“Voglio diventare qualcosa!” esclamò il maggiore di cinque fratelli “voglio essere utile al mondo, il mio lavoro può anche essere modesto, ma basta che quel che faccio sia di utilità e è già qualcosa. Io fabbricherò mattoni, e di questi non si può fare a meno! Così avrò fatto qualcosa!”
“Ma è troppo poco!” disse il secondo fratello “quello che fai non vale niente. È un lavoro manuale che può essere compiuto anche da una macchina. No, allora è meglio essere muratore, è sempre qualcosa, e io farò il muratore. I muratori sono una forza sociale, e io farò parte di una corporazione di arti e mestieri, diventerò cittadino, avrò una bandiera tutta mia e un’osteria altrettanto mia; e se va bene avrò dei garzoni, sarò chiamato maestro e mia moglie signora: questo è qualcosa!”
“Non è nulla, invece!” disse il terzo “si resta fuori dalle classi più elevate, e ce ne sono parecchie in città più importanti di quelle dei mastri carpentieri. Puoi anche essere un’ottima persona, ma resterai sempre un “semplice” muratore. Io conosco qualcosa che è meglio. Voglio diventare architetto, agire nell’ambiente artistico, intellettuale, salire fino alle classi dominanti del regno dello spirito; certo devo cominciare dal basso, sì, lo dico chiaramente: comincerò come apprendista di falegname, andrò in giro col berretto, anche se sono abituato al cappello di seta, dovrò correre a prendere birra e acquavite per i garzoni che mi daranno del tu, e questo è ancora peggio. Ma mi convincerò che è tutta una farsa di carnevale, e quindi tutto è lecito. Un domani, cioè quando diventerò garzone, andrò per la mia strada e non mi preoccuperò più degli altri. Andrò all’Accademia, imparerò a disegnare, verrò chiamato architetto: questo è qualcosa! è molto! Potrò diventare nobile e rispettabile, con molti titoli davanti e dietro al nome, e costruirò, costruirò, come gli altri che mi hanno preceduto. È sempre qualcosa su cui contare! Tutto questo è qualcosa!”
“Di questo qualcosa non mi importa nulla!” esclamò il quarto “non voglio fare l’ultima ruota del carro, essere una copia; voglio diventare un genio, più intelligente di voi tutti! Creerò un nuovo stile, darò idee per una nuova costruzione che sia adatta al clima e alle materie prime del paese, alla nazionalità, allo sviluppo del nostro tempo, e che abbia un piano in più, perché io sono un genio.”
“E se il clima e il materiale non valgono niente?” chiese il quinto “sarebbe un male, perché anch’essi hanno la loro influenza! Anche la nazionalità può facilmente venire usata in modo da diventare un’affettazione, e lo sviluppo del nostro tempo può sfuggire al controllo, come accade spesso ai giovani. Vedo bene che nessuno di voi diventerà qualcosa; nonostante ne siate così sicuri!
Ma fate pure come volete, io non vi assomiglierò, mi metterò al di fuori e ragionerò su quello che voi fate. C’è sempre qualcosa di sbagliato in ogni cosa, io lo troverò e ne parlerò. Questo è pure qualcosa!”
Così infatti fece, e la gente disse di lui: “In lui c’è veramente qualcosa! Ha un bell’ingegno, ma non fa nulla!”. Proprio per questo era qualcosa.
Questa non è che una storiella, ma non avrà mai fine, finché esisterà il mondo.
Ma non accadde niente ai cinque fratelli? Niente, eh? Sentite un po’, è una vera e propria storia.
Il maggiore, che faceva mattoni, capì che da ogni mattone finito veniva fuori un soldino, di rame, è vero, ma tanti soldini di rame, messi insieme, diventano un tallero lucente, e quando con questo si bussa alla porta del panettiere, del macellaio o del sarto, insomma di tutti quanti, la porta si spalanca e si può avere quello di cui si ha bisogno. Questo diedero i mattoni, alcuni però andarono in pezzi o si ruppero in due, ma tornarono ugualmente utili.
Alla diga c’era donna Margherita, una poveretta che tanto desiderava costruirsi una piccola casa: ricevette tutti i pezzi dei mattoni rotti e qualche mattone intero, dato che il fratello maggiore aveva buon cuore, anche se non faceva altro che costruire mattoni. Quella poveretta costruì da sola la sua casa, che risultò stretta, con una finestra storta e la porta troppo bassa. Anche il tetto di paglia poteva essere fatto meglio, ma la casa era comunque un riparo, e la si poteva riconoscere da lontano, dal mare, che nella sua furia si frangeva contro la diga. Goccioline d’acqua salata si infrangevano sulla casa, che rimase in piedi anche quando colui che aveva fatto i mattoni era già morto da un pezzo.
Il secondo fratello sapeva costruire meglio, certo, aveva anche studiato! Diventato garzone, raccolse le sue cose e cantò la canzone dell’artigiano:
Viaggerò finché son giovane, e le case costruirò. Il lavoro è la mia ricchezza, la gioventù la mia fortuna. Poi tornerò nella mia patria per sposarmi con l’amata. Urrà! Un bravo artigiano si adatta in ogni luogo!
E così fece. Quando tornò in città e divenne capomastro costruì case su case, un’intera strada. Poi, quando fu finita, fu così bella e diede buona fama alla città, così le case costruirono una casetta per lui, una casetta che fosse proprio sua. Ma come potevano le case costruire? Se lo chiedi a loro non ti rispondono, ma la gente racconta: “Certo che quella strada ha costruito una casa per lui! Era piccola, con un pavimento di argilla, ma quando lui vi ballò con la sua sposa, divenne liscio e lucido, e da ogni mattone delle pareti spuntò un fiore, così fu come avere una preziosa tappezzeria. Era proprio una casa carina e la coppia era felice. La bandiera della corporazione sventolava fuori casa e i garzoni e gli apprendisti gridavano: “Urrà!” Questo era qualcosa!” e così morì, e anche questo era qualcosa.
Poi venne l’architetto, il terzo fratello, che prima aveva fatto l’apprendista di falegname e era andato in giro col berretto a fare le commissioni in città. Dopo l’Accademia era diventato architetto “nobile e rispettabile.” Le case della strada avevano costruito una casa per suo fratello, il capomastro, lui diede il suo nome alla strada e la casa più bella di quella strada divenne sua; questo era qualcosa e lui stesso era qualcosa, con un lungo titolo davanti e dietro al nome. I suoi figli furono considerati nobili, e una volta morto lui, sua moglie divenne una vedova di rango – era qualcosa! Il suo nome rimase per sempre scritto sull’angolo della strada e fu sulla bocca di tutti, come nome d una strada – questo sì è qualcosa!
Poi venne il genio, il quarto fratello che voleva costruire qualcosa di nuovo, di strano, con un piano in più, ma questo gli crollò davanti agli occhi, e lui cadde e si ruppe il collo – ebbe però uno splendido funerale con le bandiere della corporazione e la musica, con un elogio sul giornale e fiori per la strada.
Vennero pronunciati tre discorsi funebri, uno molto più lungo dell’altro, e questi avrebbero sicuramente rallegrato il morto, dato che gli piaceva molto che si parlasse di lui. Fu eretto un monumento sulla tomba, a un piano solo, ma è pur sempre qualcosa!
Ormai era morto, come gli altri tre fratelli; l’ultimo invece, che faceva i ragionamenti, sopravvisse a tutti gli altri e fu giusto così, perché ebbe l’ultima parola e per lui era molto importante avere l’ultima parola. “È la mente della famiglia!” diceva la gente. Poi venne anche la sua ora e morì e si presentò al portone del regno dei cieli. Qui si arriva sempre a due a due, così si trovò vicino a un’altra anima, che pure voleva entrare: non era altri che la vecchia donna Margherita della diga.
“È sicuramente per la legge del contrasto che mi tocca arrivare qui con un’anima così miserevole!” commentò il ragionatore “e chi è poi? La vecchia della diga!” “Vuole entrare anche lei?” le chiese. La vecchia donna chinò il capo come potè, perché credeva che fosse San Pietro in persona che le parlava. “Sono una povera disgraziata, senza famiglia. La povera Margherita della diga.”
“E che cosa hai fatto o concluso laggiù?”
“Non ho proprio concluso nulla nel mondo! Nessuno mi può aprire. Sarà sicuramente un’azione misericordiosa del Signore se avrò il permesso di entrare.”
“Come hai lasciato il mondo?” chiese l’altro, tanto per poter parlare di qualcosa dato che si annoiava a star lì a aspettare.
“Non so come ho lasciato il mondo! Sono stata molto malata negli ultimi anni e non ho sopportato il fatto di essermi alzata dal letto e di essere uscita al freddo. È stato un duro inverno, ma ormai è passato. Ci sono stati due giorni calmi come l’olio ma terribilmente freddi, come il Reverendo sa. Il ghiaccio si era formato lungo la spiaggia e non si vedeva la fine, così tutti gli abitanti del villaggio andarono sul ghiaccio. Ci furono corse sui pattini e danze, credo che si chiamino così, c’era musica e possibilità di ristorarsi. Io li sentivo bene dalla mia stanza, dove mi trovavo a letto. Verso sera la luna s’era già alzata, ma io non avevo ancora recuperato le forze, guardai dal mio letto fuori verso la spiaggia e proprio al confine tra il mare e il cielo vidi una strana nube bianca. Continuai a guardarla e notai che nel mezzo aveva un punto nero che diventava sempre più grande. Sapevo cosa significava; sono vecchia e piena di esperienza; anche se quel segno non lo si vede spesso! Lo riconobbi e mi vennero i brividi. In tutta la mia vita lo avevo visto solo due volte, sapevo che annunciava una terribile tempesta con alta marea. Questa si sarebbe riversata su quella povera gente che c’era laggiù, e che beveva, saltava e festeggiava. Giovani e vecchi, tutto il paese era là, chi poteva avvisarli se nessuno aveva visto e riconosciuto quello che io avevo notato? Mi spaventi talmente e mi sentii forte come non ero stata da molto tempo! Mi alzai dal letto e andai alla finestra, ma non riuscii a proseguire. La aprii e vidi che la gente correva e saltava sul ghiaccio, notai le bandiere variopinte, sentii i ragazzi gridare Urrà! e i giovani cantare; c’era molta allegria, ma la nuvola bianca col suo sacco nero nel mezzo si innalzava sempre più in alto. Gridai più forte che potei ma nessuno mi sentì, ero troppo lontana. Presto si sarebbe scatenata la tempesta e il ghiaccio si sarebbe rotto. Così tutti sarebbero affogati, senza speranza. Non potevano sentirmi e io non ero in grado di raggiungerli, ma dovevo richiamarli sulla terraferma. Allora il Signore mi diede l’idea di dar fuoco al mio letto, o di far bruciare la casa, pur di non far morire tanta gente in modo così miserevole. Accesi il fuoco e guardai la fiamma rossa, riuscii a uscire dalla porta, ma poi caddi a terra, non ce la facevo più; le fiamme mi inseguirono, uscirono dalla finestra e raggiunsero il tetto. Quelli che erano alla spiaggia le videro e corsero più che poterono per aiutare una povera vecchia, che credevano stesse bruciando in casa. Tutti, indistintamente, si affrettarono verso di me, li sentii arrivare, ma sentii anche come, in un attimo, l’aria si schiantò. Ci fu poi un rumore simile a un colpo di cannone, l’alta marea sollevò il ghiaccio che si spezzò ma tutti erano arrivati alla diga, dove le scintille già mi colpivano. Li salvai tutti, ma non riuscii a tollerare il freddo e la paura, così sono arrivata alla porta del regno dei cieli. Dicono che si aprirà anche per una poveretta come me! e poi ora non ho più la mia casetta alla diga, ma questo non mi assicura l’ingresso qui.”
La porta del cielo si spalancò e l’angelo portò dentro la vecchia donna; lei perse una pagliuzza, un filo della paglia che si trovava sul suo letto, che lei aveva incendiato per salvare tante persone: ora era diventato d’oro zecchino, di un oro che cresceva e si intrecciava formando meravigliosi ornamenti.
“Guarda cosa aveva quella povera donna!” disse l’angelo. “Che cosa porti tu, invece? So che non hai fatto nulla, neppure un mattone. Se solo tu potessi tornare indietro e portarcene almeno uno! Non sarebbe servito a niente, se lo avessi fatto tu, ma almeno lo avresti fatto con buona volontà, e è sempre qualcosa. Ma non puoi tornare indietro e io non posso fare nulla per te.”
Allora la povera anima della donna della diga pregò per lui: “Suo fratello ha fatto e mi ha dato tutti i mattoni e i cocci di mattone e con questi ho innalzato la mia casetta. È stato un lavoro tremendo per una poveretta come me! Tutti i cocci e i pezzetti di mattone non possono valere per un mattone intero fatto da lui? Sarebbe proprio una azione della grazia. Lui ora ne ha bisogno e questa in fondo è la casa della gloria!”.
“Tuo fratello, quello che tu consideravi più mediocre” spiegò l’angelo “e il cui lavoro così onesto era considerato il più infimo di tutti, ti darà il suo obolo per il regno dei cieli. Non sarai cacciato e ti permetteremo di restare qui fuori a meditare su quanto hai fatto nella vita terrena; entrerai però solo quando avrai concluso qualcosa di buono, qualcosa!”
“Io avrei potuto esprimermi meglio!” pensò il ragionatore, ma non lo disse a voce alta e questo fu già qualcosa.
L’ultimo sogno della vecchia quercia (Storia di Natale)
Una fiaba di Hans Christian Andersen
Nel bosco in cima alla collina, verso la spiaggia aperta, si trovava una vecchissima quercia che aveva proprio trecentosessantacinque anni, ma questo lungo periodo di tempo corrisponde per la quercia a non più di altrettanti giorni per noi uomini; noi ci svegliamo al mattino, dormiamo di notte e facciamo i nostri sogni; per gli alberi è diverso: restano svegli per tre stagioni e solo d’inverno dormono, l’inverno è il loro periodo di riposo, è la loro notte dopo il lungo giorno che si chiama primavera, estate e autunno.
Per molte giornate estive le effimere avevano danzato intorno alla sua corona di foglie, avevano vissuto, volato e erano state felici, e quando quelle creaturine si riposavano un attimo, nella loro beatitudine, su una delle grosse foglie fresche della quercia, questa diceva “Poverine! Tutta la vostra vita dura solo un giorno! com’è corta! è così triste!”.
“Triste?” rispondevano sempre le effimere “che cosa intendi? Tutto è straordinariamente limpido, così caldo e bello, e noi siamo felici!”
“Ma dura solo un giorno, poi tutto è finito!”
“Finito?” dicevano le effìmere “che cosa è finito? Anche tu finisci?”
“No, io vivrò probabilmente ancora migliaia dei vostri giorni e la mia giornata corrisponde a un anno intero. È un tempo così lungo che non siete neppure in grado di immaginarlo!”
“No, ma non ti capiamo. Tu hai migliaia dei nostri giorni, ma noi abbiamo migliaia di momenti di gioia e di felicità! Finirà tutta la bellezza di questo mondo, quando tu morirai?”
“No” rispose l’albero “durerà certamente a lungo e molto più a lungo di quanto si possa pensare!”
“Allora è proprio lo stesso, solo che calcoliamo in modo diverso!”
L’effìmera danzò e si mosse nell’aria, si rallegrò per le sue sottili ali ben fatte di velluto e di veli, si rallegrò per l’aria mite, dove si diffondeva un forte profumo che veniva dal campo di trifoglio e dalle rose selvatiche della siepe, dal sambuco e dal caprifoglio, per non parlare dell’asperula odorosa, della primula e della menta selvatica; il profumo era così intenso che l’effìmera credette di essere un po’ ubriaca. Il giorno fu lungo e bellissimo, pieno di gioia e di dolci sensazioni; quando il sole tramontò l’effimera si sentì, come sempre, piacevolmente stanca per tutto quel divertimento. Le ali non la volevano più sostenere, così si posò lentamente su un morbido stelo d’erba ondeggiante, piegò la testa come potè e si addormento felice: era la morte.
“Povera piccola effìmera!” esclamò la quercia “è stata una vita molto breve!”
Ogni giorno d’estate si ripeteva la stessa danza, lo stesso discorso, la stessa risposta, e lo stesso sonno finale; si ripeteva per ogni generazione di effimere e tutte erano ugualmente felici, ugualmente gaie. La quercia rimase sveglia al mattino della primavera, al mezzogiorno dell’estate e alla sera dell’autunno; ora era quasi tempo di dormire: la sua notte, l’inverno, stava arrivando.
Già le tempeste cantavano: “Buona notte! Buona notte! È caduta una foglia, un’altra! Noi le raccogliamo. Cerca di dormire! Ti canteremo la ninna nanna, ti scuoteremo nel sonno, ma questo giova ai vecchi rami, vero? Scricchiolano già dalla gioia! dormi bene! dormi bene! È la tua trecentosessantacinquesima notte, in realtà hai solamente un anno! dormi bene! Le nuvole ti cospargeranno di neve che diventerà come un lenzuolo, un tiepido tappeto ai tuoi piedi; dormi bene e sogni d’oro!”.
La quercia si spogliò del suo fogliame per potersi riposare nel lungo inverno e sognare molte volte, sempre qualche esperienza vissuta, proprio come i sogni degli uomini.
Una volta era stata piccola e aveva tratto origine da una ghianda; secondo il calcolo degli uomini stava vivendo il suo quarto secolo, era l’albero più grande e più robusto del bosco: con la sua corona dominava su tutti gli altri alberi e la si vedeva anche da molto lontano, dal mare aperto costituiva un punto di riferimento per le navi. Non sapeva neppure quanti occhi la cercavano. In cima alle sue fronde verdi si era stabilita la colomba, e il cuculo gridava il suo cucù; in autunno, quando le foglie sembravano lamine di rame battuto, arrivavano gli uccelli migratori e vi si riposavano prima di partire per il mare aperto. Ora però era inverno, l’albero era senza foglie, e si vedeva con chiarezza il disegno dei rami contorti e nodosi. Le cornacchie e i corvi vi si posavano a turno e parlavano dei tempi diffìcili che stavano per cominciare e delle difficoltà invernali per trovare il cibo.
Era quasi il giorno di Natale quando la quercia fece il suo sogno più bello: ascoltiamolo!
Ebbe la sensazione che quella fosse una giornata di festa, le sembrò di sentire tutte le campane delle chiese suonare a festa e le sembrò anche che fosse un bel giorno estivo, tanto l’aria era calda e mite; la quercia allargava il suo fitto fogliame, fresco e verde, i raggi del sole giocavano tra i rami e le foglie, l’aria era piena del profumo delle erbe e dei cespugli, le farfalle variopinte giocavano “a prendersi” e le effìmere ballavano, era come se tutto esistesse affinché potessero ballare e divertirsi. Tutto quello che l’albero aveva vissuto e visto nei suoi lunghi anni di vita, gli sfilò davanti, come in un corteo. Vide cavalieri e dame dei tempi antichi, con le piume sui cappelli e i falchi in pugno, cavalcare nel bosco; il corno da caccia risuonò e i cani abbaiarono. Vide i soldati nemici con armi lucenti, abiti variopinti e lance e alabarde montare e smontare le tende; i fuochi delle sentinelle ardevano e si cantava e si dormiva sotto i rami tesi della quercia. Vide anche gli innamorati che s’incontravano pieni di gioia al chiaro di luna e incidevano i loro nomi, le loro iniziali, nella sua corteccia grigio-verde.
Una volta, moltissimi anni prima, cetre e arpe eolie erano state appese ai suoi rami da alcuni giovani viaggiatori; ora erano ancora li appese e risuonavano con tanta dolcezza. Le colombe tubavano come volessero raccontare quello che l’albero provava, e il cuculo gridò il suo cucù per tante volte quante erano i giorni d’estate che la quercia avrebbe vissuto.
Fu come se un nuovo flusso di vita scorresse dalle radici più piccole fino ai rami più esposti, fino alle foglie; l’albero sentì che si stava allargando, sentì con le radici che anche nella terra c’era vita e calore; sentì crescere le sue forze e crebbe sempre più alto. Il tronco s’innalzò senza un attimo di sosta, continuò a crescere, la corona di foglie si infìtti, si allargò, si sollevò, e, crescendo l’albero, cresceva anche il suo senso di benessere, il suo desiderio beatificante di andare sempre più in alto, fino al caldo sole luminoso.
Ormai era già cresciuto oltre le nubi, che come schiere di neri uccelli migratori o come stormi di grandi cigni bianchi passavano sotto di lui!
Ogni foglia della quercia poteva vedere quasi avesse avuto gli occhi; le stelle erano visibili alla luce del giorno, così grosse e luccicanti, brillavano come occhi chiari e trasparenti e ricordavano tutti quei cari occhi conosciuti, appartenuti ai bambini, agli innamorati che si erano incontrati sotto la quercia.
Che momento meraviglioso e che gioia! Eppure, in tutta quella gioia, la quercia provò nostalgia, e desiderò che tutti gli altri alberi del bosco, tutti i cespugli, le erbe e i fiori si potessero innalzare insieme a lei, e potessero provare quella gioia e godere quello splendore. La grande quercia, nel suo sogno di grandezza, non era completamente felice se non aveva con sé tutti quanti, grandi e piccini, e questo sentimento si ripercosse in modo profondo tra le foglie e i rami, come fosse stato un cuore umano.
Il fogliame della quercia ondeggiò quasi in un gesto di nostalgia, riandò al passato e risentì il profumo delle asperule e subito dopo, ancor più intenso, quello dei caprifogli e delle viole, poi le sembrò di sentire il cuculo cantare.
Tra le nuvole spuntavano le cime verdi degli altri alberi del bosco; la quercia vide che, sotto di sé, gli altri alberi crescevano e si innalzavano come lei, i cespugli e le erbe si tendevano verso l’alto; alcuni di loro si liberarono delle radici e si innalzarono prima degli altri. La betulla fu la più veloce, come un raggio bianco luminoso il suo tronco slanciato si allungò, i rami si piegarono come verdi veli o bandiere; tutta la natura del bosco, persino le canne brune e piumate, cresceva con la quercia, e gli uccelli la seguivano cantando; su un filo d’erba che pareva uno svolazzante nastro di seta verde stava una cavalletta che suonava con le ali; i maggiolini brontolavano e le api ronzavano; ogni uccello usava il proprio strumento, e tutto fu un solo canto di gioia verso il cielo.
“Quel fiorellino rosso che si trovava vicino all’acqua, anche lui doveva salire!” esclamò la quercia “e anche la campanula azzurra, e la margheritina!” Certo, la quercia li voleva tutti con sé.
“Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!” si sentiva risuonare.
“E quelle belle asperule dell’estate scorsa; e l’anno prima c’era un’aiuola di mughetti! e il melo selvatico, come era bello! E tutta quella bellezza del bosco, per tanti e tanti anni! Se fossero vissuti fino a oggi, sarebbero potuti venire anche loro!”
“Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!” si sentì di nuovo ancora più in alto; sembrava che la avessero preceduta in volo.
“È troppo bello per potervi credere!” gridò la quercia piena di gioia. “Sono tutti qui, grandi e piccoli! Nessuno è stato dimenticato! Dove è possibile immaginare una tale beatitudine?”
“Nel regno di Dio è possibile e immaginabile!” si sentì risuonare.
La quercia, che continuava a crescere, sentì che le radici si erano staccate dalla terra.
“Adesso è ancora meglio!” commentò “ora non c’è più nulla che mi trattiene! Posso volare in cielo fino all’Onnipotente, nella luce e nella magnificenza. E ho con me tutti i miei cari. Grandi e piccoli. Tutti quanti, tutti!”
Questo fu il sogno della quercia, ma mentre sognava ci fu una violenta tempesta sia in mare che sulla terra, proprio nella notte santa di Natale; il mare rovesciò grosse onde sulla spiaggia, l’albero scricchiolò, si schiantò e si sradicò proprio nel momento in cui la quercia sognò che le radici si erano liberate. La quercia cadde. I suoi trecentosessantacinque anni valevano ormai come un sol giorno dell’effimera.
Il mattino di Natale, quando spuntò il giorno, la tempesta si era ormai calmata. Tutte le campane delle chiese suonarono a festa e da ogni camino, anche da quello così piccolo del bracciante, si levò il fumo, azzurro come quello che nelle feste dei druidi si levava dall’ara; era il fumo del sacrificio, del ringraziamento. Il mare divenne sempre più calmo e su una grande imbarcazione che durante la notte aveva affrontato quel tempaccio terribile si innalzarono ora tutte le bandiere, per festeggiare il Natale.
“L’albero non c’è più! La vecchia quercia, il nostro punto di riferimento sulla terra!” esclamarono i marinai. “È caduta con la tempesta di questa notte. Potremo mai sostituirla con qualcos’altro?”
Fu questo il breve, ma accorato discorso funebre per la quercia, che si trovava distesa su un manto di neve sulla spiaggia; sopra di lei risuonò l’inno cantato sulla nave, quello sulla gioia del Natale, sulla liberazione degli uomini in Cristo e sulla vita eterna.
Cantate al cielo,
Cantate Alleluia, schiere della Chiesa, Questa gioia è senza uguali! Alleluia, Alleluia!
Così diceva l’antico inno, e ognuno di coloro che si trovavano sulla nave si sentì sollevare da quelle parole e dalle preghiere, proprio nello stesso modo in cui la quercia si era sentita innalzare nel suo ultimo e magnifico sogno della notte di Natale.