Oggi, la sorte dei grandi artisti è ben differente e somiglia piuttosto a quella di un usignolo che l’altro giorno morì di fame.

Era grande per tutta la terra, la gloria delle sue canzoni infinite, e ne venivano di molto lontano uomini e bestie per sentirlo: ed egli cantava con tutta l’anima, tra i rami verdi della sua gran quercia.

Ma, in mezzo ai trionfi quotidiani, sopravvenne inaspettato l’inverno.

La quercia si nudò: sotto la quercia non venne più nessuno: l’usignolo cantava tristi canzoni, e un fuoruscito, che gli offrì qualche bricciola di pane rubato, riconoscendolo, gli disse: — Sei pure un gran mammalucco a cantar canzoni patetiche alla nebbia: va e picchia alle finestre di tutti quei corbelloni che ti facevan ressa attorno quest’estate. Volesse il cielo che io fossi nei piedi tuoi, e avresti a vedere quello che saprei fare!

Ma il povero cantore, scotendo la testa malinconica rispose al vecchio bandito: — li nostro destino è uguale: tu non puoi bussare alle case degli uomini; io non voglio: e presto moriremo di fame tutti due.

E così fu.

 

 

Appendice.

NOTA

Scrissi le tre favole che seguono per il Giornale d’Italia al bel tempo, che pare ormai così lontano, della impresa libica.

Lontano sì, quel tempo! E molto più grande la nostra Italia. Ma: sola allora come sola oggi!

C’è chi avendo guadagnato milioni si compiace di mettere in cornice nel suo salotto il primo foglio da cento guadagnato.

Così potrebbe piacere a qualche buon italiano, in questa meridiana ora di gloria, riudire questi tre chicchirichì ispiratimi dal roseo albeggiare di quello stesso gran sole che oggi ci abbaglia e ci brucia tutti.