Da più di un anno c’era l’inferno in casa dell’usciere di pretura Don Franco Lo Carmine, per via della figlia che s’era incapricciata di quel bel mobile di Santi Zitu, guardia municipale, e non voleva intendere ragione.

Don Franco, dalla rabbia, era diventato più magro e più giallo dell’ordinario, e non sapeva discorrere d’altro con le persone a cui portava le citazioni e gli atti uscerili, quasi che tutti dovessero interessarsi di quella sua disgrazia, di quel suo castigo di Dio, com’egli diceva, esaltandosi:

— Vedrete: qualche giorno farò un gran sproposito! Vedrete!

Ma il gran sproposito non lo faceva mai, perchè Zitu portava sempre la daga al fianco, ed era protetto dal Sindaco. Si sfogava però contro la figliuola e anche contro la moglie, che gli pareva tenesse il sacco a quella pazza, a quella sciagurata.

— Che volete che io faccia? — gli rispondeva donna Sara piagnucolando.

— Dovreste spaccarle la testa, quando s’affaccia alla finestra!

— Le finestre le tengo sempre chiuse; non sentite che tanfo? Manca l’aria; non si respira qui dentro.

— Le finestre devono anzi restare aperte, spalancate notte e giorno, e costei non deve affacciarsi!

Urlava perchè Benigna, la figlia, lo sentisse dall’altra stanza dov’era andata a chiudersi a fine di evitare la solita scenata, prima che suo padre si avviasse per la Pretura.

— Ah, Signore, Signore! Com’è svampato questo fuoco in casa mia? Come mai?

Donna Sara si picchiava con le mani la testa spettinata, buttandosi sur una seggiola, e portando una cocca del grembiule agli occhi per asciugarsi le lagrime.

Don Franco però stava sempre sul chi vive: e al minimo momento di largo, scappava dalla Pretura e piombava in casa all’improvviso, per sorprendere la figliuola e Zitu, se mai per caso…

E nei giorni che gli toccava di assistere alle udienze pareva una mosca senza capo; specialmente se Zitu stava là a disposizione della giustizia assieme con due carabinieri, e lui doveva rivolgergli la parola e partecipargli un ordine del pretore per qualche testimone che mancava.

Zitu gli sorrideva con aria ossequiosa, rispondendo:

— Va bene, caro Don Franco!

E appena egli usciva dalla sala, Don Franco perdeva la testa peggio di prima.

Gli pareva che Zitu dovesse approfittare della bella occasione di saperlo incatenato là, dall’ufficio di usciere, per dare liberamente una capatina laggiù e fare lo smorfioso con la ragazza che forse lo aspettava alla finestra. Per ciò egli regalava qualche soldo al figlio del falegname che aveva la bottega di faccia a casa sua:

— Sta’ a vedere se passa Zitu! C’è due soldi per te; vieni a dirmelo sùbito in pretura.

Siccome i soldi glieli dava soltanto quando il ragazzo gli andava a dire: — È passato! — così costui, dopo parecchie volte, per guadagnarsi la mancia, gli riferiva: — È passato! — anche quando non era vero.

— E lei, lei era alla finestra?

— Era alla finestra.

— E gli ha fatto dei segnali?

— Gli ha fatto dei segnali, col fazzoletto bianco!

Don Franco si strizzava le mani, si mordeva le labbra, smaniava. Ma doveva star là, a chiamare i testimoni, fino alla fine dell’udienza; e poi accompagnare a casa il Pretore, che si divertiva a interrogarlo, avendo indovinato di che si trattasse, perchè sapeva la cosa.

— Che avete, Don Franco?

— Ho il castigo di Dio, signor Pretore!

— Infine, se la ragazza lo vuole…

— Piuttosto l’ammazzo con le mie mani, signor Pretore!

— Ma prima con Zitu eravate stretti amici, mi pare.

— È stato un tradimento, signor Pretore!

Quel che Don Franco chiamava tradimento, era avvenuto la sera della processione del giovedì santo, mentre sparavano i mortaretti, appena la statua del Cristo alla Colonna era uscita dalla porta della chiesa, tra il salmodiare dei canonici e le grida dei devoti: Viva il Santissimo Cristo alla Colonna!

Tra la folla, qualcuno aveva osato di dare un pizzicotto a una donna, che s’era rivoltata e aveva fatto nascere una zuffa. Pugni, schiaffi, bastoni per aria, fuggi fuggi, donne svenute, bambini travolti, accorrere di guardie e carabinieri, tumulto!

E Zitu aveva raccolto Benigna, bianca come un cencio lavato, inerte, svenuta anche lei per lo spavento; e avea dovuto prenderla in collo e portarla fino a casa, nel vicolo vicino; e aiutare donna Sara che strillava e piangeva, e non riesciva a sganciare il busto della figliuola stesa quant’era lunga sul letto, come una morta.

— Un po’ d’aceto, donna Sara! Non è niente.

Si era dato un gran da fare. Da un pezzo, egli avea posto gli occhi addosso alla ragazza, e voleva approfittare di quell’occasione per diventare amico di famiglia. E aveva spruzzato d’acqua fresca il viso della svenuta, e le avea prodigato frizioni di aceto alle narici e alla fronte, e frizioni alle mani per rimettere il sangue in circolazione, consolando la mamma che non sapeva fare altro che piangere e disperarsi:

— Non è niente, donna Sara!

Don Franco era sopravvenuto quando Benigna aveva potuto metterei a sedere sul letto, ancora pallida e sbalordita, e Zitu le stava attorno premuroso, insistente:

— Un dito di vino; vi farà bene.

E le reggeva la testa e le accostava il bicchiere alle labbra.

Don Franco ansimava per la corsa e per la fretta con cui aveva montato gli scalini a quattro a quattro, appena gli avevano detto:

— Accorrete; vostra figlia è ferita!

E non poteva parlare, e tastava la figliuola, per indovinare dove fosse ferita. Poi balbettò;

— Dove? dove?

Zitu, capito l’equivoco, rise, e versò un bicchiere di vino anche a lui, dicendo:

— Si sa; tempo di guerra, bugie terra terra.

— Ah!… Se non c’era lui!

Donna Sara si profondeva in elogi e ringraziamenti, ricominciando a singhiozzare per gratitudine, per tenerezza.

— Come vi sentite ora? — domandava Zitu alla ragazza.

Benigna gli sorrideva, facendo una mossettina con la testa significante: Sto meglio!

— Un altro sorso di vino?

— No, grazie!

— Allora lo bevo io alla vostra salute!

— È stato un miracolo del santissimo Cristo alla Colonna! — conchiuse donna Sara.

E Zitu approvò, e Don Franco pure.

— La moglie di Titta il Sordo ha la testa spaccata — egli soggiunse in conferma dell’esclamazione della moglie.

E uscì di casa assieme con Zitu, che lo invitò a bere un bicchiere di vino nell’osteria di Patacca, perchè passando davanti la porta lo zi’ Patacca li aveva salutati.

Volevano raggiungere la processione. Intanto, nella Piazza dei Vespri, Zitu replicò l’invito davanti all’osteria di Scatà.

— Un dito solo, vi farà bene; qui il vino è assai migliore di quell’altro: sentirete.

A Don Franco parve male rifiutare.

— Eh? Che ne dite?

— Si, sì; questo non è battezzato.

— Un altro bicchiere!

Quando arrivarono nel piano di Santa Maria, la processione era già lontana. All’angolo c’era la rivendita della Guadagna, con la frasca di alloro su la porta e il lanternino acceso.

— Qui si trova quello di Vittoria, schietto schietto.

— No, grazie, compare Santi.

Ma compare Santi, prèsolo per un braccio, lo spinse dentro.

— L’ultimo bicchiere, caro Don Franco!

Quell’ultimo bicchiere gli sciolse la parlantina, lo mise in allegria. Don Franco volle raccontare all’ostessa il fatto della processione, il miracolo del Santissimo Cristo alla Colonna! S’imbrogliava, si riprendeva, tornava a imbrogliarsi, e a ogni po’ batteva su una spalla di Zitu: — Bravo figliuolo! — guardandolo con gli occhi rimpicciniti, ammamolati: — Bravo figliuolo!

Donna Sara e Benigna, quando lo videro rientrare barcollante, col cappello su la nuca, esclamarono sbalordite:

— Oh Dio!… Che avete fatto?

— Bravo figliuolo, quello Zitu! Fior di galantuomo! Viva il Santissimo Cristo alla Colonna!

E si lasciò cascare su la seggiola vicina, ridendo in modo strano.

***

Così s’introdusse Zitu nella famiglia Lo Carmine, e potè far visite anche quando non c’era Don Franco. E un giorno che donna Sara lo aveva lasciato solo con la figliuola per andare un istante in cucina, Zitu potè facilmente dire alla ragazza quel che già le aveva fatto intendere con le occhiate, con le premure, con le barzellette:

— Sono pazzo di voi! Se c’è la vostra volontà…

E s’era spinto oltre, visto che la ragazza, improvvisamente arrossita, abbassava il capo; afferratala per la vita, voleva darle un bacio su la nuca.

— La mamma! — esclamò Benigna, che non se lo aspettava. — Per carità, santo cristiano!

Ma al blando rimprovero, Zitu che aveva perduto la testa, le diede un altro bacio, e questa volta su la bocca.

E a quel bacio il cuore della povera Benigna aveva dato una vampata; giacchè il fuoco le si era appiccato sin dal primo istante, quella sera che, rinvenendo, aveva visto Zitu davanti il letto e aveva saputo che era stata portata da lui in collo, fino a casa, come una bambina malata!

Donna Sara si era sùbito accorta di qualcosa, ma era stata zitta.

— Guardia municipale non è un bel mestiere — ella pensava. — Ma, se il patriarca San Giuseppe vuole così!…

Anche lei era abbagliata dalla divisa e dai luccicanti bottoni di rame e dalla daga e dal kepì che Zitu portava con aria spavalda. E stava ad osservare sottecchi, fingendo di non essersi accorta di niente. Tanto più che Don Franco, a cui Zitu continuava di tratto in tratto a regalare buoni bicchieri di vino, ora dal Patacca e ora dallo Scatà, si espandeva in grandi elogi di quel bravo figliuolo, fior di galantuomo, che rispettava tutti e si faceva rispettare da tutti!

Per ciò Benigna e donna Sara cascarono dalle nuvole la sera che Don Franco, tornato a casa tutto accigliato, prima di cavarsi il cappello e di posare la mazza al solito angolo, esclamò quasi con un grugnito:

— Qui non ci deve più venire nessuno! Quel nessuno, si capiva, era Zitu.

— Perchè? Che significa? — osò domandare donna Sara.

— Significa che voi siete una stupida e costei una civetta! Significa che io non voglio gente tra’ piedi in casa mia. Non sono padrone, forse?

E sbatacchiò all’angolo la mazza, che cadde per terra.

***

Un anno d’inferno! In quella casa più non si mangiava nè si dormiva in pace, da che la signorina Maligna (don Franco ora non chiamava altrimenti la figlia) resisteva ai consigli, alle minaccie, e fin alle bastonate, stregata da quell’infame (non diceva più bravo figliuolo) che voleva disonorargli la famiglia. Birri non ce n’era mai stati tra i Lo Carmine, e lui non voleva parenti birri, nè vicini nè lontani! La signorina Maligna poteva mettersi il cuore in pace! Nè lei, nè il suo birro l’avrebbero spuntata!

E le grida e le minaccie e gli schiaffi (don Franco era diventato troppo manesco) mettevano a rumore il vicinato ogni volta che il ragazzo del falegname; per buscarsi i due soldi, andava a dirgli in pretura: — È passato Zitu! — e non era vero.

Zitu anzi non si faceva più vedere da quelle parti; non ne aveva bisogno. Andava, invece, in casa d’un suo amico, entrando dalla via là dietro, senza che nessuno potesse sospettare che l’amico gli dèsse l’agio di salire su la terrazza per parlare comodamente con Benigna da la finestra di cucina.

— Non ne posso più! Vuol dire che non c’è la volontà di Dio! — balbettava Benigna.

— Vuol dire che non mi vuoi bene! Mi ammazzo con questa daga; tu mi vuoi morto, lo capisco!

— No, Santi!…

— Decìditi dunque, se mi vuoi bene davvero!

— Sì, Santi; ma… questo, no! Questo, no!

Zitu insisteva per la fuga; non c’era altro rimedio, secondo lui. Benigna però non ne voleva sapere. E scappava dalla finestra a ogni piccolo rumore, e Zitu si buttava per terra su la terrazza per non essere scoperto da Don Franco o da donna Sara, o da qualche vicina ciarliera.

— Ora è tranquilla, — diceva donna Sara al marito. — Lasciatela in pace, date tempo al tempo. Sant’Agrippina farà il miracolo…

— Si, come quello del santissimo Cristo alla Colonna! — ringhiava don Franco.

— Non dite eresie! — lo rimbrottava la moglie. — Il confessore mi ha consigliato: —

Fate le Verginelle a Santa Agrippina. — Faremo le Verginelle, col pellegrinaggio alla Làmia. Il confessore verrà a dire la messa laggiù…

— Per guadagnarsi cinque lire!

***

Malgrado l’opposizione del marito, donna Sara aveva già fatto l’invito delle Verginelle, cioè di tutte le ragazze del vicinato, una trentina.

Sarebbero andate in processione al santuario della Làmia, nelle grotte d’onde Santa Agrippina avea scacciato i diavoli al suo arrivo da Roma in Mineo; se ne vedevano ancora i segni nelle grotte annerite dal fumo infernale.

La santa miracolosa, che aveva scacciato i diavoli di là, avrebbe scacciato così dalla testa della ragazza la cattiva tentazione di quella passionaccia che manteneva l’inferno in casa loro.

— Figliuola mia, proviamo. Se poi c’è la volontà di Dio!…

E tutta la settimana era passata in preparativi; non si parlava d’altro nel vicinato.

Donna Sara aveva impastato le lasagne che Benigna tagliava nella madia; e ora spennava il gallo e le tre galline da fare in stufato; il pane, lo avrebbero infornato la sera avanti per averlo fresco fresco.

— Sant’Agrippina, vedrete, farà il miracolo, — ripeteva donna Sara.

— Sì, come quello del santissimo Cristo alla Colonna!

Don Franco teneva rancore al santissimo Cristo alla Colonna, quantunque egli fosse buon cristiano.

E il mercoledì appresso, il pellegrinaggio s’avviò. Le Verginelle, vestite a festa, si erano radunate in casa di donna Sara. Ce n’era voluto per indurre Benigna ad andare anche lei; infatti quella mattina ella s’aggirava attorno per la casa, con gli occhi rossi dal pianto, squallida per la nottata passata senza dormire, a discorrere con Zitu dalla finestra di cucina…

Zitu le aveva fatto fare un giuramento: Laggiù, alla Làmia, mentre le verginelle stavano a cantare il rosario nella grotta grande, ella doveva andare a raggiungerlo nella grotticina in fondo al santuario; voleva parlarle a quattr’occhi. Nessuno se ne sarebbe accorto; ci si vedeva così poco in quelle grotte affumicate! Egli era amico dell’eremita che custodiva il santuario; sarebbe andato là la sera avanti:

— Giura che verrai!…

— Giuro, se posso senza dare sospetto!

— Se vorrai, potrai! Giura un’altra volta!

E la poverina aveva giurato. Per questo aveva gli occhi rossi, per questo tremava.

Per la via c’era folla; tutte le comari alle finestre o su gli usci. E quando il sagrestano venne a dar l’avviso che il prete era già partito avanti perchè andava a cavallo, la processione delle verginelle s’istradò recitando il rosario, e fu presto in piena campagna.

La giornata era splendida; la campagna, bionda di seminati; i contadini che andavano al lavoro si fermavano, si tiravano da parte nei punti dove la strada era larga, per lasciar passare le Verginelle che, finito il rosario, procedevano a gruppi, ridendo, ciarlando, cantando anche delle canzoni di amore.

Una delle ragazze presa a braccetto Benigna, le confidava le sue pene. Era innamorata anche lei, e i parenti la osteggiavano:

— I parenti fanno sempre così! Ma io, se essi tengono ancora duro…

E con la mano accennava che avrebbe preso la fuga col suo innamorato.

— No, queste cose non si fanno! — esclamò Benigna.

— Mia zia ha fatto così, — rispose la ragazza. — Ed ora sono tutti in pace in famiglia.

La strada era diventata viottolo scosceso; già si vedevano le roccie rossastre e la vallata; il santuario si trovava là in fondo. E come più si avvicinava, Benigna si sentiva piegare le gambe sotto, tremava tutta. No, non avrebbe saputo sfuggire alle compagne e alla sorveglianza della mamma; non sarebbe riuscita a trovare la grotticina indicata quantunque avesse giurato. Oh Dio! Perchè aveva giurato?

***

Il prete era a piè della gradinata scavata nel vivo masso, col sagrestano e l’eremita. La cavalcatura del prete, legata a un albero, mangiava tranquillamente l’erba fresca.

Che pace, che tranquillità nella valle! Le tàccole e i falchetti volavano, gracidavano, squittivano su per la roccia; tra i pioppi che fiancheggiavano il ruscello, un usignolo gorgheggiava. Le grotte echeggiavano sordamente di canti, di risate.

Le verginelle si disposero in fila, intonarono il rosario e cominciarono a salire la scala strettissima, chinandosi per entrare nel santuario da quella porta o piuttosto buca.

Nella seconda grotta, vastissima e nera, le quattro candele accese sull’altare pareva addensassero l’oscurità attorno. Il prete indossava i paramenti sacri aiutato dal sagrestano. L’eremita andava disponendo le verginelle a sei a sei, in tante file davanti l’altare, scartando questa o quella, indicando il posto a donna Sara, prendendo per mano Benigna e collocandola in coda a tutte. Benigna si sentì morire quando l’eremita, sfiorandole il viso con la lunga e ispida barba, le susurrò in orecchio:

— È là; vi darò io il segnale.

E le s’inginocchiò a lato, rispondendo ad alta voce al rosario, intanto che il prete diceva l’introibo.

Poco dopo infatti egli la prese per mano, la sollevò, la spinse indietro. Benigna vide, in fondo in fondo, un po’ di luce e un fantasma che le veniva innanzi. Sudava freddo, non respirava; e tra le voci del rosario, udiva soltanto quella dell’eremita che rispondeva più forte di tutte:

— Santa Maria, madre di Dio!

Dopo la messa, su lo spianato, mentre le verginelle, fatta la refezione, ballavano al suono del cembalo che una di loro aveva portato, donna Sara si era accostata alla figlia.

Benigna pareva stralunata, aveva le lagrime agli occhi, e non badava al prete che, raccontando il miracolo della scacciata dei diavoli operato colà dalla Santa, additava le buche della roccia donde i diavoli erano scappati alla vista della croce.

— Che hai?

— Niente.

— Il miracolo è fatto! — disse l’eremita, sorridendo e lisciandosi la barba.

***

Ma donna Sara capì molto tardi che la Santa benedetta non c’era entrata per niente.

E Don Franco, che dovette piegare la testa e cascò malato dal dispiacere, oltre al Santissimo Cristo alla Colonna, tenne broncio anche a Santa Agrippina che lo aveva costretto in quel bel modo a imparentarsi con un birro!