(Dalle lettere di Giorgio ***)

15 marzo 1887.

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Una dichiarazione? E perchè dovrei farvela, a tanta distanza? Rassicuratevi: sono già in un’età che più non si prova nessun gusto nel commettere certe inutili sciocchezze…. Però, m’inganno?… l’aspettavate; e forse io avrò torto privandovi del piacere di questa nuova sensazione: la dichiarazione d’un ignoto; giacchè siamo ancora due ignoti, voi ed io. Rispetto a me, voi dite di no; avete letto i miei libri e, per quanto l’uomo si celi sotto la maschera dell’artista — ripeto le vostre parole — questa vi sembra abbastanza trasparente da far intravedere la figura che vi si nasconde sotto. Può darsi che non v’inganniate; ma potrebbe anche darsi di sì. Io non protesto pel mio ritratto che avete avuto la compiacenza di delineare nella vostra ultima lettera; è lusinghiero, e mi manca il coraggio di additarvi i punti dove mi sembra sbagliato. Non protesto neppure per i difetti attribuitimi, per i nèi, come gentilmente voi li chiamate. Credo che ne abbiate messo qualcuno di più in un posto, e qualcuno di meno in un altro. Lasciamo andare: c’è compenso. È bene, intanto, che abbiate un’idea un po’ concreta del vostro nuovo amico; approssimativa o anche erronea, che importa? In questi casi — è la mia opinione — un tantino d’incertezza non nuoce.

Avevo commesso una stupidità chiedendovi la vostra fotografia; e voi mi avete reso un prezioso favore negandomela. Così ora posso farmi e rifarmi il vostro ritratto secondo le varie occasioni, a ogni inattesa rivelazione delle vostre lettere che diventano, di settimana in settimana, un vero regalo colla sorpresa. La fotografia potrebbe forse darmi la malizia che deve brillarvi negli occhi quando mi scrivete certe cose? Potrebbe darmi il vostro sorriso quando me ne scrivete certe altre? Potrebbe rivelarmi quell’aria indignata ed altiera che prendete di fronte alle mie tranquille enormità, allorchè perdo, secondo voi, il senso della convenienza e della misura, da quel contadino che sono ridiventato, vivendo tra bruti veri e bruti umani in campagna?

Restiamo dunque intesi: dichiarazione niente. Siete contenta? E continueremo le nostre lunghe chiacchierate da buoni amici, finchè non vi sarete annoiata di me e di questa nostra conversazione concentrata nel vuoto. Non so che forza di resistenza possiate voi avere: è una prova curiosa. Però, ve lo dico subito, son convinto che vi seccherete assai presto. Peggio per me! Avevo quasi compiutamente perduta l’abitudine di scrivere e, ve lo assicuro, me ne trovavo bene. Quando si è preso gusto a pensare, a sentir pensare gli altri leggendo i loro scritti (eccetto che non si abbia la convinzione di aver in testa belle o sublimi cose nuove da dire, grandi verità da rivelare; ed io non le ho) lo scrivere diventa, a lungo andare, un’occupazione pesantissima. Volere o non volere, il passaggio del concetto pensato nella forma letteraria — anche in questa, umilissima, epistolare — è proprio uno sforzo, una fatica da far disperare. Si dice sempre qualcosa di più o qualcosa di meno di quel che si vorrebbe; le sfumature, il meglio, van tutte perdute; da ciò tanti malintesi nella vita e tante fiacchezze o tante esagerazioni nelle opere d’arte. La forma è restìa, è traditrice: credetelo a un povero diavolo che ha sofferto tutte le feroci torture di questa tiranna e si è dato per vinto. Ah, se sapeste che bei libri ho qui composti in certi quarti d’ora, all’ombra di un ulivo, sdraiato sull’erba!… E come me li sono goduti, solo solo, cogli occhi socchiusi, fumando una deliziosa sigaretta, felice di pensare che non avrei dovuto mai scriverli, mai!…

Voi mi avete fatto rimettere l’inchiostro nel calamaio inaridito, e cambiare nel porta-penne le pennine di acciaio arrugginite… Certamente, una lettera la settimana, una specie di giornale, di confessione, di conversazione interrotta e ripresa, è tutt’altro che un tormento. Vi dico, press’a poco, quello che intendo dirvi: se vo un pochino più in là o voi mi fraintendete, finisco spessissimo col compiacermene; non me ne pento almeno, oh no! Vi porgo in tal modo l’occasione di punzecchiarmi, di deridermi garbatamente, di sgridarmi, di scrivermi tante cosine argute, fini, maligne, graziose, cattive, come sa scriverle una signora vostra pari, piena d’ingegno, colta, nervosa, irritabile per un nonnulla.

Il male è che voi mi avete fatto così riprendere la brutta abitudine di scrivere: il male è ch’essa ha tentazioni, malìe, grandi e piccole soddisfazioni d’amor proprio, alle quali si cede, si cede, lasciandosi trascinare inconsapevolmente fino ai colpevoli eccessi….. del libro. E quando vi sarete seccata? Quando non dovrò più aspettare, con viva ansietà, la vostra lettera settimanale e scrivervi la mia?… Dio metta sulla vostra coscienza quel che potrà accadere dopo!

Pensavo a questo ier sera, sulla terrazza della villa: e sentivo (ho promesso d’esser sincero, di dirvi tutto) una specie d’irritazione, contro di voi. Siete venuta, zitta zitta, a rompere la clausura del mio eremitaggio, ed io, imprudente! vi ho permesso di ritornare da me tutte le volte che vi fosse piaciuto. Vi è bastato un pretesto insignificante, uno schiarimento da chiedere alla mia cortesia, un ringraziamento per la risposta ricevuta; ed eccovi qui, ospite ideale, ma già invadente, ma già tiranneggiante coi vostri capricci di signora di spirito, di curiosa, di maligna forse… Chi può sapere qual carattere si nasconda sotto il nome da voi datomi come vostro?… È poi vero che sia il vostro?… In qualche momento ne dubito. Infine, chi siete? Che volete da me? Sono io uno dei vostri divertimenti di donna annoiata, e fino a quando durerà?

Ero in un cattivo momento ier sera. I miei nervi (gli ho anch’io e scoperti e sensibilissimi peggio dei vostri) presentendo il temporale che s’addensava nell’aria, facevano prendermela con voi arrivata appunto quel giorno sotto forma di dieci paginette fitte fitte, più caustiche, più maliziose, più scintillanti del solito. Forse c’era in quella mia sorda irritazione un po’ di amor proprio ferito; mi scoprivo, nello strano schermeggiare di botta e risposta che facciamo da un mese, molto inferiore a voi, meno forte, meno agile, meno abile, e mi sentivo umiliato… Non si può essere più sincero di così!

Forse pensavo all’avvenire. Conosco pur troppo la bestia che si annida qui dentro e so di quali bestialità sia essa capace. Avrebbe sopportato a lungo questo velo misterioso che vi circonda? Non avrebbe tentato di strapparlo?… E vedevo già rovesciati in un momento tutti i miei castelli in aria di separazione dal mondo, di raccoglimento, di studio, di vita spirituale! Non ero più solo, non ero più libero! Che valeva l’essersi venuto a rinchiudere in questa villa, l’aver vietato bruscamente qualunque visita ai più intimi vicini, l’aver già rotto ogni corrispondenza epistolare coi lontani? E le precauzioni per rimanere soltanto in comunicazione col mondo del pensiero e dell’arte? E i propositi di sprofondarmi, di perdermi dietro i grandi e terribili problemi scientifici e religiosi che tormentano il mio intelletto, la mia coscienza, il mio cuore, e ai quali non ho potuto ancora accordare la riverente attenzione, il paziente studio, la severa e imparziale attività dello spirito da essi meritata? Lo sapevo: si può cercar d’esser santi eremiti quanto si vuole; non per questo la tentazione ci lascia in pace. Nel caso mio però non avevo aspettato che il nemico insidiosamente mi assalisse; gli avevo spalancato l’uscio; lo avevo invitato a entrare; non mi accorgevo nemmeno di averlo lì; non mi mettevo in guardia, non mi agguerrivo alla resistenza…. Al contrario!…

V’ho appaiato con la tentazione; non ve l’abbiate a male. I teologi affermano che il diavolo (persona intelligentissima,  la quale sa bene quel che fa) se vuol tentare con certezza di buona riuscita, prende le sembianze di una donna. Il diavolo non vi adula; ha ragione.

In questo momento mi par d’imitare coloro che avendo paura del buio si mettono a cantare per via! Probabilmente non mi sento sicuro… No, no; state pur tranquilla, non scivolo nelle giuccherie, non cerco di fabbricarmi un ponte di madrigali (bella questa metafora!… È scappata e la lascio stare per non urtarvi con una cancellatura di più; me ne avete detto tante contro quel mio povero indice che fa giustizia d’una parola mal posta, o creduta tale, insudiciando lestamente il foglio!) Non cerco, dunque, di fabbricarmi — passi — un ponte di madrigali per poi spiattellarvi quella dichiarazione che dite mi fa nodo alla gola e che volete a ogni costo risparmiata!… — Siate un uomo diverso dagli altri! — Pretendete un po’ troppo da me. E poi… debbo credervi sincera, mentre parlate così? O forse voi pretendete, anzi volete questa mia dichiarazione, e fingete di vietarmela, col fermo convincimento che il divieto l’affretterebbe? Vi stimo, non posso farne a meno, una donna superiore, ma non per tanto sempre donna!… Ebbene, vi obbedirò. Voglio così gastigare la vostra vanità, se mai fosse il caso.

— Rispondete alle mie domande; non mi fate stizzire!

Lo veggo: le mie risposte non vi appagano, non vi persuadono. Il mio ritiro in questa campagna deve, secondo voi, nascondere qualche mistero: o una felicità gelosa, o una forte delusione, o un gran dolore!… Niente di questo: ve lo assicuro. La noia, la sazietà, la stanchezza da una parte; il desiderio, la smania, il bisogno, dall’altra, di certe ricerche, di certi studi che il gran trambusto della vita cittadina impedisce di fare tranquillamente e seguitamente; ecco tutto: un’idea vagheggiata da gran tempo, un sogno non mai potuto realizzare più per fiacchezza di volontà, lo confesso, che per mancanza di mezzi.

Finalmente vi ero riuscito! In tre mesi avevo divorato e digerito un centinaio di grossi e gravi volumi: metafisica, scienze naturali, storia, teologia, esegetica… Non ridete; sì, teologia, esegetica! Dimenticavo che voi mi credete uno scettico, forse un cinico, o per lo meno un capo scarico, gaudente e indifferente. Sappiatelo: questo vostro amico Giorgio che vi pare non debba occuparsi di altro all’infuori che di sensazioni e un po’ (pochino!) di sentimenti e di inutili fantasticherie d’artista, questo vostro buon amico, come mi piace di sentirmi di tanto in tanto chiamare da voi, ha la curiosità dell’ignoto, la smania del di là, la sete dello excelsior: è quasi un mistico. Un mistico sbagliato, se così vi aggrada; forse troppo cosciente da potere esser tale addirittura, ma tanto quanto basta per spingerlo lontano, lontano, lontano (e chi sa? un giorno probabilmente vi si smarrirà) negli spazii dell’invisibile, dello spirituale, del divino!

Ci vuol la solitudine della campagna per abbandonarsi a voli così deliziosi e non stancarsi subito. L’ebbrezza dell’infinito, la vera grande poesia, la sacra vertigine panteistica, ero venuto a cercarle qui, assetatamente. Non volevo respirare altro, nè vivere d’altro, nè altro sentire e pensare.

Ma è inutile; voi non mi credete; e badate a insistere:

— Perchè? Perchè?

Dovrò dunque foggiarvi un romanzo, una fiaba qualunque? Darmi l’aria di un deluso, di un pessimista, di un uomo che non sa consolarsi?

— È mai possibile? — voi ripetete. — E l’arte? E la gloria? E l’amore?

Dolci, belle, grandiose vanità! Ma lo spirito non può sempre pascersi di esse. Sono il primo latte della mamma; un latte leggiero, acquoso, ben adatto alle scarse forze digestive del neonato; ed io non sono più tale da un pezzo.

L’arte?

Una forma inferiore tra le forme del pensiero. Non ne parliamo: ne sono stufo.

La gloria?

Bisogna star troppo in alto per crederci, o essere troppo sciocchi; non è il mio caso.

L’amore?

Dio mio! Io vorrei essere vergine!

G.

***

10 aprile 1887.

Venite con me sulla terrazza; ma non vi affacciate alla ringhiera tutt’a un tratto, potreste avere le vertigini: lì sotto s’apre un abisso. Gli oleastri, i caprifichi, i capperi si protendono dalle rocce, dondolando i rami nel vuoto; l’ampelodesmo ancora verde riveste fittamente il fondo e i dossi della vallata, si arrampica su pei sentieri, va a rannicchiarsi tra un masso e l’altro, dove c’è posto, sotto i larghi rami d’un carrubio, d’un mandorlo, d’un olmo, e rizza i fili duri e taglienti delle sue lunghe e strette foglie, in piccoli ciuffetti, anche lì dove parrebbe che non potesse esserci un pizzico di terriccio da alimentarne le radici. Poi, qui di faccia, guardate quella roccia tutta verde che l’edera ha imprigionato in una vasta rete da cima a fondo; e laggiù, da quest’altra parte, ammirate l’orrido di quella muraglia di rupi che fanno pancia, strapiombate, e da secoli minacciano di venir giù e non si muovono mai. Vi sentite i brividi? Lo credo. Sarà meglio questa sera, e meglio assai a notte avanzata, quando non ci sarà più la luna e l’abisso spalancherà sotto la terrazza la sua nera bocca, e dalla immensa gola saliranno rumori strani, indistinti, o urli di vento, quasi grida lamentose di gente che soffre, o rumori solenni di mare in tempesta col vasto stormire degli alberi e cogli echi sonori che si desteranno dalle rocce fra lo orrore della notte. Allora, sì, avrete paura!

Ebbi paura anch’io anni fa. Leggevo il Re Lear dello Shakespeare, precisamente in questa piccola stanza che precede la terrazza. La serata si era coricata cattiva. Cielo coperto di nuvoloni neri neri, e all’orizzonte strisce di nuvole infocate che diventarono livide quando non ci fu più lume di crepuscolo. Il vento che avea soffiato forte tutta la giornata, scoppiò, quasi improvvisamente, violento. I cupi rumori della vallata davano proprio la illusione di ondate di mare in tempesta, rompentisi a quelle rocce con fragore. Il vento urlava, fischiava, scotendo le imposte, raggirandosi attorno alla villa come persona viva che avesse voluto entrar di violenza… Ed ecco, d’un colpo, il cielo che si mette d’accordo con la terra, e lampeggia e tuona, con quei tuoni paurosi che brontolano, brontolano, interminabili, e si ripigliano e si rotolano, e uno non è ancora finito che l’altro scoppia più fragoroso. Leggevo il Re Lear per la prima volta. Ero sbalordito, commosso.

Io te ne prego,

O figlia, non voler ch’io perda il senno!…

No, figlia mia, non vo sturbarti. Addio!…

Oh, non temer, non avverrà più mai

Che c’incontriam, che ci veggiamo in terra…

Pure, tu sei mia carne e sangue mio,

Pure tu sei mia figlia…

Ve ne ricordate? È la straziante scena che chiude il secondo atto. La ragione del vecchio re già comincia a vacillare: la ingratitudine delle sue due figlie è giunta al colmo, e il suo povero cervello non regge più:

No, snaturate streghe! Alta vendetta

Vo’ far di entrambe e tal che tutto il mondo

Ne sarà testimon. Contro di voi

Farò cose tremende.

Fino a questo punto io m’ero accorto appena della tempesta che infuriava fuori; ma come lessi:

Duca di Cornovaglia

Convien ritrarci. Un nembo già si aduna.

(s’ode un temporale in lontananza)

non mi parve più di leggere, ma di vedere, ma di assistere proprio cogli occhi del capo al terribile spettacolo di quel vecchio re furibondo che andava via per la buia campagna, nello scompiglio di tutta la natura; e divoravo ansiosamente le scene del dramma per ritrovar di nuovo il vecchio re e il suo matto. Che impressione indimenticabile! Mentre il vento urlava fuori e la pioggia veniva giù a dirotto, ed ecco re Lear che urlava:

Soffiate, o venti,

E vi si squarci, nel soffiar, la guancia!

. . . . . . . . . . . . . . . .

Ulula dalle viscere, o tempesta!

Sgorgate, o fuochi! Scroscia, o pioggia! Voi

O venti, tuoni, o folgori, o procelle,

Voi non siete mie figlie!… Io non vi accuso

Di crudeltà.

Oh, io rivedevo, a riprese, al bagliore dei lampi, quella tragica figura di vecchio errante per la landa, nel buio, sotto la pioggia scrosciante, coi capelli e la gran barba grondanti e agitati dal vento; e udivo quella sua voce disperata e maledicente, che il rumore dei tuoni non arrivava a coprire, che risonava più terribile di essi e mi empiva di terrore e m’inchiodava così spaventato sulla seggiola da togliermi addirittura il coraggio di alzarmi e di andare di là quando la vecchia serva venne a chiamarmi per la cena.

Ora la stagione è bella, mite, e le sere sono deliziose e le notti piene d’incanto. Dai boschetti del fondo della vallata sale appena il lento scroscio del ruscello; e, tosto che le ombre della sera si addensano laggiù, gli usignuoli riprendono i loro trilli, e le melodiche volate si diffondono attorno e salgono fino alla terrazza, con note profumate di ciclamini che fanno fantasticare e sognare. Che pace immensa! Che serenità soave! La mia solitudine si popola di ricordi, di visioni, di romanticherie…. Non ridete: anche la romanticheria è nella natura dell’animo nostro: l’espressione, benchè dispregiativa, non mi ripugna. Ed è per questo che io non v’invidio niente, nè la vostra grande città, nè il vostro divino mare, nè la società, nè i teatri; sì, niente. Ho deciso di vivere, di terminar di vivere a questo modo, sognando, fantasticando; e, arrivata l’ora di andarmene a quello che chiamiamo l’altro mondo, mi parrà di entrarvi più naturalmente, senza stacco, senza salto: mezzo ci sono di già.

L’altro mondo! È la mia vivissima curiosità. Esiste? Non esiste? Confesso francamente di non saperne nulla. Se non esiste, mi sento anticipatamente rassegnato a dormire per tutta l’eternità. Se esiste, ne avrò un gran piacere. La vita è una bella cosa quaggiù con tutti i suoi guai: sarà anche una bella cosa di là, con tutti i guai che potranno probabilmente turbarla. Sognar, forse! ha detto Amleto. Leviamo via quel forse, immaginiamoci che sarà proprio così; ed eccomi già morto anche prima di morire, perchè io non faccio altro: sognare: ad occhi chiusi o ad occhi aperti non vuol dir nulla.

Come mi addormenterò per l’altro sogno? Ho voluto averne un’idea, e mi son fatto fotografare da morto, col capo abbandonato sui cuscini, cogli occhi stravolti e la bocca semiaperta. Non ho, per dire il vero, un viso proprio da morto, scarno, abbattuto dalla malattia; ma chi mi assicura che dovrò averlo a questo modo? Si può morire improvvisamente, col fior della salute in viso…. Voi mi avete sgridato per quel ritratto, quand’ebbi la infelice idea di mandarvene una copia: vi parve una fanciullaggine, una stramberia, una posa: ne aveste paura e ribrezzo…. Ecco che cosa vuol dire il trovarvi in mezzo al gran turbine della vita, attratta, trascinata, portata via irresistibilmente dalle circostanze esteriori e dalle sensazioni, per quanto voi facciate una vita modesta, ritirata, da santa, oh lo so! Per ciò voi anche mi credete rimpicciolito, rincontadinito, rinselvatichito, e non volete persuadervi che io, tra i boschi di olivi, di mandorli, e i filari di viti e di fichi d’India, non faccia il satiro, il fauno colle rubiconde e brune ninfe dei dintorni, quando scendono, coll’anfora al fianco, alla fontana. Un Giorgio *** sognatore, fantasticatore! Vi sembra cosa impossibile. Eppure è così. Le ninfe e i fauni invece mi ridono sotto il naso e si baciano e si abbracciano tra le siepi, sotto gli alberi, per le viottole ombrate di pioppi, senza punto curarsi di me, che li spio col cannocchiale, non terzo incomodo, ma terzo non visto fra loro. Indiscreto! direte voi. E indiscreto sia! Ma io mi ci diverto, come poco fa, quando quei due si presero per le mani, lei rossa come un melogranato, lui nero più del pepe, con corti occhi che se la mangiavano; e poi, così presi, cominciarono a dondolarsi, sorridendo stupidamente senza dirsi nulla; e poi lei gli diede uno spintone e lui un bel pugno di risposta, e poi si afferrarono, come per una lotta — lei ridendo forte, lui serio quasi inferocito — e cascarono tutte e due per terra, dietro la siepe… Son rimasto male, sapete!

Il cannocchiale e le vostre lettere: ecco, diciamo così, i due fili che ancora mi attaccano al mondo. Oh le vostre lettere, le vostre deliziosissime lettere, il vostro caro bavardage! Non me le fate desiderare. Le leggo in giardino, tra le rose e i gelsomini, sotto gli aranci in fiore, e il vostro profumo di elitropio non si lascia vincere da quello, acutissimo, della zàgara. Via, cara amica, insuperbitevi; sappiate che Giorgio il solitario le rilegge.

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G.

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28 maggio 1887.

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Scommetto che voi non avete mai visto in vita vostra un’alba, nè un’aurora! Non le avevo più rivedute neppur io da gran tempo; ed ora non so saziarmene e me ne inebrio come un antico arya degli altipiani dell’Asia. Son tornato alla villa con le scarpe bagnate di rugiada, col viso rinfrescato dall’aria mattutina, con qualcosa dentro di me che non so esprimervi — un senso di sollievo, di leggerezza, di assottigliamento di tutto il corpo — con un sentimento di serenità, di pace, d’intima relazione tra me e tutte le cose vegetanti e viventi; invasato di luce, di suoni, di sorrisi, d’allegria!

Quando mi affacciai sull’uscio, andando fuori, tutta la vallata dormiva ancora. Sui colli di Doguara luceva, splendidissima, Venere (la stella dicono i contadini, quasi non ce ne sia altra nel cielo veramente degna di tal nome). Non un alito; non un rumore. Sapete voi che gli alberi dormono e che prendono nell’oscurità notturna un atteggiamento speciale? L’aria stessa dorme, o par che dorma, talvolta. Poi, quasi tutto a un tratto — è un’impressione stranissima — un fremito lieve lieve passa via via, si diffonde attorno, cessa, riprende, ai primi barlumi dell’alba, un che di misterioso, di sacro. Voi avreste certamente paura; di che? Di qualcosa che par che fugga lestamente, quasi abbia fretta di nascondersi; di esseri invisibili che amano le tenebre notturne e vivono, per così dire, di buio….. A quei certi fruscìi leggieri, a quei movimenti appena percettibili, qua e là, fra gli alberi, fra le siepi, fra le macchie, provo dei brividi anch’io; ma sono lieto di provarli.

È un’allucinazione della mia fantasia?… È una realtà?… C’è proprio la solitudine, il deserto nell’aria attorno? O avevan ragione i popoli primitivi, con l’intuito che gli ha fatto intravedere tante conquiste della scienza migliaia di secoli prima, allorchè popolavano l’aria di esseri invisibili ai nostri sensi imperfetti? E se esistessero davvero queste creature migliori di noi, con organismi formati di sostanze più semplici dell’aria, di soffio (pneuma)… questi esseri spirituali, come siamo arrivati a dire noi senza saper formarcene un’idea?…

Vedete? Si diventa addirittura un uomo primitivo godendo la campagna a questo modo.

E di mano in mano che la luce si diffonde d’attorno,  di mano in mano che i colori, le cose, gli animali si destano con ancora addosso una certa pesantezza del sonno interrotto, con un languore voluttuoso e una indolenza gentile, il passo si arresta. Si sta a osservare, a origliare. Si vorrebbe intendere il linguaggio di quei mormorii sommessi, di quei bisbigli, di quei trepidamenti di foglie e di fronde, di quegli appelli vicini, lontani, che guizzano per l’aria fresca; di quei gridi e canti di uccelli che chiamano e rispondono. E allora si ripercuote involontariamente nel cuore agitato e commosso l’antico inno sacro:

— Aurora, figlia del cielo, tu che arrivi giovane, cinta d’un velo scintillante, regina d’ogni terrestre tesoro, vieni, vieni! Rianima ogni cosa vivente, vivifica ogni cosa morta!

Voi che sapete tutto, che avete letto tanto, conoscete qualcosa di più bello, di più elevato, di più sano di questo inno? Io lo ripeto ogni mattina, in cima al colle, con le braccia sacerdotalmente aperte e il viso in alto… E le strofe che sieguono così piene di dolce tristezza! E il gran grido di sveglia che scoppia immediatamente dopo, quasi squillante!

— Son già morti quelli che videro lo splendore delle Aurore passate; morremo anche noi, noi che vediamo quest’Aurora; morranno anch’essi quelli che vedranno le Aurore future!

Ma essa, che brillò splendida nel passato, rischiara con uguale magnificenza il mondo presente; così risplenderà nel futuro, sempre giovane, sempre immortale, raggiante di nuova bellezza!

Su! Su, lo spirito vitale è arrivato! La tenebra fugge, la luce s’avanza. Su! su, riprendiamo il lavoro, il lavoro che crea la vita!

Come vi compiango! Mentre, poco fa, stavo lassù e i primi raggi del sole m’inondavano di un benefico lavacro, voi, povera Amica, dormivate penosamente nella vostra camera, respirando un’aria grave, pregna di tutte le cattive esalazioni dello sciame umano stipato in cotesto alveare chiamato città!

E vorreste che i vostri nervi stessero a posto? Che la vostra intelligenza non avesse le tenebrose intermittenze di cui vi lagnate a ragione? Che malsani eccitamenti, che mostruose voglie di raffinatezze più mostruose non venissero ad accasciarvi?

Mi son lasciato trascinare dal momentaneo entusiasmo. Ho avuto torto parlandovi così. Non sono un misantropo; amo anzi le grandi città, che rappresentano l’estrema altezza raggiunta dall’uomo civile. E non faccio come voi, non mi lagno dei nervi irritati, delle intermittenze dell’intelligenza, nè della mostruosità dei desiderii o delle mostruosità che sono un fatto…

E il valore della campagna, fa apprezzare la città. Pel contadino la natura è muta; il paesaggio non esiste. I miei nervi sovreccitati percepiscono mille cose che a lui non fanno nè caldo nè freddo.

 Non potrei starmene tranquillamente a letto? Invece, cerco di buscarmi un malanno scorazzando tra le macchie cariche di brina, arrampicandomi per le scoscese viottole del Monte… Fossi almeno un cacciatore!… Che cosa vo’ a speculare lassù, con le sette albe?

I miei contadini non sanno capacitarsi che io vi vada unicamente per salutare l’aurora! So che mi spiano. Intravedono un’operazione misteriosa e terribile. Che non tenti, forse, d’aprir gl’incantesimi delle grotte trogloditiche, con quel libro sotto braccio e il cannocchiale? Fate intender loro, se vi riesce, che vo lassù in cerca d’una sensazione, d’un sentimento; dite a questa brava gente che pratico, in cima al Monte, qualcosa somigliante assai da vicino al cantare un inno sacro, al recitare una preghiera, all’intuonare un Te Deum! Vi sorriderebbero maliziosamente in viso, senza nascondervi la loro incredulità…

E così finisco col compianger loro, non voi che siete la sensibilità eccessiva e la squisita raffinatezza in persona; non voi, prodotto quasi artificiale di quella divina creatrice che è la Civiltà; non voi, che differite da queste creature naturali appena abbozzate, quanto e più che esse non differiscano dal bue con cui arano assieme il terreno, dalla pecora che dà loro il latte e la lana per nutrirsi e vestirsi, e anche dalla pianta che fruttifica e dal cespuglio che fiorisce…

In certi momenti non riesco punto a persuadermi che questa gente abbia, oltre l’anima, lo spirito. L’avrà, forse, in germe; ed è come se non l’avesse, rimanendo simile a un chicco di grano assopito dentro un terreno infecondo.

L’anima e lo spirito non sono dunque tutt’uno?

Pare di no, gentile Amica. In questi miei giorni di metafisica, di fisiologia e di teologia — che cibreo strano! esclamerete — la provvisoria nozione che ho dell’anima e dello spirito, quella che mi persuade e più mi convince (domani mi parrà forse una stoltezza) è questa: Vi sono anime le quali, per via di fortunate circostanze, diventano spirito; ed anime che, per altre circostanze non diventano mai tali. Quelle possono più o meno lungamente sopravvivere al corpo; queste muoiono con lui…

Veggo di qui i vostri occhi sbalorditi!… Chi sa come mi canzonerete nella prossima lettera!…

G.

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1 luglio 1887.

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In questa camera da dove vi scrivo, dormiva molti anni fa la zia Mimì; vecchia, curva, senza denti, coi neri e corti cernecchi sempre davanti gli occhi, quantunque continuamente rimessi al lor posto dalle mani scarne e aggrinzite. Era sorella di mio padre. Buona e santa donna; una di quelle creature per le quali la vita si riduce a un continuo sorriso di compassione, di pietà, e a una gentile e benefica azione; di quelle che possono passeggiare anche sul fango e non lordarsi neppur la punta d’uno stivalino; di quelle che intendono ogni debolezza, ogni miseria umana, e rimangon libere e pure, come se le avessero affatto ignorate. Passò qui mezzo secolo di vita, tra le galline e i tacchini, in compagnia di una serva orrendamente brutta e che a volte pareva lei la padrona, tanta indulgenza le usava la zia pei matti capricci.

Perchè rievoco queste figure già sbiadite nella mia memoria? Non lo so neppur io. Forse perchè oggi mi son divertito un’oretta assistendo alla feroce lotta di tre tacchini. Qui, ora, i tacchini arrivano appena a una dozzina; ai tempi della zia Mimì, passavano il centinaio. Un guardiano li conduceva al pascolo; e il loro ritorno al pollaio era un vero spettacolo. Un ragazzone li faceva marciare a schiere, come tanti soldati, i maschi avanti, le femmine dietro, alle cadenze di una marcia di sua fattura, suonata con lo zufolo di canna; e al comando, sostavano e riprendevano il passo con mirabile precisione, quasi al comando d’un capo tamburo.

Ricordo un’altra strana figura; un vecchio lungo, magro, dagli occhi orlati di rosso, vestito tutto di panno azzurro scuro; grandi stivaloni, sproni, frusta: berretto scuro in testa, con visiera di cuoio verniciato, nera da una parte e verde dal rovescio, che pareva proprio un tegolo. Arrivava a cavallo d’un ronzino bardato con sella enorme, tutta strappi e rappezzature, e salutava da lontano, agitando il manico della frusta, appena scorgeva la zia… Ah! dimenticavo i suoi occhiali verdi, certi occhiali grandi così, due buchi tondi sul viso… Tossiva, parlava, sputacchiava dimenandosi tutto, stirando le gambe, facendo tintinnire gli sproni. Doveva raccontare cose orrende (fatti di famiglia, a quel che pareva) se la zia non voleva credergli, e lo pregava di star zitto. Egli, invece, confermava tutto solennemente, portando una mano magra e pelosa al petto e rizzando il capo: — Ve lo giuro, comare! — la zia gli aveva tenuto una figliuola a battesimo. — Ve lo giuro, comare!

Io stavo a guardarlo a bocca aperta, intimidito, tenendomi un po’ in distanza, spalancando gli occhi a quei suoi discorsi scuciti, intramezzati di risatine feroci, di colpi di tosse, di scatti nervosi; la mia età non mi permetteva di comprenderne niente. Egli intanto rincarava la dose: — State a sentir questa, cara comare! — Doveva essere un’infamia assai più grande delle altre, perchè la zia si turava le orecchie e scappava via.

Ma se rivedo queste figure scolorite dal tempo nella mia memoria di ragazzo; se posso, con uno sforzo, tornar a guardarle un momento, non per ciò le intendo. Mi paiono assurde creature di un mondo assurdo, non mai esistito davvero. C’è così grande stacco fra esse e me, nella foggia del vestire, nei modi, nei sentimenti, in tutto! E ci corre di mezzo poco più di trent’anni! E le ho viste, le ho sentite parlare e son vissuto assieme con loro! Invece, intendo benissimo voi che non ho mai veduta e non vedrò forse mai di persona; invece capisco ogni vostro accenno, ogni vostra sfumatura di sentimenti e di idee. Faccio di più: indovino quel che non mi dite e perchè non me lo dite; penetro le riposte intenzioni, quando la vostra parola fa le viste di dire una cosa mentre vuol dirne un’altra. È giusto. Noi viviamo nella stessa atmosfera sensitiva e intellettuale, siamo accordati all’unisono. Quel che vibra in voi, vibra in me, battuta per battuta. Se discordiamo su qualche punto, la ragione del dissenso non mi sfugge; lo stesso dissenso è un’armonia…

E poi mi parlano di ricostruzioni storiche! Gli credete? Io no, cara Amica! La storia è Pompei; ruderi, colonne rotte, case senza tetto, pavimenti a musaico, pitture murali; un guscio di ostrica… senza l’ostrica… Ma passi per la storia! I musei servono a qualcosa. Sono, per lo meno, una curiosità divertente, autentica; fanno fantasticare, spiegano il senso d’un verso classico, accennano una data. Ma l’arte moderna che fa dell’antico? Spesso ho tentato di guardare addietro nella mia vita, per cercar di osservare com’ero venti, trent’anni fa; e mi son riconosciuto appena in quel giovine pallido, biondo, dal viso affilato, dal corpo magro ed esile, dall’intelligenza vivace ma dall’animo timido e dall’immaginazione più timida ancora, che spingeva gli occhi attorno nel mondo e nell’arte senza curiosità, senza entusiasmo, con una specie d’inconsapevolezza o di serenità istintiva.

In che modo mi son trasformato? In che modo son diventato quasi l’opposto? C’è tra il Giorgio *** di oggi, tormentato dalla smania dell’ignoto spirituale, sazio delle minuscole sensazioni dell’arte, stanco e quasi nauseato di tant’altre sensazioni; c’è fra questo e quel Giorgio di allora relazione alcuna? Se non avessi la coscienza della mia identità, direi recisamente di no. E il graduale, o interrotto, o subitaneo cambiamento (è dovuto accadere in tutti e tre i modi, secondo le circostanze e le facoltà nelle quali ha avuto luogo) si è svolto dentro di me! Ed io ne sono stato attore e spettatore in una, continuamente, e consapevolmente in parte! Eppure non so più rintracciarmi, non so più come tornare addietro seguendo il cammino percorso, dove tutto è mutato o sossopra. Il lavoro lento, quasi invisibile dei minuti avvenimenti, delle minute sensazioni, delle minuscole idee, sfugge affatto alla mia analisi. Quel mio mondo di trent’anni fa è già così remoto, e tanto diverso, che in certi momenti debbo fare un gran sforzo soltanto per interessarmene. Lievi figure e bizzarre; apparizioni gentili; mirabili paesaggi illuminati da un bel sole di primavera: sorrisi di verde per le campagne; sorrisi di azzurro pel cielo limpidissimo; echi di voci affievolite dalla distanza, che non fanno vibrare nei miei nervi nessuna commozione profonda: sprazzi, brani di esistenza; visioni di scene staccate; e, in fondo, un triste ribrezzo di cose morte, più che un compianto o un rimpianto; non mi rimane altro, cara Amica, di tant’anni di vita!

G.

***

2 settembre 1887

. . . . . . . . . .

Voi allargando la tesi, mi avete scritto: Quest’incessante divenire della verità mi fa rabbia; non si ha certezza di niente! Perchè mai vorreste voi esser certa di qualcosa? Per viver tranquilla? Illusione: la certezza vi ucciderebbe. Voi morreste presto di noia, voi che ora non vi annoiate mai col vostro incessante tramenìo. — Non si ha più certezza di niente! — Ecco il bello!

Mettiamo un po’ ch’io già fossi innamorato di voi. È un’ipotesi. Infine, non è proprio impossibile che un giorno o l’altro, contro ogni mia previsione, io non abbia a innamorarmi di voi, così bella, così buona, così spirituale e libera liberissima di lasciarvi amare e di amarmi. Se riflettiamo, la cosa è, forse, soltanto un tantino difficile; abbiamo cominciato allo inverso, da dove avremmo dovuto terminare: ci siamo voluti bene prima di amarci, e, sorpassato un grado dell’evoluzione ordinaria dell’affetto tra uomo e donna, non è punto agevole tornare addietro. Ma, poichè si tratta di un’ipotesi, lasciatemi continuare. Mettiamo che io già fossi innamorato di voi. Che direste voi, innanzi tutto, vedendomi tranquillo, soddisfatto? Per lo meno, che sono un fatuo. E avreste ragione. Ma io, credetemi, mi reputerei un infelice, dubiterei del mio stesso amore o non saprei mica che cosa più farmene, se dovessi vivere tranquillo e soddisfatto, se dovessi dormir sicuro di esser sempre riamato.

Non temere, non sospettare, non rodersi di ansietà o di dispetto; non esser pronto a commettere un eroismo o una viltà per cercar di riafferrare un possesso in via di sfuggirmi di mano; non lottare, non vincere, non sentire anche l’abbattimento e la disperazione d’una momentanea o definitiva disfatta… Eh, via! In questo caso perchè diamine amare? Badate: io parlo dell’amore come lo abbiamo oramai ridotto noialtri gente civile, cioè, dell’amore raffinato, stavo per dire snaturato, complesso di sentimenti e di sensazioni affatto autonomo, che non ha altro scopo fuor di sè stesso; specie di opera d’arte che non si scrive, che non si dipinge, che non si scolpisce, che non si mette in musica, cioè — qualcosa d’infinitamente meglio — opera d’arte vissuta. Per la Natura, l’amore è la prima fase, rapidissima, dell’inesauribile riproduzione degli esseri; nient’altro: si ricomincia finchè ce n’è… Fi donc!

Non si ha più certezza di niente! — Ma sì, ma sì, cara Amica; nell’arte, nella politica, nella scienza, nella religione, va benissimo, più non si ha certezza di niente: ieri l’altro classici, ieri romantici, oggi naturalisti o realisti, come barbaramente si dice; ieri repubblicani all’antica, mezzi ateniesi o spartani e mezzi romani, oggi monarchici costituzionali; domani che cosa? Ieri sensisti, ontologi, psicologi, idealisti, positivisti, oggi mezzi scettici, mezzi positivi, con una punta di pessimismo. Domani? Vattelapesca. Ieri cattolici, poi protestanti, poi volteriani, poi deisti, poi spiritisti, oggi… un po’ di tutto. Domani? Religiosi, senza dubbio, ma di quale religione? Chi lo sa! Vi si confonde il cervello, povera amica. Ma di tutte queste forme passeggiere del sentimento, dell’arte, della scienza, della religione, se molte spariscono quasi senza lasciar traccia, parecchie perdurano; gli strati di varie forme si accumulano, si innestano, s’immedesimano tra loro e costituiscono il carcame, l’ossatura della forma vitale che, via via, di fuori, va continuamente mutandosi.

Scusate: l’ho presa un po’ alta, ma la colpa è vostra. Mi fermo. E, in compenso, vi dirò un’assurdità.

Ieri leggevo d’un nuovo processo fotografico col quale vien fatto di fissare un’immagine anche di notte, allo scuro. Pare che ogni oggetto abbia una proiezione luminosa impercettibile dall’occhio umano, una fosforescenza perenne che intanto non sfugge alla reazione chimica. Riflettendo alle possibili applicazioni di quel processo fotografico, ero stato tratto, non so come, a pensare a voi… Anzi lo so; me n’accorgo in questo punto. Avevo là, sul tavolino, l’ultima vostra lettera arrivata di fresco, bigiù epistolare, di quelli che voi sapete così stupendamente niellare; misto di grazia e d’impertinenza, d’affetto e d’ironia, di leggierezza e di serietà; cosa, a prima vista, uscita filata dalla punta della vostra penna, senza pentimenti, senza cancellature; un che delizioso e inqualificabile, più tosto parlato che scritto. Certi periodi, certe frasi avevano il suono argentino delle vostre risa; cert’altri rendevano, con tutta evidenza, le mossine bambinesche delle vostre labbra, le vostre scrollatine di capo; cert’altri, parevano velati di malinconia e imperlati di lagrime.

Ma, francamente, dopo aver letto e riletto, ero rimasto perplesso. Dei tanti voi che formicolavano, abbaglianti, su quelle otto paginette color cenere, fittamente riempite di minuscola scrittura, qual era il voi veramente voi? La vostra lettera, insomma, era tutta sincera? O parte sì e parte no? O c’era in essa la sincerità speciale di un’opera d’arte, la rappresentazione (voluta o involontaria, non m’importava) d’un personaggio dentro la cui pelle voi v’eravate, per un momento, epistolarmente ficcata?

Questa mia perplessità non vi offenda. Attribuitela, se vi piace, alla mia grande ignoranza della donna, quantunque io abbia sempre tentato di studiarla profondamente; attribuitela alla mia inguaribile curiosità di andar proprio in fondo alle cose; alla mia abitudine di voler tutto comprendere a fin di tutto compatire. Con tale perplessità nell’animo — probabilmente per distrarmi di pensarci su — m’ero messo a leggere il giornale; e così (ah, ora ne sono certo!) dal sorprendente annunzio di quella scoperta ero stato ricondotto di bel nuovo a pensare a voi.

Già cominciavo a sentire un’irritazione piacevole, sottile sottile. Più non avevo nessuna certezza intorno a voi!… Oh che delizia! Sì, voi mi scambiavate di tratto in tratto le carte in mano, vi trasfiguravate a vista. Sotto quale apparenza, fra tante, dovevo io riconoscervi? Quale, di tutte quelle apparenze, era proprio anche la sostanza?

E la fosforescenza delle cose, impercettibile dall’occhio umano e che soltanto i più delicati reagenti chimici son capaci di rivelare, mi spingeva lene lene alla rêverie. Naturalmente, pensavo alla vostra fosforescenza — non ridete — che dovrebbe essere la luce intima dell’esser vostro, del vostro pensiero. Ed ecco come son riuscito a creare, idealmente, un processo per fissarla tale qual essa è, senza pericolo d’inganno. Pel vostro amico Giorgio, voi lo sapete, sogno e realtà son tutt’uno; state dunque a sentire che cosa è accaduto o, meglio, che cosa mi è parso di veder accadere.

Voi eravate qui, nel mio studio (voi così lontana e che io non conosco ancora di persona!) seduta sulla bassa poltroncina, tra braveggiante e sospettosa. Non credevate alla mia scoperta, ma non eravate poi assolutamente sicura che fossi matto da legare per quella fotografia del pensiero. Aspettando i risultati dell’esperimento propostovi, vi preparavate, sorniona, a ridere di me, a canzonarmi spietatamente pel mio prossimo fiasco. Eravamo al buio. Poco prima, al lume della lampada, avevo preso il punto col mio obbiettivo inglese; poi la lampada era stata spenta e, nel buio, vi sentivo leggermente respirare, a due passi. Non avete voi avuto per un momento, per un solo momento, qualche sospetto intorno alla mia buona fede? La vostra ritrosia a restar lì, al buio, sola con me, su quella bassa poltroncina, mi autorizza a pensarlo. Ma vi rassicuraste appena vi ebbi spiegato alla meglio quel che intendevo fare.

Vi avevo raccomandato di stare immobile, più che col corpo, col pensiero, di fissarvi in un’idea, lieta o triste, interessante o indifferente, ma in un’idea sola… La posa fu lunghetta; un quarto d’ora… E quando, uscito dal gabinetto oscuro con la lastra impressionata in mano, vi annunziai trionfalmente: voi pensavate qualcosa di allegro, siete scoppiata in una di quelle vostre risate… in una di quelle vostre risate! — Sì, sì, mi rispondeste tra le risa, pensavo appunto a voi… steso sul cataletto a pancia all’aria! — Avete riso per poco. E siete rimasta seria seria, profondamente impressionata, appena vi ho fatta accorta del mio sbaglio; perchè io avevo dimenticato che si trattava di una negativa; e, precisamente, quell’idea segnata lì in trasparenza, era una idea nera, un’idea triste, precisamente! Allora esclamaste: — Ho paura di voi! — E lo ripeteste più volte quando vi dissi che fra non molto (io non dispero di nulla) si sarebbe arrivato a decifrare correntemente quei segni quasi cabalistici rivelatori del pensiero. Forse, chi lo sapeva? quei tratti piccolissimi, vaghi, sfumanti, impressi sulla lastra erano la registrazione delle altre vostre idee tenute in disparte dall’idea fissa, diventata in tal modo più evidente. Ah! Tutti i vostri più segreti pensieri che vi frullavano in testa poc’anzi io gli avevo lì, notati fedelmente: tutti! Che temevate? Che io scoprissi delle cosettine poco piacevoli per me?

State tranquilla, cara Amica; ho voluto svagarvi un pochino. Non sarò io, no, colui che tenterà di scoprire il modo di fotografare anche il pensiero. Avessi pure la ventura di scoprirlo per caso (le più grandi scoperte sono venute fuori così), distruggerei, subito, ogni traccia della mia invenzione. Più nessun dubbio? Più nessuna incertezza? Più nessuna illusione? Allora, sì, questo mondo diverrebbe noioso. — Non si ha più certezza di niente! — Cattiva, non ve ne lagnate. Soltanto l’ignoranza, l’ignoranza relativa, l’ignoranza della scienza, l’ignoranza della religione, l’ignoranza di tutto quel che ci circonda, di sotto e di sopra, soltanto essa ci rende un po’ sopportabile la vita, quando non ci rende (cattiva, non ve ne lagnate!) addirittura felici!

G.

***

14 ottobre 1887.

. . . . . . . . . .

E se io vi dicessi che n’ho avuto un vago presentimento, una strana impressione nervosa, la quale mi dava la sensazione di non esser solo in quel momento? Un foglio di carta scivolò su pei libri, quasi una mano invisibile lo avesse smosso; l’armadietto, che può dirsi il mio museino, dove ho riposto tante cose disparate, ma egualmente a me care, diè un schianto secco secco, da farmi credere che una delle sue pareti si fosse spaccata… E non era vero; potei subito accertarmene. Chi avea picchiato a quel modo?

Riuscii, da lì a poco, a darmi piena ragione di ogni cosa.

Quella impressione che mi aveva prodotto la sensazione di non esser solo, dovea certamente provenire dal filo d’aria che l’imposta mal chiusa lasciava penetrare nella stanza. Si sa come certe sensazioni puramente fisiche si trasformino nell’organismo in, diciamo così, sensazioni morali. Le nostre condizioni psicologiche di un dato momento, l’abitudine di certe speciali associazioni d’idee, lo stato latente della coscienza che si desta, si sviluppano e prendono forma netta e precisa dietro un impulso esteriore. Nel mio caso, la leggera preoccupazione di quel vostro insolito silenzio di due settimane, il pensiero indeterminato, specie di desiderio che forse mi attraversava il cervello in quel punto, e da cui venivo inavvertitamente attratto verso l’impossibile, aiutato dalla cognizione che quel che io stimavo impossibile vien creduto da parecchi una non molto difficile possibilità: (gli spiritisti, i mistici, voi lo sapete, affermano, come fatti non rari lontani, i viaggi dello spirito d’una persona vivente); ecco parecchie cose che, insieme o da sole, potevano produrre il fenomeno d’una forte allucinazione.

C’era dunque in me quel che occorreva perchè una sensazione puramente fisica, la impressione d’una lieve corrente d’aria, potesse agevolmente trasformarsi in un’impressione misteriosa, nella presenza d’un essere invisibile, di voi, proprio, che non vi facevate viva — cosa insolita — da due settimane.

Soddisfattissimo di questa così scientifica, così positiva spiegazione, passai al secondo fatto, allo smuoversi del foglio posato sui libri. I libri erano, sì, un po’ in declivo; ma, apparentemente, non tanto da giustificare che la gravitazione del foglio avesse potuto produrre quel fatto. Provai, riprovai di rifare l’esperimento; il foglio, anche messo in una posizione assai più declive, rimase fermo, quasi avesse avuto addosso il più pesante dei miei ninnoli ferma-cart. (Si dice così? Non lo so, quantunque mi sembri abbastanza italiano. Ho consultato tutti i vocabolari che posseggo — e sono parecchi, dal Tramater a quello in corso di stampa del Petrocchi — e non mi è riuscito di trovare il corrispondente italiano del presse-papier dei francesi. Il vocabolo dev’esserci, c’è, senza dubbio; sospetto di averlo già saputo e ora dimenticato; ma non ho qui un fiorentino a cui domandarlo; una delle tante disperazioni che mi facevano arrabbiare quando avevo la malinconia della letteratura, di cui sono fortunatamente guarito). Dunque, il foglio restava lì fermo. Che è per ciò? Avevo io esaurite tutte le possibili posizioni di esso per raggiungere il mio intento? Non vi sono circostanze così complesse che è assurdo tentar di riprodurre, non potendo precisamente riprodurle con la medesima intensità e con la identica correlazione di tutti i lor diversi elementi? Un’altra ragione scientifica, positiva che, persuadendomi di smettere le varie prove e riprove, mi fece accettare senz’altro la spiegazione più sicura: sì, il peso, aggravandosi, aggravandosi, accumulandosi, avea naturalmente prodotto il moto, e così il foglio era scivolato giù quasi smosso da una forza occulta, dalla gravità universale.

Gran bella cosa la scienza! Come spoglia da ogni forma fantastica i fenomeni, a prima vista, meno esplicabili!

Allora, si capisce, lo schianto dell’armadietto mi parve una sciocchezza. Quale è mai quell’armadio che di tanto in tanto non ischianti?

Dileguato il mistero, passato il primo movimento di quella mia soddisfazione chiamiamola pure scientifica (non costa nulla), io — così savio e ragionevole e scettico come voi mi sapete — sentii però un vero rimorso di quella stupida inchiesta, chiamiamola pure scientifica (non costa nulla). Mi parve di aver così ucciso dentro di me il germoglio d’un bel fiore. E non saprei spiegarvi perchè mi venisse in mente proprio quest’immagine; giacchè essa non era un’idea astratta, una metafora, ma una visione reale. Rosso, dai petali vellutati, chiazzati di nero e di giallo, dai pistilli di oro altieramente rizzantisi dal seno profondo del calice, quel fiore non apparteneva probabilmente a nessuna flora esistente, magnifico ibridismo prodotto lì per lì dalla immaginazione e che l’arte potrà ridurre domani realtà vegetante e fragrante; io lo vedevo qual esso sarebbe stato, se non avessi già ucciso in germe quella impressione che m’avea dato, per un istante, la illusione della presenza di un essere invisibile, di voi,  venuta in ispirito a visitarmi dalla vostra incantata marina.

Permettetemi di credere che quel fiore fosse, come avrebbe detto lo Swedenborg, una corrispondenza spirituale del bel fiore umano che è il vostro corpo. Non vi adombrate: è la sola galanteria che mi permetterò in questa lettera.

Sono fatto così, gentile Amica; amo il mistero; anche quando esso non sia veramente tale, ma una semplice illusione. Sapendomi circondato da tanti e tanti inesplicabilissimi fatti, sopra, sotto, dattorno, uno di più — anche illusorio — non mi fa punto specie: massime se risulta da esso un benefico effetto. Se, nel momento che provai quella sensazione e il foglio scivolò e l’armadietto schiantò, mi fossi lasciato prendere dalla incipiente illusione, non sarebbe stato una delizia?

E se non era illusione?

Che bella cosa poter fare gli onori di casa a un essere invisibile! Vi avrei pregato di manifestarvi meglio, in qualunque modo: e se vi fosse piaciuto di convincermi che la famosa materializzazione degli spiriti (la parola è brutta, ma il fatto sarebbe stupendo davvero) la materializzazione, di cui parlano gli spiritisti americani, non è una fandonia di allucinati, io vi avrei baciate tutte e due le mani ed anche i piedi, dopo avervi tolto, riverentemente, le babbucce ricamate che portate per casa; voi, spero, da spirito, avreste avuto lo spirito di lasciarmi fare.

Lo so, con la vostra spietata malizia, direte che la solitudine comincia a rammollirmi il cervello, visto che posso scrivervi simili grullerie. No, gentile Amica. Voglio avere il coraggio di affermare che bisogna smettere il cattivo vezzo di giudicare grullerie tutte le cose che non possiamo spiegarci. Che ne sappiamo noi? Conosciamo così addentro, fin a una, le leggi di quest’universo, da poter sentenziare addirittura che certi fatti sono grullerie? Purtroppo noialtri animali ragionevoli facciamo ordinariamente così; trinciamo sentenze. Per buona fortuna, esse non sono credute inappellabili neppur da noi stessi. Ah, se si facesse il catalogo di tutte quelle cassate con lodevole disinvoltura dal medesimo tribunale della scienza, da cui erano state tanto solennemente pronunziate! Si riempirebbero parecchi volumi in foglio.

E poi, persuadetevene, la solitudine campestre non rammollisce il cervello, quando si ha tanto materiale (libri d’ogni sorta) da nutrirlo e fortificarlo. Essa è anzi un efficacissimo mezzo di sbarazzarsi di parecchi ingombri sociali. Vorrei che voi vi provaste qualche volta a discutere, come accade spesso a me, faccia a faccia con la Natura. Gli alberi, i fiori, le roccie, le acque, gli uccelli, gli animali grandi e piccini, i vari aspetti delle cose al mutar della luce, il silenzio,  i rumori, hanno un particolar modo di ragionare che vale, ve lo giuro, per lo meno quanto il nostro. L’anima delle cose è forse dissimile dalla nostra? Lo spirito delle cose non è forse lo spirito umano rimasto chiuso, velato, circoscritto nelle forme vegetative ed animali che noi affettiamo di credere così lontane da noi? Questo oramai comincia a dircelo la scienza, ed è consolante.

Guardata con tal occhio, la Natura assume un’attraenza piena d’infinita poesia.

Quel pero del mio giardino che si ostina a fiorire soltanto senza voler mai condurre a maturità un sol frutto, non è forse un omino embrionale pieno di vanità e di pigrizia, come ce n’è tanti al mondo?

Quella vite aristocratica che matura ogni anno due o tre grappoli, non più, di meravigliosa uva bionda, rosea, dolcissima, con chicchi che paiono fusi, in uno stesso cavo e aggruppati con arte decorativa da sbalordire; quella vite non è una signora embrionale, che produce poco perchè vuol far tutto bene, che disprezza l’utile perchè ama l’arte? Quei suoi due o tre grappoli annuali sono proprio un’opera d’arte da vincere di gran lunga la leggendaria uva di Apelle (o di Zeusi? In questo momento la mia erudizione mi fa difetto e non voglio aiutarla ricorrendo a un’enciclopedia: so che voi non amate l’erudizione quand’essa è inutile, come appunto in questo caso).

Strambe analogie, direte voi, da lasciare ai poetini che si figurano di fare della poesia mettendo in versi: disse il fiore all’usignuolo; rispose l’usignuolo al fiore; disse la farfalla alla rosa; replicò la rosa alla farfalla!

Ah! le prendete per strambe analogie? Come v’ingannate! Lo strambo è quando noi mettiamo nella Natura, come quei poetini, la coscienza che non ci è affatto. La vera stramberia sono quegli Amori delle piante di Erasmo Darwin dove le povere piante, i poveri fiori, trasmutati in pastori e pastorelle d’Arcadia, fanno ridere i polli.

Non mi fraintendete: io non metto la coscienza nella Natura (sarebbe un guastar la Natura); e se vi trovo l’elemento umano e spirituale, ve lo riconosco e mi piace di riconoscervelo nella sua forma vegetale ed animale soltanto, dov’essi stan chiusi dentro un limite insormontabile… Che male avete voi fatto perchè io mi lasci andare fino a scrivervi queste astrusissime cose?

Eppure la colpa è un po’ vostra. Se io non avessi avuto paura dei vostri frizzi, avrei continuato sullo stesso tono con cui ho cominciato, e, fantasticando, fantasticando, chi sa dove diamine sarei arrivato? Chi sa quali strampalerie vi avrei scritte a proposito della pretesa visita spirituale che voi dite, scherzando, d’avermi fatta! Voi avreste sorriso, o riso; io mi sarei divertito, e sarei tornato a divertirmi, ricevendo la vostra risposta piena d’ironia, di motti, di amabili impertinenze, e di carezzevoli pentimenti. Ma, pur troppo, da quel contadino che son diventato, qualche volta ho paura delle vostre lettere. Se invece di questi foglietti coperti di minuscola scrittura, veniste voi in persona, oh! ve lo assicuro, non avrei punto soggezione, e vi terrei testa sotto la grandine dei frizzi e delle malizie che vi piacerebbe d’avventarmi.

Ve lo confesso però; amerei molto meglio una vostra reale visita spirituale. Sapervi accosto a me, e non vedervi, e sentire intanto l’impressione del vostro calore, la sensazione del vostro alito, e aspirare il vostro profumo preferito d’elitropio bianco!…. Che commozioni! E quel sentirmi, a poco a poco, compenetrar tutto di voi nella parte più intima dell’organismo, nel pensiero; quel pensare in voi e quel comprendervi nello stesso tempo pensante in me: quel provare insomma la strana ossessione dello spirito vostro, che avrebbe intanto, per mezzo momentaneo di manifestazione esteriore, il mio solo organismo!… Ah, voi che non siete abituata a queste vertiginose altezze spirituali dove io m’avventuro spesso spesso con lo Swedenborg, voi non intenderete nulla della possibilità d’un’ossessione, specie di suggestione ipnotica più elevata! Che felicità se la cosa avvenisse!

Il più attraente sarebbe poter studiare per dir così de visu, direttamente, in che modo sente e pensa una donna. In quel momento lascerei femminilizzarmi compiacentemente, mi vi darei tutto, tutto, per veder funzionare dentro di me lo strano fenomeno vivente che voi siete, impastata di nervi, di passione, di riflessione, di scetticismo, di grazia, di malizia, di pietà, di cento cose disparate, fuse insieme in un organismo e in una intelligenza dei meglio riusciti. Quante strane sorprese! E quante delusioni forse! Giacchè noi uomini abbiamo intorno alle donne un mucchio di preconcetti, e non tutti benevoli. Io però mi son fatto, su questo punto, convinzioni particolari; e non oso di metterle fuori perchè troppo contraddicenti le idee accettate dalla maggioranza. Per esempio, io credo che, volendo studiar bene e comprender bene la donna, bisogna cominciare… indovinate?… dall’uomo. Noi siamo passati per voialtre, e ne abbiamo trasportato via il meglio nella nostra forma superiore. Quel che non abbiamo portato via appartiene all’animalità bassa, ed è facile studiarlo nell’animale o in noi stessi, dove l’animale sussiste. Basterebbe dunque limitarsi a certe facoltà dello spirito, alla immaginazione e al sentimento: basterebbe farle funzionare in noi per via di un’abile selezione, senza mescolarvi elementi riflessivi, cioè d’astrazione…

Voi sorridete, scotete il capo, fate dinieghi… Siete dunque davvero un mistero impenetrabile voi donne? Siete l’assurdo, l’imprevisto fatti sangue e carne?…  Permettetemi di rimanere nella mia convinzione che per studiar bene la donna, bisogna, dall’uomo, tornare indietro fino ad essa… — Indietro?… esclamerete voi. Ecco una bella impertinenza! — Oh, intorno a questo la mia rozza sincerità di contadino non si lascerà smuovere dalle vostre canzonature. La leggenda adulatrice pretende che la donna sia stata creata da Dio, traendola da una costola di Adamo dormente. Ebbene: se fu Adamo che inventò la leggenda, è da veder in essa soltanto un semplice atto di galanteria; se fu Eva, (scusate) un malizioso artifizio per nascondere la sua età allo stato civile di allora.

G.

***

20 novembre 1887.

. . . . . . . . . .

Stavo per commettere una pazzia. Vivevo da più giorni come un allucinato, sognando a occhi aperti il vostro salottino e la mia inattesa comparsa davanti a voi. Il mistero, l’ignoto sarebbero spariti a un tratto appena avrei visto la vostra persona, intorno a cui ho fantasticato tanto da tanti mesi; appena avrei stretto la vostra mano che mi figuro piccola, bianca, con dita esili e lunghe; appena avrei udito la vostra voce, turbata dalla mia improvvisa apparizione.

Era accaduto quel che doveva accadere; avevo scherzato col fuoco e mi ero scottato. Non ve n’ho detto mai niente; ma voi dovete esservene già accorta e da un pezzo. Chi sa che non siate un po’ scottata anche voi? Permettetemi questa supposizione, che non vi pregiudica. Avete voi fatto forse, al pari di me, voti di solitudine e di astinenza? Vi siete forse volontariamente confinata in una campagna, quasi fuori d’ogni umano consorzio, eccetto quello che dànno molti libri e pochi giornali? Mi avete, è vero, parlato spessissimo del vostro profondo scetticismo, e avete messo più volte in canzonella la irrimediabile sentimentalità che, secondo voi, impregna le mie lettere: ma io non vi ho mai creduto. Questa nostra corrispondenza non poteva essere, e non è stata infatti, un semplice gioco dello spirito nè per voi nè per me; n’ebbi un vago presentimento sin da principio.

E se mi sono scottato soltanto io, tanto meglio. Non m’importa che faccia una ridicola figura al vostro cospetto; la punizione è meritata.

Sì, stavo per commettere una pazzia. I miei grandi propositi di raccoglimento e di studio eran crollati in un attimo, come un castelletto di carte da giuoco; la donna, che io avevo voluto eliminare per sempre dalla mia vita, aveva ripreso, zitta zitta, possesso di me e mi invadeva e mi dominava tirannica, inesorabile vendicatrice della mia empia risoluzione; questa campagna, dove mi ero rifugiato come in un porto di salvezza, questa solitudine che aveva riconfortato e ristorato le disperse forze del mio spirito, mi eran diventate subitamente insopportabili, uggiose, quasi orrido luogo di relegazione, quasi condanna ingiusta e crudele.

Era il resultato dell’opera vostra; incosciente o volontaria,  non m’importava saperlo. V’amavo, ero pazzo di voi. Il mistero che vi circonda mi aveva sconvolto il cervello; il caso che vi ha fatto infrangere la clausura del mio ritiro mi sembrava qualcosa di provvidenziale contro la mia stupida fuga da ogni creatura civile, col pretesto di vivere soltanto una vita tutta spirituale, tra la scienza degli uomini e la scienza di Dio.

La mia vigliaccheria mi suggeriva:

— Non hai tu intrapreso un’opera contraria all’umana natura, tentando di sopprimere dentro di te il sentimento in vantaggio della riflessione? Il sentimento non è una forma del pensiero necessaria quanto l’altra? L’uomo tutto sentimento non ti sembra un essere dimezzato, al pari di quello tutto riflessione?

Parlava il mio linguaggio. E intanto l’immaginazione mi faceva balenare davanti e la vostra testa bruna, e i vostri occhi neri, e il vostro geniale sorriso, il suono dolcissimo della vostra voce, la vostra persona alta e slanciata, quali era riuscita a foggiarseli secondo le indicazioni fornite a spizzico dalle vostre lettere incantatrici. E, intanto, quella medesima riflessione, che avrebbe dovuto garentirmi e difendermi dalle tentazioni del sentimento, mi enumerava i tesori d’affetto nascosti sotto l’apparenza scettica e canzonatrice della vostra parola scritta; mi faceva assaporare anticipatamente tutte le spirituali voluttà della confidenza e dell’abbandono,  tutte le carezze immateriali dell’intimità, anzi della fusione di due cuori in uno, intraveduta per la prima volta e a proposito di una donna conosciuta soltanto da quel poco che essa ha voluto farmi sapere di sè, forse per arte, forse per calcolo, (non vi offenda la supposizione) forse nè per l’una, nè per l’altro.

Perchè non dovevo amarvi?

Le soddisfazioni intellettuali della scienza degli uomini e della scienza di Dio, che da più mesi compulsava avidamente, e assiduamente interrogavo, eran tali da farmi perdurare nel mio disegno? C’era meno vacuità nella mia dottrina, o meno incertezza nelle mie convinzioni? Avevo qualche lontana speranza che la mia gran sete di verità avrebbe finalmente trovato la limpida e ricca fonte a cui dissetare le aride labbra?

Perchè non dovevo amarvi?

Già era inutile domandarmi perchè non dovevo; vi amavo, era cosa fatta. E c’era qualcosa di più: mi sentivo riamato. Rileggevo tutte le vostre lettere, e da ogni riga di esse me ne scoppiava evidentissima, luminosissima la prova. Oh, sì, il vostro epistolare intervento nella mia solitudine era stato provvidenziale! Voi sapevate di me quel po’ che può carpirsi dai non copiosi libri di uno scrittore; io sapevo di voi quel po’ che le vostre lettere avevano potuto rivelarmi. Eppure mai, come in quel momento, la teorica platoniana delle anime sorelle, che si rincorrono e si ricercano a traverso la vita e lo spazio, m’era parsa tanto vera e certa: ero convinto che la forza attrattiva delle anime nostre aveva superato ogni ostacolo. Poteva mai essere accidentale il futile pretesto di chiedere schiarimenti e consigli a una persona conosciuta soltanto per la lettura dei suoi libri? Poteva mai essere accidentale l’infrazione da me fatta alla legge, impostami volontariamente in questa solitudine, d’interrompere ogni relazione coi miei simili, per votarmi all’unico eccelso studio delle scienze umane e divine?

E la deliziosa stagione contribuiva a rinfocolare la straordinaria effervescenza del mio cuore. Giornate di autunno più splendide assai delle più splendide giornate di primavera; tepori snervanti; dolcezze di tinte nel cielo e nella terra, carezzevoli e suggestive in supremo grado; da per tutta la campagna qualcosa di agitato, di commosso, di sorridente con malinconica tenerezza; l’opera dell’uomo, tra le vigne opulente e tra gli ulivi, si diffondeva con serena allegria come un inno di ringraziamento alla gran Madre Terra per quegli ultimi bagliori di vegetazione e di fioritura.

Ero oppresso da tanta dolcezza, non potevo sopportarla da solo; sentivo che mi eravate necessaria pel compimento di me stesso; e vi benedicevo di essermi penetrata così di traforo nel cuore, a dispetto dell’uscio tenuto chiuso, a dispetto della persuasione che la donna sia la negazione dello Spirito, o, per lo meno, la sua più grande nemica.

E lassù, sulla collina, tra gli ulivi, in mezzo all’erba dorata dal sole meridiano, mite e benigno come un bacio, risolsi: — Partirò! Andrò da lei! E tornerò di nuovo qui, ma con lei. Ella sarà la fata del luogo!

Passai la notte senza chiuder occhio. La mattina vi scrissi una lunga lettera, che stracciai subito dopo averla riletta. Volevo sorprendervi, volevo accertarmi se mai il vostro cuore vi avesse presagito qualcosa, se avesse presentito il mio avvicinamento mentre il piroscafo mi portava alla incantevole vostra città, assisa sul golfo come una sirena.

E feci la valigia canticchiando, ripetendo il vostro armonioso nome in mille guise, quasi le diverse melodie, che si adattavano ad esso su le mie labbra infuocate, rifiorendomi nella memoria dopo tanto tempo, non avessero potuto esprimer altro che il misterioso significato di quelle tre sillabe, le più belle tra quante da voce umana siano state mai modulate. E fatta la valigia, diedi gli ordini per la partenza, precisi, minuziosi; niente doveva ritardare di un minuto, d’un solo minuto, l’avvenimento che credevo stesse per risolvere l’oscuro enimma della mia vita!

Così ieri! Oggi non più!

E ve n’ho parlato come di avvenimento remoto di cui resta appena traccia nella memoria. Non ho creduto nemmeno opportuno cercar qualche perifrasi, per addolcirvi la crudezza del fatto, e vi scrivo: Così ieri. Oggi non più!

Perdonate all’orgoglio della mia vittoria questa mancanza di delicatezza e di riguardo, quantunque la mia vittoria non sia proprio contro di voi personalmente, ma contro la donna in genere. Che posso farvi se la specie è formata di individui, e la Donna non è una realtà tangibile, ma son tali soltanto le donne?

Già, anche durante il mio accesso d’ebbrezza, sentivo un sordo rancore che non sapevo spiegarmi, qualcosa che mi amareggiava anticipatamente le gioie di quel viaggio improvviso e m’impediva di assaporare la mia liberazione dalla solitudine venutami in odio peggio che se mi fosse stata imposta dal capriccio tirannico di qualcuno. Ero simile al prigioniero che vede rompere con una specie di tristezza la catena a cui viveva da tant’anni legato. Guardavo i miei libri, la mia stanza di studio, tendevo l’orecchio nel silenzio quasi temessi di sentir mormorare per l’aria rimproveri o minacce di gastighi per l’infrazione del mio voto; ed ero corso a rifuggiarmi prima dell’alba su la terrazza che domina la vallata, per sfuggire la tormentosa paura di quei rimproveri e di quelle minacce.

A un tratto, ecco un suono di campane lento e lugubre, e che sembrava più lugubre nell’incerto barlume dell’alba, fra il silenzio della campagna ancora addormentata. Suonavano a morto, e pareva suonassero da un’altezza immensurata, perchè le nebbie velavano la collina del vicino paese e si confondevano col grigio scuro del cielo. E non una, non due, ma tutte le campane delle chiese suonavano a morto, con voce di desolazione, quasi piangessero l’immensa vanità delle cose: vanità dell’arte, vanità della scienza, vanità della forza, vanità della bellezza, vanità dell’amore…. Vanitas vanitatum! Et omnia vanitas!

Mi sentivo commosso…. Era il giorno dei morti. Quella bronzea voce invocava i suffragi dei fedeli su le anime dei trapassati, lenta, ritmica, straziante… Vanitas vanitatum! Tutte le generazioni scomparse da secoli su quel monticulo di terra, diverse per razze, per civiltà, per religioni, sembravano, con quel suono, dalla Infinita Misericordia, invocare il perdono di non aver creduto durante la loro esistenza alla vanità di ogni cosa; il perdono di quella follia che le aveva fatte guerreggiare, lavorare, amare, pensare, quasi la loro vita avesse dovuto durare eterna! E aveano atteso l’ora del risveglio dei viventi, la limpidezza serena dei sensi e della mente dopo il riposo notturno, per far meglio penetrare nei petti umani lo sgomento della vanità universale rivelato loro dalla morte. Vanitas vanitatum! Et omnia vanitas!

Mi sentivo commosso. Ed io, miserabile minuscola creatura, invece di seguitare a chiedere alla scienza degli uomini e alla scienza di Dio il vero e profondo significato di quel vanitas vanitatum in cui si risolvono fin le grandi evoluzioni del pensiero quando non è compenetrato dal divino, io già tornavo a lasciarmi sedurre dalle fallacità dell’amore, già mi abbandonavo alla sensazione allucinatrice! Già stavo per correre dietro a un fantasma di donna a cui la mia immaginazione aveva dato a imprestito i propri bagliori! Chi avrebbe potuto assicurarmi in quel momento che voi non siate l’opposto della creatura da me creata dietro fallaci e risibili elementi?

Allora un altro fantasma di donna da me conosciuta anni addietro a Milano, mi si presentò alla memoria: e negli occhi le sfavillava un’ironia acuta, e sulle labbra le tremolava un sorriso tra compassionevole e sprezzante… O Malvina de Jancoosca, dove sei tu?

Era una polacca misteriosa, venuta in Italia nessuno sapeva perchè; forse un’emissaria nihilista, che turbava e sconvolgeva chiunque l’avvicinava, quasi invadesse e compenetrasse tutti col suo fitto mistero.

Ed io, per schermirmi da questo fascino, le avevo detto una sera mille cose insensate; ed esse mi tornavano alla memoria in quel punto, ma non più come cose insensate, bensì come intuizioni dell’avvenire.

Le avevo detto:

“La donna? È un animale inferiore, che sparirà dal mondo fra non molto, fra qualche migliaio di secoli.

La chimica ne ha già pronunziato l’inesorabile condanna, riproducendo — ed era parso assurdo finora — sostanze organiche identiche alle sostanze organiche naturali.

Il giorno che essa sarà riuscita a produrle tutte, potrà riprodurre anche un organismo completo; e così avremo l’uomo artificiale, vivente, pensante, uguale in tutto e per tutto a noi nati dal seno della donna. E siccome in questa produzione artificiale niente verrà abbandonato al caso, l’uomo creato dal fornello della scienza sarà infinitamente superiore a quello creato dall’accoppiamento quasi brutale di due creature che non sanno quel che fanno, che si accingono spesso alla riproduzione della specie in condizioni sfavorevolissime, quando meno dovrebbero.

Malvina rideva, mi chiamava matto, si turava le orecchie per non udire.

Io continuavo:

— Allorchè ognuno potrà ordinare al chimico un figlio che abbia queste o quell’altre facoltà fisiche e morali, e ottenerlo in breve tempo proprio come l’ha voluto — operaio, artista, pensatore, secondo il bisogno — l’ufficio del genere femminile sarà terminato. Il senso della riproduzione della specie, tanti sentimenti che ora ingombrano la breve esistenza umana e stanno in relazione con quel senso, spariranno a poco a poco, lasceranno libero lo sviluppo della spiritualità: l’uomo sarà soltanto un essere pensante…. E così comincerà l’èra nuova della storia….

La donna verrà qualche volta creata anch’essa dal crogiuolo del chimico o come oggetto di studio del passato o come giocattolo raro. Se io avessi la buona sorte di vivere in quell’epoca fortunata e i miei mezzi me lo permettessero, mi farei riprodurre voi, cara Malvina, e vi terrei nella mia stanza di studio, dentro una bella gabbia, come voi tenete ora quel canarino a cui imbeccate lo zucchero con la punta delle belle dita. Vi darei dei confetti, delle paste, anche dei gioielli per pararvi e pompeggiarvi; vi farei cantare, ballare, chiacchierare, e tornerei ai miei studi, dopo avervi fatto una carezza, animalino delizioso!„

Tutto questo mi tornava alla memoria; e mi pareva anzi che la figura ironica e sprezzante di Malvina de Jancoosca me lo gettasse in faccia, per rimproverarmi di non aver tentato di difendermi dal vostro fascino, come allora dal suo.

Quel che allora dicevo scherzando, ora mi faceva pensare; quel che allora era stato un ghiribizzo umoristico, ora mi sembrava non solamente una possibilità, ma una bella realtà avvenire.

Non potendo intanto distruggere la donna nella vita sociale presente, mi rassegno, com’avevo già risoluto, a distruggerla soltanto per me. Non parto più. Non vi scriverò più! Non leggerò più le vostre lettere, caso mai aveste l’idea di spedirmene dopo aver ricevuto questa mia!

Voglio vivere unicamente di pensiero, e attuare dentro di me tutto il Divino possibile. Avevano ragione i primi padri della Chiesa: Tra la donna e il Divino c’è contraddizione assoluta. Quel po’ di divino ingenito da principio nella donna si è travasato tutto nell’uomo, e perciò l’uomo nuovo, l’Uomo-Spirito, non deve aver più niente da fare con essa. Come Gesù, in nome dello Spirito, ecco, io vi intimo il mio: Vade retro, Satana!… Addio!

Giorgio ***