Angelo Capparota era tornato dall’ufficio così sconvolto in viso, che sua moglie, meravigliata di vederla rientrare in casa prima dell’ora solita, lo prese per una mano e gli domandò premurosamente, con dolcissima espressione di affetto:

— Angelo mio, che hai? Ti senti male?

Egli tardò un po’ a rispondere, liberando la mano dalla mano di lei, e cominciando a cavarsi il soprabito. Pareva volesse evitare di guardarla in faccia, e stentasse a trovare le parole.

— Che hai? — replicò sua moglie.

— Un piccolo disturbo… Non so… Mi son sentito male tutt’a un tratto. Mi butterò sul letto… Non è niente.

Ella gli levò di mano il soprabito e lo ripose. Guardava suo marito con aria diffidente, mentre egli stirava le braccia e tutta la persona, quasi volesse così scacciare il torpore che l’opprimeva, stanchezza o dolore chiuso non si capiva bene; malessere certamente, forse più grave di quel che egli non volesse far scorgere. E perciò ella gli stava attorno, accarezzandolo, ripetendo la sua domanda: — Che hai? — cercando, con l’insistenza, di trargli di bocca una risposta più chiara, più sincera, giacchè le pareva che il suono velato della voce di lui non corrispondesse al senso delle parole.

— Mi butterò sul letto, qualche ora. Non inpensierirti, Nannina.

Nannina lo seguì in camera. Sprimacciò i guanciali, gli buttò addosso una coperta, e stette alcuni minuti davanti al letto, tenendogli la mano su la fronte.

Pallidissimo, col respiro frequente e gli occhi chiusi, suo marito stava là immobile, senza dire una parola. Poi, sotto la impressione dell’altra mano di Nannina che gli accarezzava lievemente una guancia, egli aperse gli occhi, atteggiò le labbra a un sorriso e disse:

— Chiudi gli scuri; lasciami riposare. Comincio a sentirmi meglio.

Nannina lo baciò più volte, esclamando:

— Mi hai fatto paura! Oh che paura!

Angelo riaperse nuovamente gli occhi, fissò sua moglie con uno sguardo di gratitudine, alzò le braccia e gliele passò attorno al collo, e tutt’a un tratto prese a baciarla, stringendola forte.

— Non è niente, Nannina! — balbettava. — Lasciami riposare; non è niente.

— Riposa; chiudo gli scuri.

E uscì di camera, tirando il battente dell’uscio dietro a sè.

Appena rimasto solo, Angelo buttò via la coperta, si rizzò a sedere sul letto, passandosi le mani su la fronte, stralunando gli occhi:

— Non è possibile! Non è possibile! — esclamava sommessamente. — Tanta finzione sarebbe un’infamia!

E rimase a testa china, con le ciglia aggrottate, morsicchiandosi le dita, riflettendo:

— Da chi può venire la calunnia? Da chi?

Non era da sospettare del Crogli, galantuomo a tutta prova, più che amico, padre per lui, come ne aveva avuto grandi prove in tante circostanze; uomo serio, incapace di avventurare una parola prima di esser convinto di dire la verità. Ma il Crogli lo aveva soltanto ammonito: — Bada!…. Corrono delle brutte voci! Apri gli occhi… Non si sa mai!

Giacchè il Crogli si era risolto di metterlo sull’avviso, bisognava proprio che quelle brutte voci gli fossero giunte all’orecchio da più parti o da persona di sua piena fiducia.

— Da mia madre! — esclamò Angelo, dando improvvisamente uno sbalzo.

Un doloroso ghigno gli contrasse la faccia, un fiotto di amara saliva gl’inondò la bocca.

— Mia madre! Mia madre!

Egli aveva sposato Nannina contro la volontà di lei. Da due anni madre e figliuolo non si vedevano più, perchè il giorno stesso delle nozze sua madre gli aveva prognosticato, con una parolaccia…

— Sì, mia madre! Il Crogli non può dubitare di lei! Una madre che disonora in faccia alla gente il proprio figlio!

Fremeva. E nello stesso tempo si sentiva invadere da immensa tenerezza per la povera creatura calunniata, che poco fa lo aveva baciato e accarezzato con tanto affetto, tremante perchè lo aveva veduto soltanto un po’ indisposto!

Respirò. Si distese sul letto, ansante di felicità, per la certezza di avere indovinato. E quando, da lì a un quarto d’ora, sentì cautamente riaprire l’uscio, chiamò subito:

— Nannina!

Al tono di voce assai mutato da quello di poco fa, ella corse a riaprire gli scuri, e si accostò al letto sorridendo:

— Ti senti già meglio?

— È passato!…. Nannina mia!

Era saltato giù per stringerla al petto e compensarla dell’offesa da lei ignorata.

— Nannina mia!… Ora posso dirtelo; mi son sentito assai male, assai, assai! Mi pareva di dover morire!

Ella lo ascoltava con aria distratta.

— Non mi credi? — le domandò Angelo, quasi rimproverandola dolcemente.

Squillò il campanello dell’uscio di entrata. Nannina si svincolò dalle braccia del marito per accorrere.

— La serva è fuori di casa — disse, accorgendosi di un lieve moto di stupore di lui.

Egli l’aveva sentita sobbalzare tra le sue braccia a quello squillo, e non avea saputo reprimere il moto di cui si era accorta sua moglie. Un’ombra di sospetto gli oscurò il viso; e si precipitò verso la finestra. Dietro le persiane socchiuse avrebbe potuto vedere chi sarebbe uscito dal portone di casa.

Attese angosciosamente alcuni istanti.

Quel giovane alto, bruno, decentemente vestito egli lo aveva visto un’altra volta… Dove?… Quando?… E perchè si era rivoltato a guardare in su?… Chi era?… Pareva un operaio.

Si ritrasse dalla finestra, richiuse i vetri per non farsi sorprendere da Nannina in atto di spiare, e tornò presso il letto allo stesso posto dov’ella lo aveva lasciato.

Pensò anche:

— Ho avuto troppa fretta. Forse non era costui! Nannina riapparve, e non aspettò di essere interrogata:

— Il padrone di casa voleva sapere se i riattamenti della grondaia son riusciti bene. Era venuto lo stesso operaio che li fece;… e voleva accertarsene coi suoi occhi… L’ho licenziato, dicendogli che tutto andava benissimo.

Angelo Capparota si sentì alleviato da un gran peso. Ricordava l’operaio: ora lo riconosceva perfettamente. E intanto che sua moglie stirava la coperta sul letto, egli giurava in onor suo di non sospettare più, così violento era stato lo strazio da lui sofferto in quei brevi momenti!

***

E due giorni dopo, incontrato il Crogli, gli aveva detto a bruciapelo:

— È stata mia madre, è vero?

— Non capisco — rispose il Crogli.

— Quelle brutte voci…

— Oh, t’inganni! Non vedo tua madre da un pezzo…

Egli lo fissò incredulo.

— So però che tua madre non ignora… Hai fiducia tu in tua madre? — riprese il Crogli.

— Odia Nannina!

— Ma vuol bene a te. Io poi non t’ho detto altro che: Bada! Corrono brutte voci!

— Un nome! Un indizio!

— Capisci che io non potevo far vedere di prendere quelle voci sul serio. — Eh, via! Calunnie! — rispondeva. E tali le stimo… Va’ da tua madre.

— Sarebbe troppa grande soddisfazione per lei, tu lo sai.

— E se i fatti le dessero ragione?

Angelo Capparota sentì corrersi un acuto brivido per tutta la persona. Un impeto di odio contro il Crogli, contro sua madre, contro tutti coloro che avevano sconvolto la sua beata tranquillità gli strinse il cuore.

— Volete farmi ammattire? — esclamò.

— Scusa — rispose il Crogli. — Non ti dirò più niente. E forse ho fatto male, hai ragione!

Lo vide allontanare, esitando se dovesse richiamarlo: ma la voce gli si strozzò nella gola; e il Crogli non si accorse del gesto della mano che gli accennava di fermarsi. Crollò la testa, quasi per confermarsi nella risoluzione improvvisamente presa, e si avviò con passi frettolosi verso la casa di sua madre.

La signora Giuditta non si mosse dalla seggiola dove si trovava seduta, presso un tavolinetto da lavoro, nella sala da pranzo. Quella stanzetta dava su un giardino ed era la più luminosa di tutta la casa. Dietro i vetri della finestra si affacciavano alcune cime di alberi dorate dal sole. Per godere la vista di quegli alberi e tutta quella luce, la povera vedova, che viveva sola sola con la vecchia serva, preferiva di lavorare colà.

La serva era corsa ad annunziare la inattesa visita del figlio: ma Angelo, introdottosi dietro di lei, non le aveva dato il tempo di far l’imbasciata:

— Mamma, sono io! — aveva detto, fermandosi su la soglia.

La signora Giuditta alzò la testa, e fè segno alla serva di andar via. Guardava suo figlio, severa, attendendo che parlasse.

— Vedi, mamma; son venuto… perchè tu mi levi di pena… Ti chiedo perdono di averti disubbidito… Ma quando si ama, si è ciechi, pazzi… Dimmi, mamma…

Non sapeva come continuare, vedendo il contegno impassibile di sua madre.

— È vero? — domandò con ansia mortale.

— Di che mi parli? — ella rispose dopo un istante di riflessione.

— Mi tradisce?

— Che vuoi che ne sappia? È cosa che ti riguarda; io non mi occupo di colei.

— Mi tradisce? Dimmelo, mamma! Ti è stato detto?

— Si dicono tante cose? Io non bado alle chiacchiere della gente.

— Si tratta dell’onore di tuo figlio, mamma!

— Di che si trattava dunque quando io mi opponevo che tu la sposassi? I cuori delle mamme hanno presentimenti che non s’ingannano mai.

— Dunque è vero?

— Non ho detto questo.

— Oh, mamma! Oh, mamma!

Le si era buttato in ginocchio, e le stringeva le mani supplicando:

— Oh, mamma! Oh, mamma!

E come le vide gli occhi pieni di lagrime e di compassione, cominciò a baciarle le mani ringraziandola e balbettando!

— Parla! Parla!

— Alzati, figlio mio! — rispose la signora Giuditta, con un tremito nella voce. — Ti ha dunque reso felice quella donna?… Alzati!

Angelo obbedì, mentre esclamava:

— Sì, mamma!… Mi mancavi tu però!…

— Non te ne sei accorto in due anni!

— Ti sapevo troppo ferma nei tuoi propositi. Col tuo carattere, non c’è transazioni di sorta alcuna. Se fossi venuto io solo…

— E… rispondimi sinceramente: che preferiresti? Allontanarti di nuovo da me, oppure…?

— Saperla innocente, mamma mia! Come non lo capisci? Ora il maligno incantesimo è rotto… Verremmo da te tutti e due: è tua figlia anch’essa, poichè è mia moglie. Meglio, verresti tu con noi; in casa nostra c’è posto anche per te; saresti tu la padrona; saresti adorata…

— Come l’ami! — esclamò la signora Giuditta che, intanto che suo figlio parlava, non aveva cessato un istante di fare con la testa e con una mano vivi segni di diniego.

— Se colei fosse colpevole — continuava — io ti perderei peggio d’ora. Così, posso almeno lusingarmi che tu sei felice…. anche senza di me…. Una madre sa rassegnarsi a questo: io mi ci sono quasi abituata… Ma se colei fosse davvero colpevole, tu forse diventeresti assassino; forse… la tua vita…! Hai fatto male a venire qui. Pretendi che io ti dica: — Ammazzala! Fatti ammazzare?… — Sii felice a modo tuo! Perchè sei tu venuto!

— Per sapere, mamma! Tu non puoi ingannarmi, tu non sei capace di calunniare una persona quantunque essa ti sia odiosa. Tu sei la mia mamma!…

La signora Giuditta si rizzò dalla seggiola e si coperse il volto con le mani; singhiozzava:

— Va’, va’: Non so niente!… Non mi sono mai occupata di quella donna… Perchè avrei dovuto occuparmene? Era cosa tua: dovevi badarci tu….

Angelo smaniava, si torceva le dita. E tornava a supplicare:

— Parla! Parla! Non voglio credere agli altri. Se tu mi dici… Dio! Dio! Sembra che tu ti diverta a torturarmi!

— Tu, tu mi torturi!… Non so niente! E quando penso a quel che faresti, se io fossi nel caso di risponderti: — Sì, colei ti tradisce! — mi sento abbrividire.

— Farò quel che tu vuoi, mamma! Quel che tu vuoi! Ti obbedirò come quand’ero bambino!

— Giuralo!

— Te lo giuro!… Vedrai!… È dunque vero?

— Non so. Ma che faresti?

— L’abbandonerei alla sua sorte; non vorrei sporcarmi col suo laido sangue le mani… Ci penso da una settimana… La spazzerei fuori di casa mia, come una lordura… Da una settimana non vivo più. Soffro pene d’inferno. Ho tentato di scoprire, di sorprenderla…….. Niente! Ma il dubbio che io non sappia vedere non mi lascia in pace. Il Crogli mi ha detto: — Va’ da tua madre. — E sono venuto. A lui non volli credere….. Non mi ha saputo dire nulla di preciso. E… voglio confessarti tutto; tu mi perdonerai: ho sospettato di te… Sì, mamma, sono stato così cattivo che ho sospettato di te. Toglimi questa pena dal cuore! Oramai non c’è rimedio! La mia pace è morta! La mia felicità è andata via! Se tu sai e ti ostini a non parlare…. Perchè non vuoi parlare, mamma mia?

— Non mi crederesti… Vorresti vedere, vorresti metterti a repentaglio… Non si è padroni di noi stessi in certi momenti. Se pure io sapessi, se pure fossi certa, non ti direi niente.

— Si, è vero; voglio vedere, con quest’occhi, mamma! Mi pare impossibile, mamma! Che le mancava? Non le ho voluto bene fino a sacrificarle te? Te! Fa perdere il senno, la passione! T’intendo: tu hai paura per me; tu non osi parlare perchè ti figuri… No, te lo giuro, mamma! Sarò forte!

— Ti tradisce! — disse, improvvisamente, la signora Giuditta. — Da sei mesi!…

— Con chi?

— Con un capo muratore, la sporcacciona!

— È vero, mamma! è vero! — balbettò Angelo che si sentiva venir meno.

— Lo sapevi dunque?

— No; ma già capisco che è vero! È venuto l’altro giorno… Ero tornato dall’ufficio in ora insolita… che infamia, mamma!

Rammentava il tremito di lei tra le sue braccia allo squillo del campanello; rammentava il contegno di colui all’uscir dal portone di casa, e la bugia di lei per spiegargli…, bugia certamente preparata da un pezzo!

E si lasciò cascare su una seggiola, piangendo silenziosamente, quasi rassegnatamente, poichè non c’era più rimedio!

***

In certi momenti egli stesso aveva terrore della sua calma. Perchè voleva vedere coi propri occhi?

Pur aveva un’evidente giustificazione, in avvenire, per sè e per gli altri. Era necessario.

Da due giorni conviveva con lei quasi come con una estranea. Se ne sentiva staccato assolutamente; si sentiva strappato, e per sempre, alle seduzioni di quelle carni che non erano più esclusivamente sue, da sei mesi! La tranquillità di sua moglie lo stupiva. Non aveva dunque ombra di coscienza quella femmina? E la profonda simulazione di lei aiutava la dissimulazione a cui Angelo Capparota si era condannato per raggiungere lo scopo di smascherare la svergognata.

Un brivido ghiaccio lo scoteva pensando che parecchi dovevano ridere di lui: ma non avrebbero più riso domani, domani l’altro: lo avrebbero anzi ammirato!

Da due giorni, col pretesto di straordinarii lavori al Ministero, egli andava via la mattina e tornava a casa tardi, la sera, per mettersi a letto, appena ingoiato un boccone che gli pareva tossico. E lei ciarlava, scherzava, gli raccontava i pettegolezzi del casamento, del vicinato.

— Sei stanco? Quando finirete?

— Chi lo sa? Forse ne avremo per una settimana.

Oh, avrebbe voluto finirla subito! Ma pareva che i colpevoli si fossero insospettiti di quell’assenza del marito. Nei primi due giorni, colui non si era visto e lei era rimasta sempre in casa. La signora Giuditta gli aveva detto:

— Lascia fare a me. Ho una persona fidata. Verrò io stessa al Ministero per avvisarti.

E Angelo stava sempre in attesa, trasalendo a ogni apparizione di usciere nella sua stanza di ufficio. Quel ritardo d’una soluzione prevista, ben fissata, lo infastidiva, lo sfibrava. Qualche volta gli passava per la mente l’idea che la prevista e fissata soluzione non avrebbe avuto più luogo; che si sarebbe, forse, fatta una scoperta opposta: si trattava d’indizii falsi, d’ipotesi campate in aria! Era possibile anche questo. Meglio! Meglio! Ma non osava abbandonarsi all’insidiosa lusinga. Meglio, se fosse così! Purchè ne fosse uscito, presto! Sentiva un’oppressura che le toglieva il respiro. Non rimpiangeva la sua distrutta felicità, non lo indegnava la macchia con cui quella donna gli aveva deturpato l’onore, non si stimava responsabile neppur lontanamente; per ciò non si giudicava macchiato dalla mala azione di colei, ma voleva uscirne presto presto. La dissimulazione a cui era costretto gli dava le nausee.

E si figurava la scena: lo smarrimento, il terrore dei colpevoli. Li avrebbe tenuti un istante sotto la minaccia del… No, non bisognava portar con sè il revolver. Era facile perdere il lume degli occhi in quell’istante… Seduto davanti al tavolino dell’ufficio, ragionava freddamente, ma nel terribile momento…. No, no; voleva premunirsi contro sè stesso. E poi, sua madre sarebbe stata là, presente come un angelo custode…. Non sarebbe trascorso in ingiurie; niente. Poche parole, ferme, dignitose: — Via, via, lordura! Fuori di questa casa! E tu, vigliacco, fuori! Conduci con te la tua degna complice!… — Nient’altro. Un gesto, un semplice gesto!…

Almanaccava per non esser preso alla sprovvista. Gli pareva quasi di avere una parte da recitare, e se la ripassava a memoria, soddisfatto di saperla bene.

Perciò era atterrito di non ricordare quelle poche parole e neppure il gesto, lungo la strada dal Ministero a casa sua, la mattina che la madre venne finalmente a cercarlo, e lo sosteneva col braccio, dandogli forti strette per scuoterlo e rianimarlo, vedendolo tanto abbattuto che pareva muovesse a gran fatica le gambe. Non avevano presa una carrozza per non dare un segno di allarme alla serva che forse stava in vedetta. Erano sbucati dalla cantonata, sguisciando lungo il muro. Toccato appena il primo scalino, egli si era destato dal torpore, aveva fatte le scale precipitosamente, senza badare a sua madre che non poteva seguirlo con la stessa prestezza.

— Angelo, bada! Hai giurato! — gli sussurrava sua madre. — Aspetta… Non aprir l’uscio… Dobbiamo entrare assieme.

E vedendo ch’egli si frugava nelle tasche, temendo che cercasse un’arma, gli gridò più forte:

— Angelo! Angelo! Hai giurato!

E raggiuntolo con lestezza giovanile dietro l’uscio, ella premette il bottone del campanello elettrico. Angelo aveva una nebbia negli occhi; era pallido come un morto.

La serva, alla vista inaspettata del padrone, retrocedette e diè un acuto strillo:

— Signora!

Angelo le si slanciò addosso e la buttò indietro, sbatacchiandola al muro.

— Figlio mio! — lo ammonì sua madre, tremante.

Ma egli già si precipitava verso la camera da letto, quando nel salottino, incontratosi faccia a faccia col giovane in maniche di camicia e con la moglie che accorrevano al grido udito, si arrestò diventato di sasso, al pari di quei due.

La lingua gli aderì al palato, le braccia gli caddero inerti giù come paralizzate; ma fu un istante. Si spinse lentamente verso colui che non osava di muoversi e che balbettava sconnesse parole di scusa, e gli diè uno strappo al davanti del panciotto: la catena e l’orologio gli rimasero in mano. Allora, con voce repressa, gli gridò quasi su la faccia:

— Pàgala! — pàgala, giacchè te la sei goduta! Pàgala!

La signora Giuditta, intervenne:

— Uscite di qua, sparite prima ch’egli vi ammazzi!

Ma Angelo tornò ad afferrarlo pel panciotto ripetendo:

— Pàgala! Pàgala!

Questa improvvisa idea lo esaltava come un raffinamento di vendetta; e il tono concitato e imperativo della voce e l’espressione degli occhi e del gesto erano così violenti, che il giovane, atterrito, frugatosi nelle tasche, mostrò le poche lire in carta e in rame che aveva trovate:

— Dàgliele!… Pàgala… anche con questo! — soggiunse mettendogli in mano la catena di similoro e l’orologio. — Non ti costerà cara!

E non potè dir altro. Intravide sua moglie rannicchiata in un angolo, con le mani aggrappate tra i capelli in disordine, con la testa china quasi per ricevere un colpo; poi non vide nè sentì più nulla, sfinito dallo sforzo fatto. Solamente, rovesciato come corpo morto sul canapè, col capo su le braccia incrociate e appoggiate alla spalliera, percepiva, quasi sognasse, un rumor lieve di passi frettolosi, di singhiozzi, di parole, di fruscii di gonne, ma così lieve, così lieve, che pareva gli giungesse da immensa distanza, intorpidito, ammortito, e si spegnesse lentissimamente.

— Figliolo mio!

Alla voce della madre balzò in piedi.

E appena capì che oramai erano soli in quella casa d’onde era sparita per sempre ogni dolcezza della vita, si sentì preso dalla furia di spalancare tutte le finestre dell’appartamento perchè l’aria inquinata dal respiro di quei due si rinnovasse dappertutto… Le imposte sbatacchiate rumorosamente facevano vibrare i vetri… Aria nuova! Aria!

— Ed ora conducimi a casa tua, mamma!

Glielo disse con voce di agonizzante.

Diè un’occhiata attorno, in quel vuoto che pure non uguagliava l’immenso vuoto fattoglisi nel cuore, e dietro l’uscio, mentre la signora Giuditta girava la chiave, Angelo non potè frenarsi di esclamare tristamente:

— Forse era meglio perdonarle!