Quando non aveva con chi prendersela, donna Mita se la prendeva con suo marito buon’anima, che se n’era andato in Paradiso, lasciando lei e le figliuole in un mare di guai. Non aveva mai fatto niente di bene in questo mondo, e non ne faceva neppure nell’altro, pover’uomo!
— Che gli costerebbe dire a Domeneddio — lo ha tutti i giorni, come suol dirsi, tra piedi: — Signore, rivelatemi tre numeri, tre soli, di quelli che usciranno sabato prossimo al lotto, perchè io vada a indicarli in sogno a mia moglie? Non vedete come stenta con tutti quei debiti e con le liti che le ho lasciato su le braccia? — Uh! non si rammenta neppure nè di me, nè delle tre orfanelle che già spighiscono in casa gialle e magre, e non trovano un cane che le voglia. Forse che lui in Paradiso ha più bisogno di mangiare, di vestirsi, di pensare ai debiti, alle liti, alla moglie, alle figliuole? Pensò in fine di vita, alle sante messe, al rosario: — Mita mia, figliuole mie, pregate per me, io pregherò per voi lassù!
E da tre anni ch’era lassù, non le era venuto in sogno nemmeno una volta, tanto da mostrare che si ricordasse di loro!
Perciò donna Mita, la sera, recitando il rosario con le figliuole, da un pezzo non diceva più un’avemmaria per l’anima del marito. Invece diceva paternostri e avemmarie per l’avvocato, pel procuratore legale e pei giudici, affinchè il Signore schiarisse loro la mente, e difendessero bene i diritti delle orfane e facessero giustizia nelle tre liti che non finivano mai con quell’animaccia storta di don Basilio Cuti.
Ora toccava a lei agire da uomo: sollecitare gli avvocati, dare schiarimenti al Tribunale, alla Corte, buttarsi ai piedi di questo e di quello per una buona raccomandazione, e sventare gli intrighi dell’avversario che ne inventava sempre uno più infernale dell’altro e non dava requie, e voleva ridurle all’elemosina, quasi non fossero state parenti e non si chiamassero Cuti anche loro!
In poco tempo era invecchiata di dieci anni col pensiero fisso di quelle liti. Già aveva tutto il codice a memoria meglio degli avvocati e del procuratore legale, quantunque sapesse appena leggere e scarabocchiare la propria firma. Ah, il Signore chi sa dove aveva il capo nel momento che stava impastando lei e suo marito! Avrebbe dovuto dare i calzoni a lei e la gonna a lui, e allora le cose di famiglia sarebbero andate altrimenti!
Ma non si perdeva d’animo. E quando qualcuno le diceva:
— Fate una transazione; sarà meglio! — lei agitava violentemente le mani e la testa, socchiudendo gli occhi, strizzando le labbra, per significare: — No! No! — Non voleva lasciar spogliare le tre povere orfane. Finchè lei aveva fiato, avrebbe dato filo da torcere a quel brigante di don Basilio. E l’avrebbe spuntata, n’era sicura, sicurissima! E il giorno in cui avrebbe vinto le liti, avrebbe fatto dire una solenne messa cantata al patriarca San Giuseppe, con cento torce nuove all’altare e gran scampanìo e mortaretti e banda musicale, dall’alba alla sera, per far crepare di rabbia don Basilio e tutti coloro che le volevano male.
E poi, nozze, subito subito; perchè le figliuole allora avrebbero una grossa dote, duemila e più onze ognuna, e i mariti piomberebbero da tutte le parti. Quando c’è il miele le mosche accorrono a torme. E così lei farebbe la gran vendetta! La gran vendetta era quella di maritare le figliuole fuori del paese, a Caltagirone a Vizzini, a Militello, in capo al mondo, ma non in quel suo paesaccio di tangheri, che ora non le degnavano d’uno sguardo perchè, se non vincevano le liti, sarebbero rimaste con la sola camicia indosso.
— E le virtù domestiche non contavano niente dunque?
Parlandone con gli altri, donna Mita non rifiniva di esaltare le virtù domestiche di quelle tre ragazze, di quelle angiole, come aggiungeva sempre; ma in famiglia era un’altra cosa. Le sgridava tutta la santa giornata, ogni volta che gli affari non la sballottavano di qua e di là, dall’avvocato, dal notaio, dal sindaco, dall’Agente delle tasse, o a Caltagirone, in Tribunale, o a Catania, in Corte di appello o dagli avvocati o dal procuratore di colà, gente che se la mangiava viva e se ne stava con le mani in mano, secondo lei, nè avrebbe fatto fare un passo alle liti senza il pungiglione di lei.
Quelle tre grulle frattanto pensavano forse un momento ai casi loro? Attendevano la manna del cielo, come gli ebrei.
E se la manna non veniva? E se le liti, Dio ne scampi, si perdevano?
Meno male Rosa, la mezzana, che si era fatta monaca di casa! S’era data a Dio, e del mondo non voleva saperne. Le monache del Monastero Vecchio le davano da cucire, da ricamare, e l’abbadessa le diceva spesso: Se accadrà una disgrazia, ti prenderò con me!
Ma quelle altre due? Rita, la maggiore, per esempio, o non s’era messa in testa di sposare un massaio? Una Cuti, una figlia di don Paolo Cuti, che, se era stato uno sciocco e si era fatto mettere in mezzo da quell’arpia di don Basilio, era stato però un galantuomo, agrimensore e anche consigliere comunale! Sì, sì; quel massaio era ricco: fondi, muli, carrette, e ogni ben di Dio. Che è per questo? E quando avrebbero vinto le liti, le due mila e più onze della dote avrebbe dovuto godersele quel villanaccio? Giacchè costui non la sposava pei begli occhi di lei, ma in vista della dote futura. E colei osava dire: Intanto muoio di fame!
Non moriva di fame anche lei, ch’era stata avvezzata a vivere da signora in casa sua? Non si rassegnava anche lei a portare addosso quegli stracci stinti, lei che aveva avuto vesti di lana e di seta, e le dita piene di anelli, e le mani sempre pulite, giacchè in casa sua ci erano due serve, e un servitore?
— E perchè poi un massaio? Non esistevano altri uomini al mondo?
— Debbo andar a cercarli io? — rispondeva Rita, con le labbra spumanti tossico.
— Se tu sapessi fare!
— Ora farò la civetta, starò alla finestra tutto il giorno, a uccellare!
E donna Mita, travolta dallo sdegno contro il massaio che insidiava la futura dote della figliuola, si lasciava scappare di bocca:
— Le civette, prima o poi, se lo beccano sempre un tocco di marito.
Rosa era bruttina, aveva già trentadue anni; donna Mita, in cor suo, la compativa. Ma quell’altra sciocchina di Quarinta, chè non voleva dar retta al figlio del notaio Carcò? Povero ragazzo, stava per ore e ore alla finestra di cucina, suonando il flauto; e lei, non c’era caso che si affacciasse o che gli dèsse un’occhiata se si trovava al balcone; come se quell’Oh Dio, morir sì giovane! che il flauto piangeva dieci volte il giorno non fosse stato diretto a lei! Quello là, almeno, era figlio di notaio. E la grulla non voleva saperne! Chi mai si figurava che dovesse sposarla? Un barone? Un principe?… Vittorio Emanuele?
E per tenere in fresco quel povero giovane, che doveva essere proprio cotto di Quarinta se non si era scoraggiato dopo tanto tempo, donna Mita correva lei al balcone appena sentiva le prime note dell’eterno Oh Dio, morir sì giovane! e sorrideva al ragazzo e gli diceva:
— Suoni come un serafino, figliuolo mio! Quarinta, certe volte, ha le lagrime agli occhi!
Il ragazzo arrossiva, ringraziava e tornava a soffiare nel flauto, allungando le labbra, gonfiando le gote, col capo chinato da una parte, contento di sapere che la figlia di donna Mita si commovesse tanto al suono del flauto di lui, a quel pezzo della Traviata. E non cambiava pezzo mai.
Era un sacrificio per donna Mita far quasi all’amore per conto della figliuola; ma il destino voleva così, e bisognava adattarsi alle circostanze.
Ella si adattava a fare ben altro, quando venivano al pettine certi nodi per tirare innanzi le liti.
Una volta le posate d’argento, un’altra gli orecchini e gli anelli, poi gl’istrumenti da agrimensore del marito, poi la lana delle materassa, sostituita con crine vegetale o con paglia; tutto era andato via di casa, in mano degli usurai.
Chi sa se la bella argenteria vecchia ella l’avrebbe riveduta mai più?
E gli orecchini e gli anelli, chi sa se sarebbero tornati a splendere agli orecchi e alle dita di lei e delle figliuole?
Ora le toccava qualche volta andare da un’amica, da un conoscente, e raccontare tutti i suoi guai per intenerire quei cuori, senza far le viste di chiedere in elemosina vestiti smessi, legna o carbone, un fiasco di aceto od una bottigli d’olio, da rendere, s’intendeva, appena vinte le liti; per le quali mandava accidenti all’animaccia storta di don Basilio che la costringeva ad essere importuna.
E quando le liti gliene lasciavano il tempo, faceva visite, assisteva malati e partorienti, correndo dal medico, dalla levatrice, dando una mano alla serva in cucina, rassettando, ripulendo, facendo insomma in casa altrui quel che era inutile facesse in casa propria, dove non c’era più quasi nulla da ripulire e rassettare; manovrando finamente perchè all’ora del pranzo la invitassero a restare, o perchè dopo pranzo potesse portar via qualche cosa per le figliuole, che mangiavano soltanto qualche uovo delle galline di casa e un po’ di verdura condita con due goccie d’olio.
Appena la serva dava mano ad apparecchiare la tavola, e dalla sala da pranzo si udiva l’acciottolìo dei piatti e il rimescolìo delle posate, donna Mita si alzava da sedere, fingeva di cercare attorno, su per le seggiole, o sul letto — dove l’aveva mai riposto? — il suo scialle nero ritinto con la frangia a sbrendoli.
— Come? Andate via? Fate penitenza con noi.
— No, no! Sarà troppo incomodo. E poi le figlie m’aspettano per mettere giù la minestra nel brodo.
— Manderemo ad avvisarle.
Faceva un gesto di rassegnazione; non aggiungeva una sola sillaba, per timore che non la prendessero in parola.
— Allora darò una mano in cucina.
E la serva la vedeva apparire davanti ai fornelli, quasi la padrona fosse stata lei.
— Da’ qua! Hai messo il sale?
E assaggiava il brodo.
— Da’ qua!
E tagliava una fettina di carne, per vedere se l’arrosto era a punto.
E a tavola si vantava della bontà del brodo e dell’arrosto.
Aveva dovuto mettere il sale lei, e lei far cuocere bene l’arrosto.
— Non ne fanno una diritta queste serve! E dopo pranzato, scappava.
— Vado dal sindaco. Debbo andare dall’avvocato!
Oppure:
— Parto per Caltagirone, per Catania.
Faceva questi viaggi come se niente fosse stato. Andava ad appostarsi fuori le mura, lungo lo stradone, con un fagottino sotto braccio, e al primo carrettiere che passava di là, domandava:
— Dove vai?
— A Caltagirone.
— Portami; ti dò mezza lira, una lira.
Viaggiava così al sole, al vento e alla pioggia, come merce, sbalordendo il carrettiere col racconto delle peripezie delle liti.
— Potrei avere carrozze e cavalli, e intanto debbo andare in carretta!
A Caltagirone, a Catania, gli avvocati e i procuratori avevano quasi terrore di lei; non se la potevano levare d’addosso.
— Dunque, a che stato siamo? E le citazioni? E le comparse?
Voleva sapere tutto, discuteva tutto; dava suggerimenti, consigli, citava articoli del codice, con una parlantina che dava il capogiro, gesticolando, alzandosi dalla seggiola, rimettendosi a sedere, scompigliando le carte ch’ella riconosceva a occhio:
— La prima sentenza? È questa. Questa la citazione di appello.
E le tirava fuori dal voluminoso incartamento, senza sbagliare mai, mettendole sotto il naso del procuratore o dell’avvocato perchè riscontrassero un particolare, un punto interessante da non perdere di vista.
E così, col sole, con la pioggia e col vento, viaggiando come merce su questa o quella carretta, tornava a casa, intronando gli orecchi alle figlie di tutti i discorsi fatti col procuratore e con l’avvocato, ricominciando da capo con le vicine, dal terrazzino che dava su la via maestra, perchè andassero a riferire ogni cosa a quell’animaccia storta che teneva là le spie.
Le liti, a sentir lei, erano belle e vinte; ella aveva le sentenze in tasca. E se qualcuno le rispondeva: — Don Basilio dice che, all’ultimo, c’è la Cassazione — donna Mita diventava smorta smorta dalla collera:
— Perchè ha quattrini, lo stortaccio? Ma io litigo senza dolori di capo, e lui deve metter fuori più pezzi di dodici tarì, che non abbia capelli in testa.
Intendeva dire che lei aveva ottenuto il gratuito patrocinio e che non le importava niente di andare fino in Cassazione.
Quel gratuito patrocinio era stato un affaraccio. Il sindaco la menava per le lunghe; non voleva farle la fede di povertà. Povero sindaco! Don Basilio lo spauriva con la minaccia di abbandonarlo nelle prossime elezioni municipali; donna Mita lo minacciava di ricorrere al Sotto-prefetto, al Prefetto, al Ministro, a Vittorio Emanuele in persona. E temporeggiava: domani, domani l’altro. Ora mancava il segretario, ora la Giunta non s’era potuta riunire. E i giorni, le settimane, i mesi passavano, tra le imprecazioni di donna Mita che andava a sbraitare al Municipio, e i brontolii di don Basilio che andava a fargli ressa di tener duro, a casa, ad ora tarda, per non essere veduto.
Ma un giorno, donna Mita s’era buttata su la prima carretta che andava a Caltagirone, per ricorrere dal Sotto-prefetto. Per via le era capitata addosso una pioggia torrenziale che l’aveva inzuppata fino alle ossa. Il Sotto-prefetto, spaventato dalla vista di quella figura di strega che spandeva acqua dalle vesti e allagava il tappeto della stanza, e che strillava e imprecava contro il sindaco, rispose che avrebbe scritto a quel funzionario una lettera un po’ aspra. Donna Mita avrebbe voluto portarla lei, e già aveva cavato fuori il fazzoletto da involtarla per mettersela in seno, e già si sganciava il corpetto sotto gli occhi del regio funzionario che la guardava stupito.
Ed era ripartita con la pioggia, senza curarsi di prendere un malanno. Infatti fu ad un pelo di andarsene all’altro mondo; ma, mezza morta, a chi veniva a farle visita, ripeteva:
— Dite a don Basilio che debbo prima seppellire lui e vederlo all’inferno!
E cercava con lo sguardo le figliuole. Non vedeva Rita.
— Dov’è Rita?
— È malata anche lei.
Le risposero così finchè stette a letto. Ma quando si levò e volle vedere la figlia, non fu possibile nasconderle che Rita era in casa del massaio, e che mancava solo il consenso della madre perchè quei due si mettessero in grazia di Dio. Donna Mita allibì. Il suo consenso? Mai e poi mai! Già potevano farne a meno. Se quella disgraziata aveva disonorato la famiglia, lei, moglie di don Paolo Cuti, figlia del dottor Rinaldi, lei non si sarebbe prestata, mai, a legittimare quel disonore!
E s’ingolfò nelle liti, nel codice, nelle procedure, ora che le cause erano già mèsse a ruolo, come dicono i curiali, e bisognava scaldare i ferri e non lasciar dormire gli avvocati, e spalancare tanto d’occhi per sorvegliare le mosse di quel ladro di don Basilio, che il Signore gastigava, quasi per darle ragione: Debbo seppellire prima lui!
Ma no, non voleva rallegrarsi perchè lo sapeva in pericolo di vita. No, lei non desiderava la morte di nessuno.
— Se il Signore lo leva da questo mondo, sia fatta la sua santa volontà! Lo perdoni ed anche se lo porti in paradiso; io non voglio entrarvi per niente.
Le pareva che se si fosse rallegrata della disgrazia del suo avversario, Domineddio avrebbe dovuto punirla. Non desiderare agli altri il male che non vuoi fatto a te stesso. Non si è cristiani battezzati per niente. Se il Signore però voleva levarlo via da questo mondo, poteva lei forse dirgli: Signore, lasciatelo stare qui? Doveva lei dar consigli a Chi sa benissimo quel che fa e che è il padrone della vita e della morte?
Questi buoni sentimenti intanto non le impedirono di sentirsi un po’ seccata e di mordersi leggermente le labbra il giorno che si vide davanti, in Tribunale e poi in Corte di Appello, don Basilio grasso e roseo, quasi non fosse mai stato malato, che portava sottobraccio un fascio di carte, accompagnato da tre avvocati, tanto doveva essere convinto anche lui che uno solo non sarebbe bastato a dare apparenza di ragione alle sue storte pretese!
— E la sentenza? — ella domandò all’avvocato, dopo la discussione.
— Fra otto, dieci giorni. Potete andarvene. Vi spedirò un telegramma.
Il telegramma invece arrivò quella stessa sera dal paese:
«Quarinta sta molto male, con una polmonite! Venite subito».
— Ah! queste benedette figlie! — esclamò donna Mita, torcendosi le mani, quasi la povera Quarinta si fosse ammalata a posta per farle un dispetto in quel punto.
Fu un gran colpo! Le parve che la casa si fosse vuotata, che con Quarinta le fosse venuta meno l’aria, la luce, tutto! E non poteva guardare nè sentire Rosa che la esortava a rassegnarsi alla volontà di Dio! In quei primi giorni di dolore si sentiva diventata turca, com’ella diceva: Non c’erano più per lei nè Madonna, nè santi. Aveva pregato, aveva fatto dire tre messe, aveva promesso una collana d’oro alla Madonna degli Ammalati, un paio di orecchini a Santa Agrippina!… Niente! La Madonna era rimasta sorda; Sant’Agrippina più sorda ancora!
Rosa si turava gli orecchi udendola parlare a quel modo e scappava per chiudersi nella sua cameretta.
Ma c’era da occuparsi degli affari: notificare a quello scellerato di don Basilio la sentenza, spogliarlo, come si meritava, di tutto il mal tolto; donna Mita così si rabboniva, riprendeva la sua attività. E parlando con Rosa si dichiarava più rassegnata alla volontà di Dio; doveva però rassegnarvisi anche lei. Rosa non la intendeva a quel modo, e glielo fece capire col silenzio.
Povera donna Mita! Che le importava ora di aver vinto le liti e d’essersi messa in possesso del palazzo Cuti, delle terre, dei giardini di aranci? Per chi aveva lavorato, stentato? Per la scellerata, disonore della famiglia e pel villano di suo marito, poichè quella stupida di Rosa si ostinava a rimanere monaca di casa e non pensava più al mondo?
— Non voleva saperne delle persone di questa terra! Si era sposata con Gesù!
Dove? Quando? Chi era stato il sindaco che li aveva sposati, chi era stato il parroco che li aveva benedetti? Se il Signore si era presa Quarinta — la migliore, la più buona delle figlie! — voleva dire che destinava tutto per lei, Rosa: palazzo, terre, giardini! Era dunque d’accordo con la scellerata, e col villano, per riempire la pancia a loro con tutte le sostanze dei Cuti? Era dunque d’accordo?
Rosa, che aveva preso il nome di suor Veronica, non rispondeva niente; e usciva di casa per la messa o pel vespro, e andava a raccomandarla al Signore, o a raccontare tutto al confessore e a pregarlo di parlare lui con la madre perchè la lasciasse tranquilla.
Donna Mita lo interruppe prima che finisse di spiegarle il motivo della sua visita:
— Di che vi mescolate, signor canonico? Vorreste forse papparvi voi le duemila onze? Già, finchè campo, l’usufrutto è mio; e non sono disposta a morir presto. E poi bisogna levar via la mia dote e quel che mi spetta per successione, articolo 753… E disporrò della roba mia come mi pare e piace; la darò ai poveri, al diavolo anche, ma non alla scellerata!
Urlava, gesticolava come un’ossessa, sciatta e mal vestita, quasi se non avesse vinto le liti. Il povero canonico era andato via balbettando scuse.
Scena peggiore accadde la mattina che il notaio Crisanti, notaio di famiglia, venne a farle l’imbasciata che Rita e suo marito volevano venire a baciarle la mano e chiederle perdono del mal fatto:
— Ormai, cara donna Mita!
— Oramai un corno!
— Anche perchè voi avete bisogno di un braccio pratico delle cose di campagna!
No, non aveva bisogno di nessuno! Dopo aver fatto dieci anni la litigante, ora si metteva a fare la massaia meglio dell’assassino che le aveva rubato la figlia! Non gli dava altro nome a massaio Cudduzzu.
Infatti, ella andava in campagna a sorvegliare i contadini, nel tempo delle messi, con un cappellaccio di paglia, tra i seminati, dietro i mietitori; durante la trebbia, per l’aia notte e giorno, come un campaio, perchè quei ladri dei contadini non le rubassero il grano; in novembre, sotto gli ulivi, tra le donne che raccoglievano le ulive bacchiate, risparmiando una coglitrice, facendo per due; o nel frantoio, quando cavavano l’olio. Oggi qua, domani là, a cavallo della mula morella, piombando addosso ai contadini quando meno se l’aspettavano, facendo miglia e miglia sotto la sferza del sole, per valli e pianure, come una tregghia che va scavizzolando tirata dai buoi; e per ciò i contadini le avevano appiccicato il nomignolo di donna Stràula, che significava la stessa cosa e le stava a cappello.
Ma una sera, tornando dal giardino di aranci, dove aveva intascato cinquecento lire dagli aranciai messinesi venuti a incassare la produzione, aveva trovato in casa Rita e Cudduzzu che le si buttarono ai piedi.
Si sentì vinta, tutt’a un tratto. Era la volontà di Dio! Brontolò, però, ripetè cento volte che la padrona assoluta era lei, e citò solennemente l’articolo 753 del codice civile.
Una settimana dopo, massaio Cudduzzu cavalcava allato di lei, per accompagnarla in campagna come un garzone, rispondendo sempre dimessamente: Eccellenza, sì; Eccellenza, no! Era il meno che potesse fare, dopo di essersi imparentato per violenza, per tranello, con la nobilissima famiglia Cuti.
Donna Mita, lo trattava d’alto in basso, per fargli intendere che non era diventato con questo un galantuomo, e che c’era una bella distanza fra lei e lui, quantunque suo genero. Gli teneva broncio specialmente perchè, dopo tre anni, non era riuscito ad avere un figliuolo. Non sarebbe stato un Cuti — ahimè, pur troppo, no! — ma un po’ del sangue dei Cuti, insomma, la avrebbe avuto nelle vene, giacchè il Signore aveva voluto così!
— Che fate dunque, se non fate un figliuolo? — gli diceva spesso.
E massaio Cudduzzu una volta le rispose:
— Ah, voscenza, se sapesse con che buona volontà…!
Donna Mita gli avea rotto la frase tra le labbra:
— Non dite porcherie, villano che siete!
E siccome un giorno, lagnandosi con suor Veronica di quel figliuolo di Cudduzzu che non veniva al mondo, e tornando ad assalirla perchè si decidesse finalmente a prender marito lei, che era ancora in tempo, suor Veronica le aveva detto: — Gesù Cristo vuole così; sia fatta la sua santa volontà! — Donna Mita perdette la pazienza:
— Gesù Cristo! Gesù Cristo! Qualche volta nemmeno lui sa quel che fa!… M’è scappata!