Mi scrivono:

«Che le ha mai fatto quel povero dramma storico che lo vuol condannato a morte a dirittura? Perchè l’arte drammatica non potrà tentare alla sua volta le evocazioni, le risurrezioni che oggi tenta la storia? Se Shakespeare ha potuto scrivere il Giulio Cesare, il Coriolano, la Cleopatra, e tutta l’epopea della storia inglese, ci sarà vietato di mettere sulla scena il Nerone, la Messalina, e una nuova Cleopatra? Capisco, c’è una piccola difficoltà: quella di aver sotto mano uno Shakespeare che, intendendo la storia al modo moderno, sapesse infondere nei personaggi lo spiraculum vitæ… ma questo non vuol dire. Chi le assicura che un nuovo genio drammatico non sia già nato o non possa nascere? Il sì e il no, nel caso presente, sono due ipotesi che si valgono. L’affermare che un genere letterario non abbia più ragion d’essere, mi pare, scusi, un po’ troppo. D’onde riceve lei questa sua sicurezza di giudizio? Restringere tutto al poco poetico presente non è un ritagliare lo spazio nel gran regno dell’arte? Secondo il mio debole parere, in arte non è da fare questioni di generi: tragedia, dramma storico, commedia storica, commedia moderna, farsa, tutto è buono, tutto è accettabile, a patto che tutto sia vivo.

«Io son d’accordo con lei nel non patire il lirismo, la rettorica che invadono il nostro teatro. Ma sa perchè? Perchè il lirismo è perfettamente una cosa fuori di posto in drammatica; perchè la rettorica, cioè il falso ed il vuoto son cose fuor di posto dappertutto. Io arrivo anche a questo: me ne infischio della verità storica, quando trovo dei caratteri umani, dei personaggi vivi, dei sentimenti veri. Se il poeta ha bisogno d’un fantasma, d’un pretesto, e vuol andare a prestarselo dalla storia, ma padrone, padronissimo! Certamente quel fantasma avrà della realtà soltanto i tratti esteriori; si chiamerà Nerone, si chiamerà Messalina, potrebbe chiamarsi Caio, Tizio, Armando, Aroldo, con un nome classico, romantico, con un nome triviale, ma in sostanza sarà un personaggio vivo, pieno di virtù e di vizii, dominato da passioni, agitato da sentimenti elevati o vigliacchi, raggirato e violentato dalla inesorabile fatalità del suo carattere, dei suoi sentimenti, delle sue azioni, e basta (mi pare) perchè non gli s’abbia a chieder altro.

«Che la critica domandi ad alta voce dei personaggi vivi: è nel suo diritto. Non griderà mai forte abbastanza, almeno tra noi: ne convengo. Ma che faccia da tiranna, che proscriva questo o quel genere per il pretesto speciosissimo che son morti, quando, tutt’al più, non sono che addormentati, ecco, non mi va; è un eccesso dannoso. Lei dice: l’arte progredisce; l’arte lascia degli addentellati. Benissimo. Il nuovo dramma storico sarà diverso dall’antico; c’è tanti modi di esser diverso. Potrà usufruire tutte le risorse dell’arte moderna, l’esattezza storica, l’analisi psicologica, il tecnicismo con cui si ottengono i varii effetti del colorito locale: manca forse? Secondo lei, nel dramma storico, questo addentellato non esiste. Proprio? Sarei curioso di sapere che ragioni lei n’adduca.»

Rispondo al mio cortese interrogatore.

Sì, innanzi tutto, la vita. Questa è la prima, l’essenziale condizione d’un’opera d’arte di qualunque natura. Ma la vita, presa così, è un’idea astratta: c’è vita e vita. Io, per esempio, vorrei fare una prova: vorrei vedere che direbbe il pubblico, se io gli presentassi, puta caso, il Demi-monde o l’Ami des femmes un po’ camuffati alla romana o alla greca. La cosa sarebbe presto fatta, mutando i nomi dei personaggi, cambiando qualche accessorio, lasciando intatta la sostanza sotto il pallio e la toga. È innegabile: in quelle due commedie la vita c’è, la passione c’è; eppure sarei curioso di vedere ch’effetto esse farebbero sul mio cortese interrogatore. Ora il dramma storico non è altro che un’inversione al rovescio di questa. Non so persuadermi perchè si debba tollerare che si faccia a quei poveri diavoli di greci, di romani e di egiziani quello che non si tollererebbe fosse fatto a noi, gente del secolo XIX. Ma lasciamo stare.

L’arte progredisce, l’arte lascia degli addentellati… Mi compiaccio che almeno siamo d’accordo su questo. Ma il progresso nell’arte è rappresentato, come nella natura, da una serie di forme che s’elevano, che si purificano, che incarnano più intensamente, più completamente l’idea astratta dell’arte. E queste forme non sono accidentali, capricciose. Quelle che vengon dopo non potevano venir prima, indifferentemente.

Ogni forma rappresenta una speciale condizione dello spirito umano, condizione prodotta da migliaia di altre condizioni più o meno piccole, più o meno efficaci, che mutano, spariscono per non ricomparire mai più; giacchè anche per loro ci sia la legge del progresso, del perfezionamento, dell’evoluzione continua, fin dove può arrivare la speciale natura di esse. Infatti, è per queste ragioni che certe opere d’arte non c’è verso di riprodurle più. Goethe ha voluto rifare la tragedia greca coll’Ifigenia. Che ha fatto? Un capolavoro, dicono. Di stile, può darsi, aggiungo io; ma drammaticamente? L’importante era questo: che facesse un capolavoro drammatico, o anche, semplicemente, un lavoro drammatico.

Il Goethe aveva tentato di mettersi nelle più opportune condizioni per riuscire; s’era invasato dello spirito greco; aveva passato dei mesi disegnando classiche statue antiche per avere anche materialmente l’idea di quell’armonica purezza di linee ch’è il carattere più notevole e più proprio dell’arte greca. Ma lui era un moderno: nel soggetto greco vedeva e sentiva tutt’altro di quello che vi avrebbero visto e sentito i veri poeti greci.

Il Goethe, per sua scusa, diceva precisamente quello che dice il cortese mio interrogatore. Biasimava il Manzoni perchè questi «aveva un eccessivo rispetto dei fatti reali e perchè aggiungeva alle tragedie quelle note giustificative nelle quali dimostrava d’esser rimasto fedele ai più piccoli particolari della storia.» Questi fatti, diceva il Goethe allo Eckermann, possono essere storici; però malgrado questo, i suoi caratteri non lo sono, come non lo sono il mio Toante e la mia Ifigenia. Mai nessun poeta ha conosciuto nella loro verità i caratteri storici ch’egli riproduceva, e, se li avesse conosciuti, non avrebbe potuto servirsene. Ciò che il poeta deve conoscere sono gli effetti che vuol produrre; ed egli dispone a questo scopo la natura dei suoi caratteri. Se io avessi voluto rappresentare Egmont tale qual è nella storia, padre d’una dozzina di figliuoli, la sua condotta così leggera sarebbe parsa assurda.

Avevo dunque bisogno d’un altro Egmont che restasse meglio in armonia coi suoi atti e colle mie intenzioni poetiche.. .

Una scusa magra allora e magrissima ora. L’arte subisce oggi le influenze del carattere positivo del secolo. Un dramma storico che può non esser storico è una contraddizione, un pasticcio. Cinquant’anni fa Egmont ringiovanito, fatto amante riamato della bella Clara, poteva forse bastare all’esigenza dell’arte; oggi, è inutile, preferiremmo lo sventato, il padre di dodici figli. Il positivismo, l’esigenza della verità storica nell’esterno e nell’interno del personaggio sono un modo di vedere e direi quasi un modo d’essere dello spirito moderno. Al press’a poco del passato preferiamo la schietta realtà del presente; e questo semplice concetto ha già profondamente modificato le ragioni dell’arte dappertutto, nella letteratura, nella pittura, nella musica, la più ideale delle arti.

Un personaggio storico, in drammatica, è una menzogna bella e buona. E non può essere che falso, quindi rettorico. Quando voi parlate di vita a proposito d’un personaggio, che cosa intendete? Un complesso di cose esteriori ed interiori, più di queste che di quelle, che ne costituisca la individualità, il carattere. Avete un bel dire: purchè vi trovi la vita! Purchè vi trovi l’uomo! Di grazia, quale uomo? L’uomo di quattro secoli fa non è l’uomo d’oggi. Se non fosse così, non avremmo storia, non avremmo evoluzione nello spirito umano. Se voi togliete intanto i particolari dei vizii, delle virtù, delle passioni, che resta del vostro uomo, del vostro personaggio? Restano delle generalità, cioè delle astrattezze, cioè la cosa più assolutamente ripugnante alla natura dell’arte….

È quello che voi chiedete al poeta, complicando il suo equivoco con un altro equivoco. Mettiamo pure ch’egli volesse secondarvi; c’è qualcosa di superiore alla sua volontà che non glielo permette. Questo povero poeta non è un essere nato dalla rugiada del mattino, un che d’estraneo ai suoi tempi. Per quanto le sue facoltà abbiano un particolare svolgimento, sono facoltà moderne, facoltà viziate di riflessione, facoltà poetiche molto imperfette. Quando voi domandate trionfalmente: chi v’assicura che un nuovo Shakespeare non sia già nato o non istia per nascere? voi credete di rispondere con un’ipotesi ad un’altra ipotesi: ma è lì l’inganno. Lo Shakespeare d’oggi non potrebbe affatto avere le stesse facoltà dello antico; l’organismo umano in due secoli s’è quasi rimpastato. Il lavoro di tante generazioni s’è accumulato nelle nostre cellule, nei nostri nervi, nelle nostre ossa e dà dei prodotti materiali, spirituali e morali c’hanno poco da fare con quelli dell’essere umano di due secoli fa. Per tornare al poeta drammatico, il suo modo di vedere, di sentire, di concepire non è in suo pieno arbitrio; e voi altri, domandandogli che vi dia il personaggio vivo sotto qualunque spoglia storica, gli domandate l’assurdo.

Domandategli piuttosto che vi dia la realtà presente, la realtà del suo cuore, del suo spirito, la realtà vivente del suo tempo; se ha vero genio drammatico, lo tasterete con questa prova. Chi non ha questa forza di creazione immediata, contemporanea, state sicuri, è un ingegno fiacco per l’opera diabolica del teatro. Se non è buono ad altro che a metter fuori delle astrattezze, lasciatelo in pace; ditegli tranquillamente che il teatro non è affar suo. La lirica è lirica, non dramma: le descrizioni sono descrizioni e non dramma. Persuadetevi che le facoltà drammatiche sono infiacchite in noi moderni. Il personaggio non possiamo più concepirlo come un fuor di noi. E, vedete? non sono, per esempio, la fantasia, l’imaginazione che manchino. Chi ne ha mai avuto più di Victor Hugo? Ebbene, Victor Hugo non è riuscito a lanciar fuori di sè una, una sola, delle tante creature dei suoi drammi, a farla vivere, insomma, nel pieno godimento del suo libero arbitrio di personaggio. Noi, anche durante la materialità della rappresentazione, le vediamo come attaccate per un filo misterioso alla sua personalità di poeta. Ditemi intanto se avviene lo stesso di quelle bestie feroci che si chiamano Jago, Riccardo terzo, Calibano? Ditemi se avviene lo stesso di quelle gentili e quasi divine creature che si chiamano Giulietta, Desdemona, Jessica, Cordelia? Niente affatto. Il poeta non contento di dileguarsi da loro e di abbandonarli alla piena agitazione della loro vita, si è talmente nascosto nella vita reale che la storia quasi non riesce a trovar altro di lui all’infuori d’un nome.

Ma la questione del dramma storico con tutto questo può dirsi appena accennata. Da quali forme esso precede o, per meglio dire, da quali corruzioni di forme secondarie o terziarie? Che valore ha nella storia dell’arte? Qual’è la sua storia?

Il grosso pubblico, lo capisco, tutte queste belle cose non è obbligato di saperle; ma i critici che non vogliono far gli orecchianti, sì; ma gli autori drammatici che si mettono allo studio dell’arte loro con vera coscienza di artisti, sì: non possono, non debbono ignorarle. Che volete si pensi d’un artista il quale ignora la storia della propria arte e non sa fin dove sia arrivata, e da qual punto spetti a lui d’incamminarsi per procedere innanzi?

Cominciamo prima di tutto col non dirlo un artista, un vero artista. Quando non gli freme nell’anima un mondo nuovo di forme confacenti alla civiltà del suo secolo, è un uomo dimezzato, un uomo accidentalmente nato oggi, nell’organismo del quale la vita moderna non ha echi di sorta. Lasciamolo vivere come creatura vogliamoli bene; ma com’artista diciamogli chiaro e tondo che somiglia a quel cavaliere di cui cantò il Berni, che andava combattendo ed era morto!