In un libro come quello che il Gautier intitolò Les Grottesques il Dossi, per ora, potrebbe avere il primo posto. La stranezza del suo ingegno è quasi uguale alla vigoria d’esso, e aggiungo subito che questa non è poca davvero. Io ho letto tutti i suoi scritti. Pubblicati da parecchi anni, son rimasti per gran parte del pubblico roba inedita. L’autore ne stampava, per conto proprio, in belle edizioni in ottavo, un centinaio di copie e le regalava agli amici: nascevano, si può dire, una rarità bibliografica. Qualche copia se ne trovava di quando in quando sopra un banco di rivenditore di libri vecchi, e la scancellatura di un nome sulla copertina raccontava l’odissea del mal capitato regalo. Fu così che nel 1871 mi venne in mano L’Altrieri, nero sul bianco, stampato nel 68, un volumetto in 16º, una eccezione, perchè il Dossi sembra avere una specie di predilezione per l’ottavo grande. Mi sorprendevo che oggi si lasciasse, come tanti altri, stampare anche lui in elzeviro; ma ora so che non pubblica più per conto proprio: finalmente si è persuaso di rassegnarsi a un editore. Così son venute fuori, l’anno scorso, La Desinenza in A, una filippica contro le donne, la ristampa della Colonia felice, una utopia, ed ora Gocce d’inchiostro, un’altra ristampa di novelline e di schizzi spannati dai suoi varii scritti, come dice l’avvertenza dell’editore. Domani avremo forse un nuovo volume, il rovescio della medaglia della Desinenza in A, un panegirico della donna.
Però il nome del Dossi non era rimasto oscuro neanche quand’era mezzo inedito. Aveva presto trovato degli ammiratori entusiasti e dei detrattori arrabbiati. Non saprei valutare esattamente chi gli abbia nociuto di più. Potrebbe darsi, con un carattere come il suo, che non abbiano nè gli uni nè gli altri influito molto sopra di lui.
Una vera forma artistica indica una maniera di vedere e di sentire molto fuor del comune. Quando la forma ha una spiccata singolarità, vuol dire che questa proviene dal solido impasto dell’organismo. Si tratta di un fenomeno; e la critica, che non deve lasciarsi sfuggire nessun argomento serio, ha l’obbligo di penetrarlo, d’intenderlo, di vederlo fare. Un caso letterario equivale ad un bel caso patologico.
Io chiamo caso letterario un’opera d’arte dove si riveli un complesso di ottime qualità, di qualità di prim’ordine (forza di rappresentazione evidente, potenza di colorito, di movimento, di vita, insomma) che, producendo sul lettore, coll’energico effetto della realtà, una sensazione acuta, un’eccitazione interiore, gli svegli nell’immaginazione e nel cuore facoltà addormentate per mezzo delle quali egli rifà con identico processo, sebbene in modo effimero, la stessa creazione dell’autore; e dove, insieme alle ottime qualità, alle qualità di primo ordine, si trovino quasi colle stesse proporzioni qualità inferiori, difetti ed eccessi sia nel disegno generale, sia nei particolari dello stile e della lingua; stonature e stridori di colorito, contorsioni di linee, esagerazioni di maniera, caricature di forme, qualcosa di mescolato, d’affastellato, d’arruffato che intanto (si scorge bene) è un vero organismo, non un’accidentalità o un capriccio.
La volgarità, l’impotenza, l’anemia, l’aborto, non sono dei casi letterarii. Ci vuol poco a capire, in simili casi, che il preteso autore si sia sbagliato di mestiere, che il commediografo avrebbe fatto benissimo a diventar farmacista, che il romanziere avrebbe fatto meglio a procacciarsi un posto di scrivano nello studio d’un notaio, che il poeta doveva lasciar in pace la Musa e restar semplicemente un fannullone, quando non poteva occuparsi d’altro. Nel caso letterario si tratta d’un vero ingegno d’artista o sviato, o mancante d’una delle più importanti facoltà, quella delle proporzioni e della misura.
La prima curiosità di chi vuol spiegarsi tal fenomeno si rivolge naturalmente sulla vita intima dell’autore. Dicono: la vita intima è sacra: la persona dello scrittore è inviolabile. L’opera d’arte dà abbastanza da poter essere giudicata da sè stessa. — Sì; parecchie volte, fino a un certo punto, essa può essere impersonale; ma delle altre non la è: mostra troppo la foga del sangue, l’eccitazione dei nervi dell’autore. Allora la curiosità non solamente diventa legittima, ma diventa anzi un dovere. Infine l’opera d’arte è un fatto; e un fatto non s’intende, non si spiega se non se n’hanno sotto gli occhi tutti gli elementi, dai più sostanziali fino ai più insignificanti.
Studiamo dunque l’uomo per intender l’artista.
Non lo conosco di persona, ma ne ho visto un ritratto. È magro, quanto di più magro si può essere senza apparire uno scheletro. Ha la testa grossissima, la fronte dilatata, così dilatata che il suo viso prende la figura d’una trottola. Nato di sette mesi, per violenza di paura il giorno della battaglia di Novara, nel disordine d’una fuga, dirimpetto a una casa che incendiava, risentì sempre gli effetti della sua precoce venuta al mondo. Lottò fino alla virilità tra la vita e la morte, impressionabile come una sensitiva, strano fanciullo, taciturno, divoratore di libri che non intendeva, appassionato collezionatore di medaglie, di sassi, di ogni cosa sin dai sette anni, schivo della compagnia degli altri ragazzi, ruminatore, timido e imperioso a seconda delle circostanze. Tutta la storia della sua fanciullezza egli ce l’ha data, coi più minuti particolari, nella Vita di Alberto Pisani che sembra un romanzo ed è un’autobiografia bella e buona, vera perfino nel nome del protagonista, Carlo Dossi essendo un pseudonimo.
Si è, letterariamente, educato da sè, nella sua selvaggia libertà di sentire e di pensare fuor d’ogni regola, fuor d’ogni legge, spesso contro ogni legge. Nella solitudine del suo castello di Montalto (leggi Montecarlo) un casone, com’egli dice, già frateria, dalla mobiglia che dì e notte stiantava e di cui la più piccola sala avrebbe con tutta comodità, tenuto un grosso elefante, la sua natura malaticcia e sensibilissima si fortificò a poco a poco in un mondo tutto suo, un mondo di fantasticheria sublime e di realtà uggiosa o triviale, che lo urtava da ogni parte; e il suo carattere vi si temprava aristocraticamente, sprezzoso del comune, avido della singolarità, elevato, generoso, nutrito di profonda poesia. Nel 1866 Carlo Dossi, quasi maturo, pubblicava le prime sue cose. D’allora in poi Alberto Pisani perdè, come artista, il suo legittimo nome.
Il Dossi ha una coltura estesissima. Può leggere i classici di otto o dieci lingue tra antiche e viventi: la sua lingua conosce meglio di qualche altro, ma spesso la crede impotente a rendere coi mezzi ordinarii le sfumature del suo pensiero e dei suoi sentimenti; allora s’abbandona a quelle tremende violenze contro il vocabolario che fanno stupire ed hanno una sola ragione, la sua natura o, qualche volta, il suo capriccio; cosa che non vuol dire una buona ragione. Sembra ch’egli pensi: — La lingua è uno strumento, una forma accidentale, convenzionale. Perchè dovrò io rispettar l’accidente, il convenzionale degli altri e non far valere e imporre ad essi anche il mio? Perchè, se trovo un nome, e non debbo foggiare un verbo? Perchè se il dialetto ha una parola che rappresenti meglio la mia idea ed io non debbo torla ad imprestito e darle il marchio di parola di lingua? Perchè sdegnerò di dar corso forzoso a vocaboli di lingue affini? Perchè d’un concetto astratto, d’un nome astratto non potrò farne un che di vivo e di moventesi? Forse perchè molt’altri, perchè tutti non ne sentono il bisogno? Lo sento io, e lo soddisfo: m’importa un corno degli altri.
E infatti fa così. Ma in quell’arruffio, in quell’imperversare di parole indiavolate e di imagini enormi, c’è una meticolosità straordinaria, uno scrupolo sconfinato. Tutti quei suoi aggettivi sono accuratamente calcolati; calcolate le sue parole di nuova foggia. Le imagini, la giacitura dei periodi, le ellissi, tutto v’è posato ed ordinato in vista d’uno scopo artistico, per un’intenzione di rapporti di linee, di gamma di colori, di accordi armonici e stavo per aggiungere sinfonici. C’è insomma la stessa esattezza, la stessa meticolosità, la stessa forza di riflessione e di volontà dalle quali è regolata la sua vita.
Il Dossi è l’uomo più straordinariamente ordinato del mondo. Sopra il suo scrittoio, che non sembra quello d’un artista, nè una penna, nè un taglia carte, nè un fogliolino fuor di posto: neppur la più piccola macchiolina d’inchiostro. Egli scrive con uguale accuratezza una pagina d’un racconto e una lettera al sarto o al calzolaio. Anzi non scrive nemmeno un semplice biglietto senza farne prima una bozza e senza averla corretta, dopo letta e riletta. Le sue lettere familiari riboccano delle stesse preziosità ch’egli versa a piene mani nei periodi delle sue opere. Se preziosità non pare esatto, dirò bizzarrie.
Aggiungete che è timido ed impacciato nella conversazione, massime con gente che vede la prima volta: aggiungete che per tant’anni, la sua opera d’arte fu una continua conversazione con sè stesso, una vera cristallizzazione di sentimenti e di pensieri che gli erano cari, destinata soprattutto alla propria soddisfazione e poi alla confidenza di pochi amici (le sue costose edizioni a cento esemplari non significavano altro) e capirete subito che doveva importargli ben poco se un’immagine o una parola non potevano valere per gli altri quello che valevano per lui. È la colpa d’origine della sua opera d’arte, ora diventata natura. Probabilmente il Dossi più non cercherà di moderarsi o di correggersi: temerà di perder qualcosa della sua fiera individualità e ostinerassi a rimanere qual’è. Ha torto? Chi lo sa?… Potrebbe anche darsi che no.
La prima impressione dei suoi lavori è questa: non si capisce nettamente se l’autore scriva a quel modo per canzonare il lettore. L’Altrieri mi parve scritto in arabo: La Colonia felice una traduzione appena abbozzata da una lingua barbarica. Sembrava che il traduttore non trovando lì per lì, sulla punta della sua penna, la parola più adatta a rendere il testo, avesse messo come un appunto o la parola del testo italianizzata, o la parola italiana violentemente contorta a un significato tutto diverso dal proprio. Si passa di sbalordimento in isbalordimento. La frase ora si snoda come un serpente, ora guizza, ora scoppietta, ora si distende lunga, interminabile, cheta. L’immagine abbaglia coi suoi mille colori, colla sua varietà formicolante, immensamente grande, straordinariamente minuscola, sproporzionata quasi sempre. Fa pensare ad un occhio che continuamente patisca una diversità di altonismo per la quale non vegga più i colori nel loro stato naturale, e che da una singolar conformazione della pupilla sia forzato a veder le cose ora come se le guardasse con un cannocchiale rovesciato, ora come se le guardasse colle lenti d’un mirabile microscopio. Par di sentire un accento vigoroso, pieno di sdegni, irrompente, brusco, rauco e, da un momento all’altro, soave, commosso, quasi femminile, dolcissimo.
Si riman male; ma si è colpiti. L’impressione è così complicata che vien la voglia di distrigarla. Allora, se la tentazione di rileggere ci vince, l’impressione comincia a modificarsi. Si prova lo stesso effetto che innanzi un quadro del Cremona. Iniziati nel segreto di quella maniera, l’arte ci apparisce subito, come una bella visione. Però bisogna essere curiosi, critici d’istinto, artisti di nascita e d’educazione, pei quali il processo, la fattura è molto, è tutto; gente infine che guarda in un’opera d’arte ciò che il grosso pubblico non ha l’obbligo di guardare, e che, a seconda dei gusti, perdona, in grazia di certe difficoltà superate, le difficoltà ch’era giusto e desiderabile fossero superate ugualmente. Non è raro che un’opera d’arte faccia andare in visibilio gli artisti e lasci freddo il pubblico e gl’ispiri perfino repugnanza.
Il pubblico non ha torto, tutt’altro! Ma anche gli artisti hanno ragione.
I libri del Dossi sono di questo genere. Non posseggono nessuna delle qualità per riuscire gradite al maggior numero dei lettori: ne hanno molte da urtare, da irritare il gusto corretto, severo, meticoloso di coloro che amano nell’opera d’arte l’equilibrio, l’armonia, la perfetta corrispondenza del concetto e della forma in guisa che non si possa far distinzione tra forma e concetto. Rimarranno una curiosità artistica, ma una curiosità di gran valore.
Ed io, dal canto mio, non nascondo la mia simpatia pel Dossi, quantunque non sia disposto ad imitarlo, quantunque non consigli ad altri di seguirne l’esempio.
Bado ad una sola cosa: all’efficacia delle impressioni che mi produce. Insomma lo prendo com’è e confesso che mi turba, che mi commove; confesso che, appena vinta la prima ripugnanza, lo accompagno ora con diletto, ora con ammirazione, indifferente mai; e che lo rileggo, malgrado la sua stranezza. È giusto osservare che sul conto della stranezza i suoi detrattori hanno molto esagerato; così, pel merito artistico, i suoi ammiratori col levarlo troppo alle stelle.
Il Dossi, per ora, è un artista incompleto. Le sue figure ordinariamente non si vedono fuori del suo cervello, ma dentro d’esso, in una mezza personalità che li rende grotteschi, come avvolti nel fumo della sua fantasia in ebollizione. Ma quanta potenza in quel grottesco! Le sue imagini se fanno sorridere, fanno anche pensare: sono stravaganti, ma non vuote; ed è molto. Di tante più regolari, più compassate, più linde, più armoniose, non si può affermar sempre che abbiano dentro qualche cosa.
Ecco una pagina delle Gocce d’inchiostro. La trascrivo per intiero, colla sua bizzarra ortografia irta di accenti. È uno specimen che basta a dare un’idea netta della maniera del Dossi a chi non ha letto nulla di lui.
Le caramelle
« — Monsù, doi soldi d’caramel — disse un fanciullo, entrando frettolosamente con due bambine che gli trottavan di pari. E, tutti e tre postàronsi al banco.
«Il caffettiere, lasciato il giornale, si alzò.
«Io adocchiai i piccini. L’omo era in blusa celeste e in berrettino da soldatello. A parte quel po’ di aria baciocca che i maschi hanno in sugli otto, trapelava nel musino di lui, la coscienza della sua doppia importante funzione di compratore, custode di una rispettabile somma. La quale somma egli chiudeva in pugno. E tenevala stretta ve’!
«Ma e la bimba alla sinistra di lui? Qual fino e sentimentale visuccio!… visuccio promettente di quelle smortone impastate di chiaro di luna, che dove lascian lo sguardo, guai!
«La puttina invece alla diritta, era un brioso raggio di sole. Non toccava i cinque anni. Tomboletta, latte-e-vino, con una vestuccia corta inamidata, reggevasi in sulla punta delle scarpette; attaccando le palme all’orlo del banco, poggiava tramezzo a quelle, il mento.
«E i sei occhietti — due neri, due grigi e due castagnini — si attrupparono intorno alla mano del caffettiere. Questa, mise un piccolo peso su ’n guscio della bilancia; gli occhietti ve la accompagnarono: la si diresse a dipalcare un baràttolo; gli occhietti le tennero dietro: tach tach… il caffettiere lasciò cadere sul piatto le caramelle… tre, quattro, cinque… ad ogni tach, i fanciulli si sogguardavano e sorridevano.
«Ma per due soldi i sorrisi non potevano esser molti.
«Mi venne un’idea.
«Avvertito con una tossetta il monsù e mèssomi a traverso la bocca l’indice, mi diedi, dietro i bimbi, a far segni: cioè ad accennare il baràttolo, indi, a rovesciare la mano verso la coppa della bilancia.
«Bah! Il caffettiere era proprio grosso di scorza. Salvo il cenno del zitto, non mi comprese per niente. Anzi; egli ebbe il coraggio — sottolineo coraggio — di ripigliarsi una caramella avvantaggina e riporla. Tre guardi mortificati la seguitarono e tre sospiri.
«Così, fu il cartoccio aggruppato, e consegnato all’ometto.
«Questi mollò allora il due-soldi. Stettero tutti e tre, un momento, a vederlo sparire nel fesso del banco; poi, con un balzo di gioia, scapparono via.
« — Chiel che voleva? — mi domandò il caffettiere.
« — Volevo, che loro votaste il baràttolo — risposi stizzito — Pagavo io.
«Ei si rimase un po’ grullo.
«Contagg! — disse — bisognava parlare.
«Fosse egli stato una donna!»
Non faccio annotazioni, lascio libero il lettore. Aggiungerò solamente: vi sono dei piaceri, delle soddisfazioni, dei godimenti intellettuali di second’ordine provenienti dal guardare e dallo studiare in un’opera d’arte il processo di formazione, che si scorge meglio quando, rimasto un po’ incagliato e un po’ incompleto, non arriva a nascondersi sotto il rigoglio della piena funzione vitale. Ma sono piaceri, soddisfazioni e godimenti che non interesseranno mai il pubblico quanto le persone del mestiere. Per queste, il processo, la fattura, la parte tecnica hanno spesso un interesse superiore di molto a quell’impressione generale e completa preferita dalle altre. Gli scritti del Dossi, vere opere d’arte, malgrado i loro difetti e, forse, un po’ a cagione dei loro difetti, mi sembrano i più adatti per istudii di questa natura.
Dissi, cominciando, che per ora egli è un grottesco. Quel per ora esprimeva un desiderio, ma non significava una speranza. E siccome fra l’entusiasmo dei suoi ammiratori ad ogni costo e l’irragionevolezza dei suoi detrattori a tutt’oltranza c’era il posto d’un semplice e spassionato osservatore, così ho tentato d’occuparlo io.