Spesso i più bei libri sono quelli che si scrivono senza l’intenzione di fare un libro, oggi un brano, domani un altro, secondo il capriccio, secondo le occasioni. I fogli intanto si accumulano, un capitolo chiama dietro il compagno, quasi per forza, un bel giorno, che è, che non è, ecco formato il volume. L’idea di scrivere un libro forse non vi sarebbe mai passata per la testa; ma quando le diverse parti di esso son lì, venute fuori alla spensierata, legate dal tenue filo del soggetto o anche da quello più sottile delle vostre personali impressioni; quando si sa che quelle pagine lanciate, senza pretensioni, tra il bailamme della pubblicità dalle colonne d’un giornale o dal fascicolo d’una rivista, sono state lette con piacere, con avidità, e qualche volta, — onore troppo raro in Italia da non lusingare l’amor proprio, — anche tradotte in una lingua straniera, la tentazione di mettere insieme il volume diventa quasi irresistibile. Infine, perchè no?

Molte volte, disgraziatamente, il volume non si trasforma in un libro, che è una cosa ben diversa. Ma quando alla materia generale del soggetto corrisponde una giusta intenzione di sentimento e di forma, le diverse parti fanno presto ad adattarsi insieme, a fondersi e diventare un organismo.

Così è accaduto al Napoli della signora Cesira-Siciliani. I diversi bozzetti comparvero negli anni scorsi alcuni nell’Illustrazione italiana, altri nella Nuova Antologia; quello intitolato Una visita a Luigi Settembrini, in poche settimane fece il giro di quasi tutti i giornali d’Italia; qualch’altro meritò d’essere tradotto in francese da Julien Lugol; tutti ottennero un bel successo di lettura e misero il nome dell’autrice tra quelle delle donne italiane che sanno tener meglio la penna in mano. Certamente l’autrice (una madre di famiglia modello, senza neppur l’ombra di velleità di letterarie) deve essere rimasta sorpresa avvedendosi un giorno che, alla chetichella, fosse giunta a mettere insieme delle centinaia di pagine… Ma l’editore Morano ha fatto bene dando materialmente la forma d’un elegante volume a quei capitoli che già componevano virtualmente un bel libro.

La signora Siciliani, un’innamorata di Napoli, ne ama ancora più, è tutto dire! i dintorni. Li ha percorsi palmo a palmo, e il suo entusiasmo trasparisce da ogni pagina e da ogni riga, con una sincerità che fa piacere. Alla città, alla Grande Sirena com’ella la chiama, consacra soltanto un capitolo, il primo, frettolosamente, quasi si sentisse stordita e sopraffatta da quell’immenso ribollire di vita che si versa per quelle viuzze strette, sporche, ingombre di cose d’ogni sorta e di persone d’ogni genere, per quei corsi, per quelle passeggiate di Chiaia e di Mergellina, in tutte le ore del giorno e fino a notte tardissima… Ah! dimenticavo la festa di S. Gennaro e il suo miracolo dello scioglimento del sangue. Però, visto il miracolo, eccola attorno;  ad Ischia, a Procida, a Castellamare, a Sorrento, a Capri, ai Camaldoli, a Pompei; sempre nella cerchia della Grande Sirena, sotto la magìa di quel cielo e di quel mare che le strappano tanti gridi d’ammirazione, ma più volentieri alla periferia che al centro del circolo incantato.

L’ammirazione ripeto, è sincera, senza sentimentalità femminili. Anzi, se il libro ha un difetto, è appunto questo; tolta la squisita gentilezza della forma che irradia per esso un vero sorriso femminile, il cuor della donna vi sente di rado. Ma il libro è allegro, chiassone, come le passeggiate e le gite a cavallo dei ciucci fatte dall’autrice attorno a Napoli colla piccola brigata dei suoi amici e col marito che maturava allora in mezzo allo svago delle vacanze, i suoi severi dialoghi sulla filosofia zoologica del secolo XIX. La signora Siciliani non ha un’ammirazione superficiale per le località che percorre. Sa il valore d’ogni pietra e i ricordi che la storia antica e moderna vi ha sparso a piene mani, con profusione da sbalordire; infatti li accenna di volo, tanto per mostrare che non li ignori, tanto da potervi servire all’occorrenza, se voleste confrontare le sue impressioni colla realtà rifacendo i suoi passi. Però quello che più le piace è il tentar di rinnovare nell’animo del lettore le sensazioni da lei provate mentre palpitava sotto il fascino del cielo e del mare, il gran lusso di quella natura. Ecco un tramonto. Niente, ella avverte, che rassomigli ai malinconici tramonti di Fiesole, di Monte Senario, dei laghi lombardi, della riviera di Genova: i tramonti di Castellamare sono un’altra cosa:

«Il cielo con la sua limpidezza profonda, il mare azzurro, fosforescente, le nuvolette che si tingono delle più soavi sfumature, le isole che sembrano galleggiar come sirene

A mezzo il petto vagamente ignude,

i monti bruni e coperti di boscaglie sempre verdi, i paeselli candidi, il Gauro selvoso e maestoso di qua, il nudo e altero Vesuvio di là… tutto si veste di colori smaglianti, tutto si tinge del rosso più vivo; i pinnacoli delle chiese, delle ville, delle città brillano di luce adamantina, e tutto sembra una festa della natura. Se l’orizzonte è puro, se il mare è tranquillo, se il cielo è sereno, l’immenso disco solare, rosso come fiamma viva, spogliato dei suoi splendori abbarbaglianti,  si tuffa lento nel mare imporporando l’occidentale volta celeste; mentre le coste bizzarre e le vaghe isole dell’arcipelago partenopeo ora paion trasparenti, e ora, pigliando forma più spiccata, si presentano brune come ricoperte d’una superficie di solido granito. Se poi si adagia nel suo letto di porpora circonfuso di nuvolette, un vivissimo color di croco si diffonde a sprazzi, e tutto rosseggia, tutto pare che s’infiammi, e un immenso incendio par che si susciti all’estremo orizzonte occidentale e lanci fiamme divoratrici per gli spazii sconfinati, mentre una striscia di fuoco, serpeggiando bizzarramente sulle acque, si dibatte ed effonde per l’apertomare.»

Il dialogo interrompe qua e là le descrizioni e impedisce che, a lungo andare, diventino monotone, se pure fosse possibile con quell’immensa varietà di soggetti. Schizzi, ritratti, ricordi di usi bizzarri, aneddoti ameni formicolano per tutto il libro con una vivacità serena, spensierata, napolitana, e lo rendono attraentissimo. Quando si è all’ultima pagina vien la voglia di metterlo in tasca e volare al paese fatato che la scrittrice ci ha dipinto con sì vivaci colori. Napoli e dintorni non ha la frizzante canzonatura del Vedi Napoli e poi… di Yorick figlio di Yorick; non ha la dolce tristezza del Napoli di Renato Fucini: è un libro oggettivo, come direbbe un tedesco. La stessa grande ammirazione dell’autrice non arriva ad offendervi; ve la sentite infondere, la partecipate, capite che non è punto esagerata; vi sentite anche liberi d’ammirare per vostro conto. Il libro però si chiude con un’impressione d’altro genere. Quel cielo sorridente, quella natura che sembra debba infiacchire i corpi sotto la prostrazione della sua dolcezza, hanno avuto questo di strano: non hanno mai prodotto un gran poeta, bensì molti profondi pensatori e molti caratteri nobili e fieri. Leggendo il capitolo Una visita a Luigi Settembrini si comincia a dubitare della teorica delle influenze dei climi sull’indole e sul carattere umano. Settembrini a Napoli non è un’eccezione. Poerio, Spaventa, cento altri son lì a protestare: l’eccezione, per lo meno, vi sta in bilancio colla regola. Sicchè, dopo tanto bagliore di luce e tanto sorriso di cose, al di sopra di tutta quella gente che brulica e s’agita ed urla e si diverte chiassosamente per le piazze, per le vie, lungo il mare, con la coscienza dell’istinto, colla tranquillità di grandi fanciulli contenti di nulla, fa una profonda impressione quella figura maschia, così severa e nello stesso tempo così semplice da somigliare a quella d’un eroe dell’antichità. Il cuore vien commosso e l’animo è trasportato su dal soffio d’un sentimento nobilissimo.

La signora Siciliani è nata Pozzolini. Un altro libro di donna mi richiama in mente il salotto di casa Pozzolini in via dei Pilastri, che fino al 1870 fu uno dei più frequentati e dei più ricercati di Firenze.

A pian terreno, col parato giallo, ogni venerdì quel salotto formicolava di belle e gentili signore, di poeti, di artisti, di persone che avevano quasi tutte un nome noto, parecchie anche illustre. La conversazione era allegrissima, senza sussieguo. Si faceva della musica, si cantava, non di rado si finiva per far quattro salti.

Pochi anni appresso, ahimè, tutto era silenzio e tristezza in quella casa! Una delle figlie della signora Gesualda, l’autrice del Napoli e dintorni, avea seguito a Bologna il marito, professore in quell’università; l’altra, Antonietta, era morta alla vigilia delle sue nozze.

Povera Antonietta! Da quel profilo delicato, da quella personcina gracile s’indovinava il suo cuore d’artista. Scolara del Thuar, aveva scritto dei raccontini che promettevano molto; ma lei preferiva la pittura. La sua prima opera originale, sventuratamente anche l’ultima, fu un sant’Antonio, magra figura di monaco che mostra sul volto le macerazioni della carne e le mistiche esaltazioni dello spirito. La figura è in piedi, con una certa rigidità caratteristica; e il cielo scuro e malinconico diffonde la sua tristezza sul giovane aspetto del santo di Padova non ancora appassito dalle penitenze.

Lo stesso libro mi ricorda anche Bivigliano, una villa su Val di Sieve, una volta dei Cattani di Cervino, poi dei Ginori che l’abbellirono, ed ora proprietà della famiglia Pozzolini. Quei terreni nel 1858 erano o malamente coltivati o incolti del tutto, e i boschi che li circondavano in deplorevole stato. I contadini credevano agli spiriti, alle malie. Dopo il tramonto non s’arrischiavano di passare vicino un gran sasso, a poca distanza della villa, perchè vedevan lì sotto una vecchia strega che filava. Un pero, che trovavasi più in là, li faceva tremar di paura perchè, dicevano, la notte vi sbucava un cane bianco a custodirlo. Se un giovane era affetto di pneumonite, lo credevano stregato e ricorrevano ad una pretesa strega per isfatar l’incantesimo.

Oggi Bivigliano è trasformato.

Mentre il signor Luigi Pozzolini badava a dissodare e a fertilizzare i terreni, la sua colta Signora impiantava nella villa una scuola elementare a proprie spese. Non fu facile persuadere i contadini a mandarvi i ragazzi e le ragazze; ma l’energia della signora Gesualda sormontò ogni ostacolo. Lei e le due figlie, nella primavera e nella estate, erano direttrice, maestre, tutto. Alla fine le scuole rigurgitarono di scolari e di scolare e bisognò raddoppiarle e provvederle di veri maestri e di vere maestre. Così Bivigliano non ebbe più un palmo di terreno incolto, nè un contadino analfabeta.

Nel novembre del 1877 incontrai a Napoli la signora Siciliani col marito, il professor Pietro, tornati da poco dalle loro allegre escursioni. Lei sempre infaticabile, pronta a ricominciare, parlatrice piacevole e piena di spirito, faceva volentieri a voce tutte le descrizioni e le mille esclamazioni di meraviglia poi ripetute nei suoi bozzetti. Io non ho mai corso su e giù per una città come in quei giorni con lei: visite a chiese, a musei, al De Sanctis, al Fornari, cene allo scoglio di Frisio, tutta Napoli vista a volo di uccello: è la verità non un’iperbole.

Volevo visitare il Settembrini, e un giorno verso le quattro una carrozzella che ci riportava da non so più qual luogo, ma certamente da lontano, ci lasciava innanzi il portone della casa ove il Settembrini abitava.

A piè della scala il portinaio ci fece osservare che probabilmente il professore in quel momento andava a tavola. Non volli essere importuno; tornammo indietro. Proprio in quel momento un improvviso sbocco di sangue metteva fine al lungo martirio che fu la vita di Luigi Settembrini! Due giorni dopo, in mezzo alla folla che s’accalcava dietro il feretro del grande patriota, si notava come una singolarità una giovane signora che non sapeva frenare le sue lagrime: era la signora Siciliani.