili. Nel passarle dappresso le stese una mano bianca come neve, e portava in dito l’anello nuziale. Le parve allora che incoraggita da quel gesto ella la interrogava: — O chi se’ tu che così dividi le lagrime e il sangue de’ miei? Dove andate, o difensori della nostra causa? Qual destino è riserbato a questa povera Italia? — Ella non rispose a tali domande, ma versando un torrente di lagrime: — Fuggi, le disse, da questo mondo perverso! Ritírati nel santuario, consacra al Signore i tuoi giovani anni, e impetra da lui sorte migliore agli orfani figlioletti miei ch’io lascio alla tua patria! — Allora udì un fragore tremendo come di mina che scoppiasse, e uno spirito fiero con la miccia ancora accesa nelle mani trapassava nell’aria a guisa di angelo sterminatore. Le schiere dei morti cantavano un inno e benedivano alla generosa Ungheria. Ma altre legioni s’affrettavano intanto al fiume. Erano giovanetti di tutte le stirpi italiane, dal Lombardo risoluto all’adusto e vivace Siciliano. Le loro recenti ferite sanguinavano tuttora; erano tristi, macilenti; taluni piangevano…. altri in atto dispettoso volgevansi a riguardare addietro, come se più della morte li crucciasse il pensiero della vittoria nemica. Uno tra essi le si fermò dinanzi e la fisava come se l’avesse ravvisata. Era la stessa faccia pallida da lei veduta a Gorizia, e che tante volte dappoi ella aveva mestamente ripensata, ma, oh quanto diversa! Allora, benchè prigioniero, il suo sguardo ardeva d’una così ineffabile speranza, che come scintilla elettrica ella se la sentì subito propagare nel cuore. Adesso que’ grandi occhi neri la guardavano muti, agghiacciati nell’espressione di un dolore che non verrà mai più consolato. Il segno di una ferita gli attraversava la fronte, la barba squallida e i capelli tutti bruttati di polvere e di sangue rappreso; un’altra ferita in guisa orribile gli squarciava il fianco…. Le pareva che a quella  vista ella commossa da un irresistibile impeto d’affetto sclamasse:

— Cara, desiderata immagine che hai sì spesso consolato la mia solitudine, ahi! perchè mi torni adesso innanzi così mesta? Dove sono le gioie che in mezzo ai vilipendi di quella infame giornata mi prometteva il tuo divino sorriso? — E si slanciava per baciare il sangue di quelle grondanti ferite.

— Addio, sorella! le diceva allora il giovinetto. Questa che vedi è forma vuota, nè io posso stringerti la mano pietosa che tu mi distendi…. Tutto è finito! L’ultimo baluardo della nostra indipendenza è già in mano al nemico. Venezia è caduta! e noi già fummo…. Se un disperato valore avesse potuto risparmiarle l’estremo fato, questi che son qui meco l’avrebbero salvata. Ma altrimenti decretava Iddio…. forse perchè le colpe dell’Italia fossero lavate nel nostro sangue e nelle nostre lagrime; e non ascoltò le preci di una popolazione desolata che tutta intera si prostrava dinanzi ai suoi santi altari. Ma se a noi non diede la vittoria, ci diede almeno il coraggio della prova, e sia benedetto il suo santo nome! Ora, quelle sembianze mortali che tu amasti, o sorella, giacciono fra le rovine di Marghera senza sepoltura cristiana, e forse le calpesta il piede impuro del mercenario croato…. Io vado nel seno di Dio! Tu che rimani, offerisci in olocausto al Signore la tua vergine vita, e come candido cereo che arde nel santuario, prega! prega, o sorella, perchè la generazione ventura cresca più di noi virtuosa, e possa ella redimere dallo straniero la nostra povera patria! —

Fu tanto e così sensibile il dolore che queste parole le recarono, che le si ruppe il sonno, ed ella si trovò tutta bagnata di lagrime. Appena giorno, le portarono una lettera del Barone. In essa lo zio le annunziava, come Venezia aveva finalmente capitolato, e accennando all’ordine ristabilito ed alla pace che oramai non poteva così facilmente turbarsi, esprimeva il desiderio ch’ella ritornasse in Gorizia, anzi chiudeva col dirle, che fra pochi giorni sarebbe egli stesso venuto a levarla. Tutto quel dì e buona parte del susseguente ella stette ritirata nella sua camera. Apparecchiava i bauli, disponeva le cose sue, scrisse a lungo: era visibilmente conturbata, ed alla gastalda, che messa in pena per la sua salute venne più volte a vedere di lei, confidò che doveva partire, e che era cotesto che l’addolorava. Poi quando tutto fu pronto, ed ella già vestita da viaggio, la chiamò di sopra. Aveva la scrivania aperta, e terminava di far la scritta su diversi gruppi che le stavano dinanzi.

— Vo via, Menica! e qui ti lascio alcuni ricordi per ciascuno de’ miei buoni amici che non ho cuore di salutare, diss’ella; ma tu lo farai per me, non è vero? — E alcune lagrime le caddero dagli occhi. Indi soggiunse:

— Questi orecchini sono per la tua Rosina; e questa crocetta la porterai tu per amor mio…. — E senza aspettare che la donna ringraziasse, continuò: — All’Oliva, quando sarà di ritorno, dirai che cotesto è per il suo ultimo bambino, e che voglio che la gl’insegni il mio nome. Oh mi sarebbe stato pur caro il vederlo crescere qui sotto a’ miei occhi!… Ma il mio destino mi chiama altrove…. e se tu sapessi come mi pesa l’abbandonare questa cara villetta!… Mi ci ero proprio affezionata….

— Ebbene, disse la Gastalda, questo vuol dire che ci tornerete presto.

Ella scosse mestamente la testa.

— Questa lettera la lascerete qui. — E affacciatasi alla finestra stette alcuni minuti mestamente contemplando il paese. Poi, piangendo, abbracciò la Menica, e:

— Addio, le disse; vi ringrazio dell’amore che mi avete portato. Quando lo zio, ne’ suoi ultimi anni, verrà forse ad abitare in questa solitudine…. ed io non ci sarò! fate voi le mie veci, consolate la sua vecchiaja…. ma non gli parlate giammai di me!… — E come per torsi alla troppa commozione, scese rapidamente le scale, si gettò in carrozza, e ordinò che prendessero la strada di Palma.

 

X.

DIO NON PAGA SEMPRE IL SABATO.

La malata ch’era ita a trovare l’Oliva, era la sua cugina Mariuccia. La povera fanciulla non aveva saputo superare il dolore che le cagionò la partenza di Vigi. Siccome, sul primo accorgersi del suo amore, ella aveva tanto patito per paura d’ingolfarsi in una passione infelice e non consentita, così dopo, quando vide appianate le difficoltà, vi si era abbandonata con tutto l’impeto della giovane anima, ed ella amava come si ama una sola volta nella vita, cioè senz’altro rimedio che possedere, o morire. Quando quella leva inaspettata le rapì il giovane amato, ella si sentì annichilita, come percossa dal fulmine. Ogni suo progetto di felicità, ogni sua speranza veniva miseramente distrutta, ed ella tornava ad essere per lungo tempo e forse per sempre la povera serva di prima. Indarno cercava immaginarsi, ch’egli avrebbe potuto tornar a casa fedele alle sue promesse: otto anni di servigio militare, otto anni di separazione erano per lei una prospettiva terribile…. e poi, c’era la guerra di mezzo; la guerra, quest’orrore ch’ella non aveva mai potuto comprendere, e che il suo Vigi andava ad affrontare in paese lontano, senza di lei!… Oh! se una palla l’avesse colpito…. Che cosa valevano allora le promesse del Barone ch’ella ricordava non altrimenti che una crudele ironía? Impallidita, più morta che viva, ella lo vide partire, e l’allegria, od almeno la speranza d’un avvenire fortunato che le parve trapelare nell’ultimo addio del giovane, a lei che restava accrebbe il martirio. Cominciò a visibilmente dimagrire, stava quasi sempre taciturna, inghiottiva più lagrime che bocconi, la notte non poteva chiuder occhio; e così affievolita, per non perdere il pane, sforzavasi a strascinare il peso delle fatiche giornaliere, finchè finalmente mancatagli la lena, si diede ammalata. Aggiugni, che una voce secreta, a guisa di verme che internamente la consumasse, esacerbava que’ suoi patimenti. Quella voce le diceva del continuo, che Vigi non sarebbe mai più ritornato, e che ella sola ne aveva la colpa, perchè ella era stata crudele con la sua povera cugina, l’Oliva, e adesso Iddio l’aveva punita! Non ardiva dirlo a nessuno, ma le parole tremende che l’Oliva le aveva lanciato nel partire, le suonavano sempre all’orecchio; e quando si riduceva nella sua camera, quelle robe di lei le stavano lì negli occhi come un vivente rimorso, e le facevano passare le notti terribilmente insonni. Oh! che le valevano quelle sue miserabili ricchezze per conservare le quali aveva fatto tacere nel suo cuore ogni senso di compassione e di giustizia, ora ch’ell’era abbandonata, ed egli forse sulla nuda terra cadavere insanguinato? In tanta miseria, ella non aveva neanche il conforto della preghiera, perchè le pareva che il Signore non l’ascoltasse; e le rifiutasse quella misericordia ch’ella non aveva avuto per la sua povera cugina. Intanto vennero nuove di un tremendo fatto d’armi a Vicenza, e la lettera diceva di molti del paese chi mutilato, chi all’ospitale, ma niente di Vigi. Allora le famiglie che si erano consolate della perdita dei loro sperando che facessero fortuna, cominciarono a gemere e ad imprecare alla maladetta guerra. Ella, già certa in suo cuore ch’ei fosse morto, credeva che non glielo dicessero per compassione, e tossicava e distruggevasi ogni dì più. Quel vederla così deperire rammaricava tutti quelli che la conoscevano; ma chi ne sentiva un’infinita pietà era la Lisa, la figlia della padrona di casa. Non ardiva però mai venirle in discorso nè del suo male, nè della sua sventura, perchè s’era accorta che sarebbe stato un rincrudire la piaga; ma la circondava di mille dilicate attenzioni, cercava di alleviarle le fatiche col prevenirla ed addossarsele ella, e senza lasciarsi ributtare dal suo ostinato silenzio, le teneva più ch’era possibile affettuosa compagnia. Un dì, sul finire dell’inverno, ell’era stata ad attignere in sua vece, e tornata a casa, vedutala sola, col volto nascosto tra le mani rannicchiata presso al fuoco, le si assise d’accanto: — Mariuccia, le disse, sa’ tu ch’è ritornato Coletto? — Ella si scosse, e cogli occhi languidi pel molto pianto la guardava come trasognata. Coletto! quel giovane muratore del vicino villaggio, che era in sua compagnia alla sagra di Madonna di Strada quand’egli ti vide la prima volta?…

— Tornato!… E come lo sai tu?

— L’han detto sul pozzo or son pochi minuti. Ieri è capitato alla sua famiglia l’avviso di andarlo a prendere con una carretta a Gorizia dove è venuto con un trasporto, e questa sera ei deve essere a casa.

— Ma egli, Lisa, egli…. non ritornerà!

— Mio Dio! perchè affliggersi prima dell’ora? Son pochi dì che ho veduto sua sorella…. I suoi sono in pena, sì, ma pure sperano che non vi saranno disgrazie.

— Ah Lisa! non ha mai scritto, e nessuno ha mai più saputo nulla di lui….

— Gli è per questo, ch’egli non deve esser perito, perchè alle famiglie di quelli che sono morti hanno a tutte mandato la carta!

— Ma sai, Lisa, che questo tuo discorso mi fa gran male? Oh! perchè vuoi tu tormentarmi col mettermi in cuore una vana lusinga?

— Tormentarti? Mariuccia mia, e puoi tu supporre in me tanta cattiveria? Io ti parlo, vedi, perchè mi pare, ch’essendo tornato Coletto, se andassimo da lui, noi potremmo sapere qualche cosa di preciso. E diman mattina, se tu il consenti, io vi vado.

— Ebbene! allora noi ci anderemo insieme. Forse egli sarà stato presente a’ suoi ultimi momenti, e prima che a tutt’altri, hai ragione, Lisa, egli deve narrarli a me!

Nel dimani esse erano a messa nel villaggio vicino, e dopo messa da Coletto. Era dì festivo, e trovarono più gente di quel che avrebbero voluto. Chi per semplice curiosità, chi per amicizia e chi per motivo simile a quello che guidava le due donne, diversi paesani erano lì entrati in cucina e circondavano il soldato, che seduto presso al fuoco loro narrava ad alta voce le sue terribili vicende. Esse, al primo rivederlo, rimasero come interdette, tanto era mutato. Senza un braccio, orribilmente mutilata una gamba, e la faccia macera e fuor di modo annerita dalla pioggia e dal sole. Egli conobbe subito la Lisa, ma la Mariuccia la fisò un pezzo prima che si risovvenisse. Quando si fu un poco orizzontato,

— Anche voi, ragazze, eh! venite a congratularvi, disse, della bella fortuna che abbiamo fatta. Oh! quando siamo partiti, pareva che andassimo nel paese della cuccagna. Dovevamo ritornare ricchi come Creso! e portare in regalo alle nostre amorose gli anellini e i pendenti delle ribelli!… Invece abbiamo lasciato chi la vita e chi le membra; e quelle pompose fandonie non erano inventate che per farci andare allegri incontro al cannone che ci ha conci come potete vedere! Contuttociò  la è ancora una fortuna l’esser qui a raccontarla, perchè io mi credo d’essere il solo di que’ del paese: gli altri, ragazze mie, sono iti tutti all’inferno! A queste parole la Mariuccia diede un grido.

— E Vigi? disse, e Vigi?… Ah se l’avete veduto morire, raccontatemi almeno le sue ultime parole! E nella sua disperazione s’era inginocchiata, e protendeva le mani tremanti come per implorare che parlasse.

— Siamo stati sempre insieme, e purtroppo l’ho veduto morire…. Ma, se non vi quietate un poco, io non vi dirò niente, Mariuccia! Ella allora con quanto aveva di forza procurò di frenarsi, inghiottì i singulti, sospese negli occhi le lagrime prorompenti, e muta e pallida come una statua, stava ascoltando.

— Fu nell’istesso giorno! ci caricarono entrambi sul medesimo carro! io fui portato all’ospitale, egli morì per strada. Il primo fuoco noi l’avevamo veduto sotto Treviso, e non ci fece troppo buon bevere, quantunque per quella volta il nostro reggimento l’avesse scapolata quasi netta; ma a Vicenza fu un altro paio di maniche. Quei maladetti ribelli facevano tonare i cannoni ad un modo che la frega del bottino ci era affatto passata. Vedevamo tornar indietro continui convogli di feriti, e chi vomitava sangue, chi urlava da dannato, e i cadaveri ce li abbruciavano lì sotto il naso; e quando venne la nostra volta e ci ordinarono di avanzare, noi eravamo più morti che vivi, e credo che in quel momento anche i più arditi avrebbero volentieri rinunziato a tutto l’oro delle città italiane per poter essere in quella vece nelle nostre montagne un povero disertore perseguitato dai birri; ma un battaglione di croati pronti a tirarci addosso, se non si ubbidiva, ci fece tornar in corpo il coraggio. Camminavamo nel sangue, sopra i cadaveri; cápita una palla e mi porta via il braccio; ed era lì per terra che ancora giuocava alla mora, quando un’altra con un fracasso d’inferno mi rovescia, e nello svenire ho sentito la voce di Vigi che bestemmiava. Quando tornai in me stesso, mi trovai sul carro, e al mio fianco stava il povero giovane, ma era già passato….

Mariuccia, come se quell’orribile narrazione l’avesse petrificata, cogli occhi sbarrati, colla bocca aperta, pallida ed immota continuava ancora ad ascoltare, e alla Lisa, che gemente in cuor suo d’esser ella stata la causa di quell’immenso accrescimento di dolore, s’affannava per condurla via, obbedì senza dir verbo come bambina smarrita. Fece la strada senza mai aprir bocca. Rientrata in casa, a guisa di macchina s’occupava delle consuete faccende, finchè venne la notte, e si ritirò nella sua camera. La Lisa in pena, e non sapendosi augurar niente di bene da quel tetro silenzio, stette un pezzo alla sua porta spiando con affettuosa sollecitudine: le parve che fosse quieta, e andò anch’ella a coricarsi. Non aveva appena chiusi gli occhi, quando un urlare prolungato e pieno d’angoscia le ruppe il sonno e la fece balzare spaventata dal letto; ned ella sola, tutta la famiglia fu desta, ed accorsero alla camera della Mariuccia d’onde partivano quelle mestissime strida. La trovarono in camicia: rannicchiata in un angolo, che miseramente si strappava i capegli, si torceva le dita; nè fu possibile raccapezzare una sola parola che palesasse l’accaduto. Era ghiaccia, batteva i denti con una specie di convulsione così terribile, che se anche avesse voluto, le impediva di parlare. S’accorsero che aveva la febbre, e sbigottiti andarono pel medico, mentre la Lisa s’ingegnò di farla tornare a letto; ma non v’era modo che potesse riscaldarsi. La buona fanciulla nel vederla in quello stato deplorabile lagrimava sommessa, e a forza di carezze procurava di ravviarle i crini scomposti. Quantunque priva di conoscenza, pur pareva che per istinto ella sentisse l’affetto di quella mano pietosa, e s’andasse grado a grado quietando. Venne il medico. Fin da quando si manifestarono i primi sintomi della malattia, egli ne aveva fatto un cattivo pronostico; ora la trovava di molto aggravata, ma non capiva cotesta specie d’improvviso delirio. Nel partire, disse alla padrona di casa che c’era assai poca speranza, e che quando fosse tornata in sè stessa, sarebbe stato bene avvisarne il curato. Nell’indomani le condussero in camera il sacerdote, e fu una scena tremenda. Diede in ismanie feroci gridando: ch’ell’era dannata! ch’era inutile, che la non voleva confessarsi…. Indarno ei si fece a calmarla con tutti gli argomenti che suggerisce la religione. — Via! via!…. urlava l’infelice, a che mi venite adesso a parlare di Dio? Dio, io l’ho rinnegato il giorno che ascoltai voi, prete sacrilego, predicar dall’altare, che noi altri potevamo approfittarci della roba dei ribelli! Che l’incendio e il saccheggio erano giustizia!… Oh!… dir messa così, con l’odio nel cuore!… Innalzar l’Ostia consecrata e spalancar l’inferno ai vostri figliuoli!… Non mi toccate! Le vostre mani grondano sangue…. Egli è il sangue dei traditi che vi hanno creduto! Oh!… l’ultima sua parola è stata una bestemmia! È morto dannato…. Adesso brucia nel fuoco eterno! E venite a predicarmi la misericordia di Dio? Non v’è più misericordia…. Se anche ci fosse, io non la voglio!…. — E bestemmiava Dio e i Santi, e malediva l’ora del suo nascimento…. La padrona di casa scandolezzata fuggì turandosi le orecchie, gli altri scotevano la testa inorriditi; la sola Lisa era rimasta vicina all’amica e piangeva col viso nascosto nelle mani. Il sacerdote, bianco come un cadavere, si mise la stola, e con visibile turbamento andava cercando sul suo rituario una prece che valesse a calmare quell’orribile delirio. Ella, alzatasi a sedere sul letto, a momenti colle mani convulse si strappava i capelli urlando da forsennata, a momenti quietandosi e declinata la faccia sul petto senza guardare a nessuno, mormorava seco stessa:

— Crudeli! Nessuno gli ha medicato la ferita…. nessuno gli ha detto una parola di conforto! L’hanno lasciato morire come un cane…. Ma io non l’abbandonerò, no! Gli ho data la mia fede, e sarò sua anche laggiù…! Questa notte è stato a chiamarmi. Oh com’era pallido! Sedeva lì su quella maladetta coltrice! e accennava le robe dell’Oliva; aveva una piaga orribile in mezzo al petto…. e’ la dilaniava colle mani…. e mi ha gettato il suo sangue nel volto!

Il sacerdote aveva intanto intonato le litanie, e la sua voce monotona e quella dei circostanti che rispondevano in coro l’ora pro ea, coprivano quella di lei affievolita dalla lunga angoscia.

— Contro di me, Vigi? contro di me che ti ho tanto amato? Giorno e notte pensavo sempre a te!… Per esser tua un solo momento avrei dato la mia vita, l’anima mia! Oh! guarda come mi sono consumata…. Quel fiore che tu mi hai donato a Madonna di Strada, io l’ho ancora…. e se tu sapessi con che disperato affetto io me lo posavo ogni notte sul cuore!… Ti ho amato più di Dio…. più della giustizia! Sono stata colpevole per troppo amore! ma tu non devi rimproverarmelo, oh no! non tocca a te! gli è quel prete infame, che colle sue prediche ci ha traditi entrambi, ed ora che mi sono dannata per avergli creduto, ardisce venir qui ad insultarmi colle sue vane preghiere! Non vedete ch’egli è tutto macchiato di sangue? Oh! io ne sento l’intollerabile puzzo…. — Poi sopraggiunto un nuovo impeto di furore, si cacciò le mani nei capelli, e rovesciatili in sugli occhi strillava disperata: — Vi ho pur detto, ch’egli è inutile pregare! Sono dannata! e non v’ha più misericordia nè perdono. Uscite! — E v’era ne’ suoi gridi tale un accento, che li fece tutti ammutolire. Partirono, e più nessuno ardì entrare in quella camera, dove così evidentemente pareva che ci fosse la maledizione del cielo. Lisa sola non ebbe cuore di abbandonarla, e benchè afflitta oltre misura, continuava ancora con affettuosa sollecitudine a prestarle le sue cure. Talvolta l’ammalata, miseramente vaneggiando, la respingeva dicendole ogni sorta d’ingiurie; ma tal altra, vinta da quell’umile e sempre costante affetto, pareva tornare in sè stessa, e mansuefatta si gettava a piangere tra le sue braccia. In uno di questi lucidi momenti, mentre teneva la fronte su d’una spalla della Lisa, e questa con infinita compassione accarezzava quel povero corpo di già consunto su cui potevi dinumerare le ossa, — Sorella, le disse, pazienza per poco ancora, e poi avrò finito di tormentarti. Oh, se tu sapessi come io desidero di andar sotterra!… Ma prima tu devi farmi una grazia. Io avevo una cugina, continuò ella, l’unica parente che una volta mi volesse bene…. Orfana fin dai primi anni, e raccolta qui per carità da tua madre, tu sai, Lisa, ch’io non ho nessuno in questo mondo! — Poi dopo una breve pausa in cui entrambe singhiozzavano, ripiglia: — Un giorno ella venne a cercarmi…. Le avevano abbruciata la casa, ed ella colle sue creature, nell’ultima miseria, viveva elemosinando. Con lei, che quando campava s’era più volte ricordata di me, io fui crudele, Lisa! Quelle robe che sono là su quell’armadio erano sue: io le aveva comperate dagl’infami che hanno saccheggiato, e non volli tornargliele…. e la lasciai partire, senza curarmi della sua disperazione. Ora Dio mi ha punita! Mi figurava che quella dovess’essere la mia coltrice nuziale…. invece, egli è morto! e io lo raggiugnerò tra poco. Ma prima di andare all’eternità, vorrei rivedere l’Oliva! restituirle le sue robe! e implorare che la mi perdonasse…. — Lisa le promise di far subito cercar della donna. A Jalmicco ebbero notizia del dove si trovava. La informarono, ed ella, consigliata dalla buona fraile, diede ad allattare il bambino, e venne al letto della morente. Subito che la vide, — Ed è pur vero, disse, che sei venuta, Oliva? Ah, ch’io temeva che tu non volessi più saperne di me, e di dover morire senza poterti dimandar perdono!… — E in atto supplichevole le tese incontro le braccia ischeletrite. Oliva commossa non poteva parlare, e guardava quella faccia pallida che non era più riconoscibile, quelle forme consunte, quelle mani color di cenere, e la trovava tanto malata da parer appena l’ombra di quel che era nel passato. Ella parve se accorgesse, poichè ripigliò:

— Che differenza, Oliva, di quando ci siamo vedute l’ultima volta! Io era bella allora! ma rea dentro nell’anima, non ascoltai nè le tue ragioni, nè le tue lacrime…. Oh, ma il Signore ti ha vendicata! Da quel momento, quante disgrazie sono piombate sul mio povero capo! Egli ha fatto giustizia fra noi due…. Adesso eccomi ridotta in fin di morte. Da questo letto io non mi alzerò più…. Oh dammi un abbraccio e dimmi che mi hai perdonato!

— Possa così Iddio perdonarci ad entrambe! disse l’Oliva; e la strinse al seno con tutta l’espansione dell’affetto. Ma la Mariuccia turbata mormorò tristamente:

— Oh, non parlarmi di Dio! La mia sorte è fissata…. io non posso più sperare nella misericordia di Dio….

— Che dici mai, sorella mia? Oh! anzi noi vogliamo pregarlo insieme. Possibile ch’ei non ti ascolti e non ti ridoni la perduta salute? Chi più di me tribolata, quando fuggita dal villaggio in fiamme, mi strascinava pei campi colle mie povere creature, vicina al parto, priva di tutto…. e venivano a dirmi che il mio marito l’avevano fucilato?  Stetti tre giorni in quell’orribile angoscia, e fui lì lì per impazzare; peraltro non disperai; anzi inginocchiata per terra invocava l’aiuto della Madonna, e con tutta la forza della mia anima pregava Dio che non fosse vero. Ed egli, Mariuccia, mi esaudì; e mio marito era vivo: nè solo questo, ma Iddio mi diede anche coraggio a durare tutti i dolori di quella misera vita: e poi, quando gli parve ch’i’ avessi patito abbastanza, non ha egli mandato sulla terra per consolarmi un angelo celeste sotto le forme di una bella signora che venne a trovarmi sul fenile, dove abbandonata da tutti io giaceva da parte, e tenne a battesimo la mia creaturina, e raccolse me, i miei figlioletti, mio marito, e ci diede da vivere e da lavorare di modo che adesso siamo più felici di prima? Oh, non manca, no, la Providenza a chi la invoca di cuore! Senti, diss’ella dopo un momento di pausa in cui pareva che seco stessa andasse ruminando qualche progetto, finchè tu duri malata, io starò qui con te! Mariuccia per riconoscenza si portò alle labbra la mano di lei, che teneva tuttavia fra le sue. — Ma noi vogliamo fare insieme un voto. Ogni giorno, inginocchiata qui presso al tuo letto, io reciterò una parte di rosario; tu l’accompagnerai col pensiero, col cuore, insomma così come puoi, perchè non devi affaticarti, e se il Signore ci esaudisce, quando sarai guarita, noi anderemo insieme a Udine alla Madonna delle Grazie, a far le nostre divozioni, e dinanzi all’immagine discoperta ascolteremo una Santa Messa in ringraziamento. La malata sorrise, ma con tanta amarezza, che ben si pareva come nel suo cuore non vi fosse più altra speranza che quella di morire.

— Dunque prometti?

— No! — diss’ella.

— Ma perchè, buon Dio?

— Perchè io non guarirò!

— Oh, per cotesto poi sarà quello che piace al Signore!

— Ma io non desidero di guarire…. Da gran tempo io non viveva che per lui! Ora egli è morto…. Se tu non avessi nè figlioletti, nè marito, nè nessuno che ti amasse!… oh! allora a che vorresti rimanere in questo mondo?

— A piangere, a pregare per essi! Promettiamo, Mariuccia. Se il Signore vorrà chiamarti a sè, io anderò io stessa a Madonna di Grazia. Anzi ci anderò ogni anno a far celebrare una Messa per l’anima tua e per quella di lui, finchè saremo tutti riuniti in paradiso.

— Inutile! diss’ella; e cominciava a turbarsi e guardare stralunata.

— Oh, non dir così! Una volta tu mi volevi bene…. Su via, quietati per amor mio! Ma la fanciulla non l’ascoltava, e agitata da un terribile pensiero si torceva le dita gridando:

— Oh la guerra maladetta!…. Me l’hanno adescato con infami promesse…. ed egli, Oliva, egli che non ha mai torto un capello a nessuno, che non sapeva uccidere una mosca! egli è corso a scannare i fratelli come si corre ad un festino!…. L’avevano talmente imbriacato, che quando partì, potè lasciarmi senza piangere…. Doveva essere l’ultimo addio, e non ci siamo nemmanco abbracciati! È morto, Oliva, col peccato nel cuore! e Dio l’ha permesso perchè io fui crudele con te…. Gli è per colpa mia ch’egli arde adesso nell’inferno.

— Mariuccia! Possibile che tu possa proferire di simili bestemmie? Oh! non sai tu che la misericordia del Signore è infinita! Io non so parlare, vedi, perchè sono una povera donna; ma se fosse qui il nostro buon parroco di Jalmicco, egli sì, saprebbe insegnarti come a noi non tocca entrare negl’imperscrutabili giudizi di Dio….

— Oh ti prego! lascia stare i preti. Gli è per colpa delle loro prediche ch’io sono diventata cattiva!

— Può essere, replicò allora l’Oliva, che qualcuno de’ vostri preti traviato dalla passione vi abbia detto una parola di sangue; ma non sono poi mica tutti compagni! Oh se tu conoscessi quello che io ti nominava! Se tu conoscessi quello che io ti nominava! Se tu avessi veduto la carità infinita con cui egli ci assisteva nel terribile nostro infortunio! La sua canonica era abbruciata, ridotto povero e nudo come noi, e nondimeno sempre con noi a dirci parole di conforto, a soccorrere come poteva i malati, a placare l’odio nei nostri cuori! — E le raccontava, ora le sue parole al letto di un moribondo, ora le preghiere ch’egli innalzava pe’ suoi desolati parrocchiani nella chiesa guasta dalle fiamme, ora diversi tratti di quel cuore tutto viscere di misericordia per essi, e spesso tornava in cotesto argomento, e tante gliene disse, che finalmente un giorno l’ammalata mostrò desiderio di vederlo. L’Oliva corse subito in traccia di lui, ed egli nella sua evangelica carità venne a consolare gli ultimi momenti della tribolata. Le disse parole di pace e di perdono quali ella non aveva mai più sentite. La sua vita di sacrificio e l’intemerata sua fama accresceva autorità al suo santo ministero. Ascoltò con pazienza tutti i dubbi che travagliavano la poveretta; lasciò che tutta gli narrasse la storia del suo infelice amore; e quando con molte lagrime confessò il suo peccato e la disperazione in cui era caduta, — Figliuola, le disse, la misericordia di Dio non ha confini, e le sue vie, alle nostre menti ristrette, sono spesso impenetrabile mistero. Fra questi stessi uomini di sangue che sono venuti nel nostro paese a spargere la desolazione e la rovina, io ho veduto più d’uno che piangeva il misfatto de’ suoi feroci fratelli. Ho veduto un croato inginocchiarsi dinanzi alle nostre immagini mutilate, accarezzare le ossa dei morti che i suoi per insulto avevano cavate dai sepolcri, picchiarsi il petto e deporre sul nostro altare il suo obolo! Quella lacrima e quell’obolo certo Iddio non li avrà lasciati ire perduti; forse ch’essi avranno impetrato al meschino un lampo di luce che lo ravveda ne’ suoi ultimi momenti, forse che saranno seme destinato a redimere, quando che sia, quella povera nazione abbrutita, che ora si fa strumento di chi opprime! O sorella, Dio conta tutti gli aneliti del nostro cuore, e se qualche volta ha battuto a bene, credi pure ch’egli saprà largamente ricompensarci! La gioventù dell’uomo che amasti fu pura…. Oh non gli sarà, no, mancato nel suo morire un buon pensiero! Guai a te! se ti fossi ostinata contro questo Padre di misericordia, che ti chiama fra le sue braccia, e dove forse rivedrai colui che quaggiù sulla terra ti aveva data la sua fede! Che sarebbe di te, se accecata da troppo mondano amore, ti fossi trovata perduta per sempre, e per sempre divisa dall’amante che Iddio ti aveva pure conceduto? — Ella pianse pentita, e risovvenendosi delle sue smanie passate, prima di ricevere il Viatico mostrò desiderio di chiedere perdono a tutti quelli che aveva scandolezzati. Ma egli nello stato di estrema debolezza in cui la vedeva, temendo che la troppa commozione potesse riuscirle fatale, non glielo permise, ed assunse invece di adempier egli per lei a cotesto atto di cristiana pietà. Sul fare dell’alba le portarono il Signore. Nella camera erano la Lisa e l’Oliva; la padrona di casa non aveva osato entrare per paura di disturbarla, e piangeva inginocchiata sulla porta. La febbre aveva ripigliato con furia: quella faccia così colorita dall’accesso era pur gentile! pareva che nelle sue ultime ore ell’avesse voluto infiorarsi ancora una volta di tutta la sua passata bellezza, e gli occhi le risplendevano, come la favilla che prima di estinguersi manda più viva la luce. Dopo ricevuta l’estrema unzione il male peggiorò di modo che a momenti la levava di sè, e allora tornava col pensiero al suo fidanzato e gli parlava come se fosse stato presente.

— Non andar in collera, Vigi! Vengo subito, Vigi…. Vedi, sono già vestita. Ah poveretta me! mi dimenticava di puntarmi nelle trecce quel garofano che mi hai donato a Madonna di Strada. Guarda com’è bello! Pare spiccato adesso…. L’ho fatto rivivere io a forza di lacrime…. Che specchio è codesto? Non ci si vede lume…. Aiutami, Lisa. — E colla mano pallida si cercava tra i capelli. — Adesso son pronta, andiamo! Ma dov’è tua madre? Non voglio mica partire senza salutarla. Madre!… O madre!…. perchè non vieni a darmi la tua benedizione prima che vada all’altare? Io era poverina e nuda e abbandonata da tutti, ed ella mi ha raccolta; mi ha insegnato a guadagnarmi il pane…. Se Vigi oggi mi sposa, è in grazia di lei. Oh voglio vederla! Tutti mi han perdonato, perfin l’Oliva. Oh, anch’ella deve perdonarmi! Mi sono confessata…. Ho tornato a pregare il Signore…. Era tanto tempo che non osava entrare in chiesa!…. Anche Vigi si è pentito! me l’ha detto questo santo sacerdote…. e gli anelli, non sono roba saccheggiata…. li devono benedire sull’altare! Quando li avrò in dito mi staranno pur bene, Lisa!…. Ah! la testa mi gira… non reggo più!…. Ma perchè tutte quelle candele accese? E una croce nera?…. Questo corteo non è da nozze…. Or via, non pregate in tuono così lugubre! —

Alla raccomandazione dell’anima parve ritornasse in sè, perchè volle baciare il Crocifisso, e disse alla Lisa:

— Prega per me che già sono moribonda! — Poi vedendo l’Oliva che piangeva, scosse la testa e, — Non piangere! disse, che oramai cotesto è il meglio per me. Finisco di patire! e di lì a poco stendendole una mano, — Quando sarò sotterra, ti ricorderai qualche volta di me, non è vero, Oliva? Ma…. senza rancore!…. — Oliva accorata si chinò sovr’essa e non osava stringerla al seno di paura che le restasse fra le braccia. Il sacerdote vide l’effetto di quelle povere due anime purificate dal dolore, e ripensando agli odj passati si commosse. — Grazie a te, buon Dio, diss’egli, che nella tua misericordia ti compiaci a confondere l’opera crudele dei nostri nemici! Hanno seminato il sangue e la vendetta, hanno diviso i fratelli! ma ecco che i cuori ritornano. Oh sì, figliuole! i nostri cuori sono fatti per amarci, per perdonarci. In questo solenne momento consecrato dalla morte, noi vogliamo pregare insieme per il nostro povero paese! Oh sì!…. l’una nelle braccia dell’altra pregate perchè cessino una volta le ire funeste che lo hanno così miserabilmente lacerato, pregate perchè i fratelli si ricordino dei fratelli, e se abbiamo comune la lingua e la patria, ci conceda anche il Signore di riabbracciarci tutti in un solo pensiero di unione e di amore! Offeriamo a lui le nostre lacrime perchè lavino i tanti peccati che ne’ due ultimi anni han contaminato questo lembo di terra italiana! Ecco un’anima che già sta per entrare nella luce eterna. I dubbi di questa terribile ora, le pene dell’agonia, il sacrifizio della giovine vita, sieno un’ostia di espiazione e di pace! Raccogli, o sorella, tutte le tue forze, e nel bacio del tuo Dio crocefisso sollevati alla sublime carità di quest’ultima preghiera! — Ella congiunse le mani, stette un istante pregando con grande affetto, poi mosse le labbra a baciare il Crocefisso offertole dal sacerdote, e pronunziando queste parole: — Pace!…. Perdono!…. Ci riunisca tutti il Signore! — a guisa di persona stanca depose il capo sul guanciale; ed era passata.

 

XI.

LA LETTERA.

L’Oliva dopo che ebbe assistito ai funerali della sua povera cugina tornava a casa col cuore saturato di lacrime, impaziente di abbracciare il marito e’ figlioletti, di rivedere la buona fraile; e adesso che aveva tanto patito, ella sentiva come bisogno di confortarsi un poco nel loro affetto. Quando fu vicina al villaggio, vide nella casa del barone chiuse le finestre dell’appartamento della fraile. Un sinistro presentimento le fece tremar l’anima. Fosse ammalata?…. E prima della propria famiglia corse a vedere di lei. In cortile i cavalli attaccati, e sulla porta del salotto il barone afflitto in vista e così stralunato ch’ella non ardì abbordarlo, tanto più che quella fisonomia rimastale sinistramente impressa nella sera di N…. le aveva sempre inspirato una specie di ritrosía: tutta la servitù mostravasi mesta, come se fosse accaduta in casa qualche grande disgrazia. In cucina trovò la Menica che piangeva.

— Per carità, Menica, che cosa è avvenuto? dov’è la fraile?

— Oh, non la rivedremo mai più! disse la gastalda accorata. Io credeva che fosse andata a Gorizia…. Il padrone è venuto, e la lettera ch’ella ci ha lasciato per lui, palesa che ci ha abbandonati per sempre e che si è ritirata in un convento.

A questa notizia l’Oliva fu percossa come da un fulmine, e non sapeva rinvenire la parola. — Ah ch’io doveva prevederlo! continuò la Menica afflittissima. Quando mi disse addio, ella pianse tanto!…. e poi quel raccomandarmi di salutare i suoi amici…. quel ricordarsi di ognuno…. Quell’anima santa ha voluto fin nell’ultimo momento far del bene a tutti quelli che conosceva; e anche di te, Oliva, si è ricordata; anche del tuo ultimo bambino…. — E la condusse disopra per consegnarle i doni che le aveva destinati e per ripeterle le ultime parole di affetto con cui si era divisa da quelle persone e da quei luoghi che aveva tanto amato.

La lettera ch’ella aveva lasciata allo zio diceva così:

«Mio buon Padre!

»Permettete che nel dividermi per sempre da voi, io faccia ancora uso di questo nome benedetto che mi concesse la vostra tenerezza. È l’orfana che voi avete raccolta, la creatura che vi piacque ricolmare dei vostri benefizj, la figliuola del vostro amore, la vostra Cati, o mio buon padre, che ora viene a darvi il suo ultimo addio! Indarno ho cercato dissimulare a me stessa la ferita crudele che questa lettera recherà al vostro cuore amoroso. Oh tutti i miei giorni dovevano esservi consacrati! e io avrei voluto domare il dolore che mi distrugge, perchè l’aspetto della mia felicità compensasse in qualche maniera il tanto bene che voi mi avete fatto. Ma un destino, contro al quale oramai io più non valgo a lottare, mi comanda di ritirarmi nel santuario del Signore a pregare e a piangere per il mio povero paese. — Mi sta dinanzi la vostra santa immagine paterna, e intendo di parlarvi senza velo, anzi di aprirvi tutto il mio cuore, come se fossi inginocchiata a’ vostri piedi e voi mi deste la vostra ultima benedizione.

»Nata di sangue italiano, nulla ha potuto cancellare l’affetto grande che mi legava alla mia terra, qualunque si fossero i suoi destini. Lontana, unica consolazione della mia vita erano le sue memorie; tornata, non vissi che delle sue speranze. Se Iddio le avesse benedette, e la mia nazione fosse adesso libera ed indipendente, forse io avrei potuto accettare lo sposo, che credendo di farmi felice voi mi avevate destinato. Tra i figli di due paesi egualmente liberi, egualmente potenti, bella l’unione del sangue! Ella è preludio di quella santa alleanza, che nel cospetto di Dio stringerà un giorno come altrettante sorelle tutte le nazioni della terra. Ma finchè v’è chi abusa della forza e chi patisce, cotesta fraterna eguaglianza non esiste, e tra gli oppressi e gli oppressori sorge un muro di separazione che non si può varcare senza delitto. Le ultime terribili vicende mi hanno insegnato che io appartengo alla stirpe dei conculcati, ed ho veduto nelle file dei nostri padroni l’uomo che mi sceglieva a compagna della sua vita…. La mano ch’egli mi offeriva era bagnata nel sangue dei miei…. l’alloro della sua fronte grondava delle nostre lacrime!…. Da quel momento un profondo orrore s’impadronì della mia anima, e abborrii da una unione, il cui solo progetto mi parve imperdonabile. Voi rispettaste il mio dolore, nè più mi parlaste di quelle nozze di peccato. Fu delicatezza di cui vi sarò grata in eterno: nè mai dimenticherò le cure amorose di cui mi circondaste, quando afflitta dalle tante sciagure che desolavano il mio paese io caddi ammalata; nè la vostra generosa pietà che mi permise di rifugiarmi in questa tranquilla solitudine, lungi dalla gioia oscena di chi poteva godere dell’esterminio dei propri fratelli!

»E la pace dei campi e i semplici costumi e l’amore di questa buona gente nel ridonarmi la salute mi avrebbero anche riconciliata col mondo, se il mondo potesse avere qualche attrattiva per l’anima che ha veduto svanire l’unica speranza che ancora l’attaccava alla vita! Vi confesso: al rompersi della lotta io mi era guardata intorno e aveva veduto i miei fratelli in quelli che pativano. Sentii simpatia, non pei favoriti dalla cieca fortuna, ma per l’imprescrittibile diritto di un popolo calpestato; non pe’ vittoriosi, ma pei vinti! e amai la misera donna che vi chiedeva l’elemosina in nome dell’incendio, i feriti strascinati a Gorizia in mezzo agl’insulti, il prigioniero che aveva combattuto per la sacrosanta causa della Italia! Allora la mia vita si legò alla sorte della mia povera patria, e sperai che tante lacrime e tanto sangue non fossero indarno versati.

»A Dio non piacque ch’io vedessi il suo giorno. — Forse non è ancora colma la tremenda misura dei patimenti che ce lo devono meritare, e ad affrettarlo egli mi comanda di offrirgli in ostia di propiziazione questa povera mia vita. Sia fatta la sua santa volontà! Chino la testa rassegnata, e dico per sempre addio a voi, mio buon padre, ai luoghi che mi videro nascere, a’ miei cari poverelli che metto nelle vostre mani…. a tuttociò che amai quaggiù sulla terra! Fra pochi giorni, recise le chiome e indossato l’abito di penitenza, io avrò pronunziato il voto solenne che mi dividerà dal mondo. Allora sarà come se più non esistessi…. Se qualche volta vi ricorderete di me, oh sia, non per maledirmi, ma per compiangere al mio destino e per perdonare alla mia memoria.

Cati.»