Sui grandi cartelloni della Scala, della Pergola, del San Carlo, dell’Argentina e di altri teatri di prim’ordine, Eliseo Bellacoscia figurava nella categoria dei secondi baritoni; ma, in verità, poteva stare benissimo in quella dei terzi e dei quarti senza nessun’offesa del suo merito reale. Nella categoria dei mariti però (di certi mariti, avrei dovuto dire) secondo il suo intimo amico Augusto Bazzi, tenore, Eliseo Bellacoscia era un Battistini, un Kaschemann, un Pandolfini a dirittura.
Questo prova quanto sia vero il proverbio: Dagli amici mi guardi Dio; dai nemici mi guardo io.
Eppure Augusto Bazzi voleva molto bene all’amico Eliseo che, tre anni addietro, gli aveva salvata la vita assistendolo fraternamente in un albergo di Buenos-Aires dov’egli si era ammalato. E per ciò ora soffriva vedendo l’indegnissimo modo con cui la signora Bellacoscia — che senza dubbio fisicamente faceva onore al cognome del marito — vilipendeva l’onore di lui e ne rendeva ridicola la persona. Giacchè la deplorevole condotta della bellissima e bruna signora Bellacoscia, non era un mistero per nessuno.
Come mai cantanti, coristi, figuranti, attrezzisti, macchinisti e pompieri di quei magni teatri sapessero vita e miracoli di colei, e niente intanto ne fosse trapelato al marito, sembrava all’amico Bazzi prodigio così inesplicabile che, parecchie volte, gli era balenato nella mente il sospetto — ma balenato soltanto! — che Eliseo non ignorasse affatto; e che, o pro bono pacis, o per vigliaccheria di uomo innamorato, o per altro più recondito e non lodevole fine, fingesse d’ignorare e lasciasse correre, e chiudesse tutti e due gli occhi e si tappasse gli orecchi.
— No — rifletteva il Bazzi: — non è possibile!
E ogni parola, ogni atto dell’amico e fin la sua figura veramente baritonale, con quei baffi, quel pizzo e quella zazzera, o meglio criniera, che gl’insudiciava i collari dei vestiti e non risparmiava neppure il collare della dignitosa pelliccia in cui si avvolgeva nelle stagioni invernali, tutto, insomma, induceva subito Augusto Bazzi a scancellare la cattiva impressione di quel lampo di sospetto, e a compiangere in conseguenza più appassionatamente l’amico.
Infatti, per indignazione, per nausea di quella… (egli si serviva di un’efficace metafora) nelle conversazioni, al caffè, nei circoli del palcoscenico, durante le prove, alle trattorie, dovunque si trovasse (e anche per giustificazione del suo disgraziato Eliseo), Bazzi era sempre il primo a tirar fuori la signora Bellacoscia e le di lei non gloriose gesta. E se qualcuno, meravigliato della condotta di così intimo amico, gli diceva: — Ma perchè dunque non apri tu gli occhi al marito? — egli rispondeva subito:
— Non voglio assumere, capite? la responsabilità di una tragedia!
E la risposta sembrava, a quel che pare, soddisfacentissima.
La statura, l’aspetto, la gravità del passo, la sonorità cavernosa della voce, e non so quale riserbo di fronte ai colleghi, che da qualcuno veniva, stortamente, qualificato vanità, si prestavano, non c’è che dire, a far supporre Eliseo Bellacoscia capace di ripetere nella realtà della vita qualcuna di quelle atroci e sanguinose vendette che i librettisti melodrammatici fanno compire ordinariamente, non so per qual ragione, ai baritoni. E per ciò al suo apparire, al suo accostarsi al crocchio dove si rideva allegramente alle di lui spalle, tutti stavano zitti, o rivoltavano il discorso in maniera che, certe volte, il povero baritono era costretto a ridere clamorosamente assieme con gli altri: nè si era mai dato il caso che la sua inconsapevole serenità venisse turbata dall’eccessiva allegria e dalle troppo clamorose risate, non sempre in evidente proporzione col detto o col fatto da cui erano state provocate.
Così, mentre Augusto Bazzi consumava parte della sua non sgradevole voce di tenore per sfogar la bile contro la indegna signora Bellacoscia, il buon Eliseo si serrava tranquillamente nella sua pelliccia, stuonava spesso con impavido animo nelle sue parti, sfidando le solenni arrabbiature del direttore d’orchestra; e nei giorni di riposo, passeggiava con altera dignità per le vie, portando a spasso la moglie che faceva voltar la gente ammirata, e che si tirava dietro sempre qualcuno che le era stato presentato da una provvida amica, qualcuno che durava assiduo attorno a lei una o due settimane e poi non si faceva vedere più.
Eliseo era ormai così abituato a questo caleidoscopio di conoscenti, che si professavano tutti suoi grandi ammiratori, da non stupirsi più della loro sparizione quasi metodica. Raramente gli era accaduto di domandare alla moglie:
— E il tale? Non si vede più!
Nè si era mai maravigliato della invariabile risposta della moglie:
— Che vuoi che io ne sappia? Canaglia!
Canaglia? Perchè? avrebbe riflettuto un altro più curioso di Eliseo Bellacoscia; ma egli, egli alzava le spalle, e si avvolgeva più baritonalmente che mai nella sua magnifica pelliccia.
Una o due volte le circostanze lo avevano spinto a domandarsi perchè mai sua moglie non amasse di frequentare i compagni d’arte di lui; ma, siccome neppur egli ne aveva buona opinione (ne aveva anzi pochissima stima) così quel disdegno della sua bella metà non gli dispiaceva. Rimpiangeva soltanto, in certe occasioni, di non aver sposato non so qual prima donna o comprimaria, che avrebbe potuto contribuire coi suoi guadagni alle spese di famiglia. Soggiungeva però subito:
— Mi lagno a torto; io non so come faccia Rosina, ma ella ha certamente il dono di raddoppiare le risorse!
Infatti Eliseo Bellacoscia a casa sua mangiava e beveva come un principe, ed era lieto che la sua Rosina non gli richiedesse mai un supplimento alla quota mensile da lui dedicata alle spese di casa.
E quando l’amico Augusto, che, come tenore, guadagnava il triplo di lui, si lamentava che i quartali non gli fossero mai sufficienti, egli lo consigliava con aria quasi paterna:
— Prendi moglie, Augusto mio; trovati una Rosina come la mia!
E Augusto si sentiva strozzare dalla risposta che gli saliva su per la gola e che doveva rimandar giù, forse pensando alla temuta tragedia!
***
E la mente gli corse subito alla paventata strage anche quel giorno che, arrivato con due ore di ritardo alla prova, trovò il palcoscenico in subuglio, e la prova interrotta. Artisti, coristi, figuranti, suonatori di orchestra, al vederlo comparire avevano emesso un Oh! così sonoro, così prolungato — il più splendido unisono che l’Argentina avesse mai udito — che il povero tenore si era arrestato tra la seconda e la terza quinta, interdetto.
Quel che non era accaduto in tanti anni, era accaduto improvvisamente due ore addietro, prima che la prova cominciasse e nessuno sapeva dir come e per causa di chi. Circondato, tirato in qua e in là da coloro che volevano essere i primi a informarlo, Augusto Bazzi stentava a capire, a raccapezzarsi.
Finalmente l’atroce verità gli era stata detta e con la forma più cruda.
Da una parola all’altra, insomma, il basso profondo ed Eliseo Bellacoscia, erano arrivati agli insulti: e il basso, forse mezzo avvinazzato, gli aveva sputato in faccia, davanti a quattro o cinque amici, in fondo al palcoscenico, la parolaccia che non doveva più farlo dubitare della sua disgrazia coniugale.
Uno degli astanti ripeteva a Bazzi il breve dialogo scambiato, all’ultimo, tra basso e baritono.
— Sì, becco e contento! — urlava il basso.
— Io? Io? Bada come parli — protestava il baritono.
— Va subito a casa, se vuoi sapere con chi si spassa tua moglie — urlava più forte il basso.
— Vado! E…. e se tu menti…! — aveva minacciato il baritono.
E non l’avevano potuto trattenere; e nessuno avea voluto corrergli dietro per paura di compromettersi.
Augusto Bazzi s’era cacciato le mani tra’ capelli.
Ma il direttore dell’orchestra picchiava in quel punto sul leggìo con la bacchetta, e il direttore di scena gridava: — Signori, silenzio; comincia la prova.
E subito le stupende note del Lohengrin che preludiano alla partenza del cigno erano risuonate nella sala, e il povero Bazzi aveva dovuto cantare l’addio di Lohengrin, forzato a dimenticare per qualche minuto il suo povero amico, perchè col direttore dell’orchestra, quell’anno, non si scherzava.
Io, col permesso dei lettori, debbo qui altamente biasimare la condotta del tenore Augusto Bazzi, il quale dopo di essersi cacciato le mani tra i capelli, non lasciò in asso la prova per andare in traccia dell’amico e impedire una o più disgrazie; specialmente se si pensa che, nel caso di Eliseo Bellacoscia, era da contare anche la probabilità che il marito scornato ne uscisse bastonato o peggio; altrimenti sarebbe mai stato inventato il motto, quasi proverbiale, che esprime in tutte le lingue questa dolorosa sì, ma non sempre evitabile circostanza? E il mio biasimo vuol essere tanto più severo quanto più meritato, visto che l’amico Bazzi, terminata la prova, ebbe la triste premura di farsi raccontare per filo e per segno due o tre versioni dello accaduto, e interrogato il basso profondo che faceva sapere, anche a chi non avrebbe voluto udirlo, come egli avesse veduto quella… della signora Bellacoscia assieme con un ufficiale e li avesse pedinati fino al portoncino della casa di lei, dove l’ufficiale, dopo di essersi tirato da parte inchinandosi per farla passare avanti, le era andato dietro arricciandosi i baffi. E notino i lettori la circostanza aggravante che il basso profondo, non pago di aver finalmente rotto, com’egli diceva, la consegna di non fiatare, esprimeva caritatevolmente l’augurio che quel pezzo di uomo di ufficiale lasciasse al Bellacoscia, su la fronte, un evidentissimo segno della sua qualità di marito.
A questo punto — ne convengano i lettori — il tenore Augusto Bazzi avrebbe dovuto correre, e saltare nella prima carrozzella che gli fosse capitata tra i piedi, e non già indugiare nell’atrio dell’Argentina a sbraitare contro la signora Bellacoscia, quasi non si fosse trattato d’altro, in quel momento, che di narrare quelle che egli chiamava: le grufolate di colei!
Ed io insisto nel biasimo, non ostante che il seguito di questa veridica istoria possa diminuire dinanzi agli occhi dei miei lettori la responsabilità del tenore.
Sbraitava ancora Augusto Bazzi nell’atrio dell’Argentina, circondato da cinque o sei amici, la più parte professori dell’orchestra, quando risuonò sul pavimento della saletta accanto, lo strascichio di una sciabola che fece voltar tutti curiosamente verso l’uscio. Ed ecco disegnarsi nella penombra, in mezzo all’uscio, la figura d’un ufficiale e fermarsi atteggiandosi a un fiero gesto militaresco. Occorsero parecchi minuti di ansioso silenzio e di strizzamenti di occhi e, direi quasi, di buona volontà per riconoscere sotto quelle spoglie Eliseo Bellacoscia che, quantunque un po’ pallido, sorrideva, trionfante, di non essere stato subito riconosciuto.
— Sciagurato!…. Che hai fatto? — gli gridò, accorrendo, l’amico Augusto Bazzi.
— Mi son vendicato! — rispose dignitosamente Eliseo.
E raccontò, quasi come il Nunzio delle tragedie antiche:
— Arrivo al portone, in carrozzella, salgo a due e a tre gli scalini di casa e fo squillare il campanello. Silenzio. Nessuno viene ad aprirmi. Altro strappo al campanello!… La padrona dell’appartamento apre l’uscio di faccia… Mi precipito dentro, senza dire neppur scusi, e mi trovo davanti all’uscio, chiuso dal paletto interno, che divide le mie stanze da quelle della padrona. Una spallata e l’uscio cede… Ma la scampanellata e il rumore fatto, hanno dato l’allarme. E, quando penetro nella camera, veggo i segni sì del disordine, ma non trovo nessuno. Sovra una poltrona e sul tavolino però, scorgo le spoglie di colui abbandonate nello scompiglio… E una grande idea mi attraversa il cervello… A che curarmi dei colpevoli? Dovevo lasciarli tutti e due in preda del terrore e del rimorso. E, in men che non l’ho detto, mi spoglio, indosso gli indumenti accusatori… ed eccomi qui!… Ah, per dindirindio! (fino in quel triste istante l’ottimo Eliseo Bellacoscia non dimenticava il galateo!) Ah, per dindirindio!… Mi attenderà per un pezzo il signor ufficiale! Voglio scarrozzarmi fino a sera, voglio portar attorno le sue conquistate spoglie!… Dovrà buscarsi, per lo meno, venti giorni di arresti!
Da prima nessuno rise, credendo ognuno che il dolore avesse fatto ammattire il povero baritono: ma quando si dovettero finalmente convincere che la sua vendetta di marito non voleva andare più in là, i “bravo!„ i “bene„ e le risate, scoppiarono fragorosamente.
E il tenore Augusto Bazzi, tra irritato e commosso, si limitò a prenderlo pel braccio e a dirgli:
— Vieni, vieni a spogliarti… Non sai che ti possono arrestare?