Nana è riuscita quella che doveva essere, una prostituta di razza. Il romanzo ha tutte le nudità, tutte le impudenze del suo soggetto; ma lo Zola può ripetere anche questa volta: la mia opera è casta. Dicono che, il giorno in cui il Voltaire ne pubblicò le ultime pagine, a Parigi si parlasse della morte della Nana come d’un avvenimento reale. Non me ne stupisco. Questo dimostra, a dispetto di tutte le ipocrite malevolenze della critica, che la Nana vive e che lo stato civile dell’arte ha già registrato nel suo libro un’immortale creatura di più. Nana oramai non è più il nome di una persona, ma quello d’una classe.
È la prima volta che la prostituta comparisce in un’opera d’arte nella completa schiettezza del suo stato. La stessa Fille Èlisa del De Goncourt conserva le tracce d’un’idealizzazione inopportuna. E poi, più che un quadro, è un piccolo bozzetto, limitato alla bassa sfera della corruzione parigina. Per iscorgere il valore reale del nuovo libro dello Zola bisogna confrontarlo con gli altri ove è stato tentato, in questi ultimi anni, lo studio della medesima piaga sociale; per esempio, con la pretenziosa Madame Frusquin.
Madame Frusquin ha precesso la Nana di un solo anno. I suoi autori, Texier e La Senne, cercavano gabellarcela come un romanzo esatto, visto. «Nè tesi, nè difesa, essi dicevano; rischiarare qualche punto oscuro della vita moderna, far la luce sopra una parte dell’orizzonte attuale: il romanzo che noi offriamo al pubblico non ha altre pretese.» Madame Frusquin fece un po’ di rumore. Parve un’anticipazione, una prelevazione sulla materia intorno alla quale si sapeva lavorasse lo Zola. Oggi noi possiamo constatare che le esigenze del tema hanno condotto lo Zola a trovarsi più volte sullo stesso terreno dove i suoi predecessori si erano affrettati a mettere il piede, ed è lì, nei particolari non meno che nell’insieme del quadro, che salta agli occhi il pregio del nuovo episodio dei Rougon-Maquart.
Chi è Madame Frusquin? Molti dei miei lettori probabilmente non lo sanno. È la figliuola di un operaio conciapelle, nata e vissuta nella miseria fino ai diciotto anni, sostentando la sua vita d’orfanella in casa di una zia, col lavorar di cucito. Entrata in un negozio di trine, cade nel tranello d’un capo commesso che, condottala con sè in una trattoria del bosco di Raqueux, la ubbriaca e la viola. Questo affronto rivolta tutto il suo orgoglio di donna. Pochi giorni dopo la violenza patita, un povero diavolo, direttore di orchestra d’uno dei piccoli teatri parigini, le offerisce la mano di sposo, quantunque ne abbia indovinata la disgrazia.
« — Io ti amerò tanto…..
«Nina l’arrestò con un gesto brusco.
« — Amare? che significa? Grazie a Dio ne sono guarita! Una bella porcheria l’amore! Non c’è più nulla qui!
«E si picchiava sul petto, al posto del cuore, col pugno chiuso che risuonava stranamente.»
Ma il musicista insisteva.
«Quell’uomo ai suoi piedi, annichilito, infranto da lei, le suscitava delle vaghe e terribili idee di vendetta: le sembrava che le restasse ancora una sensazione da provare, una parte da rappresentare: morta per l’amore, lei vivrebbe ancora per la gioia selvaggia di vendicarsi, di prender la rivincita delle sue illusioni perdute….. Non esitò più.»
Si sposarono. Ma la prima sera delle nozze volle dormir sola. Non glielo aveva detto che provava orrore degli uomini? Che ne aveva conosciuto uno solo ed era stato anche troppo per lei? Gli aveva forse mentito? Il suo cuore era ancora ammalato di nausea. Se la nausea fosse passata, lo avrebbe avvertito. — Questa vita d’amicizia coniugale durò a lungo: il marito, Isidoro Frusquin fu paziente com’un innamorato. Intanto Nina sentiva ribollire e gorgogliare nel suo cuore tutti i larghi appetiti della ricchezza e del lusso. Il suo spirito arzigogolava con un attività adultera, nel silenzio della sua cameretta, mentre le mani continuavano macchinalmente un lavoro d’ago. Aveva preso ad accompagnare il marito alle prove e alle rappresentazioni, per non morire di noia in casa. Una sera un accidente occorso alla rappresentazione, diè il trabocco alla bilancia della vita di Nina. La donna che doveva rappresentare la parte di fata, al quinto atto, era giunta sul palco scenico così ubbriaca da non reggersi in piedi. Come riparare? Il direttore del Teatro si disperava. Nina, ch’era tra le quinte, s’offerse. All’alzarsi del sipario il marito fu sorpreso di vederla lì, in maglia rosata, colle gambe e colla vita nettamente disegnate, ben truccata, cogli occhi neri sottolineati da una sfumatura bleu e i capelli tutti disciolti. «Mai non l’aveva vista così nuda, così bella, così audace.» Prima che la rappresentazione finisse, Nina era sparita, portata via dalla carrozza d’uno degli spettatori del proscenio, un rappresentante del Tutto-Parigi di quella sera.
Entrò d’un colpo, vittoriosamente, nel turbinìo della vita galante. Nessuno sapeva nulla del suo passato, e questo accresceva il suo pregio e formava il suo successo. «Era una virtù, meno il pudore.»
«Lei traversava tutto quel fango senz’arrugar le ciglia sulla sua fronte di perla, senza un’ombra di rossore sulle guance. Nessun riflesso d’anima le veniva a fior di pelle.» Fu chiamata la Salamandra. I suoi amanti, che le profusero gioie, palazzi principescamente ammobigliati, vetture e cavalli, si succedettero rapidamente, come inghiottiti da un abisso. Quando la noia la prendeva, quando si sentiva tormentata da un’angoscia morbosa che la faceva soffrire fisicamente, dava delle grandi cene alle sue amiche e agli amici delle sue amiche. Il capitolo ottavo di Madame Frusquin, consagrato per intiero alla descrizione d’una d’esse, corrisponde precisamente al capitolo IV della Nana. Fermiamoci un poco.
Madama Frusquin è una vera eroina da romanzo, all’antica, nel senso più stretto della parola. Non dico che sia falsa: non c’è ipotesi così stravagante dell’imaginazione che non si trovi superata da qualcosa di più enorme nella realtà. Ma Nina è troppo eccezionale da servire all’intento dei suoi autori che ci han promesso di sollevare i veli di qualche punto oscuro della vita moderna. Ahime, anche le sue cene non differiscono dalle solite orgie che abbiamo letto tante volte in altri romanzi. Tutte quelle mantenute, tutte quelle ragazze galanti che s’affollano attorno alla sua tavola tra banchieri, principi russi, e figli di famiglia indebitati, hanno la solita fisonomia, il solito spirito, le solite procacità da ballerine in rappresentazione.
«Si era alle frutta. Un singolar disordine ingombrava la tavola: delle cataste di frutta eransi rovesciate trascinando giù il loro nido di muschio: altre frutta, sparse qua e là dalla punta capricciosa o distratta dei coltelli, formavano delle macchie rosse e verdi sul bianco lucido della tovaglia damascata. Le coppe di cristallo, i bicchieri grandi e piccoli si diradavano e s’addossavano con aggruppamenti bizzarri, con isolamenti improvvisi. Ma ciò che completava il disordine era il quadro stesso della tavola, la varietà delle attitudini, lo sporgere delle braccia all’orlo della tovaglia, le mani stracche, abbandonate o increspate, i pugni mezzo nascosti fra le trine, le carni rosee, scoperte fino alle spalle, umide e grasse. Qua e là il nero d’una manica d’uomo stinta e come impolverata dalla luce.»
Sentiamo ora lo Zola: il confronto è importante.
«Attorno la tavola, quei signori, in giubba e cravatta bianca, erano castigatissimi, coi loro visi pallidi, d’una castigatezza che la fatica affinava di più. Il vecchio aveva dei gesti lenti, un sorriso fine, come se avesse presieduto un congresso di diplomatici. Vandouvrès sembrava di essere in casa della contessa Muffat, tanto era squisitamente gentile colle sue vicine. La mattina dopo, Nana lo diceva alla sua zia: per gli uomini, non si poteva aver nulla di meglio, tutti nobili, tutti ricchi, infine della gente scicche. E quanto alle donne, esse si comportavano benissimo. Qualcuna, Bianca, Lea, Luisa, erano venute scollacciate: solo la Gaga ne mostrava forse un po’ troppo, e, alla sua età, avrebbe fatto meglio a non mostrarne punto. Trovato ognuno il suo posto, le risa e le piacevolezze venivano giù. Giorgio pensava ch’egli aveva assistito a dei pranzi più allegri, in casa di borghesi a Orléans. Si conversava appena. Gli uomini, che non si conoscevano punto, si guardavano in viso, le donne restavano tranquille, ed era lì, soprattutto, la grande sorpresa di Giorgio: gli sembravano delle collegiali. Lui invece avea creduto che tutti si sarebbero abbracciati senza tante cerimonie. «Più tardi, si sbadigliava con discrezione. Di tratto in tratto, le palpebri si serravano, i visi diventavan terrosi, era una morte addirittura; come sempre, a detta di Vandouvres.»
Alla cena di Madama Frusquin, nella sala del Grand-Seize al Caffè Inglese la conversazione è su questo tono: — E il tuo Valacco? — Si è rovinato; è andato a Gerusalemme, a rifar la sua fortuna. — A Gerusalemme? Perchè? — Per fotografare la Terra Santa. — Per scavare le miniere del Golgota. — Per farsi naturalizzare ebreo e guadagnare più presto dei quattrini. — E il tuo cassiere? — Si è fatto tenore: ora fila dei suoni. — Meglio che sfilar via colla cassa. — Silenzio, signori!
Presso Nana si parla di bambini, seriamente; di ragazze da maritare, più seriamente ancora; dello Shah di Persia e dei suoi diamanti: di Vittorio Emanuele che si vociferava non andasse più all’Esposizione, e del conte di Bismarck. Pareva d’essere precisamente alla conversazione di casa Muffat: si ripetevano le stesse frasi. Poi quando lo sciampagna aveva già lavorato e i discorsi diventavano un po’ lesti, ecco Nana levarsi da tavola imbroncita. — Brava! Era una lezione! Imparasse a invitar della sporca gente! — E ce ne vuole prima che ritorni nella sala dove gl’invitati prendono il caffè.
Questi pochi riscontri danno un’idea delle due intonazioni. Ed io ho voluto accennarle per mostrare qual confronto si potrebbe istituire non solamente colla Madama Frusquin, un romanzo di quarto ordine, ma con tutti gli altri romanzi dove l’alta prostituta è idealizzata, circondata d’un’aureola che spande una luce da ribalta sulla sua carne sparsa di polvere di cipro, colorita di minio e pitturata di nero orientale.
Ciò che distingue la Nana dagli altri romanzi, dirò meglio, dalla volgarità dei romanzi di simil genere, è che lo Zola non ha tentato d’introdurre l’affetto, la passione in un mondo dove regnano sovrani il senso, lo istinto, la corruzione, il putridume. Il lettore è avvertito dalle prime pagine. Quel che l’impresario delle Variétés, Bordenave, vuol che si dica del suo teatro, è applicabile al libro o meglio alla materia del libro. La così detta vita galante è qui spogliata da ogni orpello, esposta nella sua schifosa nudità, nella sua tremenda potenza. Giacchè le creature di senso, d’istinto, di corruzione come la Nana distruggano la gioventù più bella, attacchino e rodano i cuori più generosi, avvelenino e avviliscano i caratteri più nobili e più forti. Per essere intaccati basta indugiare alcun poco ad aspirare i sentori inebrianti che scaturiscon da quel lezzo: ed ecco fortune in rovina, famiglie in dissoluzione, virtù private e pubbliche infradiciare e cascare a pezzi da ogni parte. E tutto questo senza compensi, senza godimenti proporzionati. Quelle donne non hanno che la lor carne, la trivialità trionfale, l’impudenza altiera della loro degradazione. La loro cultura è nulla, la loro grazia una posa imparaticcia che serve soltanto nelle rappresentazioni pel pubblico, il loro linguaggio una continua sconcezza da vetturali, e tutta la vita un tranello, una commedia, dove la malvagità incosciente della bestia domina sovrana e s’impone, senza tregua nè misura. Bisogna proprio ricorrere al fatto d’una degradazione suprema per ispiegarsi la malia irresistibile con cui esse impigliano e avvolgono nelle loro tele di ragno gente d’ogni età, d’ogni classe; e non occorre altro per trovar la ragione di disastri maggiori di quelli che turbano e distruggono la pace e la felicità delle famiglie e degli individui. Nè importa dire ch’esse non siano tutto; che dietro a loro viva la maggioranza della gente onesta, laboriosa, studiosa, capace delle azioni più generose, pronta, rassegnata, adusata ai più gravi sacrificii pel benessere della patria e della società. Il mondo, la vita appartengono agli audaci, ai violenti, come diceva Gesù. La sete, la vertigine dei subiti guadagni, dei godimenti materiali, delle soddisfazioni d’ogni sorta, dà, a chi n’è preso, un’attività, un coraggio, una sfrontatezza che le persone oneste e laboriose non avranno mai. L’influenza d’un’idea, d’una azione, d’una persona, non è in ragione del numero e della forza possibile, ma in ragione del suo movimento, della sua attività reale. È così che i pochi ed audaci s’impongono e sopraffanno i molti timidi o inoperosi; è così che una famiglia, una società, una nazione veggonsi spinte e trascinate lì dove non parrebbe nè giusto, nè logico che potessero mai pervenire. È la morale della Nana.
L’orgia schiamazza trionfante per tutto il libro. Leggendo, è impossibile non richiamarsi alla memoria le altre pitture della Curèe e dell’Assommoir per completar la rappresentazione dell’immensa e cancrenosa piaga sociale nascosta sotto le fastose apparenze del lusso e dei godimenti sfrenati. Alla fine, mentre il cadavere della Nana, morta imputridita dal vaiuolo, scaccia col suo puzzo dalla stanza mortuaria le amiche venute curiosamente a vederla per l’ultima volta, ecco un urlo sollevarsi dalle vie: A Berlino! A Berlino!, un urlo che somiglia al vociare scomposto di gente ubbriaca della sua stessa felicità, un urlo che mette un fremito dentro le ossa e par un grido di sinistro augurio, un profetico annunzio di disastri…
La pittura, di un’evidenza straordinaria, riman casta, lo ripeto, nella sua nuda sconcezza, casta della castità dell’arte. Nana è proprio viva, anzi esuberante di vita; le sue sensazioni, i suoi sentimenti, le sue azioni hanno un così completo organismo, che rimpetto a lei scapitan di molto le altre figure del romanzo. In fondo non è cattiva, è pervertita; è un impasto di sincerità, di malizia, di istinti che si fan contrasto, di capricci, di follìe femminili dove sussiste sempre, come in passato, la solida natura borghese. Nana giuoca alla gran dama, giuoca alla cocotte.
Quando le prende il ticchio di voler essere proprio lei, allora rimonta subito a galla la figlia di Coupeau, la ragazza fiorista della via della Goutte d’Or, allegra e leggiera come un vispo uccellino. Il suo impudore è così franco, così spontaneo, il suo vizio è così sincero, così brutale che non solletica e non contagia. La Nana dell’arte è una figura casta, come tante altre nudità di Veneri, di Ninfe esposte all’ammirazione della gente nelle pubbliche gallerie.
Ci vuol proprio tutta la mala fede di certa critica per ostinarsi a non riconoscerlo. Ma, per la critica, bisogna convenirne, il torto è un po’ dello Zola.
Gli avversarii s’armano delle teoriche dello Zola critico per ferir con esse l’opera dello Zola romanziere. Le teoriche critiche dello Zola, in alcuni punti, sono molto discutibili. Quella denominazione di romanzo sperimentale, voluta dare al romanzo moderno è, forse, infelice. Nella sua teorica artistica, per esempio, c’è un gran predominio accordato al concetto scientifico quasi a discapito della forma artistica, della vera essenza dell’arte. Fortunatamente il critico e il romanziere non funzionano nello Zola contemporaneamente. Le sue creazioni risentono poco o nulla delle teoriche del critico; ne risentono quel tanto che nessun’opera d’arte moderna può evitare, a meno che non riuscisse a produrre il gran miracolo di nascere per virtù propria fuor del tempo e dello spazio; cosa impossibile affatto. Lo Zola critico ha scatenato contro di sè fatuità letterarie ed interessi mortalmente feriti. Il suo successo ha inasprito quegli astii che prima si nascondevano sotto la affettazione della noncuranza. Oggi, si può dire, siamo alla guerra col coltello. Cominciavano già a riconoscere ch’Emilio Zola fosse uno scrittore d’ingegno, un coloritore possente, cominciavano anche ad ammettere che forse era un romanziere di razza. Oggi non è soltanto il suo ingegno che vien discusso, ma perfino la sua grammatica. Se ne consoli facilmente. Quegli stessi che gli buttano tutto questo fango sul viso, ieri, a proposito di lui, parlando del Balzac, non dicevano che i romanzi di questo avrebber qualche merito se fossero stati scritti in una lingua un po’ più vicina al francese? Ripeto: è il critico che attira sassi alla colombaia dell’artista. Non sarà inutile un qualche giorno vedere in che modo l’artista sia contraddetto, nello stesso Zola, dal critico. Contraddetto? Non è forse la parola precisa.