La compagnia di Battista Andretta, detto l’uomo gigante, s’era fermata a Marigliano, per tre giorni. Di lì, si diceva, sarebbe andata a Nola, poi a Palma, poi a Sarno. E poi? Chi sa dove! I saltimbanchi sono come gli zingari: tutto il mondo è casa loro.
Intanto i mariglianesi si divertivano. Nell’ultima sera delle rappresentazioni il caffè di Nicola Fiore rimase deserto molto prima del solito. Don Olindo Borrelli, medico condotto, s’era tirato dietro tutti gli avventori. Il caffettiere, rimasto solo dietro le sue chicchere slabbrate, si seccò, dopo cinque minuti, pure lui. Pensò, ripensò, infine si decise. Dopo aver raccomandato alla moglie, che sonnecchiava, di badare alla bottega, infilò la porta, accese un sigaro e alzò il bavero del cappotto, contento come uno scolaro che ha marinata la lezione. C’era quella Nanna, perdio, laggiù da Battista Andretta! Da tempo Marigliano non vedeva più ragazze così carine! E così appetitose! Incamminandosi, don Nicola Fiore si fregava le mani, impaziente.
L’ultima rappresentazione durò oltre le due ore. Era lungo l’addio e per quella serata lo spettacolo complicato d’ogni sorta di sorpresa. I mariglianesi, entusiasmati, battevano le mani grossolane, vociando:
— Bisse! Bisse!…
Battista Andretta rientrò a un momento nello spogliatoio improvvisato, e buttò a terra la clava di ferro che poco prima aveva maneggiata come un bastoncello. Il pagliaccio era occupato a cacciare in un baule quanto gli capitava sotto mano.
— Le carte! — fece Battista.
L’altro, accovacciato innanzi al baule, volse la testa infarinata; le lunghe sopracciglia giapponesi gli salirono fino alla radice de’ capelli in su la fronte. Le labbra dipinte di carmino si contrassero in una comica smorfia.
— Le carte?
— Sì. Dove sono?
Il pagliaccio rimaneva a bocca aperta, cercando nella memoria.
— Ah! qui, qui, nel baule, in fondo. C’è sopra tutta la roba….
— Figlio di cane! — borbottò l’Ercole, minacciando col pugno enorme. — Ti avevo raccomandato di lasciarle fuori!
Si gettò sul baule, rovistando, bestemmiando sottovoce, con le braccia nude sprofondate nelle trine e ne’ veli sino alla scapola.
— Leva su il lume!
Il pagliaccio alzò la mano, reggendo una candela di sego. Gli battevano i denti pel freddo e sotto alla farina la pelle gli si stirava rigidamente. A una coscia, attraverso il maglione rosso, sdrucito, si mostrava la carne violacea; de’ piccoli brividi gli salivano su da’ talloni, gli correvano per la schiena.
— Tieni alto il lume! — fece l’Ercole, che non ci vedeva.
— Ho le dita raggranchite, — si lamentava l’altro, — mi scappa di mano….
Nella sala, il pubblico de’ campagnuoli schiamazzava, chiamando qualcuno sulle cadenze sguaiate del dialetto provinciale, insistendo, battendo i piedi, anche per riscaldarseli. Nanna aveva abbandonato l’organino per chiacchierare con un giovanotto. Così una danza di marionette che vi stavan su schierate era interrotta sul più bello: un piccolo gendarme rimaneva ancora con la gamba all’aria, mentre l’ultima canna de’ bassi si lamentava, rauca.
— Le avete trovate? — chiese timidamente il pagliaccio.
— L’hai fatto apposta, dunque? — infuriava l’Ercole. — Le hai nascoste?
Subitamente, con un urlo, tirò fuori il braccio.
— Corpo di Dio!
— Sono le fibbie della cintura di Stella, — mormorò l’altro, mortificato; — hanno i denti lunghi. Vi siete graffiato?
E si tirò prudentemente da parte.
Or il vocìo li minacciava. I mariglianesi indispettiti lanciarono insulti al palcoscenico vuoto, senza staccarne gli occhi. La voce potente di Alfonso Macciarella tuonò in un silenzio d’aspettazione, grave, come s’egli si trovasse tra’ suoi tagliatori di legname, nel bosco.
— Fuori il pagliaccio Tony!
Intorno molte voci fecero eco, poi fu un clamore di tutte le voci, assordante.
— Fuori! fuori!
— Cosa faccio? — chiese il pagliaccio a Battista.
— Va!…
In due salti quello venne fuori.
— Musica! — gridò.
Un lungo applauso lo accolse. Si rideva, s’indovinavano buffonate novelle.
— Signori, — si udiva or la voce del pagliaccio, — la mia sposa mi ha tradito con un soldato prussiano. Se son tardato, perdonatemi, egli è stato perchè son corso a trafiggere tutti e due. Ma lor signori — continuò col suo accento fiorentino — vedranno adesso cose che mai più si potranno dimenticare per tutta la vita. Signori e signore! Ho l’onore di annunziarvi l’ora, l’istante e il momento degli ultimi esercizii, cioè il trampellino, il ballo su la corda, il salto mortale, fatica particolare del vostro umile servitore Tony. Signori e signore, un po’ d’attenzione, occhio alle tasche. Ora passeranno a vedere. Olà, ohè, a voi, dico, professori, musica!
Un concerto diabolico di trombe e di flauti coperse la voce. Poi a intervalli fu il tonfo d’un corpo che batteva sull’arena, un grido comico, un chiocciar di gallina, un chicchiricchì a distesa che svegliava altri chicchiricchì flebili e morenti, un miagolio di gatta in amore.
Battista Andretta, seduto sullo spigolo del baule, si guardava il braccio al lume della candela di sego. Al disopra del polso apparivano gocce di sangue nero. Egli avvicinò le labbra alla ferita, succiando. Poi chiamò sotto voce:
— Stella!…
A un cantuccio un corpo si levò, lentamente. Uscì dall’ombra una donna, muta. Per un momento due grandi occhi neri si fissarono e interrogarono.
— Stella, — borbottò l’Ercole, — cerca nel cassettino rosso. Ci dev’essere della polvere di gesso in uno straccetto.
Ella, immobile, parve non avesse udito, o non avesse capito. Appariva nel lume della fumosa candela, che la rischiarava di sotto in su, mettendole fuggevoli luccicori al collo del piede ove lo stivalino saliva con una linea fine, frastagliandosi di laminette d’orpello. Era tutta avvolta in uno scialle a dadi bianchi e neri, e il nero le capitava attorno al collo, e le rialzava così la tinta bruna e pallida delle guance, incorniciate da una massa di capelli nerissimi, dalla stravagante aggiustatura alla spagnuola. Due cocche, due macchie d’inchiostro s’arrotondavano sotto alle tempie, lambendo l’arco dell’orecchio piccolissimo, ove al lobo luceva qualcosa che certo non era diamante. Ella aveva le labbra carnose e piccole delle meridionali dalla pelle assai tenera ove il sangue corre alla più leggera morsicchiatura. Quello superiore più breve, più crudele, scopriva denti d’uno splendore di perle bagnate, uguali e piccoli. Gli occhi larghi, dallo sguardo lento e molle, parevano ma non erano tinti, e pure si sarebbe giurato che quel nero delle ciglia fosse carezza di carbonella, tanto l’ombra di queste dava agli occhi un’impressione vellutata. Nell’incasso, come un’ultima sfumatura ove l’ombra si perdeva, un livido leggero completava la macchia scura, dando allo sguardo l’indefinito del fascino e della sofferenza.
Dove l’aveva rubata, lui? Il mistero degli strani legami della vita nomade li copriva. Forse un tempo ella era stata d’altri, chi sa? Questi zingari si passano le mogli e vendono i figliuoli come niente. Veramente lei a quell’Ercole enorme pareva figlia, non moglie. La sapienza della scena, l’istinto della conservazione e della immutabilità fisica, radicato in queste femmine da corda, la mantenevano giovane; certo non aveva più vent’anni nè proprio trenta. Alla porta la piccola amazzone che riscoteva il prezzo dei biglietti era già alta come la madre, e il petto sodo le fremeva nel busto cinghiato, scricchiolante quando ella si chinava a raccattare una palla caduta. E le somigliava tutta, da’ capelli a’ piedini. A lui somigliava in niente, in niente. Lui sulle spalle inquadrate, un po’ curve dall’abitudine de’ pesi, aveva una testa piccola, con occhi piccoli, con sopracciglia sottili e brevi, con zigomi ed ossa frontali pronunziatissimi, con acuto angolo mascellare. I capelli erano radi. Egli usava di coprire l’imminente calvizie con un berrettino tondo di velluto grigiastro che s’ammaccava, sporgendo attorno in rigonfi. Così era quasi mostruoso. Gli cresceva al mento una barbettina a spazzola, rada sulle guance, incolta. Ombreggiavano le labbra prominenti de’ baffetti che solo agli angoli della bocca pigliavano forza, ma che pure avrebbero fatto disonore a un collegiale. Una brutta testa, ma piena di carattere; l’astuzia, la vigliaccheria, la coscienza della forza materiale vi s’impastavano in un’intonazione generale d’indifferenza e di malvagità.
— Aspetto le grazie di vossignoria, — disse l’Ercole.
Ella girò intorno, frugando qua e là. Infine trovò il pacchetto del gesso in un bossolotto. Battista stropicciò la polvere sulla ferita, che ancora dava sangue.
— Dormivi? — chiese, senza levarne gli occhi.
— Non dormivo, — balbettò, stringendosi tutta freddolosa nello scialle.
L’Ercole levò lo sguardo dalla ferita, lo posò su di lei, lungamente, poi lo abbassò daccapo, vinto dallo sguardo di lei, indomabile. Seguì un penoso silenzio. Di fuori la voce argentina di Nanna insolentiva col pagliaccio, in una scenetta da ridere.
— Mi sa mill’anni d’andarmene! — disse l’Ercole a un tratto. — Che gente! S’è fatto poco o nulla. Stasera, meno male. Che ore sono?
— Mezzanotte.
— Mostrati un po’, gioia mia, fatti vedere e andiamocene. Di’ a Nanna, che spenga uno dei lumi sotto alla porta….
Come se i mariglianesi lo avessero udito, un vocìo l’interruppe.
— Stella! Stella!
L’Ercole si levò. Stella si tirava indietro, incerta. Battista le posò la larga mano sulla spalla, imperiosamente.
— Va, bella mia. Non te lo far dire due volte.
— Bada…. — fece lei, pallida. — Se il piccino si sveglia, io li pianto.
— Fammi il piacere! — insistè l’Ercole, con una sorda minaccia nella voce.
Stella buttò via lo scialle. Dette uno sguardo al cantuccio scuro ond’era sbucata. Niente vi si moveva.
— Signore e signori! — urlò il pagliaccio. — Ecco madamigella Stella, la fata dell’aria, che ha il piacere e l’onore di salutarvi per l’ultima volta. Signore e signori! Dernier exercice! Il trapezio all’inglese, il giuoco dei coltelli. Badino, signori, a esaminare il coraggio di madamigella Stella, unica nel suo genere, detta l’intrepida peruviana, premiata con medaglia d’oro al Brasile e nell’America del Sud.
— Badate! — le mormorò. — Che diamine avete?
Lo spettacolo terminò mezz’ora dopo la mezzanotte. I provinciali uscirono facendo il chiasso, con le mani in tasca, con su gli occhi gli enormi loro cappellacci. Qualcuno s’accostò a Nanna che aveva le mani gelate e se le nascondeva sotto lo scialle, salutando col capo e con molti sorrisi. Nella mezza oscurità il figliuolo del sindaco le venne a mormorare:
— Addio, Nanna…. anzi arrivederci. Dove vai ora?
— Chi lo sa? — disse lei, triste. — Partiamo stanotte.
— Stanotte? Con questo freddo?
— Non c’è che fare.
Una voce chiamò:
— Rocco!
— Vengo! — disse il figlio del sindaco. — Addio Nanna. Chissà se più ci rivedremo…. Ricordati di me, Nanna. Ti ricorderai?
Lei non sapeva che dire. Il giovanetto scappò, intenerito, lasciandole un anellino nella mano, mentre glie la stringeva. Nanna guardò al lume del fanale ch’era appeso sotto la porta. Una povera cosa; una fascettina d’oro. Sopra v’era scritto in nero: Ricordo. Lo provò al mignolo.
— Nanna! — chiamò l’Ercole.
Era pronta la cena sul deschetto che serviva al pagliaccio pe’ giuochi di bussolotto. Una frittata al lardo, quattro arance, un pugno d’uva passa, una gran fetta di pane, sbocconcellata.
— Vieni a cenare, — disse Battista, che aveva preso posto e tagliava la frittata con una lama di sciabola.
Nanna sedette in punta a uno sgabello, aspettando, con le palme delle mani sulle cosce.
— Tirati via la tua parte, — disse l’Ercole.
Ella affondò i denti nella frittata, arricciò il naso, ingoiò di malavoglia.
— Fredda, — mormorò.
— Meglio, — disse il pagliaccio, a bocca piena, — non c’è paura di scottarsi. E come ci si sente dentro la campagna!
— L’ho fatta io, questa volta, — disse l’Ercole, — c’è della cipolla.
— Una? — disse il pagliaccio. — Sono parecchie, se non mi sbaglio, eccellenza! Allegria! Che ci beviamo sopra?
L’Ercole strinse le labbra e chiuse gli occhi.
— Acqua.
— Questo mai! — disse l’altro, levandosi.
Scomparve per un momento in fondo allo stanzone. Riapparì con in mano una bottiglia ove sguazzava del liquido nero e mise la bottiglia di contro al lume, reggendola pel collo, tra il pollice e l’indice.
— Succo di Giamaica! — declamò. — Ammirino bene, o signori, i rubini incandescenti, il fuoco riconfortante che a momenti scenderà nel nostro ventricolo. Primo ed ultimo esercizio. Un dito di questa roba e si parte per Parigi. Beve prima la principessa.
Versò un dito di rum nell’unico bicchiere e s’inchinò a Nanna che sbucciava un’arancia. Ella bevve a sorsetti, tossendo, con piccoli colpi stizzosi. Due lacrime le spuntarono agli occhi.
— E Stella? — fece il pagliaccio.
— Son qui, — rispose una voce, dall’ombra. — Lascia stare, io non ne voglio.
— Meglio, — balbettò l’Ercole.
Seguì un silenzio. Il pagliaccio cercò negli sgonfi del camiciotto, mise fuori un sigaro che gli aveva regalato uno spettatore e l’accese alla candela. L’Ercole, con la pipa corta nell’angolo delle labbra, mandava buffi al soffitto, affumicando le ragnatele. Alla luce giallastra della candela le tre facce pigliavano toni pallidissimi ed ombre dense. I capelli di Nanna, che aveva chinata la testa sul petto, lucevano, da una banda, lisci e pettinati. Il pagliaccio, con le gambe stese, col gomito sul deschetto, guardava malinconicamente la punta del suo sigaro. E su tutto — in quella immensa bottega pigliata a prestito, ove ancora rimaneva un greve odore d’animali bovini e un fumo di stalla — e su quei quattro vagabondi, che il silenzio impensieriva, pesava un che di lugubre e di uggioso e si moveva, fra tristi ricordi, un desiderio di respirare arie più pure, un’aspirazione vaga, indefinibile, affogata in quella miseria.
A un tratto l’Ercole si levò. Battè all’angolo del deschetto lo scodellino della pipa, vuotandolo. Il rumore secco fece trasalir Nanna che avea chiusi gli occhi e sognava senza dormire. Il pagliaccio, appisolato, mise fuori un brontolìo in cui si mescolavano rotte parole di rincrescimento, si drizzò sullo sgabello, stirò le braccia, spalancando la bocca con un lungo e lamentoso sbadiglio.
— Che si fa? Si vuota il salotto?
— Animo, ragazzi! — disse l’Ercole. — Un po’ di buona volontà. Non mi ci sento più bene qua dentro.
— È vero, — cospirò l’altro, cominciando a trascinare fuori la roba. — Il patchouli ha dato alla testa anche a me.
Stella chiamò:
— Nanna!
— Dille che si spicci anche lei, — fece l’Ercole bruscamente. — Aiutala a cacciare i panni nel baule.
Poi si volse attorno, afferrando qua e là, portando fuori, tornando per ripigliare, a bracciate. Rotolarono per terra palle di ferro, candelieri di stagno, polli di cartone, bussolotti, un treppiedi sul quale l’Ercole faceva mostra d’abbruciarsi la mano come Scevola, un disco a numeri pe’ giuocatori del lotto, il tricorno rosso dello scimmiotto scappato per via. E tutto andò a finire nell’immenso tappeto turco ove già si ammucchiava confusamente gran parte della scarsa mobilia alla quale l’abito de’ salti e de’ contorcimenti non aveva fatto più danno di quanto a’ padroni, e che per le screpolature pareva ridersi delle umane miserie. Sul carretto, accosto al tappeto, di cui le braccia poderose dell’Ercole aveano fatto un enorme involto a nodi che avrebbero sfidate le dita di Gordio, andò a riposare il baule ch’ebbe l’onore di ricevere sulla schiena consumata la gran cassa, rattoppata con la pelle d’un asino, caduto per fame e tormentato pur dopo morto.
Quando ogni cosa fu a posto, un altro tappeto, che aveva occhi quanti Argo, coperse decentemente quell’aspra montagna dalla quale spuntavano qua e là angoli e gobbe stravaganti. La cavezza fu messa al mulo rattrappito, quantunque la bestia intelligente non avesse bisogno di redini. Ma il pagliaccio avea filosoficamente osservato che quella gli teneva la testa calda e avrebbe impedito il cimurro.
Dentro, la compagnia si preparava al viaggio. L’Ercole infilava stivaloni che possedevano come lui il dono della impenetrabilità ed erano stati comprati da un caporale di cavalleria. Nanna si copriva tutta con un mantello immenso, aggiustandosi in testa un berretto d’ermellino, di cui aveva voltata in fuori la fodera. Immobile in mezzo allo stanzone, tenendo su le braccia il bambino, di cui si disegnava sotto lo scialle la linea informe, Stella aspettava, muta, con gli occhi sulla porta.
— Che si fa? — disse l’Ercole, ricaricando la pipetta. — Hai attaccato il lanternino al carretto?… Accendi quel mozzicone di cera, guarda lì sotto…. È caduto un soldo a Nanna.
— Dove?
— Lì, presso la porta.
Il pagliaccio si chinò, cercando, con le mani sulle ginocchia, accoccolato.
— L’hai trovato?
— Eccolo, — sospirò, raddrizzandosi.
Nanna, come lui glie lo porgeva, lo rifiutò con un piccolo gesto pieno di nobiltà.
Disse il pagliaccio:
— Grazie, principessa.
Il cielo si poteva dir sereno. Una sfilata di nuvole bianche correva innanzi alla luna. La quale, come la compagnia venne di fuori nella strada, vinta dai suoi istinti femminili, mostrò la faccia pallida e curiosa.
Il pagliaccio le fece di cappello, con un inchino profondo.
— O luna piena! — esclamò. — Ci sapresti dire quanto ci si mette di qui al paese dove andiamo?
— Avanti! — disse l’Ercole.
Il carretto si mosse. Le ruote si lamentarono, un asse scricchiolò. Poi succedette nel silenzio un monotono rotolio e suonò a cadenza il passo del mulo.
Il pagliaccio sì volse indietro e salutò con la mano.
— Addio, placido asilo! Addio, presepe! I re magi se ne vanno.
La grande bottega rimaneva spogliata e deserta. La porta spalancata or dava passaggio libero al vento. Dentro, in un angolo, ancora luceva un punto di fuoco: il mozzicone di candela che era stato dimenticato. Intorno si facevano più fitte le ombre. Una babbuccia di Nanna era caduta sulla soglia. Nessuno la vide.
Adesso la compagnia di Battista Andretta trascinava sulla neve, nell’ignoto, il mistero dei suoi legami, l’indovinello della sua famiglia, il mucchio orpellato dei suoi stracci. Nessuno di loro conosceva il nome del paese ove sarebbero arrivati a giorno. Che importava il nome?
Andavano innanzi. Le ultime case, una dopo l’altra, rientrarono nel buio. Qualche finestrella lasciò passare una testa maravigliata, un candido berretto da notte, che subito rientrò, perchè il pagliaccio, imitando l’urlo del lupo, provocava furiosi abbaiamenti di cani rinchiusi. S’apriva innanzi ad essi la campagna infinita con uno sfondo d’oscurità ove dei punti rossi brillavano, scomparendo, riapparendo, mutando direzione. Intorno era un silenzio profondo. Il lanternino, appeso sotto al carretto, proiettava sulla neve ombre difformi, che a volte il lume di luna rendeva grottesche. Allora annerivano per terra l’orme delle pedate, il solco a zig-zag delle ruote, una corda che il carretto si trascinava dietro.
L’Ercole andava accosto al mulo, fumando. Dietro al carretto prima veniva Stella, che a ogni passo si chinava sul suo fardello, mormorandogli qualche cosa. Il pagliaccio e Nanna a braccetto, guardavano intorno.
— Che è quello? — disse Nanna, a un tratto.
— Un ponte.
Più in là un cane si mise a ululare lugubremente. Sembravano lamenti umani.
— Cattivo augurio…. — mormorò Nanna.
— Non cominciare! — disse il pagliaccio, sottovoce.
La bestia si tacque e parve più grande e pauroso il silenzio.
Nanna s’avviticchiò al braccio del suo cavaliere, rabbrividendo.
— Hai paura?
Ella accennò di sì, voltandosi indietro.
— Cantiamo, — disse il pagliaccio.
Le strinse il braccio sotto al suo, come a rassicurarla. E cominciò:
Se il mio nome saper voi bramate,
il mio nome per poco ascoltate….
Io son Lindoro che fido v’adoro….
che a nome vi chiama….
Vibrava limpidamente per l’aria fredda la sua voce di tenorino, alla quale rispose la voce argentina di Nanna, che si faceva animo a poco a poco:
Segui, o caro, deh! segui così!…
Il pagliaccio tossì. Poi riprese:
L’amoroso e sincero Lindo o…. o…. o…. o…. oro!
non può darvi, mia cara, un tesò…. o…. oro:
ricco non sono….
— Anzi…. — disse Nanna.
— Nanna! — chiamò Stella, all’improvviso.
S’era fermata. Il carretto tirava innanzi. Come Nanna, lasciando il pagliaccio, le si accostava, ella aperse lo scialle, le mostrò il corpicino del bimbo. Nanna guardava.
— È morto, — balbettò Stella.
Nanna guardava, stupefatta. S’accostò anche il pagliaccio.
— È morto il piccino…. — disse Stella.
— Morto! Il piccino? Morto?
Per veder meglio staccò il lanternino e lo tenne levato sul petto di Stella, lì, ove il piccino si abbandonava, con le braccia pendenti, co’ pugni chiusi, co’ piccoli occhi azzurri spalancati. Il lanternino tremava. Nanna cominciò a singhiozzare.
— Ma come?! Ma come?! — mormorava il pagliaccio.
Dietro di lui Battista Andretta osservava, impassibile, con la pipetta in bocca. Come Stella lo vide, ricoperse il cadaverino con lo scialle, silenziosa, senza una lacrima.
— Non te lo rubo, — disse l’Ercole.
E le volse le spalle. Il carretto si rimise in moto.
— Stella…. — mormorava il pagliaccio, — passatelo a me. Che volete portarlo voi fino all’abitato? Sentite…. Son cose che accadono. E poi, meglio così pel piccino…. era già tanto malaticcio!… Date qua, lo porto io….
Ella lo respinse, gli fece: — No, no! — con voce soffocata, con uno sguardo terribile, e si mise dietro al carretto. Ma di tanto in tanto si fermava, e parlava al piccino, con un balbettio carezzevole. Più innanzi la udirono piangere.
Il pagliaccio raccomandò a Nanna, che seguitava a singhiozzare, di badare a Stella che si guardava intorno con certe occhiate pazze come se volesse fuggire col morticino. Poi s’accostò a Battista, non sapendo che dirgli.
L’Ercole lo guardò di sbieco, mise fuori una gran boccata di fumo e borbottò:
— Non è roba mia. Già, lo sai….
Il lanternino impallidiva sotto al carretto; camminavano da un pezzo. I primi albori apparivano in una luce fredda di verno. La spianata immensa, tutta bianca, si stendeva ancora all’orizzonte, perdendovisi. Nel lontano le prime casette d’un villaggio rompevano la linea del piano; veniva su lentamente da un comignolo una sottile spirale di fumo. E la neve cedeva, scricchiolava sotto a’ piedi; qua e là delle nudità di terreno umido mettevano intorno chiazze larghe, nericce.
— Palma! — annunziò l’Ercole, facendo visiera della mano agli occhi.
Arrivavano. Mentre il sole spuntava tutte le figure si disegnavano nettamente sull’orizzonte. Dapprima fu una macchia pittorica sul candore della spianata silenziosa. Una macchia di rosso, d’azzurro, di giallastri luccicori d’orpelli. A poco a poco il gruppo del carretto e dei saltimbanchi diventò confuso. Ancora si disegnava, di profilo, la testa affaticata del mulo. Poi svoltarono a un angolo, dietro un muro di cinta e disparvero. La spianata tornò deserta. Ma ora, nel cielo azzurrino ove si spandeva leggermente una tinta di madreperla, il gran sole saliva, col bagliore vivo de’ raggi, ripulendo tutto, spazzando via di quella miseria strisciata nella notte persino l’orme delle persone. A un tratto, nella chiarezza allegra del mattino, un gallo cantò, a distesa.