PROEMIO.

Questi due nomi, o meglio le due idee, i due giudicii che esprimono, si alternano, si intrecciano, si confondono nel mondo morale, come il filo bianco e il nero in que’ tessuti misti che sono il più volgare indumento degli uomini che vestono panni.

Il diritto non è mai solo nè assoluto in questa bassa valle di lagrime, di soprusi, d’interessi reciproci, di passioni accanite. Quando vi si pianta arrogante dinanzi, guardategli subito intorno, e vedrete far capolino una figura storta e gobba che è l’antitesi del diritto; lo segue passo a passo, gli attraversa il cammino, gli dà il gambetto, lo prende a mezzo il corpo, lotta con lui, e gli si avvinghia alle gambe e alle braccia sì strettamente, che gli amici della pace si affaticano invano a dirimerli e a porli d’accordo.

Sia nel campo politico che nel sociale, diritto e torto non vanno mai scompagnati. Vi sono uomini rigidi e puritani che assumono l’ufficio di giudici, e sono sempre lì per sentenziare: codesto è il diritto. Ce ne sono altri di natura benevola, che continuano le allucinazioni di Don Chisciotte, e si affannano a raddrizzare i torti. Ce ne sono finalmente di quelli che a forza di veder confuse quelle due idee, e l’una pigliar lo aspetto dell’altra, sono divenuti scettici e indifferenti, e chiamati a decidere chi abbia ragione fra l’assassino e la vittima, fra il giudice e l’accusato, si stringono nelle spalle e rispondono: — chi lo sa? —

Voi mi domanderete, lettori, a quale di queste tre classi appartenga lo scrittore di queste righe. La domanda è imbarazzante e forse indiscreta: onde io penso di schermirmene come si suole, rispondendo nè all’una nè all’altra. Io riconosco e adoro il diritto nelle serene e inaccessibili sfere della ragion pura. In questo basso e limaccioso fondo non intendo spaccarla da puritano. Homo sum: humani nihil a me alienum puto. Pigliate il motto di Terenzio in questo volgare significato che non è il vero. Cito il poeta latino, come la più parte dei predicatori la Bibbia. Vo’ dire che l’uso del mondo e degli uomini mi ha fatto piuttosto cauto a proferire il giudicio del diritto e del torto; cauto, dico, non indifferente nè scettico. Ciò del resto sarà chiarito nell’indole stessa del racconto che sottopongo alla vostra benigna considerazione.

Qualche curioso vorrà qui sapere se il fatto ch’io prendo a narrare sia vero o falso. È sempre la stessa storia. Il vero e il falso s’intrecciano anch’essi come il diritto e il torto. Leggete e guardate da voi. Io lo racconto come lo trovo in certe mie note raccolte nel tempo ch’io dimoravo a Trieste.

Avrei potuto, per quella facoltà che hanno tutti i romanzieri, trasportare in altro luogo i fatti e le persone; ma dal tempo che mi avvenne di raccogliere questi appunti, corse un intervallo abbastanza lungo perchè non sia necessario ricorrere a questo palliativo. Lasciamo dunque le cose e le persone al loro posto: e i miei lettori si dieno la pena di prendere un passaporto per quella città che va demeritando ogni giorno l’antico titolo di fedelissima, e viene accostandosi al resto d’Italia, non so bene se per forza di repulsione dall’Austria, o di attrazione per noi. Forse sarà anche qui l’uno o l’altro. Lasciamo il giudizio agli avvenimenti. Se non è il partito più coraggioso, è il più cauto.

Parlando di Trieste io lascio da parte la popolazione avventizia o cosmopolitica, che è la schiuma delle città commerciali. I miei eroi appartengono alla classe indigena, alla città vecchia, alla moltitudine anonima che vegeta come la gramigna sul nudo terreno.

Cominciamo dal basso, se non fosse altro per farla in barba all’antico adagio: ab Jove principium. Del resto barba Giove sta nell’alto e nel mezzo, cioè da per tutto. Abbiate indulgenza e carità per le povere creature che sto per mettervi innanzi.

 

I.

Il Magazzino.

Il magazzino è la più splendida parte delle cose di Trieste; è per così dire l’appartamento di prima necessità; gli altri piani sono men vasti, meno apprezzati, men cari, e s’intende il perchè. Il magazzino è come a dire il fondamento morale dell’edifizio; là si vagliano, si ammassano, si conservano le merci d’ogni clima e di ogni maniera che a tempo vendute, a tempo cambiate, faranno circolare nella città commerciale quello spirito di vita che la sostiene e l’anima. Questo in generale: l’attento osservatore però, solo che passi dinanzi a codesti fondachi, riconoscerà a colpo d’occhio quanto l’uno sia diverso dall’altro, e serbi per così dire il carattere della merce che contiene, dell’attività del padrone, della pulitezza degl’inservienti maggiori o minori. C’è fra questi ultimi una specie di gerarchia; il direttore del magazzino, o semplicemente magazziniere, è un uomo di grande importanza, riceve una grossa paga e risponde per lo più della giornaliera amministrazione. Dopo di lui vengono gli scrivani; poi il capo facchino co’ suoi nerboruti compagni; in ultimo luogo le donne che sono di giorno in giorno chiamate secondo il bisogno a mondare la merce, a sceverare la prima qualità dalle meno perfette, a prestare in una parola quell’opera diligente e tediosa a cui sembrano più adatte degli uomini. Seggono in due o più file, chine sopra la merce che tengono in grembo, e dalla mattina alla sera ripetono l’atto medesimo qualche volta ciarlando tra loro, assai di rado cantando per non scemare la tenue mercede che riceveranno alla fine della giornata. Queste donne, dall’arnese che adoperano, si chiamano sessolotte o sessole,[4] nome che le pareggia ad uno strumento affatto materiale e positivo, e mostra quanto poco conto si faccia della loro speciale abilità. Infatti tutte le altre arti, gli altri mestieri si apprendono per ammaestramento o almeno per esercizio: una tal quale attitudine è necessaria anche per cucinare, per pulire una scranna, per ordinare una stanza; quindi si può fare sì gran differenza fra cuoca e cuoca, fra serva e serva. Ma per l’opera della sessolotta non si domanda che occhio e pazienza: è un’arte nella quale si può farsi eccellente in un’ora; quindi, s’intende, è l’infima condizione in cui devono necessariamente trovarsi siffatte femmine: si pigliano, si adoprano, si rimandano senza scelta, senza domandare nè nome, nè età, nè condizione, nè altro. Si vuole una macchina semovente, dotata d’occhi e di mani, e basta così. La professione di cui parliamo è dunque l’ultima fra le industrie che si confessano senza rossore e senza giri di frase: è l’operaia ridotta a’ suoi minimi termini che dà tanta parte del suo tempo per tanti soldi, senza che si domandi se ha fatto meglio o peggio delle altre.

Non crediate però che il loro guadagno sia tanto misero, o la condizione sì universalmente abbietta, come potrebbero credere quelli che hanno visitato gli opifici della Francia, della Germania e dell’Inghilterra. A Trieste, grazie alla sua posizione, a’ suoi privilegi, ad una certa liberalità degli indigeni, qualunque presti un’opera ha una mercede che basta a vivere: semprechè l’opera si colleghi a quella vasta macchina che domandiamo commercio. Queste povere donne traggono dunque un profitto che, se fosse durevole, e in certo modo assicurato per tutti i giorni dell’anno, potrebbe rendere la loro condizione invidiabile alle stesse modiste e alle sarte che sono così altiere dell’arte loro, e se ne fanno una specie di vanto. Una lira o due, che è l’ordinaria giornata che guadagnano, nelle mani di una donna economa e buona massaia, basta a provvederla sufficientemente perchè non accatti, e non ricorra ad altre fonti di sudicio lucro. Intesi dire che le femmine che si dànno a simile industria non sono tutte spregevoli; che c’è fra loro qualche madre di famiglia la quale con quella tenue mercede saggiamente usata potè nutrire più figlie, farle ammaestrare in altre arti e onestamente accasarle: prova che non c’è stato sì povero dove sia impossibile l’esercizio dei primi sociali doveri.

In uno di questi fondachi sedevano una ventina o più di queste operaie, occupate a mondare non so bene se gomma o caffè: sedevano come dissi, in due file, sopra sgabelli assai bassi, intente all’opera senza parlare, senza guardarsi, rivolte verso l’ingresso del magazzino per ricevere da quell’unica apertura quanto di luce bastasse al lavoro. Erano tutte di Trieste, tranne due sole, madre e figlia, le quali all’aria del volto, al bruno pallor delle carni si sarebbero dette di un altro clima. Erano infatti dell’Italia di là, non dirò di qual paese, ma la cadenza prolungata della parola le mostrava nate sul mare. La più attempata guardava spesso la figlia, sedutale allato, in aria di compassione e d’affettuoso rimprovero e punzecchiavala tratto tratto col gomito, quando alcuno dei sorveglianti le passava da presso, perchè la giovine dimenticava talvolta il lavoro, e restavasi sopra pensiero colle dita conserte in attitudine dolorosa. Una lagrima di cui la poverina non si accorgeva, le rigava di quando in quando la guancia pallida, e cadevale sulla merce che doveva sceverare dalla mondiglia. Scossa dalle parole o dal gesto della sua vigilante vicina riprendeva l’opera, si affrettava come volesse riparare all’indugio, o togliersi col moto accelerato ai crucciosi pensieri che l’occupavano. Ma questi riacquistavano tosto il primo dominio, onde la misera obbediva senza avvedersene a due forze diverse: tutta l’anima sua era volta ad altra parte, e le mani compiendo meccanicamente il lavoro a cui s’erano abituate, per difetto di attenzione rigettavano il grano, e tenevano in serbo le bucce. La madre che non la perdeva d’occhio, se ne avvedeva, ma dissimulava, e rimediava ella stessa al disordine, tanto che gli scrivani o il magazziniere non avessero ad escludere la figliuola nei dì seguenti.

Il sole intanto, tramontando sereno, tingeva il fondaco ed il viso delle operaie di quella rosea tinta del nostro vivace crepuscolo: poi la luce a poco a poco veniva meno: ai giovani del magazzino pareva mille anni di poter uscire di catena, e andare a zonzo per le contrade: stromenti e merci si riponevano per l’indomani, e le donne, ricevuta la loro paga, tutte quelle che non erano in caso di lasciarla ammassata per la domenica, sfilarono a due a due, a tre a tre dalla porta, e s’incamminarono ai loro tugurii verso la barriera vecchia, quartiere che le ricovera a più tenue prezzo che non potrebbero altrove.

 

II.

Madre e figlia.

— Marta, — diceva la più attempata delle due donne — Marta, tu vuoi che finalmente ti tolgano quest’ultimo pane che ci resta. Ho paura che il capo facchino si sia accorto della tua sbadataggine. Sai che a loro poco importa la persona: una o l’altra è lo stesso.

— Magari domani! così andrò a vivere con lui! — Queste parole uscirono rapidamente e come un singhiozzo dalla bocca della ragazza che avrebbe voluto richiamarle, sapendo bene quale ne sarebbe stata la conseguenza. La madre non rappiccò il discorso per tutta la via. Passarono lungo il Corso tutte e due taciturne, e cogli occhi abbassati, proseguirono il loro cammino sin presso la barriera, e ad un punto volsero a dritta, e salirono la contrada che mette al castello. A metà del pendìo, entrarono in uno di quei vicoli senza nome e si chiusero nella loro povera stanza.

Non vi farò una lunga descrizione di questa. Immaginate una topaia, mal difesa dal vento, colla porta sconnessa sui gangheri, uno di quegli asili della miseria, che la miseria sola conosce, e che gli uomini bennati non hanno mai veduto, se non nel più stretto incognito, e per fini da tacersi: noti al più a qualche dilettante di filantropia o all’agente del proprietario che vi bussa due o quattro volte all’anno per esigervi la pigione. Un odore tutto suo, che questi soli conoscono, ti nauseava appena entrato, ad onta che la finestra fosse stata aperta dalla mattina. Un pajo di seggiole, un rozzo tavolino, un lettuccio, povero ma pulito, erano tutte le masserizie; sopra il letto pendeva un’immagine della Madonna di Loreto, e accanto a quella due candele di cera già state accese, come mostrava il lucignolo, e là serbate si vedrà più tardi a qual uso.

Marta avrebbe voluto che la madre fosse la prima a rappiccare il discorso: sentiva la necessità di spiegare in un senso men tristo le parole che le erano sfuggite per via, ma non sapeva da qual parte entrare in proposito. La vecchia taceva, o perchè volesse rimproverarle alla figlia col suo silenzio, o perchè l’avessero tocca troppo aspramente. Dopo alcuni minuti di silenzio, la giovine le si gettò al collo piangendo, e le chiese perdono. Il perdono, come si può credere, le fu prima accordato che chiesto: la povera madre sapeva bene che il desiderio espresso in quelle parole non era desiderio di abbandonarla, sapeva bene che al punto di effettuarlo, il cuor di sua figlia vi avrebbe repugnato invincibilmente. Andrò a stare con lui. Son poche sillabe che udite in quel momento, proferite con quel gemito doloroso, bastarono a rilevare tutta una storia di amore, di rimorso, di rassegnazione!

Chi però non amasse di vagare ne’ campi dell’induzione, sappia da questo momento che lui era la persona  più cara alla giovine, dopo la madre; sappia ch’egli non era uno di quei signorini che s’impadroniscono a buon mercato del corpo, dell’anima e dei pensieri d’una credula giovanetta, della quale dopo un mese sono annoiati. La persona che Marta indicava con quel pronome, era un giovine che le s’era profferto a marito; ma entrambi poveri e sprovveduti di uno stato, se aveano ceduto al primo impulso del cuore per amarsi e per dirselo, avevano dovuto arrendersi al consiglio della prudenza che dissuadeva tali nozze immature, finchè il giovine non avesse tra mani un mestiere che bastasse alla sussistenza d’entrambi. Marta non aveva al mondo che la sua tenera madre; Federico, così chiamavasi lui, non aveva più genitori: era nipote di un barbiere che non gli aveva lasciato in eredità che una mezza dozzina di rasoi, altrettanti asciugatoi rattoppati, due testiere da parrucca, e la scienza molto superficiale di radere i peli del mento senza intaccare la pelle. Sono gl’istrumenti materiali di un Figaro, ma senza l’altro corredo accessorio che è indispensabile ad un barbiere di qualità, si può ben pensare che il povero Federico non avrebbe potuto campare a Trieste. Le due donne gli fecero coi loro risparmi una modesta scorta, ed egli aveva cercato fortuna in una piccola terra lungo il littorale dell’Istria. Prima di partire egli aveva dovuto giurare alla giovine di sposarla appena egli potesse dirsi fondato nell’arte sua e solidamente collocato in qualche luogo. Le due candele erano state accese in quella occasione dinanzi alla Madonna, giacchè madre e figlia aveano creduto così render più solenne la promessa, e inviolabile il giuramento. Proferito questo, in quella cameretta medesima, Marta e Federico si riguardarono come congiunti da indissolubile nodo, come fidanzati dinanzi a Dio. Federico, fatto un fardello delle sue robe, si era accomiatato piangendo dalla fanciulla, la quale dovea rimaner colla madre finchè fosse giunto il giorno desiderato nel quale avessero potuto ricongiungersi tutti e tre.

Intanto ch’io vi spiego alla buona il senso di quel misterioso monosillabo lui, le due donne strettamente abbracciate in un dolce empito di amor filiale e materno, s’erano dette assai cose che non si potrebbero significare a parole. Quelle due donne, l’una vedova da gran tempo, l’altra priva del padre che non aveva potuto conoscere, aveano concentrato in questo solo affetto tutta la potenza del loro cuore. Le comuni disgrazie, le comuni angustie, il lavoro assiduo e monotono al quale doveano darsi, le aveva fatte per così dire necessarie l’una all’altra; e il nuovo amore che da qualche tempo si venìa radicando nell’anima della fanciulla, pareva alla madre, e forse anche alla figlia, una specie di usurpazione sull’antico indiviso affetto di entrambe. Quindi il rimorso di Marta per aver profferito quelle parole, e la rassegnata tristezza della povera madre. Ma, come dissi, in pochi istanti i due cuori s’erano ravvicinati, e s’amavano più di prima.

— Abbandonarvi per lui! — disse Marta — per lui che da quattro lunghi mesi non mi ha dato segno di vita! — e si tergeva una lagrima, che non avea saputo reprimere.

— Quante volte non te l’ho io detto che alla fine…. Già gli uomini sono fatti tutti ad un modo.

— E dire che Federico pareva tanto diverso dagli altri! Pareva davvero un buon figliuolo, gentile con voi più ancora che con me, si sarebbe detto non avesse volontà diversa dalla vostra. Ma la lontananza! Io non ho mai potuto approvarla questa idea. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Se fosse restato a Trieste, la città è grande, ci sarebbe stato pane anche per lui….

— Intanto Dio sa dove saranno andati i cento cinquanta fiorini ch’io aveva messi da parte per la tua dote?

— Povera madre, a forza di stenti e di lavori continui!… Ma questi almeno non saranno perduti: abbiamo la sua lettera che ce li garantisce abbastanza.

— La lettera! Un pezzo di carta! Se l’obbligazione non è più scritta nel suo cuore, io fo giusto conto di averli perduti.

— Oh madre mia! Questo poi non posso crederlo! Li avrebbe rubati a voi stessa! Credetemi non posso supporlo così scellerato.

— E già tu l’hai sempre nel cuore…. sempre sei lì per difenderlo! —

Marta taceva chinando la testa sul petto in attitudine dolorosa. La madre pentita alla sua volta d’averla tocca troppo sul vivo, modificò in tal guisa le sue parole:

— Via, non facciamo giudizi temerari. Aspettiamo ancora questi pochi giorni; le prossime feste poi faremo una scappatina fin laggiù! Si potrebbe intanto scrivere….

— Oh! scrivere…. s’io sapessi scrivere! ma quel dover fidarsi ad un terzo, e poi…. Ci vuol altro che una lettera! Sì, madre mia, voi dite bene: anderemo a trovarlo la prossima Pentecoste: voglio vederlo in faccia: oh! io me ne accorgerò bene se mi ha dimenticata.

— Due paroline ti avranno già bella e persuasa….

— Oh! non sarò più così facile. Lo guarderò negli occhi, lo guarderò: vedremo se saprà darmi ad intendere ciò che non è!

— Ma non sarebbe meglio avvisarlo?

— No, dobbiamo fargli una sorpresa. Tanto meglio se giungeremo improvvise: così sapremo tutto per lungo e per largo.

— Ebbene: ma intanto datti pace: perchè vuoi angustiarti come stasera? Credi tu che quelle altre là non t’abbiano veduta piangere? Le buone lingue che sono! A quest’ora si saranno al certo sussurrate all’orecchio che egli ti ha piantata, che sposa un’altra, e chi sa quante simili fandonie!…

— Oh madre mia, che dite voi? Se sapeste! Questa idea mi è passata propriamente per la testa tutta stasera. Se fosse un presentimento! Guai, Federico, guai, vedi! Un’altra!… Non te ne lascerò il tempo! — E qui il viso di Marta, fino a quel punto pallido e rassegnato, prendeva un’espressione d’ira e di gelosia: le sue labbra malinconiche si affilarono e si contrassero, gli occhi le brillarono d’insolita luce. Era un altro lato del suo carattere che i lettori conosceranno meglio nel seguito del racconto.

 

III.

Di chi la colpa?

I giudizi del mondo sulle colpe e sui meriti umani sono il più delle volte falsi e crudeli. La nobiltà dei natali, il grado elevato, lo splendore delle ricchezze abbagliano per così dire i nostri occhi e ci rendono indulgenti per tutto ciò che commettono i grandi di male, mentre le minime loro virtù, i minimi pregi, strombazzati dalle facili bocche dei cortigiani, vengono decantati come meraviglie, come portenti. Le azioni dei poveri invece, se sono buone, non trovano un’eco, sono cose ordinarie, è il loro dovere: se sono triste, son degne di forca. Nè si bada se non sieno spesse volte imputabili alla miseria, alla fame, all’ignoranza, alle vessazioni che soffrono, all’occasione che spesso tira l’uomo pei capelli e lo conduce ove da sè non andrebbe, massime se fin da fanciullo fosse educato all’onore, alla onestà, a quella religione ch’è maestra del bene, e possente preservatrice dal male. Non si bada alle diverse condizioni delle persone, ai mestieri che diffondono tanto spesso il contagio, e, mentre sono inseparabili dalla società, qual è costituita finora, imprimono ciò non ostante una specie d’infamia al misero che li esercita, e lo pongono senza sua colpa sotto il peso di una sinistra e invincibile prevenzione. Andate a dire alla gente del mondo, che la tale cameriera è onesta al pari che bella; che il tal parrucchiere che va di casa in casa non s’occupa più in là dei capelli; che la crestaia non dà retta ad alcuno di quegli zerbini che le ronzano intorno! La gente del mondo si crederà tosto in diritto, e quasi quasi in dovere di ridervi in faccia, e vi accuserà per lo meno d’innocenza e di dabbenaggine.

Premisi quest’esordio perchè non si cerchi più oltre la ragione del titolo Di chi la colpa? Io vorrei che il benigno lettore tenesse un po’ conto dell’onestà di quelle due donne, e vorrei dall’altra parte che imputasse all’arte che esercitava Federico una buona porzione de’ suoi difetti.

Federico, com’ho detto, era barbiere, non per volontaria scelta, nè per vocazione, ma perchè nipote di un Figaro, ed erede de’ suoi strumenti. Fin da bambino non avea veduto far altro, non avea appreso che a far la saponata e a menar il rasoio: cosa gli restava di meglio che succedere nel mestiere al suo defunto parente? Sventuratamente coll’arte materiale s’era tinto senza saperlo delle consuetudini di suo zio, e ciarlava di tutto e credeva il peggio delle novelle che alla sua bottega spacciavansi, e non vedeva l’ora di essere iniziato in quei misteri che gli parevano cosa non punto pericolosa, ma lepida e lucrativa. In una parola, in poco tempo ei fu tale da giustificare la volgar prevenzione, e quando conobbe Marta, era già mariuolo matricolato e perfettissimo Figaro. Povera donna!

Non voglio dire con questo che fin da principio egli si proponesse d’usarne a mal fine, nè che l’amor suo per la giovane fosse tutto finzione. Non voglio calunniare alcuna condizione, per abbietta che sia, nè intendo che i barbieri debbano avere sul cuore il pelo che radono dalle gote. Il barbierino l’amava: Marta era una bella ragazza, di forme piuttosto quadre, pallida ma non sparuta, colla testa incoronata dalla più bella capellatura che Figaro avesse mai trafficata alla sua bottega. Essa lo amava, e amor chiama amore. Se il matrimonio si fosse conchiuso al momento, se i due sposi avessero potuto accasarsi e vivere insieme, la sarebbe stata una famiglia di più, nè più nè meno felice di tante altre. Ma il letto, la dote, la previdenza materna, gl’indugi imprevisti, la speranza di un terno al lotto o di un’altra eredità, l’eldorado che sognano gli innamorati per l’indomani, tutto ciò aveva fatto differire le nozze, e persuaso il giovane a fare il suo tirocinio in una città dove avesse un minor numero di rivali e di concorrenti. Intanto il diavolo ebbe tutta la comodità di mettere la sua coda fra i due fidanzati come furono un dieci miglia distanti l’uno dall’altro. Federico portò in una piccola città dell’Istria le idee di Trieste: volle fin da principio abbagliare colla ricchezza degli addobbi, e cattivarsi un buon numero d’avventori. Prese a pigione una vasta bottega che volle nominare Stabilimento, parola magica, ma per ordinario di poca stabilità. Fece venire da Trieste quattro capaci poltrone, due foderate di marrocchino, due di stoffa rabescata e superba, per le pratiche più distinte. Le pareti sfolgoravano di vasti specchi, a ciascun lato dei quali sporgevano doppieri di bronzo dorato. Dal soffitto pendea una lumiera a tre becchi, elegante di forme, e sospesa per modo che poteva girarsi e illuminare il più ritroso pelo che fosse sfuggito al rasoio. Tra gli specchi figuravano parecchie litografie colorate, per dar materia a parlare e a pensare a quelli che, secondo i suoi calcoli, avrebbero dovuto annoiarsi aspettando che si spedissero i primi venuti. Prese un paio di garzoni al suo servizio, li volle ben vestiti e ben disposti della persona, perchè nulla d’inelegante avesse a ferir l’occhio in un tempio destinato alla moda e alla gentilezza. Non mancavano sugli stipi intarsiati nè i giornali di Parigi, nè gli indispensabili figurini che prescrivessero la foggia e quasi il color dei capelli. Non conosceva a dir vero l’arte di architettare un frontino, una parrucca che ingannasse l’occhio, e potesse dileguare il sospetto di prematura calvizie: ma s’avvisò di fare una scorreria nei dintorni per comperare a buon mercato dalle povere villane la spontanea ricchezza delle loro trecce, le quali con minor fatica accomodate e pulite, potevano riparare ai danni del tempo o della toilette nelle attempate matrone di quella città. Una ricca suppellettile di rasoi, di pettini, di variopinte pomate, d’olii odoriferi e portentosi completavano questa officina che sarebbe stata meraviglia a Trieste; figuratevi poi che spicco dovesse fare in provincia!

Ma chiederete voi, dove trovò Federico il danaro per tutte codeste masserizie, per tutti codesti addobbi? Voi ricorderete che egli aveva ricevuto dalla sua futura suocera centocinquanta fiorini; ricorderete ch’egli era conosciuto a Trieste, dove si può indebitarsi per sei mesi con molta facilità, massime chi vuol piantare stabilimenti, e ha una dose sufficiente di ciarlataneria e di fiducia in se stesso. — In sei mesi — diceva egli — io avrò pagato i miei mobili, la mia pigione, i miei garzoni, e potrò restituire alla Marta i suoi danari…. e forse la sua promessa. — Io non so se dicesse quest’ultimo, ma lo pensava. Le sue speranze gli avevano piena la testa d’albagia. — Marta forse mi converrebbe oggidì, ma fra sei mesi, quando mi farò chiamare monsieur, quando sarò padrone di uno stabilimento, quando non potrò bastare al numero crescente dei miei avventori! Ci penseremo. A buon conto, il matrimonio non è celebrato, e se mi verrà fuori un miglior partito costì fra quei Vandali, io non sono già schiavo d’una parola senza conseguenza. — Così pensava Federico, fondato su quella fragile e incerta base che voi sapete; base che doveva in poco tempo mancargli sotto e lasciarlo cadere nel precipizio con tutte le sue folli speranze.

Le grandi città, specialmente se commerciali, aprendo un libero varco alla concorrenza, nè avendo il tempo per discernere l’oro dall’orpello, possono talora avverare questi calcoli, e favorire chi sa più destramente abbagliarle coll’apparenza. Ma la bisogna non va così nelle piccole. In queste la gente è meno occupata de’ proprii fatti, e quindi bada più a quelli degli altri: l’occhio linceo del provinciale penetra i più secreti misteri delle famiglie, vede per entro alle muraglie, entro agli scrigni, come se fossero di cristallo, e se non c’è una realtà che giustifichi l’apparenza, il ciarlatano è sbertato in due settimane, e non c’è più chi lo salvi dalle beffe e dal danno. Nelle grandi città il segreto di guadagnare molto è quello di saper perdere a tempo: nelle piccole la più stretta economia è necessaria ad ammassare, quattrino per quattrino, un povero capitaluccio che basti appena per non soccombere ai casi emergenti. Per venire al concreto, Federico avrebbe potuto redimere se stesso a Trieste, dove la barba si rade ogni giorno, e i capelli dei giovani eleganti si scompigliano così spesso: ma nell’Istria la cosa è diversa. Quivi non c’è penuria di quelli che si radon da sè, e pochi son quelli che pagano il barbiere a moneta sonante; e le donne hanno gran cura dei loro capelli, e non li affiderebbero per tutto l’oro del mondo alle mani di un parrucchiere. Le sue trecce comperate a contanti non passarono mica, come ei si credeva, dalla nuca delle villane alla fronte delle matrone, ma rimasero ad ornare le vetrine del suo negozio, invecchiando senza profitto. In una parola, bastarono due mesi ad esaurire i capitali e le speranze di Federico. La sua bottega non potè mai divenire un fondaco di grandi guadagni: divenne un convegno di gente sfaccendata che trovava meglio il suo conto ad oziare costì le lunghe sere su quelle soffici poltrone, che ad acculattare le sedie di un caffè, dove l’urbana ospitalità del garzone non avrebbe tardato molto a porre a contribuzione la borsa. A farla breve, nella bottega di Federico si tagliavano più panni che non si radessero peli, si vendevano più scandali che parrucche, si spacciavano più avventure che pomate odorose. E il padrone? Ei lucrava talvolta il titolo di faceto, la lode di smaliziato, ma non ricattava le spese della sua splendida illuminazione.

In capo a due mesi i suoi poveri fondi furono al verde: provò a indebitarsi anche là, ma non trovò quel credito che s’aspettava: le scadenze cominciarono a parergli più prossime, più irreparabili, più ruinose; ai centocinquanta fiorini di Marta appena volgeva un pensiero: la giovine, la promessa, il matrimonio gli sembravano cose assurde. Voleva scriverle, ma che mai? Perchè versare in quel cuore, che lo amava sì caldamente, quel principio di disperazione che già lo rodeva? E poi…. E poi…. forza è dirlo. Egli aveva già mancato a que’ giuramenti: un’altra donna s’era impadronita dell’amor suo, e avea contribuito per la sua parte a sciupargli quel po’ di scorta. Se si fosse conservato fedele alle sue promesse, avrebbe forse trovata la forza di domandar consiglio alla vecchia che dovea fargli da madre, i cui consigli avrebbero forse, se non impedita, almeno resa meno fatale la sua rovina. Ma egli non poteva gittar tutta la colpa sulla fortuna; sentiva quanta parte glie ne toccasse e quando questi pensieri venivano a molestarlo, li affogava nel vino.

 

IV.

Delusione.

Abbiamo lasciato il nostro Figaro ad annegar nel vino il pensiero delle imminenti scadenze, e quel resto di amore e di gratitudine che ancor lo legava alla povera Marta. Lo sciagurato non era solo; un’altra donna gli sedeva accanto nella remota taverna, dove sciupava la sera gli scarsi guadagni della giornata. Non siate sì presti a giudicarne sinistramente. Era una giovane di 25 anni, fantesca, cuoca, cameriera, governante e padrona, come vi piace meglio, di un ricco possidente di quella terra: una donna onesta, come ella diceva ad ogni dieci parole, che amava il vantaggio del suo padrone come suo proprio, che lo aiutava a vestirsi la mattina, a spogliarsi la sera, perchè era vecchio e gottoso, gli ammanniva i bocconi più ghiotti, gli augurava cent’anni di vita…. nell’altro mondo, semprechè morendo si ricordasse di lei e dei lunghi e vari servigi che gli aveva reso con una delicatezza e un disinteresse impareggiabile e degno del più generoso compenso. Sono parole sue. A quell’ora (erano trascorse le dieci) dopo aver messo a letto il suo caro padrone, e spento il fuoco nella cucina, e uditolo russare nel suo letto tranquillamente, a un cenno di Federico era uscita di casa pian piano, e andata con lui a esilararsi un po’ dopo le fatiche del giorno; e questo, già s’intende, senza che nessuno avesse a dir nulla sul fatto suo. Essa era libera; egli era libero (s’era ben guardato di dirle quanto innanzi fossero andate le sue relazioni con Marta); potevano un giorno divenire marito e moglie, solo che quel vecchio rantoloso del suo amato padrone s’imbarcasse un bel mattino per l’altro mondo. Intanto era giusto che si trovassero un poco assieme per conoscere reciprocamente il loro carattere, e non contrarre certi legami colla testa nel sacco, come si suol dire fra la gente giudiziosa. Questi erano i loro discorsi, quando dovevano respingere o preoccupare qualche indiscreta supposizione.

Tal è la facile morale delle sue pari; e qui ancora siamo costretti a ripetere: Di chi la colpa?

Sedevano ad un piccolo desco l’uno rimpetto l’altra, guardandosi tratto tratto in aria carezzevole, e scambiandosi fra loro alcuna di quelle frasi onde la gente volgare suole significarsi il reciproco attaccamento. Dico attaccamento e non amore. Federico e Giustina erano più attaccati l’uno all’altra che amanti. Egli vagheggiava in lei gli orecchini d’oro, la collana, i buoni scudi che aveva messo da parte, e più di tutto l’influenza che esercitava sul suo padrone, tra i più facoltosi della città.

Ma dopo aver sacrificato i più begli anni al servizio di un vecchio celibatario, sfidando da una parte le noie, le fatiche, le veglie, dall’altra le maldicenze e i giudicii temerari del mondo, avea bisogno di riposare il pensiero nell’idea di un marito che un giorno potesse riabilitarla ai proprii occhi e far tacere le male lingue. I debiti e un interesse pecuniario tenevano le veci d’amore in Federico: un interesse morale, men turpe dell’altro, aveva fatto gradire a Giustina le galanterie del barbiere. Chi avesse letto nei loro cuori questa miserabile pagina, avrebbe riso alle calde proteste d’amore, alle improvvisate espansioni dei due innamorati. Ma che vado io applicando al caso nostro questa ipotesi trista e divenuta già sì comune? Nel nostro c’erano due ragioni che scusavano una tale dubbiezza: i debiti da una parte, e il bisogno di migliorare la propria riputazione dall’altra. Checchè ne fosse, i due amanti erano ancora nella felice illusione, ignoravano il secondo fine che dettava quelle parole e quelle carezze, e forse anche non avevano confessato a se medesimi la propria frode. Aveano ancora più buona fede che non suol trovarsi in persone più alte in simili casi. Ma era giunto il momento della grande rivelazione.

— Giustina, — disse Federico alla sua compagna, dopo aver biascicato la parola per un buon tratto, e sperimentato nella sua mente almen dieci maniere per entrarle in materia — Giustina, voi mi andate assicurando che mi volete bene. Da due mesi che ci conosciamo me l’avete detto più di cento volte, ed io…. io ve l’ho sempre creduto sulla parola.

— Ebbene che cosa vorreste dire? Che non ho detto la verità? Voi piuttosto….

— Mi guardi il Cielo di farvi questo rimprovero. Anzi io sono tanto sicuro dell’amor vostro che questa sera sono risoluto di metterlo alla prova.

— Oh! questo poi!… interruppe la donna con quella dose di ritrosia che era conveniente alla sua posizione. Questo poi!…

— Un po’ di pazienza; non date una sinistra interpretazione alle mie parole. Voi sapete quante spese ho dovuto incontrare per metter su il mio stabilimento con quel decoro e con quel lusso che sapete. Io speravo che gli affari avessero a prosperare fin dai primi momenti. Se ne sono vedute tante delle fortune! Ma tutti i paesi non sono uguali, e debbo confessarvi che finora il fatto non ha giustificato i miei calcoli. —

Giustina lo ascoltava con una cert’aria tra la perplessità e l’impazienza. Non sapeva ben vedere a che parasse questo bel ragionamento di Federico; ma la sua naturale accortezza le fece intravedere che l’esordio non doveva condurre nè ad un regalo nè ad altra cosa di buono per lei. Tuttavia dissimulò e lasciò che l’amico tirasse innanzi.

— Voi m’intendete — soggiunse Federico.

— Intendo, — rispose Giustina sbadatamente; come quella che non aveva inteso nulla, o non voleva intendere più in là.

— Dunque, ho contratto degli impegni. Per non mostrare, come si dice, il lato debole, bisogna che fra pochi giorni io sia in istato di pagare il semestre a quel satiro del padrone, e dare almeno un acconto a quello di Trieste, che mi ha venduto le mobiglie.

— Sicuro — soggiunse Giustina.

— Dunque, — conchiudeva sempre l’amico, — se io non trovo alcuno che mi dia la mano in questa circostanza, dovrò sfigurare.

— Eh certo!

— Mi consolo che voi stessa ne convenite, mia buona Giustina, e non dubito che….

Giustina restava immobile e alquanto imbarazzata a questa interpellazione fatta direttamente a lei.

— Già — seguiva Federico — presto o tardi noi dobbiamo fare una casa sola…. Se è vero che siate disposta a darmi la mano di sposa, i vostri interessi sono fino da questo momento una cosa comune….

— Eh! ma…. bisogna vedere….

— Che cosa?

— Perchè…. come volete ch’io possa?… Sapete pure che sono una povera serva….

— Se poi mi cambiate parola….

— Io no, ma alfine….

— Voi mi avete detto d’aver messo da parte qualche cosa, e che alfine non vi sposerei senza dote.

— Quando saremo al momento…. Dirò…. io non ho messo da parte nulla…. ma il padrone m’ha promesso che quando mi fossi maritata, quando avessi trovato un buon partito, un giovine solido, come egli dice, non mi avrebbe abbandonata.

— Ebbene il vostro padrone sa che noi ci vogliamo bene….

— Che dite voi? Meschina me se lo sapesse! M’avrebbe già scacciata dalla sua casa.

— Giustina, voi mi scambiate le carte in mano. Non sono quindici giorni che voi mi assicuraste di averne fatto parola al vecchio.

— Io? Ah sì! Adesso me ne ricordo…. ma così all’aria senza dire nè chi nè quando. Gli ho detto che ogni anno passa un anno, e ch’era tempo ch’io mi accasassi. Che v’era un tale….

— Ebbene?

— Ma non gli ho mica detto il nome, sapete! Povera a me! E ora tanto peggio: perchè egli vuole un uomo solido, che abbia qualche cosa. Vedete bene….

— Io veggo bene, — soggiunse Federico senza perdersi di coraggio — veggo bene che voi cercate pretesti per mancare al vostro impegno. Veggo bene Giustina che voi non mi amate punto.

— Io? anzi vi ho sempre voluto bene.

— A parole, ma ora che siamo venuti al fatto vi tirate un passo indietro, e fate quel conto di me che fareste di un estranio. Sia come non detto.

— Ma no, Federico, credetemi, s’io potessi….

— Potete benissimo, ma vi manca la volontà, vi manca l’amore. Conosco un’altra persona che nel caso vostro non avrebbe aspettata la domanda per darmi aiuto, e quasi quasi sento rimorso di averla trattata….

— Eh già! Voi parlate di quella di Trieste, della vostra prima fiamma. Andate da lei dunque; perchè mi venite a seccar me?

— Perchè io sono un pazzo a prestarvi fede; perchè sono stato ingannato dalle vostre belle parole. Niente, niente. Sia per non detto. Domani saprò che cosa devo fare….

— Ma sentite, Federico, fidatevi ancora. Ditemi almeno quanto vi occorrerebbe….

— Una miseria…. con duecento fiorini io potrei fare una buona figura e tirar innanzi altri sei mesi….

— Duecento fiorini! — gridò Giustina spaventata. — Duecento fiorini! Sapete che fanno seicento svanziche? Se mi vendo tutta coi miei abiti e col mio oro non tiro tanto…. Voi siete dunque rovinato?

— Rovinato per questa bagattella? Questa somma io conosco molti che la guadagnano in quindici giorni. Se io avessi ascoltata la Marta, e fossi restato colà in qualità di primo giovine, a quest’ora li avrei guadagnati in tante mancie.

— Ma se la cosa è in questo modo, non so che dire….

— Se voi ne parlaste al vostro padrone? Mi dite che vi ama tanto…. Si coglie un buon momento: una carezza di più, e il colpo è fatto.

 

— Sì, sì, altro che carezze! Duecento fiorini! Voi non lo conoscete il mio padrone. Sentite questa. Una sera faceva i pediluvj per guarire dal suo solito reuma. Colgo il momento, e gli propongo di comprarmi questi orecchini d’oro — non mica di regalarmeli, vedete, ma perchè la Margherita che me li ha venduti, aveva bisogno di denari, ed io non ne aveva. Mi pensai di domandare dieci fiorini a prestito al mio caro padrone. Volete credere? Al sentire nominare dieci fiorini, si dimenticò del bagno, e saltò in piedi con tanta furia che rovesciò la conca, e l’acqua allagò tutto il tappeto….

— E allora…?

— Allora io corsi fuori di camera e lo lasciai strillare a sua voglia per più d’un’ora. Eh! se lo conosceste!…

— Ma poi ha dovuto comprarveli….

— Credo!

— Dunque…. un’altra strillata e….

— Un’altra strillata, volete dire, e poi fuori di casa per sempre…. Duecento fiorini! se si trattasse di dieci o dodici….

— Dieci o dodici non bastano neanche a pagare il merciaio per quell’abito….

— Avete fatto un debito per quell’abito?…

— Sicuro! che serve? Volevo mostrarvi col fatto che vi amavo….

— Male, malissimo! Chi ve l’ha domandato? Tanto peggio per voi! Io non avevo bisogno dei vostri regali. Domani ve lo restituisco.

— Ah voi m’intendete così? Voi mi ringraziate in questa maniera?

— Se siete pazzo!…

— Sì, io sono un pazzo, e voi un’ingrata. Addio, addio per sempre. Non mi aspettavo che la nostra relazione avesse a terminare in questa maniera….

— Oh! questo poi non potevo immaginarmelo nemmeno io!

— Meglio tardi che mai! —

Dicendo queste parole Federico pagò il conto, condusse la donna sino alla porta della sua casa, e tornò all’osteria a smaltire il dispetto di tanta resistenza. Ma questo dispetto era tale da non potersi smaltire così facilmente. Fino dal primo momento che l’improvvido Federico avea pensato a’ suoi debiti, e quasi nel tempo stesso avea disperato di poterli mai soddisfare per le vie ordinarie, tormentato da questa inquietudine cercava di riposarsi nel pensiero di Giustina, e nel soccorso che avrebbe potuto porgergli all’uopo co’ suoi risparmi. E per tenue che fosse il filo a cui raccomandava la sua speranza, siccome era il solo che avesse, così gli venne ogni dì sembrando più solido e sicuro. Operava in lui la trista abitudine già contratta. Guai a coloro che si sono accostumati a trovar sempre pronta l’altrui beneficenza nelle angustie in cui cadono! Guai a coloro che sprovveduti di mezzi proprii, e disperando poter bastare a se stessi col lavoro e colla cotidiana fatica, sperano nelle impreviste fortune dell’oscuro domani! Essi sono continuamente lusingati dalle non probabili contingenze, e al mancare di queste, non sanno più dove rivolgersi, e disperano di se stessi e d’altrui. Il volgo degli accattoni, e tutta quella schiera di scioperati che si credono in diritto degli altrui benefizi, si sono venuti formando in tal modo, passando dalla speranza improvvida al disinganno, e da questo a quella abituale indolenza che non ha più rimedio.

Federico non sapeva più dove battere il capo. Avea fatti, a suo dire, tanti sacrifizi per raggiungere la sua mèta e per nutrire quella speranza, e trovarsi così ad un tratto deluso! Il pensiero di Marta e della sua spontanea generosità gli si presentava ora più cruccioso che mai. Averla dimenticata, aver mancato alle sue promesse, a’ suoi giuramenti, aver simulato con una serva un amore che non sentiva, solo per trarla nella rete, e farsene una scala alla propria ambizione, e vedersi tolta ogni speranza di ricevere il premio della sua infedeltà, della sua doppiezza, della sua infamia! E fosse la verità che gli parlasse dal fondo dei vuotati bicchieri, fosse il rimorso che venisse, come giusta punizione, a pungerlo più fieramente, e il confronto della donna amata e tradita con quest’altra nè amante, nè amata, e non di meno preferita alla prima; o fosse finalmente che i sentimenti della morale mandassero ancora qualche tenue bagliore all’anima sua, codesto sciagurato non esitava in quel momento a chiamarsi coi nomi più umilianti. Egli era un tristo e sentiva di esserlo, sentiva che l’abusare delle esterne sembianze dell’amore per fine d’interesse era un ignobile mercato, era una vera infamia. Ma dopo aver pensato alcuni minuti a levarsi di dosso quella macchia, non trovando alcun espediente che fosse agevole ed efficace, bevette l’ultimo bicchiere di vino, e s’addormentò.

Dopo alcuni giorni lo stato delle sue cose, già subodorato anche prima dai più curiosi, non fu più un mistero per la città. Il proprietario della sua bottega che gli aveva creduto sulla parola, lo chiamò a sè, e dichiarò di voler essere pagato all’istante. Federico balbettò qualche scusa, promise per l’indomani, senza pensare che l’indomani verrebbe presto, e non gli porterebbe una signoria. Volle sofisticare sul conto, ripigliare la sua burbanza, ma non potè far altro che dare a conoscere più chiaramente al locatore ch’ei non lo avrebbe potuto pagare. Questi fece il giorno stesso i suoi passi alla pretura, e pochi dì appresso un usciere si recò co’ suoi uomini di bel mezzogiorno alla bottega di Federico, e pose sotto sequestro i mobili e gli arnesi tutti di qualche valore per conto del proprietario.

Federico non aveva potuto inghiottire uno smacco sì grande, e vedendosi sulle bocche di tutti, e assediato da una torma di piccoli creditori che s’erano desti all’esempio e che non poteva pagare, chiuse il negozio e sparì dal paese.

Una bella sera, Marta e la madre se lo videro comparire dinanzi nella modesta loro cameretta a Trieste.

 

V.

Vecchia e Giovane.

Era quella medesima cameretta dove sei mesi prima, innanzi ad un’immagine della Madonna di Loreto, Federico e Marta s’erano giurati una fede eterna, chiamando il cielo in testimonio della promessa e vindice dell’infrazione. Ardevano innanzi al pio simulacro le due candele benedette, che sospese là sopra il letto, attestavano ancora quel rito, invalido al cospetto delle leggi, ma nel cuore delle due donne venerabile e sacro, siccome quelle che nulla sapevano di codice, poco di religione, e credevano il giuramento per sè più potente d’ogni altra legale formalità. Federico vi s’era prestato senza malizia, senza determinata volontà di mancare, ma non curante dell’avvenire e non animato da quel sentimento di fede che nelle due femmine teneva luogo di culto. Quella stanzuccia era ancora nel medesimo stato. Marta e sua madre sedevano lì sulle povere scranne agucchiando al fioco lume d’un lanternino. Soltanto la prima più pallida assai di quel giorno e solcata la fronte da una tenue ruga che annunciava la pertinacia d’un pensiero cruccioso, d’un amaro presentimento. La madre la guardava tratto tratto accuorata e crollava il capo dolorosamente.

Udirono bussare alla porta, e mentre la madre andava fantasticando chi potesse venire a quell’ora, Marta, quasi avvertita da una voce interiore, era balzata in piedi, avea gettato il lavoro, e aperto rapidamente il chiavistello si era precipitata nelle braccia di Federico con un grido ineffabile di sorpresa e di gioja. Federico non s’aspettava quell’impeto d’un vero affetto, egli che non n’avea conosciuta la forza; e pur tenendosi fra le braccia la giovane tutta in lagrime, se ne stava come trasecolato senza trovar nè una carezza, nè una parola.

— Voi qui, Federico? Voi a Trieste? — chiese la vecchia. — Non vi s’aspettava sì presto: ma tanto meglio! — E movevagli incontro verso la porta dove egli era restato perplesso ed immobile.

— Tanto meglio! — mormorò egli a cui l’amore non avea potuto sospendere la memoria della triste sua condizione: ma per non dir tutto così d’un tratto, trasse la Marta presso la scranna e ve l’adagiò, volgendosi nello stesso tempo alla madre, e stringendole la mano con dolorosa espressione.

— Come state, Federico? — diss’ella.

— Eh! così così: la salute non va male.

— Sia ringraziato Dio! Almeno questa! Ora starà meglio anche la mia povera figliuola.

— È stata ammalata? — domandò Federico, guardandola sbadatamente: — mi pare in fatti più sparuta del solito. La febbre, neh?

— La febbre? no grazie al Cielo; ma potete ben credere, sei lunghi mesi senza ricevere vostre nuove! Scusate Federico, potevate ben scrivermi una riga, o mandarci a dire qualche cosa.

— Che cosa potevo mandarti a dire?…

— Che cosa? — domandò Marta fissandolo tra lo sdegno e la meraviglia. — Non avevi tu niente da dirmi?…

Federico non intese il senso di queste parole, e rispose materialmente: — affeddeddio non avevo niente di buono da scrivervi: tutte le disgrazie mi sono piombate addosso: io son rovinato. Ecco tutto, se lo volete sapere. — A queste parole le due donne provarono una fitta nel cuore, ma per due diverse punture. La vecchia presentì perduti i suoi poveri cencinquanta fiorini, la giovane si confermò nel suo presentimento che non era più amata. Ella chinò il capo, come se queste parole l’avessero pienamente avverato.

— E la vostra bottega — chiese la madre della fanciulla — a chi l’avete voi confidata?

— A nessuno: l’ho chiusa.

— Chiusa!

— Nè più nè meno: e Dio sa quando potrò riaprirla. Ci han posto i suggelli. Io sono un uomo rovinato.

— Ah! disgraziato, che dite voi? — gridò la vecchia spaventata balzando in piedi e lanciandosi contro di lui. — E i miei denari, che cosa avete fatto dei miei denari?…

— In fumo, come gli altri — rispose Federico, facendo scorrere un soffio sulla palma aperta della sua mano.

La vecchia rimase interdetta per la rabbia che soffocò la parola nelle sue fauci.

— Che cosa volete che faccia io? — insistè lo stordito. — Se tutto ha congiurato contro di me! Anch’io sono stato tradito, si vede che non ho fortuna….

— Se non hai fortuna — interruppe la vecchia — dovevi avere prudenza, dovevi avere onestà. Ma io mi farò sentire, sciagurato: ho lì la tua carta, mi faranno giustizia.

Federico si strinse nelle spalle come volesse dire: — Che cosa possono farmi? Non si trae sangue da una rapa, — ma ritenne queste parole che stavano lì lì per uscirgli di bocca.

— Ma ditemi — l’altra insistette — ditemi tutto: tutti i vostri bei mobili, quella pazza spesa che avete fatto….

— Spesa? No veramente, perchè non sono pagati, e il mercante li vuole indietro….

— E voi dateglieli. —

Federico rispose anche qui con un goffo sorriso che voleva dire: — non è più tempo: gabbato anche lui; — ma non proferì la parola.

— Vendiamoli — disse la vecchia; — se uno deve perdere, sia piuttosto il mercante che è ricco….

— Ma non capite, che sono sotto sequestro? che il padron di casa li ritiene per conto dell’affitto che non ho potuto pagare?… Ve l’ho pur detto, mi pare. —

Un nuovo eccesso di collera tolse la voce alla povera vecchia, che vide impossibile anche il disonesto partito che proponeva. Ella tremava tutta come colta da subitanea paralisi, e non sapeva persuadersi di tanta disgrazia. — Povere noi! — proruppe finalmente cacciandosi le mani nei grigi capelli — in sei mesi hai sciupati i risparmi di quindici anni. Scellerato! ti domando il mio sangue, la dote della mia povera figlia…. Sai tu che ognuno di quei fiorini mi è costato una settimana di sudore e di stenti?

— Oh, sapete ch’io non so che dirvi! — rispose l’altro alterato. — Pigliatevela colla sorte, pigliatevela!…

— Ma io….

— Fate pure i vostri passi, già ve l’ho detto!… Vi saluto, e me ne lavo le mani.

— Magari non ci foste mai venuto qua dentro! E tu? che fai lì come una marmotta? — soggiunse rivolta alla figlia.

Marta durante questo dialogo era rimasta taciturna, come se si trattasse di cosa pertinente a tutt’altri che a lei. Non era la questione de’ fiorini che l’agitasse, era l’uso che colui ne poteva aver fatto. Le donne che amano hanno un sesto senso che da’ più lievi indizi le fa indovinare le cose lontane, le cose segrete, e quelle che non sono seguite per anco. Onde per tutto quel tempo avea tenuta china la testa, senza guardarli, senza sentirli, come se interrogasse il suo spirito su qualche più importante rivelazione. Quando le parole a lei rivolte dalla madre la scossero, levò la fronte come si svegliasse da un leggero assopimento, e la guardò trasognata. Poi, vedendo Federico che s’accostava all’uscio, calcandosi il cappello sugli occhi, si slanciò verso di lui colla elasticità d’una tigre, e afferrandolo per un braccio: — Dove andate, Federico? — gli domandò con un tuono di voce pieno di vivacità e di fermezza.

— Non vedete? Esco di qua per non accapigliarmi con quella donna che non intende ragione….

— Senti, veh! Federico, rispetta mia madre, sai, perch’ella ha ragione da vendere, e non sei degno di alzare gli occhi dinanzi a lei!

— Gli è per questo ch’io me ne vado….

— Per questo? venite qua, Federico, rispondetemi con sincerità. —

— Non v’ho io detto abbastanza?…

— Voi non m’avete detto nulla, o almeno io non ho inteso nulla di quanto diceste. Uditemi, e giurate di dire il vero….

Federico non sapeva che fare, e rimaneva lì balordo e irresoluto. Marta con voce ferma, come quella di un giudice che vuol leggere nel cuore del malfattore, gli disse: — Sono sei mesi che tu sei lontano da me: non ho ricevuto nè nuova, nè ambasciata. Avrei potuto informarmene; ho un’amica costì la quale, s’io l’avessi fatta pregare, avrebbe contato i tuoi passi senza che tu lo sapessi, e m’avrebbe tenuta in giorno di tutto. Ma io…. io ho preferito fidarmene; onde io non so che cosa tu abbia fatto nè con chi sei vissuto finora. Ora rispondimi chiaro: mi ami tu come prima?

— Potete voi dubitarne? — domandò Federico.

— Mi ami tu come prima?

— Sì, mia cara Marta, credetemelo….

— Guardami bene negli occhi. Hai tu parlato con altre donne in quel paese?

— Scusatemi: anche voi avrete parlato con altri uomini, io credo.

— Non andarmi di sbieco, ti prego. Hai tu sprecato i denari di mia madre con altre donne?…

— Chi v’ha detto?… chi v’ha contato queste falsità!…

— Nessuno m’ha detto niente. Mi conosci così poco? Mi credi tu capace di manifestare ad un altro un simile dubbio? Da te voglio saperlo: rispondimi! — e così dicendo lo fissava con due occhi da inquisitore, lucidi, freddi, che parevano scendergli nel profondo dell’anima.

Federico non potè sostenere quello sguardo. Benchè avvezzo a mentire (e non era l’ultimo de’ suoi difetti), sentì corrersi un brivido per le vene, abbassò il capo e mormorò un no che avrebbe bastato a chiarirlo colpevole anche innanzi ad un’altra meno accorta e meno prevenuta di Marta. Essa comprese tutto, lasciò la mano di lui che teneva stretta tra le sue, rimase muta, come se quel monosillabo proferito a quel modo l’avesse tolta d’ogni speranza.

— No? No? — riprese dopo un momento di pausa. — Giuralo, giuralo dinanzi a quella immagine che accolse le nostre promesse solenni sei mesi fa….

— Lo giuro — rispose Federico, che s’era rimesso, e chiamato a ripetere quella sacra formula, così abusata nel mondo, non dubitò di pronunciarla con quella fermezza che non avea trovata poc’anzi per rispondere un semplice no.

Marta lo fissò nuovamente, e rimase sopraffatta da quella faccia tosta. Ella era superstiziosa, e non poteva manco immaginare che uno potesse giurare il falso in quel modo senza che la terra s’aprisse sotto a’ suoi piedi per ingoiarlo. Ella certo, quanto a lei, avrebbe commesso qualunque delitto piuttosto che spergiurare. Onde la sua perspicacia cedette a’ suoi pregiudizi, ed aprì nuovamente l’animo alla speranza. — Basta così — soggiuns’ella — se tu m’ami ancora, se non hai parlato d’amore con altra donna, io non cambierò sentimento verso di te.

— Come? — prese qui a dire la vecchia: — egli ha mangiato il nostro.

— Zitta, madre mia. Le disgrazie non guardano in faccia ad alcuno. Il cuore val più di tutto l’oro del mondo. Non ti perder d’animo, Federico; se hai avuto delle disgrazie, a tutto c’è rimedio. Il Signore ci provvedrà. Siedi qui con noi, contaci tutto. — Così dicendo, lo fe’ sedere tra sè e la madre, facendo mille carezze a quest’ultima, perchè temperasse la sua collera e il suo rancore. Federico che forse avrebbe desiderato svignarsela, e lavarsi, come avea detto, le mani, non ebbe il coraggio di resistere a quell’improvvisa riconciliazione, e infilzò un centinaio di disgrazie una più bella dell’altra, tanto che le due donne non solamente gli prestarono fede, ma lo compiansero e sentirono un dolore vero pegli improvvisati contrattempi del mariuolo. Si terminò coll’intavolare qualche progetto che riparasse a’ disordini. Federico dichiarò d’essere disposto a rimanere a Trieste, a porsi come giovine presso un dei primi parrucchieri della città, e vivendo alla meglio, metter da parte il salario che ne trarrebbe per riscattare se stesso, i suoi mobili, e porsi nuovamente in istato di aprir bottega da sè. Stabilite fra loro queste cose, ei prese congedo da quelle due donne, un po’ riconciliato con se medesimo, e veramente disposto a mettere ad esecuzione quel nuovo disegno.

La madre, all’istanza di Marta, si mise all’indomani colle mani e co’ piedi; interpose la mediazione del suo padrone presso uno de’ barbieri che erano più in voga a que’ giorni, e ottenne che Federico si acconciasse con lui in qualità di primo giovane con discreto salario. La povera Marta respirò, ma per poco. Federico non era degno di lei.

 

VI.

Fisiologia.

Federico, io diceva, non era degno di tanto affetto: non era degno di Marta. Frivolo, incerto in ogni azione, schiavo dell’ultimo impulso che riceveva dall’ambiente in cui si trovava, non poteva corrispondere a quell’amore, perchè non poteva sentirlo nè immaginarselo. Egli era una di quelle macchine umane che abbondano in ogni luogo, che non hanno volontà propria, buone senza entusiasmo, triste senza scusa, perplesse tra il sì e il no, come il pendolo tra le pile voltaiche, capaci di far tutto mediocremente, e nulla di perfetto, o che si accosti alla perfezione. Prendono la vita alla leggiera, o la vendono al minuto, senza curar l’indomani. Questi caratteri hanno una grande facilità ad assumere tutti gli aspetti, a fingere tutti i sentimenti, appunto perchè sprovveduti del proprio; e quindi per alcun tratto ingannano gl’inesperti, e possono passare per uomini di squisito sentire, di forte ingegno, d’indole generosa. In amore sono per lo più preferiti, perchè non dimenticano alcuna di quelle piccole cure di cui si nutre la vanità femminile. Guai però se viene il momento che un cuore profondamente appassionato dimandi da loro un ricambio d’affetto, uno di quei sacrifici che sono lo scandaglio dell’anima! Allora codesti uomini restano lì sbalorditi, e svelano dinanzi gli occhi della delusa amante la propria nullità e la propria indifferenza, senza sentirne rimorso. Tal era il nostro povero Federico, e meglio per lui se fosse stato conosciuto fin da principio per quello ch’egli era!

Marta invece era uno di que’ caratteri fermi che abbracciata un’idea, e presa una risoluzione, la tengono dinanzi siccome bussola, e a quella riferiscono ogni azione della vita, ogni sentimento dell’anima. Siffatti caratteri, più rari a trovarsi, possono, a chi ne sfiora solo la superficie, sembrar insipidi o freddi; perchè pieni di quell’idea che li occupa, vivono come stranieri a tutto ciò che a quella non s’appartiene: simili agli amatori entusiastici della botanica, dell’archeologia o di qualche altra specialità, i quali darebbero il mondo per quella pianta rara, per quel pezzo di lapide, per un bulbo di dalia azzurra, se mai l’industria de’ giardinieri giungerà ad ottenerla. Di questa pasta si formano i genii ed i pazzi, i martiri della virtù e della verità, e i grandi scellerati, che avendo proposto a se medesimi un fine a cui non possono pervenire per la diretta via, vogliono ad ogni costo raggiungerlo per l’obliqua, dovessero lasciarvi la pelle, o insanguinarsi le mani.

Uno sbaglio di vocazione, un primo errore che non si potè prevedere nè riparare, un sopruso patito, una giustizia negata bastano sovente a determinare al male più che al bene un uomo o una donna di tal indole; e fatto il primo passo, posta o gittata la maschera, non v’è più mezzo a ritrarsene; una serie di casi fortuiti, e per se stessi agevoli a vincere, pigliano l’aspetto di una sinistra fatalità che c’incalza alle spalle e ci spinge nel precipizio. A questo male, se l’educazione non sa prevenirlo, non v’ha rimedio più tardi: l’errore non è più nel dominio della libera volontà; ha invaso l’intelletto, ha pervertito il cuore, è divenuto una vera pazzia, che l’ospitale non cura, e la carcere non reprime. Si rise di quelli che si sono posti a raccogliere e ad educare di preferenza i più mariuoli tra i figli del povero che ingombravano il trivio: ma quei filantropi avevano ragione. Le cure più grandi e più assidue si devono consacrare a costoro, sì perchè non vada perduto quel tesoro di forza morale onde sono dotate le indoli più riottose, sì perchè, trascurate sul bel principio, per difetto di un conveniente esercizio non si volgano al peggio, sprecando l’esuberante vigore fuor del diritto cammino. Se ognuno avesse fin da’ primi anni libera la scelta della professione o dell’arte, se i primi impeti dell’affetto non fossero delusi o traditi, ci sarebbe più copia d’uomini fermi ed intieri, e non vi sarebbe luogo a chiedere: di chi è la colpa? al frequente ricorrere dei delitti e dei dolori che ci funestano. Una di queste nature era Marta.

Ognun vede che quei due cuori, venuti un tempo a contatto l’un dell’altro, avrebbero corsa la sorte dei due vasi della favola, l’uno di ferro, l’altro di creta, che sbattuti fortemente insieme diedero tosto a conoscere la materia differente ond’erano fatti. Quello di creta rimase infranto.

 

VII.

Da Scilla a Cariddi.

Sul principio le cose si presentavano nel più prospero aspetto. Federico, collocato presso uno de’ più accreditati barbieri, pratico dell’arte sua, e piacevole delle maniere, della persona, giunse a cattivarsi il favore di tutti, fu preferito a’ suoi pari e ricompensato più largamente. Memore di dovere alle due donne questa picciola fortuna, e uscito appunto dalle angustie che lo stringevano, tra per gratitudine, tra per amore, passava presso di Marta le poche ore di libertà che gli erano date, e rispondeva colle più tenere dimostrazioni allo schietto e profondo amore della fanciulla. Qualche volta sulla sera, terminate le giornaliere occupazioni d’entrambi e rassettati alla meglio, si trovavano insieme, e in compagnia della madre, o soli, che già risguardavansi come sposi, s’incamminavano verso il Boschetto, o alcun altro dei passeggi suburbani, contenti l’un dell’altro, senza bisticciarsi, e terminavano all’osteria, nella quale Federico beveva per due, e Marta lo stava guardando, mal contenta di quell’abitudine e di quello spendio, ma ben lontana da lasciar trasparire il suo malumore. — Col tempo, — diceva ella a se stessa — col tempo egli lascerà questi vizi, e troverà nella sua casa, vicino a me, qualche cosa che lo farà più felice. — Qual è quella donna che ami veramente, e non s’abbandoni a siffatta illusione? Ella misura l’anima dell’amante col proprio modulo, e crede tanto più facili quei sacrifizi, quanto sarebbe disposta a farne di simili e di maggiori, senza difficoltà e senza venirne richiesta, pur che fossero accetti.

Era una di queste sere. I due promessi s’avviavano verso la barriera vecchia, intertenendosi quietamente dei loro progetti avvenire. Fabbricavano la loro casa, l’addobbavano con quel modesto lusso che convenisse alla loro condizione, e ci vivevano in dolce armonia, colla madre, e coi loro figli nascituri, a cui la Provvidenza si sarebbe incaricata di fornire il pan cotidiano, mercè le loro comuni fatiche. Marta che in questi piacevoli sogni poneva più fiducia, e se li dipingeva al pensiero con più verità, mostrava sul viso l’interna compiacenza ond’era compresa. I suoi occhi raggiavano, il suo pallido volto tingevasi allora di un lieve color di rosa, che la rendeva più bella che mai. Camminava al fianco di Federico appoggiata mollemente al braccio di lui, con quella gentil superbia d’una fanciulla che si mostra la prima volta al mondo sostenuta da quello che può dir suo, contenta d’esser veduta dagli altri, e nel medesimo tempo non di altro occupata che dell’uomo che le sta presso.

Io credo che poche situazioni concorrano più di questa a imprimere sui lineamenti di una giovane donna quella ineffabile armonia che è la bellezza dell’anima propagata al di fuori.

In questi momenti ella fu occhiata dal signor B., uno dei ricchi avventori di Federico, il quale per aver agio a contemplare la ragazza, si degnò, con una discretezza da grande, dirigere un saluto al suo parrucchiere e dargli non so qual commissione per l’indomani. Egli parlava a Federico, ma nel medesimo tempo fissò la fanciulla con tale un’occhiata che le fece abbassar le pupille tra imbarazzata e vergognosa dell’altrui inverecondia.

Il signor B. era un destro ed assiduo cacciatore di quella selvaggina umana, che va per le vie vestita in gonnella, e sembra men curante dell’altra di schermirsi dalle insidie e dai lacciuoli de’ dilettanti. Vi sono uomini che vivono di siffatta caccia, e profondono in essa più denari e più tempo che gli antichi castellani non solevano in altre. Hanno i loro falchi, i loro veltri, che cercano la preda desiderata nelle tane e nei covi più secreti, e sanno snidarnela o in un modo o nell’altro, quand’anche fosse custodita dall’argo più vigilante e da’ Cerberi più susurroni che esistano al mondo.

Il signor B. non si fidava però tanto a codesta genìa, che non tentasse qualche colpo felice da sè medesimo; anzi in questo ei metteva più interesse e più gusto, tanto più se l’animale fosse ritroso, e recalcitrasse alle lusinghe e alle promesse dell’amatore. Già m’intendete. È una razza privilegiata che non venne mai meno nel mondo; e se alcuno osasse diriger loro qualche rimostranza, hanno una risposta che val per tutte: — per qualche cosa si è ricchi! — Infatti essi credono far del bene all’umanità, gettando per un piacere frivolo e passeggiero i loro fiorini. È un lusso come tutti gli altri, è un contratto di compra e vendita, dei più nobili e più disinteressati che mai. E se alcuno avverte come il mercato è simoniaco, e’ dicono che l’anima è un accessorio, una regalìa affatto incalcolabile nell’affare. Su di che, vi prego o lettori, qual dubbio vorreste muovere? Se avete qualche cosa a soggiungere, rivolgetevi al sullodato signor B. e fate voi.

La mattina susseguente Federico, all’ora assegnata, non mancò di trovarsi al convegno. Introdotto nella camera del suo ricco avventore, si pose col miglior garbo del mondo a raderlo, a pettinarlo e trasformarlo in Adone, intertenendolo intanto delle novelle più recenti che correvano per la città. Il signor B. le ascoltava per compiacenza, mostrando coll’aria del viso d’esserne già informato, e che sapeva la cosa meglio di Figaro. Pareva che volesse cantargli il falsetto: Un viglietto? Eccolo qua!

Quando gli parve tempo di poter arrischiare la domanda senza compromettersi, interpellò Federico sulla sua compagna della sera antecedente.

— È un’istriana? — disse con un tuono tra il negativo e l’affermativo.

— No, signore. È una forestiera…. che dimora a Trieste da qualche tempo.

— Vuoi darmela ad intendere, buffone che sei?…

— Dio mi guardi, signore. Le pare? Ella può informarsi….

— Oh! che importa a me di lei e di te, e di tutti i tuoi pari?

— Grazie.

— Però devo confessare che non sei di pessimo gusto. La sposi neh?

— Ma signore, sposarla, veramente…. a questi tempi i guadagni sono sì scarsi….

— Che non ti pago io forse? indiscreto!

— Oh! se tutti somigliassero a lei…. ma sono rari, rari i signori che distinguono il merito…. cioè…. non so spiegarmi come vorrei.

— Bel merito in fatti! — soggiunse il signore ironicamente. — Bel merito! Ma bisogna sposarla quella ragazza: io amo la gente di buona morale. M’intendi? bisogna sposarla.

— Eh! signore, — replicò Federico — io non desidero altro, e anche la fanciulla; anzi ci siamo promessi….

— E volevi infingerti? mariuolo che sei. Io ho buon naso, vedi, e non si può nascondermi nulla. Scommetto che siete un poco più che promessi.

— Oh per questo poi mi fa torto….

— Ti fo torto eh! innocentino…. fammi ridere.

— Non dico a me, veda, ma alla ragazza che è una vera perla nel suo genere, una schifiltosa che non si lascerebbe toccare un dito. Romana, e tanto basta.

— Già, già s’intende. Tutte così!… E di dove l’hai tirata fuori questa fenice?

— È la figlia d’una vecchia sessolotta che va spesso a giornata nel magazzino del signor N. N.

— In compagnia della figliuola?

— Sissignore; ma se io la sposo, non farà più quel mestiere.

— Già, se tu la sposi farà la dama…. Ti porterà una dote di cento mila fiorini…. E tu diventerai principe o cavaliere…. non è vero?

— Ella scherza, signore. Noi siamo povera gente, ma i nostri buoni padroni ci ajuteranno. E poi la ragazza non ha capricci, è buona massaja e non mi sarà di gran peso, se non vengono figli.

— Se fosse veramente tale come me la descrivi, io non mi scorderò di te nel giorno delle tue nozze. Ma vorrei conoscerla prima. Io ho buon naso, e saprò se merita la tua mano e i miei benefizii. —

Così il signor B. gittò i fondamenti della sua avventura. Federico, che conosceva l’uomo, capì bene le secrete intenzioni del suo protettore, ma dissimulò da uomo prudente, e lasciò correre la cosa senza darsi fastidio del come sarebbe andata a finire. Egli era uno di quelli che dicono: — vengano danari, e al resto ci pensi chi ci ha da pensare. —

Marta intanto avea dimenticato quello sguardo, e tutta chiusa nella sua secreta felicità, non pensava alle insidie che l’attendevano, perchè non le credeva possibili, o perchè, forte dell’amor suo, si credeva capace di resistere ad ogni tentazione d’infedeltà. Due giorni dopo però nel tornarsene a casa in compagnia della madre s’incontrò nel signor B., e per un movimento d’involontario ribrezzo, si volse da un’altra parte e finse di non vederlo. Ma egli la seguì da lontano, notò la sua casa, e ritirossi contento d’aver avviato l’affare senza il soccorso d’alcuno. Egli credeva d’esser giunto in porto, solo per aver scoperto il covo della sua preda. Ma ben presto s’accorse che non era sì innanzi come credeva: alle prime parole che s’arrischiò di rivolgere alla ragazza ebbe una di quelle risposte ferme e perentorie che lo infervorarono più che mai nella impresa. Poichè codesti signori somigliano ai cacciatori anche in questo: una facile preda non li lusinga: vogliono la difficoltà, amano l’ostacolo: per far illusione a se stessi, per aver la misera gloria di vincere, di conquistare, di rivendicare la potenza dei loro fiorini. Respinto in persona, tentò la vanità e l’avarizia di Marta per mezzo d’uno de’ più accorti mediatori che corrano frugando il paese. Ma il veltro non trovò miglior trattamento del suo padrone, fu cacciato di casa come un ladro, e se non se la dava a gambe, avrebbe avuto una senseria che non s’aspettava. Tornò al signor B., dicendo che le due donne erano intrattabili come due fiere selvaggie, che egli disperava di poter trarle alla ragione, e per rendere al suo mandante men dolorosa quella sconfitta, non mancò di soggiugnere che non c’era prezzo dell’opera, e che l’oggetto non meritava l’onore che voleva farle.

Ma, come è da credere, il dilettante non s’acchetò a queste scuse: anzi pigliò fuoco ognor più, e scacciò da sè l’imbecille con un pagamento poco diverso da quello che avea ricevuto dalle due donne. Il signor B. pensò di servirsi del medesimo Federico, e rimproverò se medesimo d’aver quasi guasto l’affare per troppa fretta.

Chiamatolo a sè nuovamente, lo interrogò con molta benignità sul suo matrimonio, e volle sapere il suo stato, e a qual segno erano le sue trattative con Marta. Il Figaro che non voleva altro, si fece dal principio, e sciorinò tutta la storia del suo negozio, dei cencinquanta fiorini truffati alle due donne, (del qual tiro il signor B. fece un suo cotal risolino d’approvazione) narrò delle sue speranze tradite, dell’indiscrezione de’ suoi creditori, della ingiustizia del tribunale, ecc., come i miei lettori possono figurarsi. Quanto al presente, egli avea messo da parte qualche fiorino, le due donne avrebbero dati i loro recenti risparmi, ma tuttociò non bastava nè anche a redimere i suoi mobili sequestrati, e si reputava perduto, se non trovava qualche benefattore che volesse ajutarlo, e far cauzione per lui al mercante che glieli avea venduti e al proprietario della bottega. Aggiunse che veramente ei non potea lagnarsi del suo collocamento presente, ma avvezzo ad esser padrone, era da pensare che non potea darsi pace d’esser dipendente da un altro che ne sapeva meno di lui, e lo trattava come un garzone: onde, trovato questo sussidio e questa garanzia, sarebbe tornato in Istria, avrebbe sposata la Marta, e insieme avrebbero benedetto il loro protettore e fatto ogni sforzo per ricompensare la sua bontà. Il signor B. mostrò d’esser commosso da questa eloquente perorazione, e parve non lontano dal secondare la domanda di Federico: solo avvertì che non voleva gittare i suoi danari così alla cieca, e mostrò desiderio di voler conoscere personalmente la sua futura clientela. — Mandamela qui, — soggiunse egli — mandamela qui domattina. Io le parlerò, e se la troverò meritevole del sacrificio che ho l’intenzione di fare, la incaricherò di risponderti definitivamente in proposito. — Federico gli baciò reverentemente le mani, piangendo quasi di contentezza e di gratitudine, e la sera corse dalle due donne, narrò l’accaduto, e raccomandò loro di recarsi nell’ora assegnata a fare la visita richiesta al loro benefattore.

La vecchia non sospettò di nulla; ma un secreto presentimento avvertì Marta del suo pericolo. Fece mille domande a Federico intorno a quell’uomo filantropo; e vedendo avverati i suoi sospetti, negò assolutamente di voler accettare que’ benefizii, nè tampoco recarsi da lui. La madre restò sorpresa di tale dichiarazione, ma nel cuor suo l’approvò. Federico invece die’ nelle furie, e non volle credere una parola di quanto gli diceva la Marta. Ella era una visionaria: il signore non era tale da far il bene con sinistre intenzioni: egli lo conosceva, era un fiore di galantuomo, una persona per bene che non si degna di far all’amore colla povera gente: ch’ella sbagliava per certo, e che doveva andare ad ogni modo, altrimenti egli si sarebbe separato per sempre da lei. Marta si lasciò sedurre da queste parole e più da questa minaccia, e, dall’altra parte sicura del fatto suo, e ferma nella sua risoluzione, promise d’andarvi, e si diedero la buona notte rappacificati del tutto.

La mattina seguente ella e sua madre si trovarono in camera del signor B., il quale si mostrò sorpreso di riconoscerle per quelle stesse da cui era stato sì male accolto pochi dì prima. Poi fece il benevolo, prese la sua solita aria di protezione, disse che aveva sentito con piacere il suo matrimonio, ed era ben lieto di averla trovata virtuosa e degna della sua stima. In una parola la volpe vecchia le lasciò edificate e sorprese della sua bontà e della sua cortesia. La gente del popolo è così facile a credere alle buone intenzioni dei ricchi! Il signor B. le assicurò di voler darsi pensiero del matrimonio e pel reintegramento di Federico nella sua bottega nell’Istria. Si mostrò pronto a garantire per esso lui presso il negoziante di mobili, e ad aggiungere quanto denaro fosse necessario per pagare il fitto arretrato al proprietario della casa presa a pigione costì — purchè, — aggiunse egli quasi sbadatamente — purchè voi rispondiate a me di questa somma…

— Noi, eccellenza, — rispose la vecchia — noi siamo povere donne, su cosa possiamo guarentire?

— Sulla vostra onestà, — soggiunse l’ipocrita. — Io vi conosco, sono bene informato de’ fatti vostri, e mi fido alla vostra parola. Andate, mandatemi il giovane, e dentro la giornata tutto sarà disposto per la sua partenza.

— Per la sua partenza? — domandò Marta.

— Sì, — rispose il protettore — Federico si recherà costà per quindici giorni per riaprire il suo stabilimento, e poi celebreremo lo nozze…

— Scusi, eccellenza, non si potrebbero far prima queste nozze? — disse la madre.

— E partirsene insieme — soggiunse Marta arrossendo.

— Come volete: ma sarebbe meglio dispor prima gli affari; e poi bisogna che seguano le pubblicazioni…

— Vossignoria pensa bene, — disse la vecchia inchinandosi; e Marta non trovò parola di replicare.

Onde il cortese signor B. le congedò con tutta la dolcezza, soddisfattissimo d’aver ordito con tanta sapienza quella tela d’infamia che preparavasi a tessere nell’assenza di Federico.

 

VIII.

Nuovi indugi.

Lasciamo la povera Marta, vedova un’altra volta, a Trieste. Federico era ito nell’Istria a riaprire il suo stabilimento. Corsero presto i quindici giorni dopo i quali dovea ritornarsene per celebrare le nozze; ma dai quindici s’andò presto ai venti, ai trenta, a due mesi, a tre, nè mai cessavano gli indugi e i pretesti che tendevano a giustificarli. La ragazza crucciavasi, la madre borbottava fra’ denti le solite querele, i vecchi sospetti, e ne martoriava la figlia, com’ella fosse colpevole, non già vittima, della mala condotta di Federico. — Ma qui non istava tutta la disgrazia.

Per aver novelle di Federico le due donne dovevano spesso rivolgersi al signor B., giacchè questi s’era in certo modo costituito tutore di entrambi. Questi serbò per qualche tempo la maschera che aveva preso; ma la prima volta che si trovò a quattro occhi colla sua pupilla, così avea incominciato a chiamarla, passò dall’affettato contegno alle più lusinghevoli smancerie; volle entrare con Marta in certi particolari della sua relazione con Federico, che fecero arrossire e allarmarono la ragazza, già insospettita delle intenzioni di lui. Allora il protettore prese a guardarla con occhio di compassione, fece le viste di compiangerla sulla cattiva scelta che avea fatto. Quegli che avea fino allora fatto l’elogio di Federico, cominciò ad accusarlo alla sua fidanzata: le disse con quelle pessime reticenze che sono l’arme più terribile della calunnia, perchè la elaborano senza compromettere l’accusatore, le disse che Federico era uno scapestrato, un uomo senza carattere, un donnaiuolo di prima classe, che a quest’ora doveva esserle stato le cento volte infedele…. ch’egli sapeva…. cioè gli era stato raccontato per vero di una certa tresca con una ricca vedova di costì, e via via di tal passo, aggiungendo ciarla a ciarla, alternando le accuse alle scuse, e sempre in aria di paterna protezione verso la povera fanciulla. Questa sulle prime non volle creder nulla, poi cominciò a dubitare, e finì coll’essere persuasa e convinta che codesto lungo soggiorno nell’Istria non doveva essere senza un perchè.

Il perchè c’era bene, ma la causa principale di sì lungo indugio non era nell’Istria: era a Trieste. Il signor B. avea contato su questa lontananza, e sui dissapori che ne sarebbero insorti. Perciò non avea mancato di frapporre ostacoli al ritorno di Federico; l’avea consigliato a rimanersene lì finchè le sue cose si fossero alquanto avviate al meglio: che già del matrimonio non c’era fretta; che Marta non se ne dava gran pena, ed anzi era bene provarla, era bene avvezzarla a sottomettersi a quelle prudenti disposizioni che alfine erano dirette al suo maggior bene. — C’è sempre tempo di rompersi il collo — scriveva il signor B. che usurpava quel detto proverbiale a proposito di matrimonio e di pagare i suoi debiti. E il signor B. ottenne più che non aspirava, ottenne che Federico s’ingolfasse nuovamente ne’ suoi vecchi legami colla Giustina, e dimenticasse un’altra volta sè stesso, i suoi giuramenti, e il suo amore per Marta.

Tutte queste manovre erano riuscite a dividere per sempre quei due cuori che stavano per unirsi, ma non per questo il signor B. si trovava a miglior partito. Egli fremeva d’essersi adoperato sì a lungo senza profitto, fremeva d’aver gittato inutilmente le sue parole, il suo denaro, il suo tempo. Codesta resistenza di Marta a’ suoi tentativi, egli non poteva ad altro attribuirla che ad un amore sincero per Federico, e alla ferma speranza di un matrimonio. Perchè il signor B. non credeva alla fermezza d’una fanciulla del popolo, non credeva alla sua onestà, e persistendo nella presa risoluzione tanto più ostinato quanto era maggiore l’ostacolo, ingannavasi sempre sulla vera natura di questo, ed assaliva la fortezza dal lato ov’era meglio agguerrita.

Un bel giorno pensò di finirla. Comunicò alle due donne che Federico non pensava più ad esse, che ritraevasi da’ suoi impegni, che anzi le sue circostanze presenti gli consigliavano un altro legame costì. Vi lascio pensare lo sdegno e le lacrime delle meschine. Sul principio non volevano prestar fede, ma il signor B. mostrò di prendere siffatta parte alle loro disgrazie, che terminò di convincerle. Egli nominò la persona, trasse fuori una lettera di Federico ed altre prove della verità dell’asserto. La vecchia soffocata dalla collera si teneva in silenzio: ma la Marta, levandosi ritta, colla destra alzata in atto minaccioso, pallida e scarmigliata: — E bene, — disse — se è vero ciò che mi dite, guai a Federico! O io o nessuna! Le leggi ci saranno anche per me: le leggi mi faranno giustizia! —

Il signor B. si strinse nelle spalle.

— Ah! no? voi non lo credete? — ripigliò Marta. — Son dunque un nulla le promesse, i giuramenti degli uomini? Egli ha giurato di sposarmi dinanzi alla Madonna di Loreto: sono lì ancora nella mia camera le due candele che ardevano dinanzi all’immagine della Beata. Guai a lui, guai a lui se mi manca! —Il signor B. sempre seduto sul suo seggiolone, seguitava a guardarla con occhi di compassione. — Le leggi! le leggi! — diceva. — Le leggi, o ragazza, hanno ben altro a fare che a proteggere gl’innamorati. Che cosa sa il giudice di que’ giuramenti? Federico risponderà che non ne sa nulla, che non t’ha mai conosciuta, che non ha alcun impegno con te, e basta così.

— Basta così? Oh! signore, non basta. Ve lo dico io, che non basta. E poi… non v’ho detto tutto…

— Ditemi dunque…

— Io non sono solamente la sua promessa… io sono sua moglie!… Madre mia, perdonatemi! — Così dicendo la povera Marta gettavasi quasi svenuta nelle braccia dell’attonita vecchia. Il signor B. guardava quella scena dolorosa senza intenderla o senza commuoversi. Egli scuoteva con leggeri colpi dell’indice gli atomi di polvere che s’erano posati sulla sua vestaglia rabescata.

Passarono così alcuni momenti, senza che nessuno dei tre proferisse parola. Alfine la madre, raccogliendo le sue idee, e lontana dall’immaginare quanta parte quel bel signore avesse avuto in tal contrattempo, credette ben fatto di rivolgersi a lui, e pregarlo a interporsi perchè Federico tornasse a’ suoi doveri colle buone, senza portare dinanzi alla giustizia una tale querela. Il signore esitò, disse alcuni se, alcuni ma, alcuni forse che non conchiudevano nulla, e le congedò promettendo se ne darebbe pensiero… vedrebbe… se fosse ancora tempo di rimediare. Ma la povera Marta riavutasi da quella specie di stordimento, e indovinando qualche parte di quella trama, si volse a sua madre, e: — Tacete, le disse, tacete, madre mia; non incomodate il signore più oltre. Ci siamo fidate anche troppo.

— Che vorreste dire? — interruppe il signor B. secco, secco.

— Che voglio dire? Che la vostra, signore, è stata una carità pelosa: che Federico m’avrebbe sposata definitivamente, se non erano i vostri consigli. Voi gli avete posto in capo di tornare colà a sciupare quei pochi quattrini che gli restavano.

— Quei quattrini! Non sono forse miei quei denari? Così presto avete dimenticato i miei benefizi?

— No, signore, non dimentico i vostri benefizii nè le vostre parole, nè tuttociò che avete fatto per indurmi a mal fare. Ah! mi credete una grulla? So tutto, signore. Basta così. Andiamo, madre mia: andiamo noi stesse a trovare quel disgraziato. Egli non avrà cuore di abbandonarmi quando vedrà il mio stato, quando saprà ch’io sono sua, sua per sempre!… che non è più tempo di retrocedere. —

Così dicendo le due donne uscirono da quella casa dove non avrebbero dovuto entrar mai. Ma che colpa ne avevano esse? Chi le aveva tratte costì?

 

Il signor B. restò seduto sulla sua poltrona mezzo interdetto dal tuono di quelle parole, mezzo confuso per vedersi sfuggire, forse per sempre, la preda desiderata, il frutto delle sue gloriose fatiche.

 

IX.

Crisi.

La sciagura, il disinganno di Marta erano giunti all’estremo. Benchè avesse in sospetto le asserzioni dell’ipocrita suo protettore, una voce interna, un funesto presentimento le veniva dicendo che tutto era vero. Tutte le azioni di Federico, tutte le sue parole, la doppiezza del suo carattere, quella eterna perplessità che prova più che altro il difetto di forza e di sentimento, tuttociò la confermava nella dolorosa certezza ch’ella era tradita, che tutte le sue speranze erano ite al vento, che la sua sventura non avea più rimedio. Il suo piccolo tesoro, frutto dei materni risparmi, irreparabilmente perduto non dava a lei tanto cruccio quanto alla vecchia; ma la tormentava l’ingratitudine di quell’uomo, l’abuso che ne doveva aver fatto, l’idea della propria credulità, della propria confidenza così indegnamente delusa.

Quanto al suo amore per Federico, esso avea dato luogo alla indifferenza, al disinganno, al rimorso. Comprese in quel momento ch’egli non l’avea amata giammai, comprese ch’ella avea sprecato i tesori del suo cuore ad un uomo che non era fatto per lei. Vide crollare tutt’ad un tratto quel bell’edifizio di rosei sogni, di chimerica felicità che nel secreto dell’anima avea fabbricato. Il sentimento che la comprese in quel punto, era un amaro disprezzo della vita. Avrebbe voluto rifarsi da capo, e ammaestrata della propria esperienza, vivere solitaria e senza amore, piuttostochè incorrere in sì funesti inganni.

Ma non era più tempo di annullare il passato; non era più tempo di retrocedere. Questa parola che le era sfuggita dinanzi al suo tentatore in un momento d’angoscia e di collera, era un’orribile verità. I suoi legami con Federico avevano la sanzione della maternità. Era questo un mistero per tutti fuor che per lei. La madre, Federico medesimo non n’aveano che un lontano sentore. Ella avea ceduto ad un momento di debolezza, avea ceduto alle istanze, alle preghiere, alle minaccie del suo promesso. Forse avea creduto di suggellare così quei legami non ancora consecrati dalla legge, e di renderli indissolubili. Chi può dir nulla di quel conflitto tra il dovere e la natura, tra la verecondia e la passione? Chi può analizzar quei momenti nei quali i sensi offuscano l’intelletto, e la misera donna lotta contro due forze una esterna, l’altra interna che concorrono a perderla? E Marta s’era davvero perduta.

Ritornata alla sua cameretta, lo sguardo materno la interrogò sul senso di quella parola che le era sfuggita, e lo sguardo della povera fanciulla avea rivelato il mistero. Poche ore prima ella avrebbe temuto i rimproveri della madre severa, ora ella avea a temere qualche cosa di più grave e di più irreparabile. La vecchia medesima non trovò parola per inveire contro di lei, per biasimarla dell’accaduto. Tutte e due si trovarono abbracciate e piansero amaramente. Tutte e due sentirono la gravezza del male, e non videro come porvi riparo. Si coricarono senza parlare, aspettando dalla luce del giorno un più sereno consiglio.

Ma la giovane non chiuse occhio. Ella passò la notte chiamando l’uno dopo l’altro ad esame i più estremi partiti. — E se fosse un’invenzione di costui? — si sforzò la misera di pensare: ma non fu lungamente blandita da questa speranza. Immaginò di ricorrere ai tribunali, di palesare il suo stato, di citare il tristo a mantenere la promessa: ma oltrechè poco potea consolarla una riparazione avuta per quella via, ella sapeva abbastanza di mondo, e conosceva parecchie storie di povere vittime colle quali s’era trovata a contatto, per non lusingarsi d’ottenere quella riparazione ch’ella voleva, o quella vendetta che le pareva giusta.

Dissi non a caso vendetta. Giunta a questo punto delle sue riflessioni, sentì l’amore deluso cambiarsi in odio. La vita disonorata che l’attendeva l’era venuta in orrore: se in quel momento avesse potuto sprofondarsi sotterra e spegnere l’anima e la memoria, l’avrebbe fatto. L’avvenire, che in altro tempo le si presentava roseo e sereno, era adesso tutto tenebre e tutto guai. La madre stessa, il suo affetto tenero ed efficace non rischiarava quell’orizzonte: ricordava quel suo sguardo severo, quel rimprovero muto che le sarebbe stato eternamente dinanzi e al quale non avrebbe trovata risposta. La madre! E non aveva ella perduto i poveri frutti di tante fatiche per colpa sua? E la miseria che sovrastava a’ suoi vecchi giorni, non doveva imputarsi a lei? Tutte queste riflessioni erano esagerate, più tetre forse che non doveano; ma non pertanto erano men tormentose e meno reali alla inferma immaginazione dell’infelice. E il loro peso fu insopportabile alla sua mente: il suo povero intelletto fu pervertito in quell’ore tremende: allora seguì la crisi che la doveva portare al delitto. Il giorno, anzichè recare un po’ di calma in quella cupa tempesta, non fece che raffermare una risoluzione che le era sembrata inevitabile, necessaria.

— Madre mia, — diss’ella con accento risoluto e solenne — madre mia, ho pensato tutta la notte: ho avuta una ispirazione alla quale devo obbedire. Lasciatemi andare: io voglio vederlo, voglio saper di che morte s’ha da morire. — La madre le mosse qualche dubbio, tentò stornarla da quel viaggio, ma fu vinta dalle istanze di lei. Volle però accompagnarla. Benchè da queste parole non avesse potuto indovinare il disegno della figliuola, non era prudenza lasciarla andar così sola ad affrontare forse una ripulsa, un insulto, e la fatale certezza della sua disgrazia. Marta fece un fardello d’alcune sue robe, e tutte e due s’avviarono verso l’Istria.

 

X.

Le due candele.

Cammin facendo poche volte ruppero il silenzio per cambiare fra loro qualche parola. Marta precedeva sempre di due passi la madre, non già perchè quest’ultima fosse dall’età ritardata; ma non era stimolata come la figlia da un interno pungolo che le faceva divorare la via. Quel po’ di speranza, o meglio, quel po’ d’incertezza che le restava sulla sua sorte, anzichè mitigarle l’angoscia, gliela rendeva più tormentosa. Avrebbe voluto sapere tutto ad un tratto che non le rimaneva nulla a sperare. Questa certezza, per dura che fosse, le sarebbe stata meno insopportabile della presente inquietudine; come il condannato che non può chiuder occhio la notte che precede la sua sentenza, e suole dormire tranquillo la vigilia del suo supplizio. La infelice giovane anelava a codesto termine qualunque fosse, del dubbio presente, e camminava spedita su per le frequenti salite, come andasse alla festa. Dopo alcune ore di viaggio giunsero al luogo fissato, e si fermarono ad un’osteria suburbana, per far colazione e concertarsi fra loro. Marta a questo momento avea perduta la fretta, onde non s’oppose all’indugio, benchè pensasse a tutt’altro che a prender cibo. Una fante della taverna recò loro del pane, del cacio, e una mezzina di vino. Mentre la vecchia mangiava, Marta accostava macchinalmente alle labbra qualche minuzzolo, ma si vedeva chiaramente che lo faceva per compiacenza e per non farsi scorgere alla fantesca. Le venne intanto il pensiero di chieder conto a quest’ultima di Federico; e le domandò senza più se conoscesse un giovane parrucchiere venuto di recente a stabilirsi costì.

— Il signor Federico? — chiese la fante — quello di Trieste che si fa sposo?

— Che si fa sposo? — ridomandò tutta pallida la povera Marta.

— Appunto, — rispose l’interrogata.

— Con chi?

— Non lo sapete? siete forestiere voi altre. Si fa sposo colla Giustina, una governante del signor S… ma del resto un buon matrimonio. È una donna ancora fresca, benchè non aspetti più i trenta, e il padrone, capperi! le ha fatto del bene, come era suo debito.

— Siete voi ben sicura di questo? — domandò la madre di Marta.

— Capperi! sicurissima. Lo sa tutto il paese. È una vecchia tresca del barbierino… perchè non è già la prima volta che viene in questa città; c’è stato ancora, ma in quel tempo era sempre vivo il padrone della Giustina, ed ha trovato pan per focaccia. Ora poi il vecchio è morto, e non vi sono più impedimenti. —

Marta ascoltava sbadatamente, come pensasse a tutt’altro, scherzava col coltello appuntato che la fante aveva recato col cacio, e affettava il pane che le stava dinanzi. Tutt’ad un tratto si volse alla fantesca con un pajo d’occhi da spiritata e le disse: — Basta, basta, non vogliamo saper più in là! — La fante, così ricisamente interrotta, fece una smorfia e se n’andò pe’ fatti suoi.

Rimaste sole, la madre a cui non era sfuggito il turbamento della figliuola, procurò di calmarla, e le propose di ritornarsene a casa.

— Ritornare a casa? Povera mamma! ritornare a casa prima di conoscere la sposa, prima di offrire a Federico le nostre felicitazioni! Mai no. Senti, madre mia. Ho portato con me le due candele benedette che sai. Andiamo alla chiesa. Pregherò il sacrestano che le accenda dinanzi alla Madonna. La Beata Vergine sa il mio stato, e non vorrà permettere ch’io muoja così….

— Ma che dici tu di morire? — soggiunse spaventata la madre, che non aveva mai sentita la figlia a formular quella idea.

— Mia cara mamma, — soggiunse Marta con un tuono di malinconica tenerezza insolita in lei. — Mia cara mamma! Che cosa s’ha da fare a questo mondo, e fra gente così malvagia? meglio finirla una volta, credetemi. Io ci ho già pensato. Iddio abbia compassione di me!

— Tu sei fur di te medesima, Marta! Tu non parli certo da senno! Alla fine poi tutto questo può essere una ciancia, una favola inventata dalle male lingue.

— Oh! no, mamma. Era destino, vedete. Voi stessa ne siete persuasa nel vostro interno. Oh! sono stata ben pazza a non prestar fede alle vostre parole, quando mi poneste in guardia sul carattere di Federico. Ora lo conosco assai bene! Da quell’uomo là non poteva venirmi che male. Andiamo, andiamo in chiesa. Pregate per me, madre mia! pregate per la vostra povera Marta! — Così dicendo la sventurata diede in un pianto dirotto, e non proferì più parola.

La vecchia voleva chiamar la fante per pagare il suo conto; poi pensò meglio di non darle occasione di ciarle, e si recò ella medesima al banco, dicendo alla figliuola che l’attendesse costì. Marta, come si vide sola, si scosse, asciugò le lagrime, bevette un bicchiere di vino quasi volesse reagire contro la sua debolezza, e nascose destramente il coltello entro la manica del vestito. A qual fine precisamente, nol so; forse non lo sapeva in quel punto ella stessa.

Quando tornò la madre, ella era già sulla porta, e tutte e due s’avviarono frettolose alla chiesa.

Quivi preso a parte il vecchio sacrestano, la povera Marta trasse fuori le due candele, e gli ordinò di collocarle dinanzi all’altare della Madonna. Vi aggiunse un rotolo di denaro per una messa da celebrarsi all’istante, secondo la sua intenzione. Il sacrestano prese le candele e il denaro e se ne andò senza aggiungere parola. Le due donne s’inginocchiarono dinanzi all’altare indicato, e stettero lungamente aspettando. Uscì finalmente il prete e cominciò a celebrare la messa. Marta stette tutto quel tempo immobile, cogli occhi fissi all’altare, come trasognata ed estatica. Il suo pallido volto era suffuso d’un rossore febbrile, e chi l’avesse attentamente considerata, avrebbe letto ne’ suoi lineamenti le traccie di un gran dolore che tormentava quell’anima profondamente.

Levatesi finalmente di là, s’incamminarono per uscire. Incontrato sulla porta della chiesa il sagrestano, la giovane gli si accostò e gli chiese l’abitazione di quel parrucchiere triestino che dovea ammogliarsi tra breve. Il vecchio gliela insegnò. — E quando seguiranno le nozze? — domandò Marta, come per semplice curiosità.

— Credo domenica, — rispose l’altro. — Le pubblicazioni sono già fatte. Sareste voi sorella di quel buon giovane? Che sì che indovino? Andate, andate, gli farete una grata sorpresa. La sua bottega è già aperta.

— Grazie — disse Marta, dissimulando profondamente la sua emozione. — A rivederci fra poco. Badate che le due candele devono ardere fin che ce n’è. Gli è voto.

— Non dubitate, buona ragazza. Andate con Dio. —

Così dicendo egli rientrò nella Chiesa, e le due donne si mossero difilate verso la bottega del parrucchiere. Per via, la madre maravigliata del nuovo contegno della fanciulla, le domandò che cosa intendesse di fare.

— Non lo so, madre mia: ma il Signore m’inspirerà. Intanto io voglio vederlo: voglio vedere che cosa saprà rispondermi. Oh certo! il sagrestano dice bene: gli dobbiamo fare una grata sorpresa.

— Ma tu farai qualche scandalo: tu ti lasci trasportare dalla passione. Abbi riguardo. Non ci facciamo scorgere in questo paese. Già non si guadagna nulla a codesto.

— Oh! io credo che guadagneremo, mamma! Lasciate fare a me! — Così dicendo le due donne entrarono nella bottega di Federico. Egli stava accomodando i capelli a se stesso per non perdere il tempo, finchè capitasse alcun avventore. Viste le due donne, restò sbalordito. Egli non s’aspettava per certo codesta visita importuna. Passarono alcuni istanti senza che nessuno dei tre pronunciasse parola. Il primo a rimettersi fu il barbiere, e fissando gli occhi sul volto di Marta, le domandò brutalmente: — A che venite voi qui? — Ma non appena ebbe proferita codesta frase, s’arrestò spaventato e abbassò gli occhi, non potendo sostenere lo sguardo di lei.

Successe un altro momento di silenzio, finchè la giovane simulando una grande tranquillità ed un tuono di voce amorevole, rivolse all’attonito barbiere queste parole: — Federico, tu mi dimandi che vengo a far qui? Io non saprei risponderti bene. Io non lo so. Ma tu devi dirmi se sono vere le voci che corrono. M’hanno fatto credere che tu ti mariti presto, che sono già fatte le pubblicazioni, e che la sposa si chiama Giustina, non Marta; ch’ella è stata finora la serva o altro d’un signore di questa città, non l’onesta operaja che viveva a fianco della sua vecchia madre a Trieste. Sono vere, Federico, queste novelle?

— Io non devo render conto ad alcuno de’ fatti miei….

— T’inganni. Tu devi render conto ad una persona che non intende rinunciare ai propri diritti. Sappi ch’io sono venuta per questo.

— Tutto è finito fra voi e me: non ve l’ha già detto il signor B.?

— Il signor B.? Io non ho a fare nulla col signor B. Io voglio sapere dalle tue labbra medesime se tu hai dimenticato, non dico i tuoi doveri verso la mia povera madre, ma i tuoi giuramenti verso di me. Ah! tu credi ch’io sia per soffrire che un’altra donna si chiami tua moglie? No! Federico. La tua moglie son io.

— Voi? In qual chiesa vi ho dato la mano? — chiese lo sfrontato parrucchiere con ironia.

— Tu mi chiedi in qual chiesa? Iddio ha forse bisogno di chiese per ascoltare le promesse e i giuramenti delle sue creature? Io sono tua moglie, Federico, io porto meco un documento irrefragabile de’ nostri legami: io son madre! — Ella proferì quest’ultima frase con voce bassa e soffocata. Federico impallidì nell’ascoltarla, ma si ricompose tosto, e si sforzò di fare un cotal riso beffardo e bestiale che mostrò tutta l’abbiettezza dell’anima sua. — Madre? — egli disse. — Me ne consolo assai! Così non vi mancherà un appoggio nel padre del vostro figliuolo, qualunque egli sia…. Il signor B. v’aiuterà a ritrovarlo. —

Le due donne inorridirono. Marta non potè parlare, chè la rabbia e l’angoscia le soffocò la parola. Ma la vecchia che avea taciuto fin allora, s’avventò come una furia sul barbiere, e lo fece indietreggiare verso un angolo della stanza. — Infame — gridò. — Ricorreresti tu alla calunnia? Chi ci ha fatto conoscere, dì, quel tuo signor B. degno complice delle tue scelleraggini?

— Se ve l’ho fatto conoscere, non v’ho mica ordinato che vostra figlia dovesse frequentar la sua casa. Però io non voglio ora farvene carico. Ognuno è padrone di fare ciò che gli aggrada. Vuol dire che voi ci avrete trovato il tornaconto.

— Taci, vile calunniatore! — saltò su Marta che s’era riavuta. — Taci! Non inventare dei torti che rendano meno infame la tua condotta. Tu sai bene che menti! tu sai bene che non sei degno di guardarmi in faccia!

— Ebbene! sì! So che non son degno di voi, e per questo ho pensato di lasciarvi in libertà e di dar la mano ad un’altra. Andate via ve ne prego. Può essere ch’ella capiti qui, e capite bene…. siamo in un paese piccolo. Io non ho bisogno di scandali. Andate colle buone….

— E s’io non me ne vo’ colle buone?…

— Ci anderete per forza. Orsù…

— Guarda qual conto io fo delle tue parole! Così dicendo s’adagiò sopra uno dei seggioloni che occupavano il mezzo della bottega. — Ella verrà qui, tu dici? Tanto meglio! Io voglio vederla in viso questa perla, questa rivale che tu mi dài. Sedete, madre mia, sedete anche voi. Sarete stanca, povera mamma, approfittate dell’ospitalità di vostro genero. —

Federico fremeva di rabbia. Non potendo sostenere l’aspetto di Marta, tornò ad inveire contro la vecchia, facendosi verso la porta, sia per evadere, sia per chiamare man forte. Ma la vecchia robusta lo afferrò per un braccio e lo scagliò nuovamente verso il fondo della bottega. In quel momento una donna di circa trent’anni, s’affacciò alla porta. Era Giustina. Il sagrestano l’aveva avvertita di due parenti di Federico venute espressamente per visitarlo, onde s’affrettò a farsi riconoscere per la futura sposa di lui. Un suo cugino e futuro compare dell’anello l’accompagnava. Visto il parapiglia, s’arrestarono un poco, poi tra per curiosità, tra per difendere il barbiere che pareva avesse la peggio, entrarono e chiesero la ragione della contesa.

— La ragione? — gridò la vecchia inferocita dalla violenza dell’atto: — la ragione? —

— Non le credete nulla! ella è una pazza, una ubriaca, — sclamò Federico riavuto dal suo sbalordimento.

— A chi dici tu pazza? — gridò Marta rizzandosi in piedi. — Rispetta mia madre, Federico, rispetta mia madre, che potrebbe farti cacciare in prigione con una sola parola. — Poi volgendosi alla Giustina; — ah! — disse con un sorriso pieno d’ironia, voi sarete la sua sposa?… io vi faccio sapere, buona donna, che costui non può prender impegni con altri. Egli è mio marito.

— Giustina, non prestate fede alle loro parole. Andate via di qua, pregate qualcheduno che venga a liberarci da queste pazze.

— Se vai via di qua, sarà meglio per te — disse Marta alla sua sbigottita rivale. — Va via di qua, e non tornarci mai più, proverai che cosa può fare una pazza! — Così dicendo mosse due passi verso di lei con piglio minaccioso, e risoluta di venire alle vie di fatto. Giustina non se lo fece dire due volte, e se ne andò strascinando con sè il suo compagno. Federico rimase nuovamente solo colle due prime venute. Tanta era la violenza della passione in tutti e tre, che una lunga pausa successe a questa scena bizzarra e terribile.

Marta si ricordò in quel momento dell’arme che avea portata seco nella manica del vestito: se ne ricordò quando concepì il disegno di venire alle mani colla rivale. Una specie di vertigine occupò la sua mente. Tutto ciò che v’era stato di più provocante nel dialogo corso tra lei e Federico le passò dinanzi al pensiero come un’orrenda visione. Ella perdette la coscienza di se medesima, e divenne come sonnambula. Immaginò che tutte le autorità del paese, convocate da costei, sopravvenissero là, e la traessero a forza lungi da quel luogo. Immaginò di vedersi condotta come una pazza per le contrade di quella città fra le grida e gli scherni del popolaccio. Non potè sostenere quest’idea, ed anzichè prevenir questo fatto, pensò a vendicare l’oltraggio che le parea inevitabile. Abbracciò strettamente la madre senza piangere, senza parlare, come uscita di senno. Poi spiccatasi da lei si volse tutta mansuetudine a Federico — Non aver paura, — gli disse — non aver paura di me, Federico. Se la sorte ha destinato che tu sposi un’altra, sposala pure. Ti domando perdono delle mie furie di poco fa. Separiamoci in pace, Federico, separiamoci in pace, prima che venga gente. Oh! non vorrai tu darmi nemmeno un abbraccio prima ch’io ti lasci per sempre? — E così dicendo accostavasi a lui che non sapeva rendersi ragione di un tal cambiamento, e se ne stava perplesso e balordo in fondo alla stanza.

Marta avvicinandosi a lui, senza far motto gli gettò le braccia al collo, e lo strinse fortemente come convulsa. In quel momento sentì accorrer gente alla porta della bottega. La madre che era stata fino allora attonita aspettando l’esito di quella scena, la chiamò a nome. Fu come un lampo. Senza ritirar le braccia incrocicchiate dietro al collo di Federico, Marta aveva brandito il coltello nascosto, come dissi, entro la manica sinistra dell’abito, e gridando: — traditore! — con un movimento improvviso l’avea cacciato nel cuore del suo promesso, che gettò uno strido e cadde rovescio. Era morto. Marta senza più curarsi di lui, e brandendo ancora il pugnale insanguinato, si volse alla gente che affollavasi all’uscio e cercò qualcheduno cogli occhi stralunati e furenti. La vecchia mezza morta dallo spavento afferrava invano il braccio della figliuola: questa non vi poneva mente, non la vedeva. Pallida, le gote tremanti, chiamava un’altra donna che non era presente, chiamava Giustina. — È spenta, è spenta, — gridava — una delle due candele che ardeva innanzi a Maria… una è spenta! vedo il lucignolo che fuma ancora!.. L’altra… l’altra arde ancora, ma per poco. Dove sei, scellerata donna? Oh! tu hai paura, non è vero? Non aver paura, no! Non è già la tua vita che dipende da quella candela, è la mia!.. Ella muore. — Così dicendo rivolse contro il suo petto il coltello, e due o tre volte tentò di trafiggersi: ma la stecca del corsetto deviò la punta micidiale e le impedì di finirsi. Sentendo che non riusciva nel suo disegno e vedendosi circondata, cambiò improvvisamente pensiero, e alzando il pugnale contro i più vicini si fece largo fra la folla e uscì furibonda nella contrada. Il popolo le schiamazzava dietro: — ferma, ferma, — ed ella tanto più accelerava il passo lungo la via, senza guardarsi mai dietro. La contrada metteva al mare. Un piccolo molo per uso de’ pescatori stendevasi alquanto fra l’acqua. Ella l’occupò prima che alcuno potesse impedirglielo, e pigliando la rincorsa si lanciò nel mare gridando: — è spenta anche l’altra! —

Un vecchio pescatore che rattoppava le reti nella sua tartana, levandosi al tumulto e al tonfo che avea sentito nell’acqua non lontano da lui, si gettò prestamente a nuoto, e riuscì ad afferrare la veste della sciagurata giovane, la trasse a riva affatto priva di sensi, e solo dopo alcune ore, ebbero effetto i pronti soccorsi che le furono prestati. Ella si risentì vicino alla madre, nella camera stessa del pescatore che l’aveva salvata, ma non pareva serbasse alcuna memoria dell’accaduto. Vedendo sul proprio seno l’apparecchio che il chirurgo aveva applicato alle due non mortali ferite che s’era fatte, ne chiese conto alla madre, accusando un dolore a quel luogo, e credendo d’esser precipitata giù da una scala. Corsero alquanti giorni prima che riacquistasse davvero la coscienza del suo delitto….

Delitto?

Certo che fu delitto dinanzi al Codice. L’equità umana però che distribuisce con altra legge il diritto ed il torto, farà più mite giudicio di quella misera.

Il Tribunale di Trieste riconobbe anch’esso molte circostanze attenuanti, e la povera Marta non fu condannata che a qualche anno di carcere, abbreviato anch’esso da una grazia sovrana.

Credo che ai lettori basterà questo. Gli altri personaggi di questa istoria non sono tali da ispirare nessun interesse, e nessuna curiosità.

NOTE.

[4]Sessola nel dialetto triestino e veneto significa una specie di pala ricurva di cui si servivano i droghieri e i fornai per tramutare lo zucchero, la farina, i grani da un recipiente all’altro, simile al bozzolo de’ mugnai, e alla gottazza dei barcaiuoli.