RICORDI DEL 1866.

Alberto, amico mio, copio qualche pagina dal libro dei tuoi ricordi; non te n’avere a male; se queste pagine non ti faranno onore come letterato, non ti faranno torto sicuramente come soldato e figliuolo. Acconsenti e contentati della mia discrezione, chè se volessi veramente abusare della nostra intimità, potrei pubblicare di te ben altri segreti.

IN CASA.

I.

Perdute le illusioni e le gioie della giovinezza, quando non mi resterà che il conforto di ricordarle, più che ad ogni altro giorno della mia vita ripenserò spesso e lungamente e con sempre viva tenerezza agli ultimi d’aprile e ai primi di maggio del mille ottocento sessantasei.

Io non aveva mai veduto Torino così allegra, così bella. L’imminenza della guerra nazionale da tanti anni aspettata e invocata, aveva risvegliato improvvisamente tutta l’indole generosa e guerriera di quella città. Bastava passare la sera in una delle strade principali, per accorgersi dal brulichìo, dall’atteggiamento insolito della gente, da quei drappelli d’operai, di studenti e di fanciulli, che qualcosa v’era, che qualcosa bolliva nell’animo di quel popolo, che qualche gran fatto era seguito o stava per seguire. Parevan tutte sere di festa.

Eran que’ giorni che, incontrando un soldato, si guarda; e si almanacca sul cavalleggere che traversò la strada con un plico nell’abbottonatura della tunica; e la gente si ferma a veder passare i convogli del treno d’armata; e nelle scuole de’ ragazzi non c’è più modo di tenere un po’ di quiete; e i vecchi ufficiali pensionati parlano ad alta voce nei crocchi dei caffè battendo il pugno sul tavolino; e le madri si fanno pensierose; e i giovanotti diventano pazzi; e le donne si veggono guardate un po’ meno del solito, e cessano un po’ d’intromettersi, come fanno sempre, in tutti i pensieri, in tutti i desiderii, in tutti i disegni; ch’è una fiera tirannide anche quella.

E Torino sentiva quei giorni; essa è la città di quei giorni. La mattina, i viali della piazza d’arme eran pieni di gente; le famiglie, i parenti, gli amici dei soldati della seconda categoria, chiamati da pochi giorni alle armi, la più parte ancora coi loro vestiti: cappelli a cilindro e papaline rosse, eleganti calzoncini chiari e grandi ghette da pastore alpigiano, soprabiti neri e giacchette cenciose, tutti alla pari: bello! Intorno alle caserme un girandolare continuo di mamme co’ fagotti sotto il braccio, un va e vieni di ufficiali e di messi della Divisione e della Piazza, e una folla di curiosi davanti alla porta; dentro, un chiasso assordante. La sera, dietro le fanfare e i tamburini della ritirata, una immensa turba che marciava in cadenza, a schiere di dieci o dodici insieme a braccetto; canti, fischi, grida, che n’echeggiavano tutte le strade d’intorno. Nel punto che la musica e i soldati rientravano in caserma, applausi, evviva, strette di mano, saluti:—a domani! a domani!—Parevan tutti soldati. Là ti sentivo, Piemonte!

 

II.

Quanto eravamo tutti migliori in quei giorni!

L’aspettazione di quella guerra solenne per cui doveva esser rivendicata la libertà e restituita la patria a un popolo tanto illustre, tanto amato, che aveva tanto patito; il sapere che anche il popolo delle classi più povere capiva, sentiva che quella era una guerra giusta, santa, ch’era necessità e dovere di farla; il vedere que’ poveri giovani della campagna, rozzi, ignari di tutto, venire anch’essi a fare i soldati con tanto buon volere, con tanto buon cuore, e partecipare così presto, se non dell’entusiasmo, dell’allegrezza comune; l’udire che dappertutto seguiva lo stesso, che dappertutto accorrevano ad iscriversi fra i volontari centinaia e centinaia di giovani d’ogni condizione, e che i padri e le madri stesse li accompagnavano, e il popolo li salutava e li benediceva; che in quella meravigliosa unanimità di speranze e di voti si componevano le discordie politiche e non si udiva più che un sol grido; tutto questo metteva negli animi una serenità, una letizia così piena e viva che pareva felicità. Ogni mala passione ci fuggiva dal cuore; si perdonavano antiche offese, si sopivano antichi rancori, si cercavano, o si ritrovavano, per ufficio d’amici comuni, i nemici, e si metteva una pietra sul passato. Quel pensiero sempre presente, quell’affetto profondo che ci occupava di continuo, ci dava un’energia, una vitalità insolita e vigorosa, che traspariva dagli accenti, dagli sguardi, dagli atti, dai passi. Che giovialità, che affettuosa armonia tra gli amici! Come tutti i nostri pensieri eran più alti, più puri, e tutti i nostri affetti più forti! La primavera non rideva soltanto nei fiori, non si sentiva soltanto nell’aria e nel sangue; rideva nell’anime, si sentiva nei cuori; era come il soffio di una vita vergine che ci aveva penetrati. Che giorni! O patria! se potessimo sentirti sempre così!

 

III.

Fin dai primi giorni che si parlava della probabilità della guerra, mi s’era cominciato a far nella testa un po’ di confusione; la quale crebbe poi a mano a mano che la probabilità si venne mutando in certezza. Confusione, dico, e non saprei dir altro: pensavo, parlavo e operavo come per l’effetto d’un liquore inebriante. Dapprima agitazione, poi irrequietezza, poi febbre addirittura; ondate di sangue infuocato alla testa, gran prurito di menar le mani, grande smania di moto, d’aria, di luce, di musica e di versi, e assoluta impossibilità di fissare la mente in un qualunque pensiero. Neanco nel pensiero della guerra; però che il rappresentarmene coll’immaginazione gli avvenimenti, per quanto meravigliosi e terribili, gli era pure un togliere qualcosa a quell’idea d’un avvenire indeterminato, avventuroso, che m’infondeva tanta allegrezza e tanta pienezza di vita.

Entrato io in casa, non c’era più quiete. Tiravo giù dallo scaffale una dozzina di libri, ne scorrevo una pagina per ciascuno, sbuffando e contorcendomi sulla seggiola e pestando i piedi, e poi li buttavo tutti all’aria ad un tratto.—Non bastano! gridavo; non bastano i libri! I libri non dicono quel che mi bolle qui dentro!—Aprivo un giornale; in que’ giorni i giornali eran di fuoco;—davo un’occhiata al solito articolone entusiastico, e stracciavo il foglio in cento pezzi.—Ma questo è fiacco, Dio mio! questo è freddo!—E preso da un estro improvviso, sedevo a tavolino e mi mettevo a scrivere in furia.—Lo scriverò io un articolo!—dicevo; e subito dopo gettavo via carta, penna e calamaio e sclamavo:—Tutto freddo! È una disperazione! Ma di’ tu, mamma, in nome del cielo, ma che in tutta la letteratura italiana non ci siano dei versi che mi esprimano questa febbre che mi divora?—Berchet!—ella mi suggeriva timidamente.—No, no, Berchet,—io le rispondevo con accento drammaticamente soave;—Berchet è irato, Berchet odia, Berchet maledice, ed io amo in questi momenti, amo immensamente, amo tutti, mi sento fratello di tutti, getterei le braccia al collo a tutti quelli che incontro per la strada. Amo anche gli Austriaci, sissignora! Tirerò a freddarne molti; ma li amo, perchè gli è grazie a loro che l’Italia si riscuote così, e solleva la testa, e si rivela così potente e bella e cara, e diffonde in tutti i suoi figli questo sentimento ineffabile di orgoglio e di gioia! Morte agli Austriaci, ma viva anche loro! Non mi son mai sentito tanto cristiano!—Poi mi slanciavo alla finestra e mi stizzivo del silenzio che regnava nella strada.—Ma guardate che tranquillità vergognosa! Ma è possibile? Ma perchè non scendon tutti giù a fare strepito? Ma che gente sono costoro?… Oh! domiamo questa febbre.—E chiusomi in camera e dato di mano alla sciabola, supponevo d’aver a fronte un ufficiale austriaco di que’ lunghi, magri, con un par di baffoni irsuti e d’occhioni stralunati, e mi mettevo in guardia, e giù botte, parate, molinelli, salti e grida, finchè cadevo sul sofà rifinito. Matto, via.

Non è a dire se il vicinato s’accorgesse della mia esistenza. Oltre che le mie declamazioni poetiche si sentivano dalla strada, solevo passar tutta la sera sul terrazzino del cortile; e tutti sanno come sono i cortili delle case nuove di Torino (stavamo in uno de’ tre grandi palazzi di via Nizza, dirimpetto alla stazione della strada ferrata); sono grandi piccionaie, dove c’è più gente che pietre, e dopo desinare tutti fan capolino alle finestre, e quei di sopra guardano in casa di quei di sotto, e quei di sotto vedono le gambe di quelle di sopra, e nelle soffitte si fa all’amore, e sui terrazzini i bimbi fanno il chiasso e gl’impiegati leggono i giornali, e dai letti in giù fino al pian terreno, e dal pian terreno in su fino ai tetti, que’ d’un piano dicon male di que’ dell’altro, e tutti si salutano e si sorridono da buoni amici. Stavamo al secondo piano. Avevamo da un lato una gentile, colta ed arguta signora napoletana, nostra grande amica; una donna alla Cairoli, piena di energia e di slancio, immaginosa, faconda; la quale, un giorno che suo figlio dovea battersi in duello, aveva colpito di meraviglia e di ammirazione mia madre, dicendo tranquillamente:—Egli farà il suo dovere.—Dall’altra parte stava un vecchio ingegnere, pittore, ottuagenario, cieco, veterano di Napoleone primo, circondato da una mezza dozzina di nipotini piccini e carini ch’erano la mia delizia; un bel vecchio, un cuor santo; mi voleva un gran bene, mi chiamava suo figliuolo, e quand’ero lontano e tardavo un paio di giorni a rispondergli, andava a domandar timidamente a mia madre se nell’ultima sua lettera io avessi trovato nulla che mi potesse offendere. Allo stesso piano, dirimpetto a noi, abitava una vedova sui quarant’anni, elegante, languida, magra, bruttina, furiosa divoratrice di romanzi, solita ad affacciarsi alla finestra ogni volta che c’ero io, e a darmi certe occhiate lunghe e stanche, stringendo la bocca e piegando malinconicamente da un lato la testa finto-ricciuta. Alla finestra accanto alla sua stava pel solito la sua cuoca affetta d’incipiente passione per la mia ordinanza (bel giovinetto, tra parentesi); un faccione tondo, porporino, gonfio che parea che soffiasse; due gran labbra, due grand’occhi, due gran spalle, e qualche ardita curva qua e là, che dava nell’occhio fino alle ultime lontananze della casa. Al terzo piano, sopra la ninfa languida, ci stava uno studente d’Università, giovanissimo, buon figliuolo, smanioso della guerra, già iscritto nel ruolo dei volontari, un capo ameno dei più curiosi e più cari. In qualunque ora del giorno, a un mio batter di mani, balzava d’un salto sul terrazzino colle braccia e il viso in aria a guisa di poeta improvvisatore, e m’interrogava e mi rispondeva in versi, e intavolava discorsi di alta politica, di alta guerra, di alta filosofia, di alta letteratura (stava al terzo piano), declamando, gesticolando, canterellando, ch’era una festa a sentirlo. Al suono della sua voce tutto il vicinato si faceva alle finestre.

—«O risorta per voi la vedremo….»—gridava tendendo un braccio verso di me, e battendo la cadenza coll’altra mano sulla ringhiera del terrazzino. Ed io a lui:—«Al convito dei popoli assisa….»—E lui:—«O più serva (la serva volgeva gli occhi in su), più vil, più derisa….»—Ed io:—«Sotto l’orrida verga starà. «E lui:—Sotto l’or….—Ed io:—Rida ver….—E lui:—Ga starà.—E poi tutt’e due assieme:—Ga starà! ga starà! ga starà!—

Grande ilarità a tutti i piani.—Così mi piace la gioventù,—mormorava il buon vecchio. E la cuoca si nascondeva dietro un’imposta e dava in uno scroscio di risa. E la sua padrona faceva un bocchino ridente che voleva dire:—Che cari matti!—E la signora napoletana mi lanciava un frizzo, e mia sorella scappava, e mia madre mi tirava pel vestito, e mio fratello brontolava:—È troppo,—e mio cugino il colonnello, quando c’era, soldato rigido, austero, che mi voleva un gran bene, ma mi faceva delle gran lavate di testa, per cui gli avevo posto il nome di burbero benefico, mi diceva seriamente:—Sii serio.—

E davanti a lui, non lo nego, restavo un po’ mortificato; ma tutt’ad un tratto scappava fuori l’amico con un’altra strofa, e allora addio serietà, e più matto di prima.

Codesta era la commedia pubblica, seguiva poi la privata. Veniva a trovarmi il nipotino più grande del vecchio soldato, ed io:—Animo, in riga!—e pigliavo pel braccio mia madre, e mia sorella, e il bambino, e volere o non volere li mettevo in riga, e ce li facevo stare, e se mia madre rideva le battevo una mano sulla spalla e le dicevo:—Ferma, cara signora, e dritta, e seria, se no noi chiuderemo le porte e vi declameremo cinquanta ottave con tutta la forza dei nostri polmoni, e voi sapete che ce li avete fatti robusti.—No! no! per pietà!—essa rispondeva.—Dunque silenzio!—gridavo io.—E bisogna starci!—mormorava ella ridendo di nuovo e rivolgendosi a mia sorella, ed era tanto caro, tanto gentile quel suo riso!—Attenti! Marche!—Il grido era così tonante che i miei soldatini si disordinavano e se la battevano chi di qua chi di là turandosi le orecchie; e io dietro, e uno per uno li riconducevo al posto, e li lasciavo poi liberi a patto che gridassero tutti insieme:—Viva la guerra!—Ma mia madre mi diceva:—E io non grido.—E tu griderai.—E io no.—Allora pigliati un bacio, angelo.—

Ma di giorno in giorno ella diventava più pensierosa. Parecchi reggimenti erano già partiti; da un’ora all’altra s’aspettava l’ordine di partenza pel mio; essa lo sapeva. Spesse volte, mentre facevo il chiasso, la sorprendevo che stava guardandomi con aria malinconica, e le dicevo:—Cosa pensi?—Figliuolo,—mi rispondeva tristamente,—penso che non abbiamo più che pochi giorni da stare insieme…. Godo che tu sia allegro così, e nello stesso tempo…. questa tua allegria…. mi fa male, perchè…. penso che sentirò assai più dolorosamente il vuoto e il silenzio…. che ci sarà in questa casa…. tra poco.—

È vero, io pensava. Povere donne! Coraggio, coraggio! noi diciamo loro; noi che andiamo alla guerra pieni d’entusiasmo, di ambizione, di sogni di gloria, allegri, spensierati, circondati d’amici; ma esse restan qui sole, senza conforti, senza, distrazioni, sempre con quel pensiero, con quel dolore fisso, immobile….

—In questi giorni….—soggiungeva mia madre—io capisco, io sento che in questi giorni non son più nulla per te…. No, no, lascia ch’io lo dica; non me ne lamento mica, sai!… Povero figliuolo, è naturale… ma….

—Senti,—io le dicevo per consolarla;—tu che hai un cuore così nobile, così eletto, tu puoi trovare un conforto in te stessa, assai più facilmente di molte altre donne. Non siamo egoisti. Credi tu che questa guerra si debba fare? che sia giusta? che sia un sacro dovere per il paese?

—Oh questo sì—essa rispondeva asciugandosi le lacrime.

—E dunque, se non la facessimo noi, generazione adulta, la dovrebbero far dopo noi i nostri figliuoli. Se non ci fossero adesso cinquecentomila madri che piangono, ci sarebbero fra venti, fra trent’anni. Noi ci sacrifichiamo pei nostri figliuoli, pei cinquecentomila bambini e le cinquecentomila bambine che adesso stanno ancora nelle fasce; queste hanno in quelli i loro predestinati amanti, i loro predestinati sposi; non vorremmo noi assicurare, per quanto sta in noi, il loro avvenire da ogni dolore, da ogni sventura, e fare che un giorno essi possano innamorarsi, sposarsi, e moltiplicarsi in pace?—

Mia madre sorrideva, ma tornava subito trista.—Tutto questo è vero….—diceva sospirando;—ma non basta, figliuol mio, non basta a consolare una madre!—

E appoggiati i gomiti sulla tavola e abbandonata la fronte sulle mani, piangeva tacitamente. Io tentavo di consolarla.—No, figliuolo; vattene fuori, va a cercare i tuoi amici, io non voglio rattristarti; lasciami pianger sola; va.—

Era di sera; ella stava là al buio in un cantuccio della stanza, sola, muta, e pensava e pensava.

Non ho esperimentato mai quanto in que’ giorni la meravigliosa potenza dell’immaginazione sul sentimento. Cominciavo talvolta, così per ozio, a fantasticare intorno ai casi possibili della guerra, e poi a poco a poco mi raccoglievo e m’internavo così profondamente nella immaginazione delle battaglie, delle entrate trionfali, dei ritorni, che mi pareva proprio d’esserci, di sentire, di vedere, e mi si rimescolava il sangue, e mi stringevo la testa fra le mani che pareva la mi dovesse scoppiare tant’era il tumulto delle idee che vi turbinavano dentro, e il petto mi ansava, e mi pigliavano degl’impeti di tenerezza infantile.

Una notte ero di guardia al Palazzo Madama; ero solo nella mia camera, seduto a tavolino, col lume davanti, e fantasticando più stranamente del solito, supponevo di essermi levato a sì grande altezza da abbracciar collo sguardo il paese intero, monti, valli, fiumi, foreste; e sentivo e vedevo in tutte le città le strade brulicare di popolo, e le piazze d’armi sfolgorare di baionette; e dalle fortezze, dagli arsenali, dai porti, uscire un suono confuso di armi e di canti, lo strepito cupo d’un lavoro concitato, febbrile; e per le strade ferrate, convogli sterminati, pesanti, lenti, percorrere il paese in tutte le direzioni, incontrandosi, incrociandosi, inseguendosi, salutati a festa dal popolo della campagna accorrente, e fermarsi qua e là, e versar cannoni, carri, cavalli, onde d’armati; e ad un tratto scoppiare concordemente da tutte le parti un formidabile frastuono di tamburi e di trombe, e da ogni città spuntare e allungarsi per la campagna le colonne dei reggimenti, convergere, congiungersi due a due, tre a tre, e avanzar lentamente verso i confini, incoronando le alture, serpeggiando lungo i fiumi, allagando le valli, spiegandosi in immense linee di battaglia sui piani; e sui monti del Tirolo, dal Lago di Garda su su a perdita d’occhio, rosseggiare in mille punti le bande dei volontari, inerpicarsi, precipitar giù per le chine, sparir nei burroni, riapparire in vetta alle rupi; e intanto tutta la vasta pianura lombarda popolarsi di tende e di parchi, risonar di musiche e di grida; e poi calare la notte, e tutto quetarsi; e finalmente, al primo chiarire d’una bell’alba di primavera, un nuvolo di cavalieri spiccarsi colla rapidità del fulmine dal quartier generale, spargersi in tutti i sensi, e propagare un grido di campo in campo; e tutto l’esercito rimescolarsi violentemente, e riordinarsi, e avanzare…. E qui l’immaginazione non potendo abbracciar tutto il quadro della smisurata battaglia, m’appariva un immenso velo di nebbia rotto qua e là a grandi tratti, d’onde si vedevano i nostri giovani reggimenti lanciarsi all’assalto dei colli, retrocedere, risalire ostinati; e squadroni di cavalieri a lancia calata irrompere pancia a terra contro i quadrati; e batterie raggiungere di volo altre batterie, e dal sommo delle alture fulminare e squarciare i fianchi delle colonne fuggenti; e stormi infaticabili di bersaglieri sparpagliarsi e riannodarsi e inseguire e recedere e celarsi e ridistendersi in lunghe catene; e in ogni parte assalti succedere ad assalti, linee succedere a linee, e il cielo rimbombare dell’orrendo fragore. Quand’ecco tutto ad un tratto si fa un alto silenzio, la nebbia si dissipa, la polvere dispare, sulle creste di tutti i monti ondeggiano i nostri battaglioni, sventolano le nostre bandiere, echeggiano le nostre fanfare, e dall’uno all’altro capo d’Italia un grido di gioia lungamente preparato, lungamente compresso, si sprigiona e…. Sii pure immenso, o grido, e risuonino di te tutte le volte del cielo; ma non me lo copri, no, non me lo copri quel filo di voce tremola che prorompe dal seno…. Oh Dio! la mia testa, la mia testa!

Mi slanciai fuor dalla camera, uscii dal Palazzo; Piazza Castello era deserta e queta come il cortile d’un vasto convento; la collina di Superga si disegnava distintamente sul cielo limpido e stellato, e la facciata della Gran Madre di Dio, rischiarata dal raggio della luna, pareva che fosse lì a due passi.—Che bella notte!—esclamai.—Oh! io sono veramente felice!—

Ma un’immagine turbava quella mia felicità: l’immagine di una povera donna, seduta in un cantuccio della sua cameretta, colla fronte appoggiata sulle mani, al buio, che pensava, pensava.