Mi pare di vedermelo ancora dinanzi!

Cappellone di feltro nero; abito nero abbottonato fino al mento; scarpe grosse e mazza ruvida e nodosa, girata spesso fra le mani quasi per tentare di allungarla o di assottigliarla; corpo solido, tarchiato, con spalle ampie, torace largo, e gambe un po’ curve come quelle di un cavallerizzo; fisonomia aperta, a cui avrebbero dato fallace espressione di ruvidezza la barba grigiastra arruffata, e il naso grosso schiacciato alquanto, senza la dolce espressione dello sguardo e delle labbra che sorridevano spesso sotto i baffi irsuti.

Mi pare di vedermelo ancora dinanzi, e di sentirlo parlare con quella voce strana, arrochita, esitante che udita una volta non si dimenticava più.

— Studiate medicina?

— No.

— Che cosa studiate?

— Mi occupo di letteratura.

— Ah!

Quest’ah! commiserativo anzi spregiativo chiuse la nostra prima conversazione, avvenuta per le scale una mattina che il portinaio aveva fatto lo sbaglio di scambiarci le lettere. Così seppi che quel mio coinquilino incontrato raramente e che aveva eccitato la mia curiosità sin dalla prima volta che lo avevo visto, si chiamava Dottor Piccottini (Anselmo): il suo biglietto da visita chiudeva il nome fra una parentesi non so per quale misteriosa ragione.

Giacchè c’era molto del misterioso nella persona di quell’uomo e nelle sue abitudini chiuse, riserbatissime.

Il titolo di dottore fu un pretesto per avvicinarlo. Ebbi il consulto richiesto intorno a una mia immaginaria malattia; tornai da lui per fargli sapere l’ottimo risultato della cura che non avevo fatto; entrai nelle sue grazie; divenni da lì a non molto il suo confidente. All’ultimo seppi che aveva una figlia con sè, e un giorno potei anche vederla. Somigliava al padre nei lineamenti: era però snella, e la carnagione bianca e rosea la rendeva piacente assai.

Mi accorsi subito che avevo da fare con uno scienziato un po’ stravagante, originalissimo. Voleva a tutti i costi che mi mettessi a studiare medicina.

— Siete giovane e ancora in tempo per tentare di essere utile all’umanità.

— Ognuno fa quel che può — rispondevo io. — Amo la poesia, il teatro, il romanzo…

— Sciocchezze indegne di una creatura intelligente! Quando avrete scritto (e sarà un po’ difficile) un poema bello come la Divina Commedia, una tragedia uguale all’Amleto o all’Otello, un romanzo più interessante del…. del… Conte di Montecristo, che avrete conchiuso? Tutte queste cosettine sono già state fatte: hanno divertito l’infanzia dell’umanità, l’hanno anche rovinata. Ora bisogna salvarla. L’umanità è in grave pericolo di degenerazione; soltanto la medicina può impedire che non arrivi allo sfacelo verso cui è già avviata.

Io lo guardai con tanto d’occhi, e feci uno sforzo per non ridergli in faccia.

Abituatomi presto a queste sue bizzarrie dette con aria solenne, mi divertivo a stuzzicarlo.

La degenerazione dell’umanità era la fissazione del dottor Piccottini. Egli assumeva un tono apocalittico, accompagnato da gesti larghi, quasi minacciosi, ogni volta che ragionava di quel soggetto, indignato contro i governi che favorivano, provocavano la degenerazione umana, invece di ingegnarsi di arrestarla. Intanto spendevano somme enormi per il miglioramento delle razze cavalline, pecorine, fin suine!

Si ficcava le dita fra i capelli, chiudeva gli occhi inorridito.

— L’umanità pensa eccessivamente — mi disse una sera. — Bisogna infrenare lo sviluppo del cervello, così sproporzionato con lo sviluppo delle altre parti dell’organismo; altrimenti… Finis! Finis! Finis!

E la mattina dopo, venuto a invitarmi per una passeggiata fuori Porta alla Croce, riattaccò subito il discorso a quel Finis! quasi non ci avesse dormito sopra e non fossero trascorse dodici ore di intervallo.

— Studiate medicina, figliuolo mio! Salviamo l’umanità a suo marcio dispetto! Vi siete mai immaginato quel che sarà l’uomo futuro, se le cose procedono ancora di questo passo? Eccolo qui!

Cavò di tasca un foglio, lo spiegò e me lo sporse quasi sotto il naso. Vi era disegnato un pupazzetto con testa enorme e corpo minuscolo, come ne schizzano spesso i caricaturisti.

— Tutto cervello! Creatura infelice, che dovrà nutrire la massa bianca e grigia a scapito del resto; e che morrà d’inedia il giorno in cui le altre parti del corpo più non riusciranno a funzionare.

— Ella esagera, dottore!

— Così fosse! Ma questa figura è il risultato di calcoli scientifici esattissimi. Ogni movimento produce un corrispondente sviluppo nei nostri organi. Il braccio del fabbro ferraio è grosso quasi il doppio di quello di uno studioso come voi; precisamente come il vostro cervello, se non ha più circonvoluzioni, ha più volume del cervello di colui. Sapete che fa intanto la civiltà? Condanna il braccio alla inerzia, costringe il cervello a funzionare febbrilmente. La sproporzione tra il lavoro intellettuale e quello fisico diventa più grande di giorno in giorno. Siamo già tutti malati, nevrotici, cachettici. La riproduzione della specie umana è lasciata in pieno arbitrio del caso; e l’iperestesia intellettuale diventa ereditaria come la scrofola, come la tisi. Non vi spaventa quest’avvenire?

— Forse perchè è troppo lontano — risposi timidamente.

— Lontano? Dategli tempo quattro o cinque secoli, e poi verrete a dirmene qualcosa.

Scoppiai a ridere.

Il dottore s’infiammò, slanciandosi in una tirata scientifica eloquentissima, paradossale, che dava fin scioltezza alla parola e rendeva meno roca la voce. Mi apostrofava, quasi io fossi il rappresentante di tutti i governi europei, e pesasse sopra di me la grave responsabilità della degenerazione umana presente.

Io veramente stavo a sentire imperterrito, tranquillo in coscienza; ma egli mi vedeva scosso, spaventato, pieno di rimorsi, ansioso di provvedere al gran male fatto inconsapevolmente o lasciato fare, e accorreva in mio soccorso…. col progetto di legge della Coscrizione per l’amore, come egli la chiamava; cosa complicatissima di cui sapeva a memoria tutti gli articoli rigidamente formulati. La coscrizione per l’amore doveva farsi il primo maggio d’ogni anno.

E appunto questo primo maggio, che ora desta tante paure, mi ha fatto sovvenire del dottor Piccottini e delle sue teoriche rigeneratrici.

Sissignore: la Coscrizione per l’amore doveva farsi, secondo lui, il primo maggio d’ogni anno.

Cosa bella e terribile! Uomini e donne passati in rivista, come nei consigli di leva, ma a quindici anni. Gl’inabili…. Immaginate quel che ci potrebbe essere di più draconiano per impedire le frodi…. Doveva essere praticato lì per lì, in un ospedale apposito, con istrumenti inventati a posta a fine di rendere più sollecita e meno dolorosa l’operazione. E per gli abili, un servizio attivissimo, regolato secondo le più sicure norme della scienza per l’incrociamento dei sangui, e che doveva durare dai venti ai venticinque anni; dopo i quali, i congedati venivano trattati inesorabilmente allo stesso modo degli inabili. Matrimoni obbligatorii; lo adulterio punito con la morte di ambo i colpevoli; insomma disposizioni da far strabiliare. E doveva continuare così almeno per due secoli, fino a che la razza umana non si fosse rimessa a nuovo da cima a fondo.

Quel giorno mi fece anche la grande rivelazione: sua figlia era destinata a dare il primo esempio del matrimonio obbligatorio della Coscrizione per l’amore. Da parecchi anni il dottore andava in cerca d’un coscritto secondo le più esatte prescrizioni scientifiche intorno all’incrociamento dei sangui; e non lo aveva ancora trovato.

Lo diceva con aria desolata, alzando le mani al cielo e anche la mazza nodosa, quasi accennasse di volere bastonare il destino crudele che gli contrastava quel coscritto. Io lo ascoltavo, mortificatissimo di comprendere che ero ben lontano di incarnare l’ideale del dottore.

Forse anche per questo mi ostinai a non voler studiare medicina. Che m’importava di coadiuvare alla realizzazione della Coscrizione per l’amore? Ero oramai fuori leva; e dovevo temere le conseguenze di certe disposizioni transitorie, retroattive che chiudevano l’inesorabile progetto di legge; non mi conveniva.

Da quel giorno in poi, m’interessai della bella creatura riserbata a quel tale coscritto che non si faceva trovare.

Ne chiedevo notizie, di tanto in tanto.

— Dottore, ha trovato?

— Forse sì — mi disse finalmente una volta. — Un giovane carbonaio di Via Pietra Piana; ma bisogna esaminarlo bene. Non vorrei ingannarmi.

— E la signorina Sarà contenta?

— L’ho educata apposta. È più convinta di me; una apostolessa delle mie idee.

— Fortunato carbonaio! — esclamai.

— Lo credo anch’io. Sarà, per così dire, la prima pietra dell’umanità futura. E se, come credo, non mi sono ingannato, il primo maggio prossimo…

— In ossequio del suo progetto di coscrizione…

— Certamente. Ah, se vedesse che bel bruto è quel giovine! Matrimonio ideale! Quel che di più ideale può desiderare la scienza!

Ora rifletto che probabilmente c’è un destino per tutti i primi maggio! La scienza sociale in questo giorno vorrebbe farne una protesta contro il capitale, una vera rivoluzione… e la natura umana ne fa un’altra cosa, cioè: scampagnate, balli nelle osterie di campagna, insomma una giornata di svago.

Così avvenne che il dottore, tornato a casa tutto allegro di essersi accertato che nel giovane carbonaio di Via Pietra Piana si trovavano, per fortunata coincidenza, le migliori condizioni di un coscritto di prima qualità, apprendeva che sua figlia era scappata con un vicino mezzo tisico, di cui egli, pover’uomo, non aveva mai sospettato!

E così l’inizio della rigenerazione umana andò a gambe per aria!

Questo avvenne il primo maggio del milleottocentosessantasei.