Il 6 di maggio, verso le cinque di sera, stavamo in crocchio una diecina d’ufficiali sulla porta della caserma, quando s’udì un passo precipitoso giù per le scale e subito dopo comparve l’aiutante maggiore affannato gridando:—Signori! Si parte questa sera alle otto. Bagagli in caserma alle sette. Montura di marcia.—

Un grido di gioia, e senza neanco domandare dove s’andava, via di corsa, chi al caffè vicino ad avvisare gli amici, chi in caserma a chiamare l’ordinanza, e chi a casa. Di lì a un momento scoppia nel quartiere uno strepito d’inferno, sonano i tamburi, si sparge la notizia nel vicinato, la gente accorre, e in pochi minuti, di casa in casa, di strada in strada, vola la voce per mezza la città, e si propaga l’allarme fra le mamme.

Corro a casa, salgo le scale a tre scalini alla volta, picchio, m’aprono, è mia madre.

—Dio mio! cos’hai? cosa c’è?—

Ansavo come un cavallo.

—Bisogna partire.

—Oh!

—Già…. e non c’è tempo da perdere.

—Quando?

—Alle otto.

—Alle otto;—ripetè collo stesso accento mia madre, come per eco, e restò li senza far motto nè gesto, guardandomi con aria di stupore.

—Presto, presto; bisogna fare il baule; alle sette bisogna che sia in quartiere; a momenti verrà l’ordinanza; intanto bisogna cominciare; animo….—

E dopo un istante, vedendo che mia madre non si moveva:—Dunque?

—Ah!—diss’ella, come riavendosi da uno stordimento.—Eccomi pronta. Erminia!—

Mia sorella comparve subito.

—Parte—le disse in fretta mia madre;—bisogna mettergli al posto la roba; è tutta pronta, non è vero? Oh bene. Adesso…. aspetta. Dov’è il baule? Ma no; è meglio prima…. guarda…. o piuttosto….—

E guardava di qua e di là come smemorata.—In queste occasioni, è fatta apposta per perder la testa quella povera donna.—Dunque? domandò poi, per levarsi d’impiccio, a mia sorella che stava lì anch’essa immobile e come trasognata.

Ah!—rispose scuotendosi ella pure tutt’ad un tratto;—Presto, sì, bisogna sbrigarsi.—

E corsero tutt’e due nell’altra camera.

Una scampanellata; apro: è l’ordinanza.—Eccomi!—esclama trafelando.

—Maria!—grida mia madre tornando in fretta. La donna di servizio accorre.

—Andate a chiamar subito mia figlia. Passando, dite al portinaio che venga a pigliare il baule. Fate chiamar Ettore qui al caffè vicino. Che vengan subito tutti. Presto.—

L’ordinanza porta il baule sul terrazzino; il rumor del baule chiama alla finestra la ninfa languida; la ninfa languida chiama alla finestra la cuoca purpurea; l’atto impetuoso con cui la cuoca purpurea spalanca la finestra chiama sul terrazzino gli altri vicini.

Intanto mia madre andava e veniva senza concluder nulla.

—Amico!—grido io battendo le mani.

—Italia!—egli risponde nello stesso punto apparendo sul terrazzino in maniche di camicia e in atteggiamento ispirato.

—Parto alle otto.—

Scompare, torna vestito, leva in alto il bastone:—Ti aspetto alla stazione!—esclama, e precipita giù per le scale urlando:—Viva la guerra!—e facendo scorrere il bastone sui ferri della ringhiera che faceva un fracasso di casa del diavolo.

L’ordinanza mette nel baule la tunica e i calzoni. Atto di languida sorpresa della ninfa. Grande spalancamento d’occhi della cuoca.

—Alberto,—esclama mia madre sostando dal suo affannoso andirivieni.

—Eccomi.—

Mi tira in disparte.

—Dimmi…. dove andate, lo sai?

—A Piacenza.

—A Piacenza. E…. dimmi un po’: è una città fortificata Piacenza, non è vero?

—Si, è fortificata.

—Resterete là.

—Non credo.

—Ma…. non le difendono le città fortificate?

—Quella là no, perchè noi andremo avanti, ed essa resterà indietro.

—Già….—ella disse coll’aria di chi perde una speranza. E ritornò di là.

Altra scampanellata; apro: è mia sorella maggiore. Mi stringe forte la mano e va di là.

Terza scampanellata. È mio fratello Ettore. Stretta di mano, e via.

Do un’occhiata alla ninfa: oh Dio, che sfinimento! La mia ordinanza osserva colla coda dell’occhio se le guancie purpuree danno segno di voler impallidire:—no. Io suppongo di avere un cerotto sul collo, e tento di piegare il capo in atto melanconico: invano; la patria è più forte.

Intanto ritorna mia madre, colle braccia cariche di biancheria, seria, impassibile, che mi fa stordire; dietro a lei tutti gli altri, silenziosi, colla testa bassa.

Mia madre si china sul baule; l’ordinanza fa un atto rispettoso per pigliarle la roba; ella si scansa e risponde:—No; lasciate fare a me.—Le mie sorelle stendon le mani per far lo stesso.—Lasciate fare a me—risponde un’altra volta mia madre; e si china per mettersi in ginocchio.—Mamma!—io le dico con accento di affettuoso rimprovero trattenendola pel braccio. Essa mi guarda.—Non voglio—io soggiungo. Ed essa con accento più affettuoso del mio:—Te lo domando per piacere.—

S’inginocchia e ripone la roba. Il soldato mi guarda tra intenerito e sorpreso come per dirmi:—Quanto siete fortunato, tenente!—Io lo guardo come per rispondergli:—Lo so; mi rincresce che non ci sia la tua.—

Mia madre s’alza e va via. Sento un respiro affannoso; mi volto; è mia sorella minore che piange.

Mia madre ritorna con un non so che tra le mani, lo pone nel baule e va di nuovo di là; guardo: è il suo ritratto.

Ritorna con tre libri e li mette sopra il ritratto.

—Che cosa sono, mamma?

—Sono I Promessi Sposi.

—Oh grazie!—e le baciai la mano; essa la ritirò in fretta; sempre impassibile; la guardavamo tutti stupiti, ci metteva inquietudine.

—Lèvati la sciarpa.

—Perchè?—domandai.

Essa senza dir nulla me la toglie e la mette nel baule.

—Mamma…. me la debbo mettere.—Non risponde: va nell’altra camera. Altro respiro affannoso: piange mia sorella maggiore.

Mia madre torna con una magnifica sciarpa di seta, me la mette al collo e mi dice:—L’ho fatta nell’ore che tu eri in piazza d’armi.

—Mamma!—e giunsi le mani in atto supplichevole come per dire:—È troppo!—Ella voltò la testa dall’altra parte.

L’ordinanza guarda mia madre cogli occhi lucidi.

—C’è tutto—essa dice guardandosi intorno. Breve pausa, e poi.

—Si può chiudere.—

Abbassa il coperchio, preme colla mano, non riesce a chiudere; preme col ginocchio respingendo coi gomiti chi la vuole aiutare, le scivola un piede, vacilla….—Ma, mamma! ma cosa fai!—esclamiamo tutti noi sorreggendola.

Picchiano: è il portinaio che viene a prendere il baule.

—Già qui?—esclama mia madre volgendosi in tronco, con un accento di spiacevole sorpresa….—Prendete.

Il portinaio si mette il baule in spalla.

—Alla Caserma di Porta Susa—dico io.

—So dov’è—egli risponde avviandosi.

—Fermatevi!—esclama improvvisamente mia madre; quegli si volta.

—Badate….—e cerca qualcosa da dire; badate di non lasciarlo cadere.

—Non dubiti.—

Esce; mia madre lo accompagna fino alla porta; lo guarda scender le scale;—è scomparso;—stringe le labbra, batte le palpebre, ha vinto; il nodo di pianto è andato giù; impassibile come prima; comincio a turbarmi.—Come finirà!—

Ecco il burbero benefico.—Buona sera.—Nessuno risponde; ha già capito; mi guarda in viso; io alzo la fronte.—Via non c’è male—par che dica. E passiamo tutti nella stanza accanto.

Un’ultima occhiata alle finestre; languore mortale. Nuovo sforzo di collo: invano; vince la patria; addio per sempre!

Siamo tutti seduti in circolo nell’altra camera; nessuno parla. S’ode il fruscìo d’una veste, s’apre la porta, ecco la signora forte; tutti s’alzano in piedi.

—Mia buona amica—ella dice porgendo tutt’e due le mani a mia madre con quel suo garbo, con quel suo brio così vivo e sereno.—Ho saputo ora soltanto che vostro figlio doveva partire. Sono momenti dolorosi, certo; ma tutti bisogna che soffrano la loro parte per il paese. Gran giorni son questi per l’Italia! Gran guerra! Credete; è impossibile che il nemico regga lungamente a quest’onda di fuoco che lo investirà d’ogni parte. L’esercito ha alle spalle tutto un popolo pronto a scendere in campo. Gran giorni questi! Così si fanno le nazioni!—

Mia madre la guardava attonita.

—Poterla vedere un momento, da lontano, la gran battaglia! Vederla nel punto più bello, quando i nostri reggimenti avranno cacciato i nemici da tutte le colline della linea di battaglia, e giù per le chine, dall’altra parte, cavalli, soldati, carri, cannoni, tutto a precipizio e a rifascio!…. Coraggio, cara signora; questa è una vera crociata; anche le donne e i bambini anderebbero a combattere; se l’esercito si dissolvesse, in quindici giorni ne sorgerebbe un altro.

—Sì! sì!—proruppe mia madre con uno slancio che volea parere entusiasmo, ma non era altro che amor materno velato di amor di patria:—Sì! È una crociata! Dovrebbero andarci tutti alla guerra, tutti, da esserci a milioni a milioni, che i nemici avessero paura, e smettessero persino l’idea di resistere e aprissero le porte delle fortezze….

—Dov’è il mio figliuolo?—domanda una voce tremola dalla camera vicina; s’apre nello stesso punto la porta e compare il vecchio cieco, colle braccia tese in atto di chiamarmi a sè. Io lo abbraccio; egli mi tocca la sciabola, la sciarpa, le spalline e domanda con voce commossa:—Già pronto?—Poi mi mette le mani sulle spalle, mi appoggia la guancia sul petto e resta fermo così. Silenzio generale. Il burbero, ritto in fondo alla stanza, contempla il quadro colle sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate sul petto. Mia madre mi guarda fiso.

Trascorsero alcuni minuti, ed io, guardato in fretta l’orologio, dissi con grande sforzo:—È ora.—

Tutti balzarono in piedi e fecero un passo verso di me. Il burbero mi si accostò e mi susurrò all’orecchio:—Sii uomo.—Pausa.

—….Dunque—io mormorai, mettendomi il cheppì.

—Dunque—disse risolutamente la signora stringendomi e scotendomi la mano ad ogni parola;—coraggio, fatevi onore, ricordatevi di noi, e scrivete.—Detto questo, si ritirò.

—Addio, Alberto!—esclamò mio fratello gettandomi le braccia al collo e baciandomi.

Le mie sorelle mi abbracciarono singhiozzando e fuggirono.

—Qua!—esclamò il vecchio aprendo le braccia;—qua figliuolo! E stringendosi la mia testa contro la spalla, mormorò colla voce tremante: Se questa fosse l’ultima volta che t’abbraccio…. voglia il cielo…. che questo segua per causa mia.—

Il burbero mi strinse la mano, mi guardò fiso, e si ritrasse.

Io e mia madre ci fissammo un istante; essa mi si slanciò tra le braccia, mi avvinse il collo con una forza virile, mi coprì di baci disperati, poi afferrandomi con una mano un braccio e premendomi l’altra sulla spalla, stretta, attaccata al mio fianco, si fece trascinare, più che condurre, sino alla porta. Là mi sciolsi a forza e mi slanciai giù per le scale. Nel punto istesso, come se m’avesse visto piombare in un precipizio, ella gettò un grido lungo, straziante:—Alberto! Alberto!—

Sentii, continuando a scendere, che erano accorsi tutti gli altri; udii un rumore confuso di voci; il mio soldato fra gli altri che diceva:—Coraggio, signora; io gli starò sempre vicino; glielo prometto!…—i singhiozzi disperati di mia madre; un ultimo e stanco grido di:—Alberto!—e poi più nulla.

Traversando frettolosamente il cortile incontrai i quattro nipotini del vecchio che tornavano dalla scuola; li fermai, li copersi di baci:—Oh! me li soffoca!—gridò la bambinaia spaventata.

—Signor tenente, se vedesse!—esclamò l’ordinanza raggiungendomi col fazzoletto agli occhi.

—Taci.—

E via di gran passo.

 

II.

Arrivai alla caserma ch’era quasi buio. Le compagnie eran già armate e schierate nel cortile. Fuori, una confusione indicibile; la strada stipata di gente e illuminata colle fiaccole da un gran numero di studenti dell’Università; la porta del quartiere ingombra di ufficiali; intorno a loro una moltitudine di mamme, di sorelle e di fratelli piccini che vogliono entrare e piangono e pregano a mani giunte:—Ce lo lascino vedere ancora una volta, un momento solo, appena una parola!—E l’ufficiale di picchetto a spingerli indietro e a gridare e a pregare anche lui:—Mi facciano questo favore, si tirino in là, lascino libero il passo; non possiamo lasciarli entrare; è proibito; noi facciamo il nostro dovere; li vedranno quando andranno via.—Un accorrere di mogli d’ufficiali coi bambini per mano venute a porgere gli ultimi consigli e l’ultime preghiere; più in là un va e vieni d’altre donne e d’altre ragazze, che non sono nè madri nè mogli nè sorelle, altre piangendo, altre fingendo di piangere per destare qualche utile simpatia in que’ che restano, altre in disparte malinconicamente atteggiate; drappelli d’operai che passano cantando e sventolando bandiere; grida, applausi, e un ondeggiamento e un mormorio confuso come di mare agitato.

Scoppia un rullo di tamburi; gli ufficiali spariscono, nella folla si fa un improvviso silenzio. Di lì a un minuto vengon fuori gli zappatori del reggimento a sgombrare la strada.

Mi colse un pensiero:—Si va alla stazione…. Dio mio! Bisogna passare sotto le sue finestre!—

Echeggia la musica, il reggimento è fuori, fiancheggiato da due lunghe file di fiaccole; le famigliuole danno l’assalto alle file; gli ufficiali e i sergenti le respingono; respinte di qua, tornano di là; la gente s’affaccia alle finestre sventolando le bandiere; qua e là piovon sigari e aranci; una moltitudine precede il reggimento cantando; una moltitudine lo segue.—Viva la brigata Piemonte! Viva il vecchio reggimento del 637!—gridò un signore da una finestra.—E un altro:—Viva i valorosi di Calmasino!—

Siamo in via Santa Teresa, siamo in Piazza San Carlo, siamo in Piazza Carlo Felice; a misura che vado innanzi il cuore mi si stringe più forte; mi tremano le gambe.—Sentirà la musica, sentirà queste grida quella povera donna!—

Alzo gli occhi; ecco la casa, ecco la finestra illuminata; c’è una persona, non è lei, chi sarà? Non si può distinguere; saluta colle mani; guarda giù; Dio mio, chi sarà?

Tutt’ad un tratto spunta un lume sulla finestra di sotto.—Ah! l’ho visto; è il cieco. Dio ti benedica, papà!—

Ecco il mio amico; m’abbraccia, mi bacia, mi grida:—Buona fortuna, fratello! viva la guerra!—e scompare.

Siamo nel convoglio; sporgo fuori la testa; sempre la finestra illuminata, sempre il cieco solo che agita le mani in atto di saluto.—E questa musica che non si quieta mai! Oh povera madre!—

S’ode il fischio; il convoglio si muove; il cuore mi dà una scossa tremenda: chi altri è venuto alla finestra? Vedo due braccia prostendersi verso di me…. Dio mio! Ho sentito un grido?

La casa è scomparsa.

—Addio, mio buon angelo! addio, madre santa e adorata! Il cielo mi consenta di rivederti, o di morire così nobilmente, che l’orgoglio d’essermi madre t’alleggerisca il dolore d’avermi perduto.

—Adesso a noi!—dissi volgendomi vivamente al mio vicino e battendogli una mano sul ginocchio.

Il vicino immerso sino allora nella malinconia d’un abbandono amoroso, si scosse tutt’ad un tratto, e gridò forte anche lui:—Viva la guerra!—

E tutti gli altri:—Fuoco ai sigari!—

In un momento la carrozza fu piena di fumo, di strepito e d’allegria.