Se prendessimo un trovatello?

La moglie aveva detto questo con le lagrime agli occhi. E il marito avea risposto rassegnatamente:

— Prendiamolo.

Così una mattina marito e moglie erano montati su un carretto che portava a Caltagirone un carico di quartare e di carrati, le solide terracotte che sono una specialità di Mineo, e si erano presentati alla Commissione dei trovatelli:

— Vogliamo un bambino spoppato; lo terremo meglio che se fosse nostro figlio.

In un gran stanzone con lettini e culle, la suora che li guidava mostrò due bambini addormentati:

— Questi ha un anno e due mesi; si chiama Angelo, ed è bello come il suo nome. Quest’altro, ventidue mesi; si chiama Nino.

— Come te — disse la donna al marito. —  Prendiamo questo; sia fatta la volontà di Dio!

Il bambino, svegliato nel meglio del sonno, si mise a piangere. La donna, baciandolo, accarezzandolo e facendolo baciare dal marito, riuscì quasi sùbito ad acchetarlo.

La poveretta che, dopo sei anni di matrimonio, aveva perduto ogni illusione di poter avere, un giorno o l’altro, figliuoli, teneva stretto stretto il bambino tra le braccia, mentre i signori della Commissione non finivano più di scrivere in quei loro libroni grossi quanto un messale: nome e cognome del marito; nome e cognome di lei… Fortunatamente le loro carte, fatte dal sindaco, erano in regola; e verso mezzogiorno, marito e moglie, raggianti di gioia, scendevano le scale di quel vecchio palazzo che sembrava una prigione, con quelle povere creaturine abbandonate là in mano di balie mercenarie, e di suore che non potevano intendere niente della maternità, poichè vi avevano volontariamente rinunciato.

— Figlio mio, sono la tua mamma! E questo è tuo padre! — diceva la donna al bambino che li guardava sbalordito, quasi diffidente di quei visi nuovi.

Ed erano stati davvero padre e mamma per lui.

La loro casetta silenziosa ora risuonava allegramente di grida e di strilli infantili.

La povera donna, che non aveva mai sentito il sussulto delle viscere per una creatura sangue suo, sembrava pazza di gioia alla vista di quel bambino di origine ignota, fino di lineamenti, biondo di capelli, con occhioni così azzurri da parere quasi neri, gracilino ma ben fatto; e, in certi momenti, ella credeva le fosse piovuto dal cielo per speciale grazia di Dio, in ricompensa delle tante preghiere da lei fatte, delle tante elemosine date ai poveri perchè glielo impetrassero con le preghiere loro, forse più efficaci delle sue. Ispirazione della Madonna, s’ella aveva detto al marito:

— Prendiamo un trovatello!

***

Le sere di estate, appena l’omo tornava dalla campagna, marito e moglie si sedevano davanti l’uscio, col bambino su le ginocchia, orgogliosi di lui, così delicato e così bello, assai più che se fosse stato davvero figlio loro.

— È un angelo, zi’ Cola!

Il vecchio zi’ Cola, dall’uscio di rimpetto, crollava il capo, accigliato e musone.

— Non è vero, forse? — insisteva la donna.

E allora lo zi’ Cola rispondeva sentenziosamente:

— Tutti i figli di male femmine sono fortunati!

— Perchè di mala femmina questo qui? Che ne sapete?

— Altrimenti non sarebbe voluto bene così! Se volevate fare una santa carità, dovevate prendere uno dei bambini di comare Stella, che non sa come sfamarli. Ai muli deve pensare il re.

— Ma che muli! Sono creature di Dio, disgraziate, abbandonate.

— Ai muli deve pensare il re!

Lo zi’ Cola appoggiava il mento su le mani sovrapposte al suo bastone di ciliegio e socchiudeva gli occhi, aggrottando le sopraciglia. Pensava all’antica: per lui i trovatelli erano muli; e a loro doveva provvedere soltanto il re, che voleva dire: il governo.

Ma Rosa, in risposta, baciava forte il bambino, dicendo:

— Questo è barone, principe, re di casa mia!

E suo marito, grave, con le mani su le ginocchia, guardava lei e il bambino e non diceva niente.

Le vicine, invidiose e maligne, vedendo quel trovatello vestito come un signorino, lo chiamavano, per dispetto: il mulo di Rosa. E Rosa, se le udiva, lasciando d’impastare il pane, si affacciava su l’uscio con le braccia nude intrise di pasta, e cominciava a sbraitare:

— Femminacce senza educazione e senza cuore! Muli saranno i figliacci vostri, se non avete carità per una povera creatura che non vi fa nessun male!

— Con chi parli, pettegola?

— Parlo con tutte! Romperò il muso a qualcuna!

E quando il ragazzo, già cresciuto, nel fare il chiasso con gli altri suoi pari, si bisticciava e si azzuffava con essi, e tutti gli gridavano:–Mulo! Mulo! — ed egli si metteva a piangere perchè lo chiamavano come la sua mamma non voleva. Rosa diventava una furia, e correva addosso ai ragazzacci dando spintoni e scapaccioni.

— Se non ne storpio uno, non sarò più Rosa Zoccu!

 

Suo marito, arrivando dalla campagna la trovava in lagrime per questo.

— Lasciali dire! — la confortava. — Gli tolgono forse il pane di bocca? Il pane lo avrà meglio assai dei figli loro. È tutta invidia! Lasciale dire. Ora lo manderemo a scuola.

***

Rosa diventava rossa dalla contentezza quando vedeva tornare dalla scuola il bambino, con la tasca d’incerata a tracolla; e stava a guardarlo sbalordita mentre quegli scarabocchiava i quaderni seduto al tavolinetto fatto fare a posta per lui.

Lo vedeva già cresciuto, bel giovane, serio… Avvocato? Dottore? Prete? Non sapeva decidersi intorno alla professione da dargli… Lei ne avrebbe fatto volentieri un prete, canonico, poi parroco….. Sarebbe andata ad ascoltare la messa di lui, le prediche di lui…! Ma suo marito diceva:

— Meglio dottore.

— Sarà quel che Dio vorrà! — conchiudeva lei.

E si divertiva a interrogare il ragazzo.

— Che cosa vuoi tu diventare? Avvocato? Dottore?

— Brigadiere, mamma; con la sciabola e il pennacchio! — aveva risposto un giorno il bambino.

E Rosa si era indignata. Soldato, no! Il re ne aveva tanti altri figli di mamma da prendersi. Suo figlio doveva restar sempre con lei; essere il bastone della sua vecchiaia, la colonna della sua casa, la palma del suo giardino, il suo stendardo… Tutte le immagini dei canti popolari le venivano su le labbra, le accendevano la fantasia. La povera donna aveva quasi dimenticato che quel ragazzo era un trovatello; forse gli voleva più bene appunto per questo; intendeva di essergli doppiamente mamma, in modo da compensarlo della cattiva sorte che lo aveva fatto buttare alla ruota, come una bestiolina, in mano di estranei, solo solo al mondo…

Per ciò si sentì trafiggere il cuore, e pianse un’intera giornata, la volta che il bambino tornato da scuola le domandò:

— È vero che voi non siete la mia mamma?

— Chi ti ha detto questo?

— De Marco, il figlio del pastaio.

— Digli…

Ma si fermò; e le parolacce che voleva fargli rispondere le borbottò lei tutta la giornata, bevendosi le lagrime, mordendosi le labbra dalla rabbia. E andò a fare una scenata al pastaio, perchè insegnasse l’educazione al figlio.

— Lasciali dire! — le ripeteva il marito. È tutta invidia… Lo vestiremo da angiolo per la Festa dei Pastori, la prossima domenica di maggio. Don Antonio, il poeta, mi ha detto che gli darà una bella parte da recitare.

E quel giorno marito e moglie credettero di toccare il cielo col dito. Don Carmine, il sagrestano, vestito il ragazzo con la corazza di carta argentata e appiccicategli alle spalle due belle ali di cartone dipinto, gli metteva in testa l’elmo dorato.

— Guardate qui, zi’ Cola!

Rosa lo mostrava, tenendolo in braccio, al vecchio contadino brontolone che passava le giornate seduto davanti la porta di casa sua, dicendo male di questo e di quello, non stando zitto un solo momento; per ciò lo chiamavano: Zi’ Parla-Parla!

— Guardate qui, zi’ Cola!

— Tutti i figli di male femmine sono fortunati! — le rispose, al solito, il vecchio.

— E voi siete uno stupido! — replicò Rosa, voltandogli le spalle.

***

Per Rosa e suo marito, il giorno della loro andata a Caltagirone a prendere il bambino, il giorno in cui lo avevano menato a scuola, e l’altro che gli avevano udito recitare di sul palco, tra figli di signori ed altri compagni di scuola, la parte da angelo nella Festa dei Pastori, erano date indimenticabili, di cui essi ragionavano spesso, ringraziando Dio e la Madonna.

— Vedi? Da quell’anno tutto ci è andato bene. Col bambino è entrata in casa nostra la buona fortuna. Domani comprerò un altro bue; avremo due aratri. Prenderò un’altra mezzadria.

— E la bella tela? E la chioccia coi pulcini? E il maiale da vendere a Natale? Tutto per lui! Non sembra un bambino, tanto è assennato!

— Il maestro mi ha detto: Avrà il primo premio. Ora dovete fare uno sforzo maggiore, mandarlo a Caltagirone per le altre scuole.

— Solo?

— Come gli altri.

— Andrò io con lui. Che farà altrimenti? Si troverà sperduto.

— Ha tredici anni; farà come gli altri — conchiuse il marito. — Ho un compare a Caltagirone; lo affideremo a lui.

Sognavano la felicità futura, la prossima premiazione. Rosa voleva fare un bel pranzo quel giorno, e invitare anche qualche vicina, e mandare pane, vino e carne alla povera comare Stella che periva di fame con tanti figliuoli; non dovevano esser felici loro soli.

Ma fu appunto quel giorno che il postino venne a dirle:

— C’è una lettera raccomandata per vostro marito. Venite all’ufficio con qualcuno che possa far la firma per lui che non sa scrivere.

— Una lettera?… Di chi?

— Che volete che ne sappia?

Il caso era così insolito, che la povera donna pensò subito a qualcosa di cattivo. E si buttò lo scialle indosso e corse all’ufficio postale mezza stralunata.

— Una lettera? Di chi? Non abbiamo parenti, nè prossimi, nè lontani!

E quando l’ufficiale postale gliela consegnò, ella la voltava e rivoltava; quei cinque sigilli di ceralacca rossa le sembravano una stregoneria.

— L’apra, la legga lei — disse all’ufficiale postale.

Le tremavano mano e voce nel porgergliela. Se lo divorava con gli occhi, ansiosa, con un groppo alla gola senza sapere perchè, mentre colui scorreva le quattro pagine fitte del foglio, scotendo la testa quasi leggesse cose strane.

— È del padre — disse finalmente l’ufficiale postale, supponendo ch’ella dovesse sùbito capire.

— Quale padre?

— Del padre del vostro trovatello. Dice che viene a riprenderlo. Sposa la madre, lo riconosce… È Giudice di Tribunale… Vi compenserà di tutte le spese… Arriverà fra otto giorni!…

Rosa gli spalancava gli occhi in viso, pallida come un cencio lavato, incredula, aspettando che colui le dicesse: Vi ho fatto un brutto scherzo. Ma quegli insisteva, ripetendo:

— Vi compenserà di tutte le spese.

Ella era istupidita; aveva una gran confusione nella mente, e il cuore le batteva violentissimo nel petto, quasi stesse lì lì per scoppiarle. Possibile? Riprendere il bambino? Fra otto giorni?… E la legge? E la giustizia? No, non era possibile!

— Ha letto bene, voscenza? — balbettò.

— Fatevela leggere da un altro!

E andò via barcollando, con la fatale lettera in tasca. Ma lungo la strada cominciò a capire. La cosa però le sembrava così enorme, che non voleva crederla. Come? Si poteva dunque buttar via la propria creatura, e poi, quando altri l’aveva allevata, cresciuta, educata, quando altri le voleva più bene dei parenti sciagurati che se n’erano sbarazzati appena mèssala al mondo, questi potevano presentarsi e dire: — Dateci quel bambino; è nostro! — E la legge lo permetteva? Ah, voleva vederla! Voleva vederla! Non c’era Dio in cielo, nè Madonna, nè santi, se questa mostruosità poteva accadere! Ah, voleva vederla, se i carabinieri sarebbero venuti a strapparle di fra le braccia la creatura ora sua!

Le lagrime le inondavano il viso, ed ella non pensava ad asciugarselo; non si accorgeva di strascinare lo scialle cascatole dalle spalle; gesticolava, mostrava i pugni a colui che doveva arrivare fra otto giorni…

— Che vi è accaduto, comare Rosa?

— Niente! Niente!

Andava quasi di corsa, e davanti a casa sua, visto Nino che faceva il chiasso con gli altri ragazzi, lo prese per un braccio e lo trascinò dentro e chiuse la porta con tanto di stanga.

— Perchè, mamma?

— Niente! Niente!

Lo baciava, tenendolo stretto stretto tra le braccia, su le ginocchia, quasi dietro l’uscio ci fosse già colui che doveva venire a riprenderglielo. E lo tenne così fino a sera; e quando suo marito picchiò all’uscio, chiamando: Rosa! Rosa! — ella impose al ragazzo:

— Non ti muovere di lì!

E scese la scala, rivolgendosi indietro più volte, per timore che il ragazzo non la seguisse.

— Vogliono levarci il figlio! — disse al marito, scoppiando in pianto dirotto.

— Chi?

— Suo padre! Ha scritto una lettera!

Dapprima il pover’uomo credette che sua moglie fosse impazzita. E alzò le spalle, dicendole:

— Sciocca! E tu ti figuri che è facile?

Guardava anche lui, diffidente e irritato, la lettera che sua moglie avea cavata di tasca. E stava a sentire a bocca aperta, come un ebete, quel che Rosa gli riferiva, interrotta da singhiozzi, strappandosi di tratto in tratto i capelli:

— Verrà fra otto giorni… È Giudice di Tribunale… Sposa la madre!

— Zitta! Zitta, pel ragazzo! Dammi quella lettera; vò a consultare mastro Simone il fabbro-ferraio, che ne sa più di un avvocato.

***

— Non vi potete opporre; i figli sono dei padri; la legge vuole così! — aveva detto mastro Simone il fabbro-ferraio, che ne sapeva più di un avvocato.

Ed era stata per quei due poveretti una sentenza di morte.

— Lo ammazzo, giudice qual è! Voglio andare in galera, prima di rendergli il figlio!

— Gesù Cristo, riprendetevelo voi!

Nei primi giorni, l’uno rimuginava propositi feroci; l’altra, nel suo furore di madre delusa, invocava la morte su la creatura amata come sangue proprio, piuttosto che saperla viva in mano altrui. E tutti e due torturavano con domande il ragazzo, che non capiva e non sapeva che cosa rispondere:

— Se ti volessero dare un altro padre?

— Se ti volessero dare un’altra mamma?

— Anderesti con loro?

— Avresti cuore di lasciarci?

Il ragazzo rispondeva soltanto:

— Voglio restar qui……. Perchè mi tenete chiuso in casa?

Avevano paura che venissero a rapirlo all’improvviso per non trovare opposizione da parte loro. Un Giudice di Tribunale, immaginavano, poteva comandare ai carabinieri, fare qualunque prepotenza. Invano l’avvocato, da cui erano andati a ricorrere per consigli e per difesa, li aveva rassicurati che tutto doveva procedere legalmente e che il padre non poteva reclamare il figlio messo ai trovatelli, senza prima aver fatto tutti gli atti occorrenti. Tenevano chiuso il ragazzo in casa, non gli permettevano neppure di affacciarsi alla finestra.

E ora il marito, che non aveva più animo di andare in campagna, ora Rosa, che non poteva ingoiare l’amara pillola, correvano più volte al giorno dall’avvocato:

— Trovi un mezzo voscenza, un’opposizione!…

— Ma che mezzi? Che opposizione? Il padre ha diritto di riprendere il figlio.

— Facciamo una causa; tiriamola a lungo.  Da cosa nasce cosa. La legge dovrebbe dirgli: — Ah, tu non hai voluto il bambino quando è nato? Lo hai messo ai trovatelli, senza curarti se sarebbe morto di freddo e di fame in mano di quelle donnacce che fanno il mestiere di balie?… Non hai pensato, per tredici anni, ad informarti se il tuo figliuolo era vivo o morto, voluto bene o maltrattato?… Ed ora che ti fa comodo pretendi di riaverlo?… Niente affatto. Anzi, ora che so l’infamia da te commessa, ti afferro e ti metto in carcere! — Ecco quel che dovrebbe dire la legge!… Chi l’ha fatta cotesta legge? È legge da turchi, non da cristiani. Chi l’ha fatta? Il re? Non ha figli il re?

La povera donna diventava eloquente, e si meravigliava che l’avvocato non sapesse trovare nessun appiglio per una lunga causa, da andare in Tribunale, e poi in Gran Corte, e poi in Cassazione… Chi l’avea fatta dunque quella legge da turchi?

— Certamente non l’ho fatta io! — rispondeva l’avvocato ridendo.

— Ma come? Gli abbiamo dato il sangue nostro; lo abbiamo tirato su con tante cure, con tanti stenti; lo abbiamo mandato a scuola… Se fosse stato figlio mio lo avrei condotto a zappare e ad arare con me, a fare il contadino come me… A questo, invece, libri, quaderni, penne!… Che non avremmo speso per lui?… E ora?…

— E ora il padre vi darà un compenso per tutte le spese da voi fatte; non volete capirlo? — ripeteva l’avvocato un po’ stizzito che il contadino dalla testa dura gli ripetesse sempre le stesse cose.

E, tornati a casa, la moglie si dava una nuova pelata, dalla disperazione; il marito, buttatosi sur una seggiola, coi gomiti su la tavola e la testa fra le mani, borbottava:

— Com’è vero Dio, lo ammazzo questo infame! Il figliuolo ora è nostro!

Ma alla vigilia dell’arrivo di colui che avea distrutto con un foglio di carta tutta la loro felicità, marito e moglie erano talmente accasciati sotto il peso della convinzione di non potere far niente, poichè la legge voleva così, che pensavano di buttarsi ai piedi di quel Giudice di Tribunale, appena fosse comparso, e pregarlo e scongiurarlo!… Chi sa? Forse, sapendo che il ragazzo era ben collocato, si sarebbe lasciato intenerire. Tanto, che bene poteva volergli lui a un bambino non veduto neppure una volta?

— E se il ragazzo non volesse andare col padre sconosciuto? Se volesse restare per forza con noi?

Per un istante credettero che questa era la soluzione più giusta. — S’interroghi il ragazzo: scelga lui! — Parlavano a voce alta, quasi il Giudice di Tribunale fosse davanti a loro. E Rosa attirava Nino tra le gambe, gli lisciava i capelli, lo prendeva pel mento e gli domandava:

— Chi vuoi per padre e madre, noi o… altre persone?

— No, non può capire. Glielo dico io.

Il ragazzo, un po’ stupito, serrato tra le gambe di colui che egli credeva suo padre, stava a udire, intento.

— Se venisse uno e ti dicesse: — Sono tuo padre io, tuo padre davvero; vieni con me; lascia questi qui!… — tu che faresti?…

— Sto qui, con voi! Chi deve venire?

— Nessuno! Angelo santo, parla Gesù Cristo con la tua bocca!

Rosa se lo mangiava dai baci.

Ecco: così! S’interroghi il ragazzo; scelga lui! E la mattina dopo andarono a ripeterlo anche all’avvocato.

E dall’avvocato chi c’era? Colui, il Giudice di Tribunale, vestito tutto di nero, alto, magro, con la barbetta rossa e gli occhiali!… Un tradimento! C’era da attenderselo! Giudici? Avvocati? Farina dello stesso sacco.

Ma Rosa non si perdette d’animo; scattò:

— Figlio vostro? Chi lo dice? Ve ne siete mai ricordato in tredici anni? Siete venuto solo, perchè avete la faccia più tosta di quella di vostra moglie. Perchè non è venuta anche lei, la mammaccia snaturata?… Ora che si fa sposare, ora soltanto si ricorda che c’era una sua creaturina buttata alla ventura pel mondo!…

L’avvocato tentava di farla tacere, di calmarla.

— Ebbene, no; non ve lo voglio dare il ragazzo! Che potrete farmi? Mi manderete in carcere? Ci dovreste essere già voi e da un pezzo!… E invece è lui che manda in carcere la gente! Ecco la giustizia! No, non glielo voglio dare! È inutile, signor avvocato!…

— Ma non vedete che piange? — le disse l’avvocato.

Infatti quel signore biondo, vestito di nero, piangeva, coprendosi la faccia con le mani, singhiozzando:

— Avete ragione!… Avete ragione!… Ma le circostanze!… Ah, se sapeste!…

Rosa, a quella vista, rimase interdetta, e diede un’occhiata al marito.

— Sia fatta la volontà di Dio, Rosa! Sia fatta la volontà di Dio!

E prèsala per mano, la conduceva via più morta che viva, senza un singhiozzo, senza una lagrima, ripetendole con voce grave:

— Sia fatta la volontà di Dio, Rosa! Sia fatta la volontà di Dio!

Dal loro dolore misuravano il dolore di quel padre che veniva in cerca di suo figlio dopo tredici anni! E si sentivano messi alla pari, e riconoscevano finalmente che era giustizia che il figlio fosse reso al padre.

Come sarebbero rimasti loro due?

Come voleva Dio! Se il ragazzo fosse morto, non sarebbe stato peggio?

— Sublimi! sublimi! — diceva l’avvocato, raccontando la scena. — Glielo condussero lì, glielo spinsero tra le braccia. — Purchè qualche volta si ricordi di noi! — Non chiesero altro, poveretti. Parevano gente a cui venisse strappato il cuore! — Ve lo manderò una volta all’anno, per la villeggiatura! — Ah! — esclamarono marito e moglie. — Non ho mai visto espressione di gratitudine più viva e più intensa negli occhi di creature umane. Sublimi! Sublimi!