I.
Chi di voi, cari amici, non è stato testimonio d’alcuno di quegli atti di spensierata crudeltà onde i fanciulli sogliono aggravar la disgrazia di un loro compagno maltrattato dalla sorte o dalla natura?
Non sono molti anni mi accadde di trovarmi presente ad una di queste scene. Un povero nanino contraffatto della persona, mentre passava per la via frettoloso, s’imbattè in uno stormo di scolarucci che, come uccelli fuggiti di gabbia, scorrazzavano per la via. Urtato non so se a caso o per beffa da alcuno di quegli storditi, si lasciò cadere di mano un boccettino ch’era ito a cercare alla farmacia. Il dolore e la collera che ne provò si manifestarono con modi così grotteschi, che i monelli, anzichè prenderne compassione, cominciarono a riderne e a motteggiarlo. Non era la prima volta che si divertivano alle sue spalle, poichè alcuno di que’ tristarelli lo interpellò come una vecchia sua conoscenza. — Che hai, Squasimo’? — disse questi, storpiando per ischerno il nome del gobbino, che, come seppi, era Cosimo. — Gran disgrazia per guaire sì alto! O che c’era nell’orcio? — Nulla, nulla: — soggiunse un altro — t’aiuteremo a raccogliere i cocci: — e così dicendo, l’urtava e gittava a terra.
— La mia medicina! — strillava il misero — la mia medicina!
— Ci vuole altro che una medicina per raddrizzarti le reni! — E qui uno scroscio di risa generali, quasi a nessuno potesse venire in mente il vero motivo di quella disperazione.
— Consolati, Cosimodo! Tanto e tanto morresti gobbo. —
Il povero tribolatello, avvezzo senza dubbio a quegli scherni, guardava immobile, trasognato la boccia infranta senza badare alle beffe crescenti di quegli sgarbati. Ma tutt’ad un tratto perdè la pazienza, e mutando attitudine ed espressione: — Bene! — esclamò: — l’avete rotta: affè di Dio, la pagherete. Fuori tutti i quattrini che avete in tasca! Voi siete ricchi, voi. Datemi il denaro per prenderne un’altra, e presto; se no, vi mostrerò che le mie mani son sane. —
L’improvviso mutamento e la strana pretesa del nano furono accolti, come è da credere, con nuove risa.
— Piglia, Cosimo. Quanto vuoi? — disse il più mariuolo, e sporgendogli il pugno chiuso come per dargli alcun che, gli assestò un sorgozzone di sotto al mento. Fu il segno di una mischia inuguale fra cinque o sei de’ più scapestrati, e il povero Cosimo che, tra per la perdita fatta, tra per l’ingiustizia di quegli oltraggi, era venuto una furia.
Un pittore ch’era con me, dilettante di quelle scene m’aveva trattenuto dall’intervenire a tempo fra que’ monelli. Qui però l’istinto la vinse, e mi mossi in aiuto del povero gobbino mal capitato.
Era troppo tardi. Egli aveva già trovato una difesa più pronta e migliore in un’amabile giovanetta che passava di là in quel momento. Rapida come un lampo, si era staccata da una vecchia dama che l’accompagnava, e slanciata fra la mischia. D’un colpo d’occhio il suo cuore aveva giudicato da qual parte stava la ragione, da quale il torto. Prendendo la mano del meschinello, e coprendolo fieramente della sua persona, colla sola attitudine e colla nobile espressione del volto impose silenzio a que’ mariuoli, e li volse in fuga. Il mio amico pittore se avesse il dono di percepir l’ideale della bellezza, come ha quello di cogliere la brutta realtà, avrebbe avuto costì l’argomento di un magnifico quadro. Ma egli tirava a far denari e adulava il gusto corrente.
Quella giovanetta poteva avere tutt’al più quindici anni. I capelli biondi, gli occhi azzurri, e più l’espressione morale della fisionomia la faceva somigliante ad un angelo: ad uno di quegli angeli costodi che i pittori toscani immaginarono così divini.
Il povero Cosimo, tutto stupefatto di questo ajuto, dovette prenderla anch’egli per una apparizione celeste, poichè si lasciò cadere in ginocchio, e pallido ancora per le diverse emozioni che aveva provato, la fissava cogli occhi brillanti di lagrime, con un sentimento ineffabile di adorazione e di gratitudine.
La vecchia signora richiamava a sè la fanciulla con aria severa, e volgendosi a’ circostanti, pareva volesse scusare l’atto indecoroso a cui s’era lasciata indurre dal suo buon cuore. Ma la giovinetta non badava nè al crocchio che s’era fatto d’intorno a lei, nè ai rimproveri della zia. Fatto alzare il suo protetto, gli asciugava la fronte col suo fazzoletto ricamato, e gli domandava la causa della contesa. Il garzoncello le additò la boccetta infranta, e le spiegò tutto, dicendo che conteneva una medicina per sua madre ammalata, nè aveva più denaro per riparare alla perdita. C’era nella sua voce e nel gesto un dolore sì vero che nessuno, nè anche il mio amico pittore, potè pensare al pretesto. Più di uno pose la mano in tasca, ma anche in questo la giovanetta fu più pronta di noi lasciando in mano al poveretto il suo borsellino.
Intanto la vecchia dama, sempre più malcontenta del contegno della fanciulla a lei confidata, era riuscita ad afferrarla per un braccio e a strascinarsela via borbottando.
— Un’altra delle tue! — le diceva. — Quante volte te l’ho a ripetere! Codeste cose si lasciano fare agli uomini. —
La giovanetta intanto aveva ripreso il suo contegno mansueto, e si scusava arrossendo dell’atto generoso, come altri si scuserebbe di un’azione imprudente e degna di biasimo.
Il suo cuore però le diceva che aveva compiuto un dovere.
II.
Angela, così chiamavasi la giovanetta, era una di quelle nature piene di bontà e di giustizia che farebbero credere alle incarnazioni platoniche degli spiriti puri. Figlia unica, amata fin troppo, come accade, da’ suoi genitori, aveva potuto abbandonarsi a tutta la ingenuità del suo istinto. Ma questa libertà, che in altri caratteri suole aprir l’adito a tante cattive abitudini, non avea fatto che svolgere in lei la ricchezza esuberante di un’anima generosa e gentile.
A sett’anni avea perduto la madre. La vecchia dama che abbiam veduto con lei, era una sorella del padre suo, buona donna nel fondo, ma d’un’indole assai diversa dalla nipote, ch’ella avea preso ad istruire in quei doveri e in quei modi che una damigella ricca e ben nata non può impunemente trascurare nella società de’ suoi pari.
La giovanetta era docile e attenta, tanto ai consiglipaterni, quanto alle ammonizioni troppo frequenti dell’amorevole zia, tutte le volte che questi consigli e queste ammonizioni non le parevano contraddire agl’invincibili istinti dell’animo suo.
Codesta inclinazione, codesto istinto che era la base del suo carattere, la chiave di tutte le sue azioni, di tutti i suoi sentimenti, la induceva a sposare la parte del debole e dell’oppresso in qualunque ordine d’esseri si trovasse. Il fatto di cui fummo testimoni non era punto nuovo nè straordinario per lei. Non poteva uscire una volta senza farsi l’avvocata e la tutrice di qualche animale maltrattato, di qualche povero respinto con troppa durezza, di qualche creatura insomma men favorita dalla nascita o dalla sorte. Angela era nata suora di carità, elemosiniera universale, raddrizzatrice dei torti di tutti i suoi simili. Era stata una fortuna per lei nascere ricca abbastanza per asciugar qualche lagrima, ed esaudire qualche preghiera. Ma guai se il padre e la zia non mettevano freno a questa tendenza, e non le misuravano il denaro di cui poteva disporre. Ella avrebbe dato fondo in un anno, nonchè alla sua dote, a tutto il patrimonio paterno.
Qui però non v’è nulla che possa fare gran meraviglia. Su dieci giovani abbandonati al loro istinto naturale, nove almeno si mostrano generosi e compassionevoli verso gli altri. Pochi sono i caratteri naturalmente avari e impassibili alle altrui sofferenze: ma bene spesso la loro bontà si direbbe frutto d’orgoglio, e le loro largizioni non hanno altro scopo che di sottrarsi all’aspetto della miseria presente.
Angela operava per un sentimento più puro e profondo. Permettetemi di scendere a qualche particolare che ho potuto osservare e studiare più da vicino.
Nata nell’agiatezza, sana ed aitante della persona, circondata fin da bambina di tutte le cure, di tutto l’affetto, il suo cuore s’era aperto alla felicità, come i suoi occhi alla luce. La vita era per lei sì dolce, sì lieta, sì facile, che ogni suo desiderio, prima quasi che nato, era pago. Ella non conobbe per lungo tempo il dolore, nè fisico, nè morale. Allontanata per cura de’ suoi da tutto ciò che potesse dargliene l’impressione e l’idea, ella credeva che tutti i viventi, tutta la natura uscita dalle mani di Dio non potesse essere e non fosse che un concerto di lodi e di benedizioni al Creatore, immensamente giusto, misericordioso e benefico.
La perdita della madre, morta nel dare alla luce un bambino che non potè sopravviverle, fece uscire dal suo sogno beato la giovanetta. Come! Nel momento ch’ella si aspettava di avere un fratello, un altro oggetto dell’amor suo, la poverina s’era veduta innanzi due spoglie inanimate, due tristi trofei della morte! La morte! Ella non aveva ancora saputo che fosse morire! Quali severe lezioni ricevette la poverina ad un tratto! Aveva appreso che tutto non era nel mondo gioja, vita ed amore. Avea veduto soffrire e morire!
Questa dura esperienza non alterò punto l’indole sua, ma diede una nuova piega al suo cuore, e vi fe’ nascere un sentimento di pietà che ancora non conosceva.
Più tardi le occasioni di esercitar quest’affetto si fecero più frequenti. Affidata a mani straniere, benchè amorevoli, uscita da quell’atmosfera di luce e d’amore in cui era cresciuta fino allora, venne a conoscere che il mondo è tutt’altro che una terra promessa, che gli uomini sono tutt’altro che fratelli tra loro, che il concerto che si levava d’intorno a lei non era punto un inno di lode e di benedizione all’Eterno.
Non dirò per quali fatti e per quali successive esperienze ella facesse un’altra dolorosa scoperta. Vide, o le parve vedere, che la lotta e la guerra sono da per tutto; che il mondo è diviso in due campi: umili e prepotenti, oppressori ed oppressi, felici e sventurati. Perchè questa sì gran differenza, perchè questo eterno conflitto d’interessi, di desiderij, d’idee? Ella non poteva formulare, nè risolvere quest’ardua questione; ma il suo cuore la sentiva e ne serbò l’impressione la più dolorosa.
Evvi un momento nella vita in cui il cuore s’apre ad una rivelazione interiore; in cui un pensiero si leva nella notte profonda dell’anima, come un sole che illumina il mondo, e le dà l’intelligenza di tutto ciò che prima era passato dinanzi a noi, come i colori dinanzi ad un cieco, e i mille suoni della natura ad un sordo.
Una volta che la bambina ebbe l’intuizione di questa lotta tra i deboli e i forti, tra i felici ed i miseri, guardò e la vide ripetersi ad ogni momento, dovunque volgesse lo sguardo. Chiese un giorno a sua zia perchè distruggesse i bruchi che rodevano le foglie degli alberi; domandò al giardiniere perchè strappasse con tanta ferocia le piante che sorgevano spontanee fra i suoi garofani. Non hanno essi quei bruchi tanto diritto di vivere quanto gli uccelli dell’aria? E che colpa hanno codeste povere piante per esser chiamate male erbe e sterminate dal suolo, dove la mano di Dio le avea seminate?
Questo sentimento, per difetto di una risposta soddisfacente, diveniva a poco a poco un tormento per l’animo della strana fanciulla. E nella sua bizzarria credeva compiere un atto di giustizia prendendo sotto la sua special protezione i bruchi più ispidi, i ragni più mostruosi, i cardi e le ortiche del suo giardino.
Non già ch’ella non sapesse apprezzar la bellezza. I bei fiori, le variopinte farfalle, i bei cavalli che correvano per la via, tutto ciò che vedea di leggiadro, di nobile, di luminoso, la empiva di gioja e d’entusiasmo: ma quando vedeva tutti gli omaggi, tutte le ammirazioni piover su questi, e gli altri oggetti fatti segno, senza lor colpa, d’odio e disprezzo, il suo cuore si ribellava contro siffatti giudicj, e diveniva ingiusta verso le cose belle, a forza di pietà per le brutte. Quindi il padre, la zia, e le persone che frequentavano la sua casa, le avevano dato per celia il nome di giardiniera delle male erbe.
— Ogni simile ama il suo simile, — le diceva talora la zia. — Tu devi crescere come un’ortica, e innamorarti di un ragno. —
Ma la nostra amica non si adontava di questi motteggi. Rispondeva alla zia con altri proverbj, la eccitava a non disputare dei gusti, e a rispettare i bruchi per amor delle farfalle. Quanto alle male erbe, voleva persuaderla che, vedute colla lente, erano cento volte più belle delle camelie e dei rododendri che costavano tante cure e tanti quattrini.
Tutto questo vi spiegherà facilmente com’essa accorresse con tanta alacrità in difesa del povero Cosimo. La zia, come potete credere, non mancò di raccontar l’avventura, ed eccoci alle solite celie sulle sue singolari predilezioni. Angela sulle prime non vi badò, poi si mise a difendere quel poveretto con tanto fuoco, che le burle cessarono.
Ma le cose non dovevano finir lì. Un medico amico di casa, che s’era trovato presente alla mischia, recò la novella, pochi dì dopo, che la madre del povero nano era morta. Angela impallidì come si trattasse di una persona cognita e cara. Si accusò di non essere accorsa al letto dell’inferma per assisterla e consolarla. Tutta quella sera fu malinconica: la notte non potè chiudere occhio, finchè non ebbe proposto a se stessa di cercar notizie dell’orfano. — Chi sa — pensava — che la Provvidenza non me l’abbia fatto capitare sott’occhio perchè non manchi di un appoggio e di una difesa. Il dottore — soggiunse — m’ajuterà a rintracciarlo, e poi, se il Signore m’ha destinata ad essere l’istrumento della sua bontà, e’ saprà bene condurmelo innanzi! —
Fatto con se stessa questo proponimento, la buona Angela potè prender sonno, e dormì tranquillamente sino a giorno.
III.
Il sole di una bella mattina di giugno la risvegliò. Benchè si fosse addormentata più tardi del solito, e avesse dormito un sonno agitato da mille sogni fantastici, non mancò di fare una visita assai sollecita al suo giardino particolare.
Il giardino del sig. B., senz’essere un vasto parco di quelli che sogliono chiamarsi all’inglese, adunava in breve spazio tutte le delizie che una ricca natura e una fertile immaginazione possono dare. Lo Iapelli[5] vi avea fatto prova del suo buon gusto e della sua splendida fantasia. Un lungo calidario rinserrava le più belle piante de’ tropici. Una collina, un laghetto, alcune macchie d’alberi rigogliosi e di varia verdura s’alternavano a vaghi compartimenti seminati di piante vivaci d’ogni maniera. Più lontano si stendeva un verziere ricco di alberi fruttiferi e di squisiti legumi. Tutto questo era sparso con vago disordine, sì che ad ogni svolta dei sentieri puliti, l’occhio si trovava dinanzi una prospettiva tanto più amena quanto meno aspettata.
L’angolo più disadorno di questo gentil paradiso rispondeva alla via vicinale, e metteva nei campi per un cancello di ferro. Una capannuccia di paglia con un tavolino e due scranne d’orno piegate a graziosi arabeschi sorgeva accanto al cancello. Era dapprima un canile dove s’accovacciava incatenato un robusto molosso che avea terminato la sua ringhiosa carriera senza lasciar successori nè eredi. Angela aveva ottenuto dal padre che quella casuccia fosse disposta per lei, e le fosse dato il pezzo di terreno inculto che giaceva d’attorno in assoluta e special proprietà. Voi v’immaginerete che la graziosa giovanetta vi coltivasse i fiori più peregrini, e vi spiegasse quel buon gusto e quella eleganza, che al solo vederla si sarebbero dette a lei famigliari. Nulla di tutto questo. Quello spazio di terreno rimase abbandonato a se stesso, anzi si sarebbe detto che fosse stato ingombro a bello studio delle piante più vulgari e più disprezzate dai botanici e dai giardinieri. Le ortiche, i tarassaci, ed altre consimili piante, che gli orticultori battezzano col nome generico di male erbe, si erano date convegno e vegetavano in quel cantuccio in piena tranquillità. Il giardiniere di casa e gli altri famigli lo chiamavano talora l’orto della signorina, e talora il vivaio delle male erbe. Di che Angela non si reputava punto offesa, anzi finì col designarlo anch’essa ora con uno di quei nomi, ora coll’altro.
Per solito era a questo che riserbava l’ultima visita, ma questa visita era più lunga e più affettuosa delle altre. Indossato un semplice accappatoio, e postosi sulla bionda testa un largo cappello di Firenze, scendeva dalle sue stanze in giardino, che appena l’ortolano cominciava le sue cotidiane faccende. Entrava nella serra, s’inebriava di quelle fragranze meridionali, dimandava il nome e la patria di questa o di quella pianta, ne ammirava le forme e i colori, ma per lo più conchiudeva: — Poverina! quanto saresti più vegeta e più contenta ne’ tuoi paesi! —
Il giardiniere scuoteva il capo, quasi offeso da tale esclamazione. Sosteneva che la pianta in istato selvaggio non sarebbe sì bella, e che doveva alle sue cure intelligenti lo splendor de’ colori e la ricchezza della corolla. Forse era vero: ma la signorina non pareva sempre disposta a concederlo. Ella aveva un culto particolare per la natura semplice e primitiva. Di più, come ho già accennato, quei fiori rigogliosi e superbi le parevano un’aristocrazia prepotente che usurpava l’aria, la terra, le cure e gli omaggi alle altre produzioni più umili, ma non meno perfette. Quindi, pur ammirando quei morbidi gigli, quelle superbe ipomèe, quelle fantastiche parassite dei tropici, i cui fiori bizzarri somigliano a strani insetti, a peregrine farfalle, vi passava sovente dinanzi con una specie d’indignazione, e credeva compiere un atto di giustizia accordando la sua preferenza all’erbe più modeste e ai fiori più negletti da’ dilettanti. Allora si ritirava nella sua capannuccia, e s’intrecciava un mazzolino cogli occhi di bue e colle volgari pratelline, che crescevano a dovizia nel suo vivajo delle male erbe.
Quella mattina era proprio di tale umore. I pensieri e i sogni della notte ve l’avevano predisposta. Ma quale non fu la sua sorpresa quando, cogliendo certi fiorellini di parietaria che coprivano i pilastri del cancello, vide accovacciato al di fuori il povero nano. Gittò un grido di maraviglia, che il miserello reputò di paura, tanto che s’affrettò di chiederle scusa.
Come era egli costì? Era caso o pretesto? Ella non isperava di rivederlo sì tosto, benchè sì vivamente lo desiderasse. Pensò senz’altro che la provvidenza gliel’avesse mandato.
Cosimo però non v’era venuto a caso. Gli era riuscito sapere il nome e l’abitazione della sua protettrice, e avendo una commissione per lei, s’era avvisato di attenderla a quel cancello, non osando picchiare alla porta del suo palazzo.
— Povero Cosimo! — disse Angela. — Ho saputo la tua disgrazia. M’immagino, sai, quanto debba dolertene. Anch’io ho perduto mia madre! —
Il garzoncello, serio e commosso, voleva rispondere e non sapeva. Trasse di sotto alla veste il borsellino di Angela, avvolto diligentemente in un foglio, e glielo porse senza parlare attraverso il cancello.
— Che è ciò? — disse Angela. — Rifiuteresti il mio dono?
— Oh! — rispose il fanciullo — che dice mai! La povera mamma, poco prima di spirare, sapendo la sua carità, vi ha posto dentro una carta molto importante e l’anello che teneva in dito, e mi ordinò di portarglielo, appena fosse passata in vita migliore. Io non ardivo presentarmi al suo palazzo, e da due giorni l’aspetto qui. —
Angela aprì frettolosa il borsellino, lesse un foglio che era una promessa di matrimonio scritta e firmata dieci anni innanzi, e dentro al foglio trovò un cerchiellino d’oro che non esitò punto a mettersi in dito. Quanto alla carta, ignorandone l’importanza, la ripose nel borsellino, aspettando un altro momento a chiarirsene.
— Il suo dono — riprese Cosimo — mi bastò a prestarle gli estremi soccorsi, a farle dire una messa di requie e a collocare una croce sulla sua fossa. Mi resta una moneta che starà sempre sospesa intorno al mio collo in memoria della sua bontà… e della povera madre mia. Addio, madamigella! Iddio le dia tutto il bene che merita. —
E in così dire si allontanò per andarsene.
— Fermati — gridò Angela. — Dove vai ora, povero orfano?
Il fanciullo s’arrestò perplesso, ma non rispose.
— Tu hai però il babbo, n’è vero? —
Cosimo chinò il capo e negò.
— Un fratello, un parente?
— Nessuno, signora.
— E come vivrai? Chi avrà cura di te? —
Il fanciullo girò gli occhi al cielo quasi dicesse: Dio c’è per tutti. Procurerò di guadagnarmi il pane.
— La mamma mi mandava all’asilo, e vi ho imparato a leggere e a scrivere… ma un mestiere… alfine ce n’è tanti dei mestieri. Farò il cenciajuolo.
— Il cenciajuolo?
— O quello o un altro: tanto ch’io viva… e se non potessi riuscire… laggiù dove sta ora mia madre, c’è luogo anche per me. Perdonate, signora, se vi attristo con queste idee.
— Vuoi tu venire da noi? Abbiamo tanta gente per casa. Uno più, uno meno… dirò al babbo che ti prenda.
— Io non saprò far nulla.
— Sì, sì, ajuterai il giardiniere ad annaffiare le piante. Aspettami, ch’io ritorno. —
Angela, come potete pensarlo, andò difilata dal padre che stava appunto vestendosi, gli raccontò la cosa e ottenne senza fatica la grazia. Senza aggiunger parola, cercò le chiavi del cancello, corse giuliva ad aprirlo, ed introdusse il povero Cosimo che, come trasognato, obbediva macchinalmente alla sua salvatrice.
IV.
— Mancava questo coso al vivaio di mia nipote! — disse la zia tra la beffa e la stizza.
Tutti i famigli, massime le serve, fecero eco con una risata all’osservazione della signora, riservandosi a lodare la carità della padroncina quando l’occasione fosse venuta di poterlo fare senza dar torto alla dama.
Angela intanto era ita in traccia del giardiniere che armeggiava tra i vasi delle sue serre. Cominciò dal lodargli alcune delle piante più nuove e più peregrine; poi gli fece rimprovero di non averle preparato il solito mazzetto odoroso che accettava da lui. Giacinto si scusò secco secco, colle molte faccende, colla stagione che non andava a suo genio, colla pioggia che tardava a venire, ec., ec. E cominciò tuttavia a raccogliere qualche violetta di Parma, qualche eliotropia, qualche verbena per risponder col fatto al rimprovero della padroncina.
— Ebbene, per ringraziarvi del vostro mazzolino, e per mostrarvi che non sono la vostra nemica, vi ho procurato un allievo, un garzonetto che vi darà una mano nelle cose più facili, vi scriverà correttamente i titoli delle piante, e vi aiuterà ad annaffiarle. Siete contento?
— Come! Un altro giardiniere! Oibò, signorina. Un giardiniere deve esser solo. Noi abbiamo i nostri segreti, e non vogliamo cedere ad altri il frutto delle nostre esperienze.
— Via, via. Questo poveretto non vi ruberà certo il mestiere — soggiunse Angela sorridendo. — È un povero gobbino, un orfanello che ho preso sotto la mia protezione. Riguardatelo come uno di quei fusti quasi secchi per cui raddoppiate le vostre cure. Ve ne sarò grata, e visiterò più spesso le vostre orchidee. Siamo intesi! Or ora ve lo conduco. —
Il giardiniere in sostanza non era malcontento di avere una persona che lo aiutasse nelle faccende che gli andavano crescendo sotto le mani. Ma quando vide quel meschinello pensò che non avrebbe potuto fare gran conto dell’opera sua. Tuttavia la padroncina l’aveva sì rabbonito, che non trovò nulla a ridire, e gli diede subito a ripulir certi arbusti dalle foglie gialle di cui li aveva screziati l’inverno.
La natura avea voluto dare un esempio di giustizia distributiva compensando le forme disgraziate del giovanetto con una intelligenza pronta ed una rara felicità di memoria.
Il dolore avea maturato assai per tempo quel povero fanciullo, tanto che a dieci anni aveva i caratteri d’un adulto. Il suo pallore e l’espressione indefinibile delle sue labbra dicevano già la sua storia e rivelavano l’anima sua. La sua fronte ampia e prominente gli attirava l’attenzione e la benevolenza di tutti quelli che l’osservavano.
Egli menava la sua vita nel giardino e negli stanzoni delle piante. Mostravasi di un’attività e di una docilità a tutte prove col giardiniere, non tanto per cattivarsene l’animo, quanto per corrispondere all’intenzione della sua benefattrice. Chi ha un po’ di pratica del giardinaggio, sa che quest’arte non lascia un momento disoccupato. Ma sia che Giacinto non si fidasse della di lui abilità, o non volesse arrischiargli qualche operazione un po’ delicata, Cosimo aveva qualche ora di libertà. Prendeva allora in mano i cataloghi e i manuali di botanica e d’orticoltura che Angela gli avea confidato, e in pochi mesi, raffrontando i titoli ai soggetti, s’era impadronito di tutta quella strana e ridicola nomenclatura. Giacinto trasecolava di tanta memoria, e cominciò a guardarlo con gelosia: tanto più ch’egli era uomo di pratica più che di scienza, e spesso gli avveniva di storpiare quei nomi in modo da far ridere fino la sua padroncina.
Guardate ingiustizia della fortuna! Il povero Cosimo che si era fatto perdonare la sua forma sgraziata, trovava ora nei proprj meriti un’altra sorgente di tribolazione. S’egli non avesse saputo leggere o non avesse avuto alcun desiderio d’apprendere, il giardiniere non avrebbe pensato a perseguitarlo: ora invece non lasciava passare occasione per rendergli più amara la vita. I titoli ch’egli scriveva erano mal fatti, perchè erano scritti come voleva il catalogo, non come il giardiniere li pronunciava! E quando Cosimo gli metteva sotto gli occhi il libro per convincerlo del suo errore, il giardiniere tutto ingrognato borbottava: — Novità, novità! Non sanno creare piante nuove e si dilettano di mutare i nomi. Gran sapienti del cavolo! — E quest’ironia cadeva non tanto sugli autori dei libri, quanto sul capo innocente del nostro tribolatello.
Egli non avrebbe però pensato a richiamarsene. Era già avvezzo a rassegnarsi a strapazzi più forti. Ma un giorno Angela si trovò presente ad uno di questi litigi, e non si potè astenere da prender le parti del suo protetto. Il giardiniere si ostinò nel torto, e nel suo stolto orgoglio chiese la sua licenza, adducendo che già non c’era bisogno di lui, dacchè v’era in casa quel sapientone.
Angela non volle prender la cosa sul serio, ma dichiarò al giardiniere che da quel giorno Cosimo era addetto al suo servigio particolare.
— Egli lascerà le vostre serre, e non si occuperà che del mio compartimento.
— Tanto meglio! — replicò il giardiniere. — Così saprà arricchire il catalogo di nuovi tesori! —
Angela, che non avea tollerato l’insulto fatto a Cosimo, tollerò colla solita sua bontà le sciocche parole dirette a lei stessa. — Appunto, appunto, — soggiunse. — Hai inteso, Cosimo. Vieni meco laggiù. Noi faremo il catalogo delle male erbe, e t’insegnerò a disegnarle e a classificarle! —
Detto, fatto. Cosimo seguì la sua protettrice in quell’angolo remoto del parco ch’essa prediligeva, dove egli, s’era appostato ad attenderla. La bizzarra fanciulla non l’aveva ancora messo a parte della vera cagione che l’avea mossa a quella singolare coltura. Non andò molto però che il suo discepolo indovinò l’istinto della sua protettrice.
— Bada bene, Cosimo, — gli avea detto — non vorrei che tu avessi imparato dal giardiniere l’arte di distruggere le piante meno privilegiate. Queste, figliuolo mio, sono tutte male erbe, secondo lui: anche quell’occhio di Venere, anche quella callistegia, anche quel grazioso lupino, tutte male erbe! E ciò perchè crescono spontanee e senza coltura, perchè nascono in ogni luogo, e s’arrampicano su tutte le vecchie muraglie! Male erbe! Quanto a me, vedi, ho un gusto affatto diverso, e trovo che quel fioretto di malva, quella parietaria, quel licopodio sono mille volte più belli de’ suoi tulipani e delle sue maravigliose gloxinie! E poi ti dirò: tu m’intenderai, spero. Che diritto abbiam noi di strappar dalla terra che le vide nascere e le produsse, quelle povere pianticelle? Se si trattasse di sgombrare un terreno incolto per seminarvi il frumento e l’orzo necessari alla vita dell’uomo, non parlerei: ma cacciare in esilio queste creature indigene per cuoprir la terra di ghiaja, o per surrogarvi altre piante di lusso che non hanno spesso altro merito che la rarità, capisci bene che è una vera usurpazione, una specie di tirannia. Gli Spagnuoli e gli Inglesi che sterminarono i primi abitatori dell’America per trapiantarvi i coloni europei, o gli schiavi dell’Africa, partivano dallo stesso principio, e commettevano la medesima iniquità! Tu non puoi comprendere ancora tutto il mio pensiero: ma un giorno m’intenderai meglio. Intanto si va d’accordo nel fatto. Tu devi rispettare tutte le piante che vedi qui. Io le ho ricoverate in quest’angolo, perchè possano vegetare e fiorire tranquille. Tutti dicono ch’è una pazzia: non importa. È una pazzia innocente, n’è vero, Cosimo? Vedo che tu hai più buon senso degli altri! —
Non so quanto il fanciullo avesse compreso di questo grazioso paradosso della sua padrona: ma certo non lo trovò tanto strano nè tanto ridicolo quanto gli altri. Riflettendo, quando fu solo, alle parole della damigella, gli balenò nella mente una singolare analogia, alla quale forse Angela non avea fatto allusione. — Anch’io — pensò Cosimo, — sono una mala erba, ed è forse a questo titolo ch’ella m’ha raccolto presso di sè e mi tratta con tanta bontà! —
Questa riflessione servì a svolgere sempre più il sentimento e l’ingegno del giovanetto. In poco tempo aveva annaffiate e ripulite le ajuole del giardinuccio a lui confidato. Di giorno in giorno vedeva sbocciar qualche negletto fiorellino, che guardato d’appresso giustificava la predilezione della fanciulla. Egli cercò tanto nel suo trattato di botanica finchè pervenne a ordinare la maggior parte di quelle piante inedite pe’ giardinieri; e giovandosi dei disegni ch’erano sparsi qua e là nel volume, cominciò a delinearne le foglie ed i fiori. A poco a poco rettificò quei disegni col confronto del vero che aveva sott’occhio, e un bel giorno fece vedere ad Angela il primo saggio dell’opera sua. La giovanetta arrossì di piacere e si applaudì della disposizione che mostrava il suo alunno ad imitare la grazia del vero. Gli diede allora pennelli e colori, ed un album dove potesse scarabocchiare a sua posta.
Cosimo aveva davvero l’istinto, come dicono, del colore, e la percezione rapida e giusta della bellezza. In pochi mesi fece meraviglie, e il giorno natalizio della sua benefattrice le presentò la collezione completa delle piante del suo giardino particolare. Egli l’aveva lavorato in segreto, e fu una sorpresa non solo per la famiglia, ma per Angela stessa. Tutti fecero le meraviglie, e il padre che era uomo d’ingegno e di gusto squisito non mancò di notare quello che vi era di veramente singolare e pregevole in quegli abbozzi.
C’era infatti di che stupire vedendo come il semplice istinto e l’osservazione del vero potessero aver fatto cotanto. Gli uomini così detti dell’arte, i pittori d’accademia avrebbero certamente trovato molto a ridire, ma il padre di Angela giudicava coi propri occhi e non colle regole della scuola.
Cosimo non si era limitato alle piante ed ai fiori. Aveva imitato anche gli insetti che vedeva sovente d’intorno a quelli. Nell’ultimo foglio dell’album, sotto alcune foglie di parietaria, il giovane pittore s’era divertito a dipingere un ragno de’ giardini, e gli era riuscito sì vero che la zia diede in un grido vedendolo, e retrocedè spaventata.
Fu un vero trionfo per Cosimo, che con bel garbo chiese perdono alla dama della paura che le avea fatta.
Tutti risero di cuore dell’accidente, anche la zia quando si fu un poco rimessa dello spavento, non senza insinuare che c’erano tante belle farfalle da dipingere senza sprecare il tempo e i colori a raffigurare un sì brutto e schifoso animale qual era il ragno.
Cosimo si scusò un’altra volta dicendo che quello era il luogo della soscrizione, e che nessuno avrebbe ravvisato in una farfalla il simbolo del suo nome.
Il garbo che traluceva in queste parole e la modesta allusione alla propria deformità, terminò di guadagnare al giovanetto l’animo del padre di Angela, che da quel momento pensò seriamente a coltivare un ingegno che si manifestava con sintomi sì felici.
V.
Il ragno!
Che fatalità inesplicabile pesa su questo povero insetto! Tutti lo fuggono, tutti lo abborrono, tutti lo schiacciano. Al solo suo nome le labbra più gentili e benevole si torcono ad un atto di ribrezzo e di odio. Un ragno! Si direbbe che il Creatore l’abbia maledetto nell’ira sua in compagnia del serpente, ponendo un’eterna ed implacabile inimicizia fra esso e la donna! Eppure il ragno non ha, ch’io sappia, tentato nè la madre Eva, nè alcuna delle sue figlie. La mitologia ha ben raccontato la storia della superba ricamatrice mutata in ragno da Pallade: ma certo l’avversione che ispira generalmente quel povero tessitore, non potrebbe derivare dalla vendetta ingenerosa della gran Dea.
È egli più brutto e più malefico degli altri animali? Il ragno è tutt’altro che brutto, o almeno non tutti i ragni son brutti. Quello de’ giardini, per esempio, è distinto di colori vivissimi, e ingrandito colla lente spiega una simmetria di disegni e un’eleganza di tinte che noi raccomanderemmo alle nostre lettrici. Quanto alla sua natura velenosa e malefica, non vi è un fatto, cred’io, che la provi. La stessa tarantola, sul morso della quale si scrissero libri e trattati, è ora dichiarata pressochè inoffensiva. L’opinione comune è dunque affatto gratuita: è un’ingiustizia, una calunnia sociale. Fosse anche brutto, fosse anche venefico veramente, non è certo la bruttezza nè la malignità che lo costituisce come il paria del regno animale.
Sarebbe forse perchè vive d’insidia, perchè tende le sue reti, perchè vi accalappia la preda di che nutre se stesso e la innumerabile sua famiglia?
La ragione onorerebbe il sentimento della mia pietosa interlocutrice, ma non mi sembra calzante. Ogni animale nasce Nemrod nella sua sfera particolare.
Tal quaggiù dell’altrui vita si pasce,
Altre a nutrirne condannata l’egra
Vita mortal che il ciel parco dispensa!
Nè voi, gentil damigella, sarete punto disposta a difendere la mosca che spesso incappa tra quelle reti insidiose, benchè la mosca sia molto più bella del ragno, e nella scala degli esseri forse più perfetta di lui. Non vi è dunque alcuna buona ragione che giustifichi o scusi l’odio generale che pesa sul ragno, e il bando che si vorrebbe infliggere a questo infelice insetto dal vasto regno della natura.
Angela, voi lo indovinate, non subiva nè anche in questo il giogo della comune opinione. Il ragno era per essa un animale industrioso e paziente, e l’amava anche prima che Vittor Ugo avesse scritto nelle sue Contemplazioni:
J’aime l’araignée et l’ortie
Parce qu’on les hait.
Ella si guardava bene dal lacerar la sua tela, che si poteva ammirare in tutta la sua integrità e simmetria in quell’angolo del giardino dove l’ortica medesima aveva ottenuto un asilo. L’ortica poi, giacchè il poeta francese l’ha messa insieme col ragno e la onora dell’amor suo, la nostra eroina la favoriva anch’essa per due ragioni che sfuggirono al poeta de’ paradossi: la prima perchè nutre colle sue foglie una delle più belle farfalle che volino per l’aria, la piccola pavonia, che spiega nelle ali leggiere tutta la magnificenza dell’uccello caro a Giunone: la seconda, perchè aveva osservato che l’ortica cessa di pungere quando mette fuori i suoi fiorellini e s’appresta a celebrar le sue nozze.
Tutto questo però parlava alla ragione più che all’istinto. L’istinto di Angela è mirabilmente riassunto in quei due versetti. Ella amava le creature di Dio in ragione dell’odio ingiusto onde le vedeva aggravate.
Queste idee sorte naturalmente l’una dall’altra aveano formato il fondo della conversazione che animò i pochi amici raccolti la sera del giorno stesso presso il padre di Angela.
Ella compiva in quel giorno diciassette anni, e la zia, legislatrice suprema negli affari di convenienza, aveva autorizzato quella sera qualche invito speciale per celebrare l’ammissione della nipote alle feste della pubertà. Oggimai Angela sarebbe condotta ai balli, ai teatri, ai passeggi dove si legano le relazioni sociali, e si ordiscono quelle tele di ragno che accalappiano non moscherini o farfalle, ma uomini e donne coi loro titoli rispettivi e colle lor doti.
Immaginate un elegante salotto non già microscopico come nei paesi settentrionali, dove si economizza lo spazio per economizzare la materia da riscaldarlo: ma un salotto ampio ed arioso alla veneziana, con un bel fuoco acceso nel camminetto frankliniano incrostato di porcellana, tutto quadri e stampe appese in bell’ordine alle pareti, e qualche pianta fiorita e odorifera sui massicci armadi degli angoli. Non mancava da un canto l’inevitabile Piano di Erhart, ma quella sera, grazie al cielo non venne ad imporre un silenzio forzato alla briosa conversazione che occupò la piacevole radunanza.
Dovrei ora descrivere ad una ad una e classificare le dieci o dodici persone che vi ebbero parte, e vi porrei con questo dinanzi agli occhi un bel quadro fiammingo. Ma io non amo i quadri fiamminghi dove si pretende dipingere tutto e tutti. Mi contenterò dunque di esporre che la brigata era composta d’uomini e donne: il signor Lanzoni, che s’intende, vo’ dire, il padrone di casa: l’angelo della festa, la zia, il medico che ho accennato altre volte, l’istitutore della fanciulla, ex-abate che non avea ritenuto delle antiche abitudini se non l’abito scuro ed una indomabile inclinazione per le discussioni teologiche: uomo probo del resto e d’animo liberale, che insegnava alla giovanetta la lingua latina e la geometria, per contentare il di lei genio bizzarro.
Le signore erano parenti più o meno lontane della famiglia, tranne la contessa d’Andria che vi era venuta quella sera per presentarvi il contino suo figlio reduce a que’ giorni da un lungo viaggio, che dicevasi d’istruzione, nei vari paesi d’Europa. Era un bell’uomo di circa trent’anni, degno rappresentante di quella vegeta e gioconda razza lombarda, che quando è un po’ navigata ha pochi rivali nel mondo per l’accordo delle qualità fisiche e delle morali.
Il conte Alberto era stato navigato un po’ troppo. La madre, per sottrarlo al contagio delle idee politiche che reputava troppo compromettenti, e alle conseguenze di qualche scappatella di gioventù, l’avea mandato a viaggiar la Germania, l’Inghilterra e la Francia. Aveva quindi appreso tre lingue, una farragine di cose e d’idee, senza perdere nè la salute, nè il tempo, nè l’allegria. Tutt’al più avea fatti certi larghi salassi alle rendite avite, specialmente nelle stagioni de’ bagni. La madre non avea mancato di fargliene le dovute rimostranze, ma alfine pensava che una buona dote avrebbe rimesso in ordine le partite. Chi sa che quella brava e provvida signora non venisse a tendere la sua rete quella sera medesima! Angela, come ho già detto, era figlia unica e possedeva una fortuna assai ragguardevole, anche per un conte d’Andria che si fosse mezzo rovinato ai giuochi di Spa.
Ho detto che la conversazione s’era lungamente aggirata sui ragni, insetti ed uomini, che tendono le loro reti nel mondo. Cosimo, col suo disegno sempre là presente sulla tavola rotonda, aveva dato, senza saperlo e senza volerlo, un tale indirizzo alle idee. Egli, come potete credere, non assisteva alla conversazione se non nell’emblema che aveva adottato quel giorno, ma non per questo era rimasto estraneo a quanto si disse dagli uni e dagli altri.
Angela avea fatto ammirare la bizzarria del suo spirito ampliando la tesi del suo protetto e istituendo i più graziosi e piccanti confronti fra vari animali e varie piante e certi caratteri e certe fisonomie sociali. Il soggetto non era nuovo, ma le applicazioni erano improntate di una finezza e di una grazia singolare. La buona giovanetta rispondeva con questo indirettamente a quelli che avevano accolto con un sorriso troppo crudele l’analogia del ragno di Cosimo.
— Tu confondi due cose molto diverse — disse la zia. — Voglio concedere che il signor maestro somigli ad un formicone, e il contino Alberto alla rondine viaggiatrice, e tu all’ortica che è più celebre per le sue punte che per la bellezza de’ fiori. Il tuo protetto però non somiglia ad un ragno per le sue qualità naturali, ma per la fatalità che lo ha fatto nascere gibboso e deforme. —
L’osservazione era vera, ma poco cortese e poco caritatevole. Ella volle forse dar sulla voce alla nipotina, e mettere un freno a quello spirito un po’ troppo franco e disinvolto per una giovane che fa il suo primo ingresso nel mondo. Angela capì la lezione, e un po’ mortificata, si pose a squadernare il suo album, senza più prender parte al discorso.
La conversazione prese allora un’altra piega. Il conte Alberto, avendo inteso che si trattava di un povero gobbo che interessava sì vivamente la famiglia per le sue buone qualità d’intelletto e di cuore, si mise a narrar maraviglie di un istituto ortopedico che avea visitato a Parigi, e che dava risultati mirabili.
— Nulla è più impossibile alla scienza — disse il nostro viaggiatore. — Il dottore di casa, e l’abate, che soleva leggere le riviste scientifiche del tempo, appoggiarono entrambi le parole del conte, tanto che il signor Lanzoni lasciò intravedere la sua intenzione di confidare il povero trovatello ad uno di quegli Stabilimenti.
Il padre di Angela aveva un cuore che teneva molto di quello della figliuola. Potendo fare il bene, non lo faceva a metà. Fu stabilito che il conte avrebbe esaminato il fanciullo, e ne avrebbe scritto al direttore dell’istituto che avea visitato, per sapere se la qualità del difetto e l’età dell’infermo lasciassero qualche speranza di guarigione.
VI.
Angela aveva inteso con visibile emozione il progetto di sottoporre il suo allievo ad una cura ortopedica: ma non avea preso parte al discorso, ignorando affatto l’esistenza e l’efficacia di questo metodo. Ella non avea mai considerata come curabile la strana conformazione di Cosimo, nè vi pensava che per deplorare la crudel bizzarria della sorte che l’avea così condannato ad essere il ludibrio delle altrui beffe o dell’altrui compassione. Ora le sue idee presero naturalmente una nuova piega, e poichè l’arte umana poteva liberare da quello stato infelice il povero infermo, si diede tutta a sollecitarne l’effetto.
La mattina susseguente sorprese Cosimo affaccendato nelle sue consuete occupazioni, e dopo averlo ringraziato con affetto de’ suoi disegni, lo informò del progetto che si era intavolato sul conto suo.
Cosimo l’ascoltò come trasognato senza comprender bene di che parlasse. Anch’egli, al pari di lei, avea risguardato sempre la propria deformità come un male senza rimedio, e si era rassegnato a sopportarlo per tutta la vita. Non diremo che non sentisse con qualche amarezza le sconce risa che suonavano intorno a lui, e le celie poco decenti che gli fioccavano addosso, ma vi si era già accostumato per modo che non ne faceva più caso. Cercava di prevenirle e di evitarle quando poteva, rendendosi caro ed utile a tutti colle sue buone parole e coi mille piccoli servigi che procurava di rendere a quanti potesse. E quando pensava che, senza quel difetto, non avrebbe forse mai conosciuta la sua benefattrice, era quasi tentato di ringraziar la natura e la fortuna di averlo concio a quel modo. Ora vedendo la possibilità di riguadagnare il suo posto nel numero degli esseri regolari e ben naturati, restava perplesso, come quegli che si trova dinanzi una prospettiva che non si aspettava nè immaginava vedere. Una folla di idee e di desiderii nuovi gli si affacciavano alla mente e gli agitavano il cuore: ma l’abito del dolore e il suo naturale buon senso lo ritennero dall’abbandonarsi a troppo lusinghiere speranze.
D’altronde gli corse subito al pensiero che, a voler tentare siffatta cura, bisognava lasciar Milano, bisognava abbandonar quella casa e quelle persone così affettuose e così care, quell’angelo che aveva dinanzi agli occhi, e che non osava di riguardare. Non più vederla, non più udir la soave sua voce, ciò gli pareva gran sacrifizio, anche se avessegli a fruttare la felice metamorfosi che gli era promessa.
Queste riflessioni traversarono come lampo l’anima sua, ma non osò palesarle alla sua protettrice per una ragione più facile a immaginare che a dire. Si contentò dunque di crollare il capo in aria d’incredulità, e rispose con mesto sorriso: — Perchè il ragno si lagnerà egli della sua figura, specialmente quando voi ne prendete le difese, come avete fatto jer sera? —
Angela arrossì alla sua volta senza ben sapere il perchè: ma, ricomponendosi tosto, seppe trovare tante buone ragioni, che Cosimo non potè più insistere nella sua negativa, e si mostrò pronto a fare la volontà dei suoi benefattori e padroni.
Il signor Lanzoni non pose tempo in mezzo a procurarsi le notizie più necessarie intorno agli istituti ortopedici di Parigi. Il medico di casa e il conte Alberto d’Andria, prima origine del progetto, l’avevano coadjuvato. Tutti erano lieti di poter ridonare la sua sanità e dirittura delle membra ad un giovanetto che mostravasi così sano dello spirito e così dritto d’ingegno. I più contenti parvero il giardiniere e la zia, pei quali quell’individuo così contraffatto era uno spino negli occhi: all’uno perchè era troppo sapiente, all’altra perchè aveva un’invincibile avversione per gli uomini malfatti, e li abborriva come segnati da Dio.
Angela, dal canto suo, si pose senz’altro a mettere insieme gli abiti e la biancheria necessaria per un sì lungo viaggio, e per un’assenza che poteva durare più mesi e più anni. In quest’occasione si vede più che mai che non lo considerava come un servo, ma, quasi direi come un figlio. Non era ella successa alla madre? non ne aveva ella fatte le veci? non ne aveva adempiuti i doveri? Senza di lei il povero nano avrebbe continuato ad essere lo zimbello de’ suoi compagni, forse sarebbe morto di miseria e di crepacuore, certo poi non si sarebbe levato a sì nobili sensi, e non avrebbe aperto l’intelletto e l’animo a quelle idee e a quelle attitudini che gli meritavano la benevolenza di tutti.
Prese dunque le informazioni, e fatti i necessari preparativi, si dispose a partire per Parigi, raccomandato dal padre di Angela e dal conte d’Andria al direttore del primo istituto ortopedico di quella città. La cura che intraprendeva non doveva distorlo dagli studi che avea incominciato. Angela l’aveva fornito a dovizia di disegni, di colori, di trattati di botanica e delle flore più ricche e complete che avesse trovato nella paterna biblioteca e nelle librerie di Milano. A Parigi poi avrebbe visitato il Giardino delle piante, ove ammirerebbe per la prima volta la splendida vegetazione de’ tropici, le collezioni più complete di storia naturale, tanto da farsi un’idea complessiva delle varie produzioni dei due emisferi. Il padre la vedeva fare e sorrideva compiacendosi di quell’affetto quasi materno che mostrava per quell’infelice.
Il momento della partenza raddoppiò l’emozione. Cosimo impallidì e fu sul punto di cadere in deliquio. Nessuno comprese la vera cagione di quel turbamento, nemmeno Angela ch’era presente, nemmeno egli stesso. Era un presentimento di qualche sventura, era il terrore di affrontare nuovi pericoli? Noi non sapremmo ben dirlo. Il cuore umano, anche quello di un povero paria della natura e della società, cela misteri profondi che è malagevole scrutinare. Se fosse stato solo, forse avrebbe prorotto in lagrime, e nello sfogo avrebbe sollevato il suo cuore. In presenza di Angela, del padre di lei, e di una parte della famiglia, avea voluto comprimere la sua emozione, e riuscì a farla più manifesta malgrado suo. Ma il calesse era pronto, e vi montò precipitosamente prima che le forze gli venissero meno del tutto.
VII.
Quest’affare di Cosimo avea dato occasione al conte d’Andria di venire più d’una volta in casa Lanzoni, ora per communicare una risposta ricevuta da Parigi, ora per esaminare il soggetto, come si dice in istile dell’arte, e riferirne al direttore dell’istituto ortopedico.
Si sarebbe detto a prima vista che il conte prendeva il più vivo interesse per quel disgraziato, ma un occhio più sagace avrebbe di leggieri scoperto, sotto questa singolare benevolenza, un altro fine secreto che non era carità del prossimo. Il conte aveva gittato gli occhi sull’avvenente fanciulla, ne aveva conosciute le simpatie, e parendogli un partito non disprezzabile, avea fatto così su due piedi il suo piano di battaglia. La sua sagace tattica avea sortito l’effetto: egli avea parlato più volte alla giovane, le avea dato prova della bontà dell’animo suo, avea contribuito al benessere del suo protetto, s’era aperto una via ad intertenersi con lei ogni qual volta l’avesse desiderato.
Angela, semplice e buona com’era, non aveva pensato a secondi fini. Fu grata alla cooperazione dell’interessato vicino per ciò che credeva poter esser utile al giovanetto, ma non andò più oltre nè pur col pensiero. Il suo cuore non s’era per anco aperto all’amore. Se il conte l’avesse amata davvero, un pari sentimento sarebbe sorto spontaneamente nell’animo suo: i cuori s’indovinano e si rispondono. Ma ciò non avvenne. Ella prese le premure del conte Alberto come semplici atti di cortesia, e rispose con altrettanti. Il conte d’Andria non aveva l’onore d’essere una mala erba per provocare sull’istante le sue simpatie. S’era presentato in casa di lei colla franca disinvoltura che suole ispirare un’idea esagerata del proprio merito personale e la memoria dei molti trionfi ottenuti. L’aver veduto il bel mondo di quasi tutta l’Europa non contribuiva per poco a codesto. Ma senza ciò, il conte era grande della persona, d’aspetto avvenente, occhi neri, capelli neri, tinta bruno-vermiglia: un vero modello per rappresentar l’italiano in una galleria etnografico-pittoresca. Angela l’aveva ammirato come si ammira una bella statua, come ammirava i più bei fiori delle serre paterne, ma il suo cuore era restato chiuso ad ogni sentimento più tenero. Egli, dal canto suo, non aveva nessun interesse a concludere. Era avvezzo, in fatto d’amore, a lasciar correre l’acqua alla china. Forse è il partito migliore quando non si tratti di sorprendere ex abrupto un assenso, e prendere, come si dice, la piazza d’assalto. D’altronde Angela era ancora sì giovane d’anni e di spirito!
Dopo la partenza di Cosimo, ella s’era trovata sola e derelitta. La casa, il giardino, le parevano vuoti e deserti. Le più belle camelie la trovavano indifferente: il suo recinto particolare si risentiva delle prime brine, e più ancora della lontananza del suo cultore. Il novembre aveva disseccato metà delle piante. Le altre si restringevano in sè stesse per tener fronte alla rigida stagione, e prepararsi al riposo invernale. Ella guardava malinconicamente quell’erbe e quei fiori, divagando col pensiero ad altre idee, ad altri mondi.
Specialmente quando era sola la sera, e agucchiava presso la zia, o squadernava distratta qualche volume, due immagini le stavano innanzi, due immagini ben diverse. Cosimo colla sua faccia pallida e malinconica, il povero Cosimo infermo, contraffatto, schernito da tutti, e il conte Alberto d’Andria in tutta la pompa della sua bellezza virile, forte e robusto della persona, amato o invidiato da tutti. Ci affrettiamo a dirlo per non indurre i nostri lettori a impronti e falsi giudizi. Angela non amava d’amore nè l’uno nè l’altro. Ho già detto che non era ancora sonata per essa quell’ora che cambia e trasforma ad un tratto l’essere d’una donna. Dinanzi all’amore nessun confronto sarebbe stato possibile fra quei due. Il povero Cosimo poteva eccitare la pietà più sincera e più viva, ma non quel sentimento che domina tutta la vita. La bizzarra fantasia della giovane si compiaceva di paragonarli sott’altro aspetto. Angela era uno di quegli spiriti che domandano il perchè d’ogni cosa. Perchè dunque Alberto sì grande e sì bello, e Cosimo così sformato e ridicolo? Se il corpo non è che l’organo dell’anima, perchè quella di Cosimo non era pervenuta a formarsi un corpo più perfetto ed armonico? Questioni insolubili che tormentavano la sua intelligenza, e la facevano divagare sovente nel mondo delle chimere. Ella non s’era già lasciata abbagliare dalle lusinghiere apparenze d’Alberto: il suo giudizio s’era già formato sopra le qualità morali dell’uomo. Giammai, posto nelle condizioni di Cosimo, ei sarebbe giunto a educare se stesso e a sollevarsi ai graziosi concetti dell’arte. Pensava dunque all’ingiustizia della fortuna, a un poter capriccioso, che agli uni prodiga tutto, grazia, ricchezza, avvenenza, vantaggi sociali; agli altri tutto ricusa, e li condanna a servire come d’ombra o di contrasto ai loro fratelli privilegiati.
Era sempre lo stesso tema, sempre la stessa curiosità che le presentava il morale sotto questo punto di vista, e la spingeva a cercare una soluzione soddisfacente: ma i termini del suo confronto, che fino allora erano stati vaghi ed incerti, ora si venivano incarnando in quei due. Il conte d’Andria era per lei l’usurpatore, il tiranno, l’enfant gâté della natura; Cosimo, il paria, l’oppresso, il ludibrio d’un iniquo destino. Non occorre aggiungere che in questi momenti, e sotto il martello di queste riflessioni, ella sentiva una segreta avversione per il bel cavaliere, e parteggiava per il suo antagonista. Fino i due nomi partecipavano a questa lotta. Alberto d’Andria, uno dei più bei nomi di Lombardia, e Cosimo, che aveva udito la prima volta alterato per beffa crudele, quando i monelli ne facevano Quasimodo!
— Alberto d’Andria! Eppure io ho veduto o inteso questo nome altre volte, — diceva a se stessa la giovane. — Alberto d’Andria! Certo la zia me ne deve aver detto qualche cosa per il passato, per cui m’è restato nella memoria senza ch’io me ne rammenti nè il come nè il quando! —
E così dicendo cercava pure di richiamarsi alla mente dove avesse letto quel nome, e perchè si unisse sempre nel suo pensiero con quello di Cosimo. Tutto ad un tratto, quasi rischiarata da una subita luce, corre allo stipo dove avea riposto il borsellino che Cosimo le aveva restituito: si ricordò della carta che le era stata affidata, l’aperse e la lesse. Era, come accennammo, una promessa di matrimonio, una promessa formale sottoscritta in tutte lettere:
Alberto d’Andria.
Angela restò come stupida, colla carta spiegata dinanzi agli occhi, e non credeva a se stessa, non sapeva se vedesse il vero, o se fosse qualche strana allucinazione. Alberto d’Andria! Una promessa di matrimonio alla… madre di Cosimo! Questa scoperta le parve così importante, e il mistero che intravedeva, sì tenebroso, che non osò decifrarlo, e non volle nemmeno affrettarsi a farne parte agli altri della famiglia. Ripose la carta nel borsellino, e lo rinchiuse nell’angolo più riposto del suo stipetto. Prima che ad altri il cuore le diceva di doverlo comunicare a quello che aveva un maggiore interesse a saperlo. Risolse di scriverne a Cosimo, ma non si affrettò temendo che l’emozione che ne proverebbe non avesse a compromettere la cura che intraprendeva, e sulla quale aveva fondato tanta speranza.
Aspettò dunque consiglio dal tempo, e chiuse in sè medesima il suo segreto.
VIII.
Il nostro Cosimo fece il suo viaggio fino a Parigi in una di quell’enormi macchine, che, prima dell’invenzione delle ferrovie, servivano al trasporto ordinario d’uomini e cose, e si chiamavano, per eufonia o ironia, diligenze, velociferi, corriere, ec. Da venti a ventiquattro esseri umani venivano insaccati in una vettura da due, da tre, da quattro piani o compartimenti, dal posto privilegiato al più economico, chiamato per la stessa metafora, il paradiso. Uomini e donne, preti e frati con tutte le loro attinenze erano posti alla rinfusa, dove fortuna li balestrava, o piuttosto il conduttore per sue buone ragioni li collocava. O per fortuna o per altra provvidenza che vi lascio immaginare, Cosimo si trovò agli avamposti, assiso comodamente accanto al conduttore del popolato veicolo. E fu bene per lui, giacchè se si fosse trovato nel corpo della carrozza in mezzo a dieci o dodici annoiati, vi so dire che la sua singolare configurazione sarebbe stata il tema delle inevitabili beffe, onde l’uno o l’altro della brigata l’avrebbe fatto segno per passatempo.
Cosa singolare! Egli non aveva mai pensato alla propria infermità se non da quindici giorni, dall’epoca appunto che aveva veduto il conte Alberto, e gli era stata svegliata nell’anima la lusinga di raddrizzarsi le reni. Una disgrazia irreparabile si sopporta senza pensarvi. Si sa che il condannato a morte suol riposare la notte che precede il supplizio: ma se tutto ad un tratto gli fosse fatta sperare la grazia, non chiuderebbe più gli occhi sotto il pungolo delle nuove speranze.
Quanto fu lungo il viaggio, e fu di tre giorni e due notti, non pensò ad altro che alla propria deformità, e per via di contrasto gli sorgeva incessantemente dinanzi la svelta e maestosa figura del conte d’Andria. Quel nome e quell’aspetto non gli parevano nuovi, ma non potè rammentarsi dove e quando ne avesse avuto contezza. Da una o da un’altra ragione che fosse mosso, il gentiluomo si era mostrato verso il povero nano di un’amorevolezza e d’una bontà singolare. A lui doveva i nuovi tratti di beneficenza che riceveva dal signor Lanzoni e da Angela; a lui la speranza di poter trasformarsi come il bruco nella farfalla, ed essere classificato in altra categoria della storia naturale che non fosse quella de’ ragni. Eppure egli era ben lontano dal provar per il conte quella tenera gratitudine che avea sempre sentito per la sua protettrice e per il padre di lei. Il sentimento che nutriva per lui, se non era avversione, era almeno sospetto, era un’antipatia misteriosa che non sapeva spiegare, e della quale sentiva vergogna e quasi rimorso.
Avvezzo ad analizzare le proprie impressioni, come sogliono gli animi riflessivi e gli ingegni osservatori com’era il suo, si domandò se codesta contrarietà che provava per quel tipo di bellezza virile, non avesse per avventura il suo fondamento in una inescusabile gelosia, in quella livida invidia che ci fa risguardare sovente come nemici quelli che sono stati dalla natura o dalla sorte privilegiati su tutti gli altri.
Ma Cosimo era troppo umile e troppo nobile per avere quel brutto difetto. Tale qual era, egli amava le belle cose e i begli uomini. Era poeta. La bellezza, l’armonia delle forme, sotto qualunque aspetto si offerisse ai suoi occhi, gli pareva un lampo della divinità, un raggio dell’eterno bello. Aveva udito l’abate Arnaldo, il maestro di Angela, rimproverare al Foscolo d’aver ordinato, in non so quale delle sue opere, i beni della vita per modo che prima veniva la bellezza, poi la ricchezza, per ultimo la virtù. Pensandoci sopra, Cosimo si era pronunciato in favor del poeta. — La ricchezza e la virtù, pensava egli, si possono acquistare per forza d’ingegno e per costanza di volontà, ma la bellezza è un dono gratuito di Dio, è il sigillo onde il Creatore contrassegna i suoi prediletti. — Vero è che allora Cosimo non pensava che ad Angela, la quale alla bellezza veramente angelica, univa la bontà e la ricchezza di cui sapeva fare un uso sì degno. In tutte queste riflessioni che gli venivano sovente al pensiero, ei non aveva mai risguardato a se stesso. Si considerava come semplice spettatore della bellezza altrui, abbastanza fortunato per saperla distinguere ed apprezzare.
Ma ora per la prima volta non poteva pensare al conte Alberto senza confrontarlo con sè: e un tale ravvicinamento lo umiliava, lo mortificava, lo irritava malgrado suo….
Il moto monotono della diligenza che saliva lenta lenta le oblique svolte dell’alpe favoriva questa specie di sonnambulismo nel nostro Cosimo. Il conduttore sonnecchiava abbandonando alle guide sperimentate e ai postiglioni il governo del suo piccolo mondo. Alcuni viandanti erano scesi per superare a piedi una parte dell’erta. Cosimo s’era dimenticato nel suo angolo, perduto nelle sue fantasie, passando dalla veglia a quel sonno leggiero e pieno di visioni che ci sorprende alcuna volta in viaggio.
Ebbe un sogno assai strano, che doveva lasciare una traccia profonda nella sua immaginazione. Gli pareva di assistere alla creazione del mondo. Un vecchio venerando, come sogliono rappresentare nelle Bibbie illustrate, il Dio di Mosè, plasmava colle sue dita medesime il primo uomo, il quale di mano in mano che prendeva forma e figura, assumeva un aspetto che gli parea di conoscere. Quando il Signore, compiuta l’opera sua, gli soffiò lo spirito vitale, e quella statua meravigliosa aprì gli occhi e la bocca, Cosimo ravvisò le dignitose e leggiadre sembianze del conte d’Andria. Per naturale associazione d’idee, codesto nuovo Adamo mangiava il suo pomo e peccava. E Cosimo udì una voce gridare al colpevole: «Poichè non obbedisti a’ miei comandi e abusasti delle tue facoltà contro gli ordini miei, io ti punirò ne’ tuoi discendenti. Quelli che nasceranno da te non porteranno più l’impronta delle mie mani, ma obbediranno al fortuito accozzamento della materia.» Il colpevole restava perplesso al suono di queste parole, ma si riaveva ben tosto; e come per isfidare l’Altissimo, raccolta la creta che era rimasta, si provò a formare colle proprie mani un altro uomo a immagine sua. Ma l’argilla molle e stemperata non rispondea all’idea. La statua non sorgeva dritta e disinvolta come quella ch’era stata plasmata da Dio. La faccia avea bene qualche vestigio della prima creazione, ma il basso era sconcio e contorto in misero modo. Ne naque infatti un aborto, quest’essere deforme prendeva anch’esso una faccia non nuova. Il poveretto ravvisava in quel mostro informe se stesso!
Fu preso da tale spavento che si svegliò.
La carrozza era giunta sulla sommità del Cenisio. La brezza del mattino svegliò i viaggiatori ch’erano rimasti al loro posto. Gli altri giungevano trafelati dai sentieri laterali che avevano preso. Il moto, le grida, la magnifica prospettiva che si apriva allo sguardo, tutto ciò venne opportunamente a interrompere le tristi allucinazioni del giovanetto.
Il sole vestiva d’una luce rosea le vette de’ monti circostanti. Cosimo salutò quella luce consolatrice, e veduto in un seno della montagna una selvetta di rododendri, ne colse un ramoscello fiorito per offerirlo in dono al suo angelo tutelare. Era tanto preoccupato dei suoi pensieri e delle sue fantasie, che avea dimenticato di trovarsi a tanta distanza da lei, e in procinto di abbandonare l’Italia. Gli cadde di mano quel ramo e risalì tutto accorato in vettura.
IX.
Lasciamo per un momento la parola ai nostri due amici. Ci spiace solo non aver ritrovato la prima lettera che Cosimo scrisse, appena giunto a Parigi, rendendo conto delle accoglienze che ricevette all’Istituto ortopedico, e delle buone speranze che il direttore gli aveva date. Queste notizie avevano rallegrata tutta la famiglia Lanzoni, ed Angela s’era assunta l’incarico di rispondere a Cosimo. Ecco la sua lettera tale e quale:
«Milano, 15 settembre 185…
»Fratello mio,
»Il babbo mi fece leggere la tua bella lettera, e mi lasciò il piacere di risponderti. Siamo tutti in festa per le buone accoglienze che ti furono fatte dal direttore dell’Istituto che mi sembra già di vedere, e che io amo da questo momento per la cura che prende di te. Dio voglia, mio caro Cosimo, che le nostre speranze non abbiano a restare deluse, e che tu possa uscire al più presto da cotesta casa più forte e più diritto della persona. Quanto al cuore e alla mente, ci basta che tu conservi la natural rettitudine che mostri fin qui!
»Questa è la risposta ufficiale ch’io ti fo, come segretaria della famiglia, ed anche, vedi onore! del signor conte d’Andria, che continua a prendere il più vivo interesse per la tua guarigione. Sul conto di questo signore avrei anzi a communicarti qualche altra cosa che ti risguarda più da vicino, ma preferisco parlartene a voce più tardi.
»Ora bisogna ch’io ti dica un po’ delle cose nostre, del nostro giardino, delle nostre povere piante che sono ora immerse in quello stato di sonno e d’inerzia a cui le condanna l’inverno. Hai tu pensato, Cosimo, tu che cerchi sempre il perchè delle cose, hai tu ben pensato a questo periodo della vita vegetativa, e ai vari fenomeni che lo distinguono? Si suol dire che codesta è la stagione morta. Forse è morta per noi, che siamo privi del gradito spettacolo che presenta la natura nella pienezza della sua efflorescenza. Ma per le piante, a mio credere, è tutt’altro che morta. È un riposo apparente e necessario ai grandi misteri della germinazione e della trasformazione degli esseri. Come si può chiamar sonno e letargo quello del germe che dentro al suo duro guscio e alle sue molte membrane supera l’abisso che divide la semplice cristallizzazione dalla vita organica, e quello del bruco che nella oscura tomba in cui si è sepolto, fabbrica lentamente le sue ali, e le screzia di sì vivi colori per passare dalla vita di rettile a quella più nobile di farfalla? Tu che sei solito applicare all’uomo tutte le fasi della vita delle piante e degli animali, quale analogia trovi tu fra il sonno degli alberi e il nostro, fra la lunga letargia del verme che si prepara alla seconda sua vita, e le vicissitudini a cui ci condanna l’età? Qual è il nostro inverno, quale la nostra primavera? Perchè la pianta si rinnova e si ringiovanisce ogni anno, e noi non siamo giovani che una volta? Ho un bel domandare al maestro la ragione di queste cose. Egli non fa che rispondermi: misteri, misteri! Il dottore, che non vede altro che materia nel mondo, non ha una risposta più chiara da darmi. Vorrei ben sapere che cosa ne pensi tu. Quante volte non abbiamo noi trovato una spiegazione che gli altri non avevano saputo indicarci! Pensaci su nelle lunghe ore d’ozio e d’immobilità a cui ti condanna la cura intrapresa, e dimmi il tuo pensiero che s’incontrerà probabilmente col mio. Intanto eccoti le notizie che chiedi.
»Giacinto ha già ritirato ne’ suoi stanzoni tutte le sue piante. È tutto intento ad esaminare il termometro, e a misurar loro il grado di calore che chieggono, a ventilarle, ad annaffiarle, a muoverle di sito perchè abbiano la luce e l’esposizione più conveniente a ciascuna. Povero Giacinto! Io non lo condanno. Egli cerca di render men trista la deportazione e l’esiglio a quelle povere vite avvezze ad espandersi sotto lo splendido cielo de’ tropici, tra le folte foreste primitive del Messico, nelle acquidose convalli dell’Orenoco e del Gange. Mi sono proprio riconciliata con lui dacchè penso che quelle povere raminghe non viverebbero senza le sue cure, senza le sue stufe, senza l’aria tiepida che tratto tratto fa penetrare nelle serre più calde. Comprendo ora che egli pure alla sua maniera si presta ad un’opera di carità verso questi esseri innocenti e sfortunati, a questi re dell’Asia in esiglio. S’egli ammalasse, o se lo prendesse un’altra volta l’estro di andarsene, bisognerebbe pure ch’io ripigliassi l’opera sua, e sa il cielo se io saprei conoscere la natura e i bisogni di tutte queste piante così diverse. Rendiamogli dunque giustizia e facciamo pace con lui.
»Quanto al nostro giardino, esso è in vero molto mutato, e non presenta il gaio aspetto di prima. Non ha più fiori d’alcuna specie e d’alcun colore. Solo la parietaria, prima di perdere le sue foglie, le colora, come la vite, delle più belle tinte di porpora e d’oro che mai si vedessero in pianta. È l’ultimo addio che dà alla natura, è l’ultima bellezza che sfoggia prima di spandere i suoi granellini e prepararsi con essi una vita novella.
»Le altre piante abbandonano le loro foglie inutili che serviranno a preparare un soffice letto e il primo alimento alla giovane generazione. Ma non hanno bisogno nè di stufa, nè d’acqua, nè d’altro aiuto dell’arte. Sopportano la rigidezza del clima, la neve, la bruma, e il gelo stesso senza pericolo. Si direbbe che si stringano l’una contro l’altra, e si scaldino fraternamente a vicenda. Deggio pensarlo, poichè tutto il resto del giardino è coperto di neve come di un funebre drappo; quell’angolo solo è verde, e la neve si è dovuta squagliare per lasciare il respiro alle nostre povere pianticelle. Io credo che ciascheduna a parte non sarebbe bastata a vincere quello strato di ghiaccio: ma tutte insieme, cooperando bravamente, vinsero la neve e si procurarono la vista del cielo. Osservo che le piante indigene solamente, le così dette male erbe, hanno il coraggio e la forza di lottare contro il rigore della stagione. Quelle piante forestiere a cui demmo un asilo, sono già ite, e non è ben certo se le vedremo ripullulare più tardi. Così è, caro Cosimo. Ogni terra ha il suo germe particolare, e, benchè si presti sovente a nutrire figli non suoi, tuttavia conserva la sua predilezione pei proprii. Ti ricorda di quel rosajo del Bengala, che Giacinto, per farci una burla, aveva innestato al piede di una rosa canina? Il rovo ha fatto la burla a lui. Il nobile straniero seccò, e dal ceppo sorsero due o tre polle selvatiche che daran presto delle belle rosacce semplici, ma gentili più delle sue.
»L’altr’ieri recandomi a salutare quel luogo che verdeggiava solo come un’oasi in mezzo al deserto, ho trovato la nostra capanna abitata. Indovina da chi? Te lo do in cento.
»Tu non hai certo dimenticato quella povera gatta magra, spelata, tutta piaghe, che hai salvata dalle mani di quei tristanzuoli che la tormentavano, e veniva poi a ruzzarci d’intorno come per gratitudine? Ebbene, mio caro amico, l’altr’ieri, guardando nella capanna, vidi due occhi gialli che splendevano nell’angolo più remoto, e udii un miagolìo che mi fece riconoscere la nostra vecchia cliente. Appena mi vide, mi venne incontro circondata da tre gattini vispi e scherzosi. Dapprima pareva in sospetto; ma poi, come mi ebbe ravvisata, si rabbonì, e mi permise di accarezzare i suoi figliuolini. Essa è ancora lì, e vi si è accasata comodamente. Vado tratto tratto a vederla e le porto qualche vivanda per la sua famigliuola. Lo faccio non tanto per amore di questi nuovi ospiti che cercarono un asilo presso di noi, quanto perchè non vorrei che la necessità la spingesse a dar la caccia a due poveri pettirossi che svolazzano sul tetto della casuccia, e sembrano disposti a collocarvi il loro nido.
»Quanto agl’insetti che un tempo popolavano il nostro compartimento, non li veggo più. Certamente hanno cercato un ricovero sotto la terra o nei crepacci della muraglia. Negli angoli interni ci sono più di cento crisalidi che aspettano i primi tepori di primavera per rompere la loro prigione e spiegare il volo. Un istinto secreto deve avvertirle che l’aria è ancor troppo rigida, e che le piante hanno perduto i lor fiori.
»Addio, caro Cosimo. Vorrei ora parlarti degli uomini, ma che potrei dirti di nuovo? Noi non abbiamo nè trasformazioni, nè mutamenti sensibili. Si ciarla, si giuoca, si danza, si cerca di prolungare il giorno, e d’ingannar la stagione in mille maniere. Ma tutto questo non ha alcuna influenza sulla natura esteriore. Tutt’al più arriviamo ad illuderci e a crearci nell’appartamento uno stato fittizio, una primavera esotica a forza di studio e di spesa. Con qual frutto? Non oso dirlo. Quanto a me, mi diverto qualche volta a sfidare il freddo e la neve per aver la mia parte d’inverno e sentire più tardi tutta la voluttà della bella stagione….»
X.
Cosimo ad Angela.
«La vostra lettera, angelo della mia vita, mi ha fatto rivivere in un mondo migliore. Voi mi parlate del rigor dell’inverno, di quel riposo fecondo della natura, di quella lotta delle piante, riunite per vincere lo strato di neve che ricopre la terra, e riuscire a respirare l’aria, a rivedere la luce del cielo. Veggo dal mio letto di dolore la povera micia ricoverata colla sua famigliuola nella capannuccia del cancello. Voi avete provveduto senza saperlo ai bisogni di una madre, come io, senza saperlo, l’ho conservata alla nuova generazione che doveva nascer da lei. Tutte le volte che obbediamo a un impulso di benevolenza verso quelli che soffrono, secondiamo una legge misteriosa in virtù della quale tutti i fatti e tutti gli accidenti si collegano con reciproca dipendenza.
»Vorrei potervi descrivere uno spettacolo altrettanto gradevole, ma io sono in un istituto speciale dove si raccolgono e si curano gli esseri più maltrattati dalla natura.
»Non so s’io dica bene accusando la natura di quello che forse è colpa dell’uomo e della società dove nasce. La natura, abbandonata a se stessa, non suol produrre nè storpi, nè gobbi, nè mostri. Codeste anomalie sono rarissime fra gli animali selvaggi, divengono men rare fra’ domestici, e sono frequenti fra gli uomini, massime nelle grandi città dove fermentano i vizii che la miseria produce e alimenta. Ho letto questa osservazione nel libro del Leopardi che mi avete dato partendo. È un libro malinconico, ma pieno di sapienza. Quell’uomo doveva avere l’anima bella, quanto il corpo imperfetto e deforme, come si legge nella sua vita.
»Perdonate il disordine delle mie idee. Voi mi conoscete. Quando un pensiero mi pullula nella mente ne tira mille, ed io non riesco a raccapezzarne più il filo. Che cosa voleva io dirvi? Ora mi rammento. Faceva il confronto tra lo spettacolo che voi mi dipingete e quello ch’io devo descrivervi per obbedire al vostro comando. Se sarà tristo e malinconico, non è mia colpa. D’altronde voi non fuggite le sensazioni dolorose, anzi ne andate in traccia per bontà d’animo e per desiderio di mitigarle in altrui. Ah! quanti dolori avreste a consolar qui, quanti disinganni a raddolcire, quanti animi a raddrizzare!
»Il direttore di questo Istituto, è un uomo di un carattere aperto e benevolo. Non ha più di cinquant’anni, ma la sua bella ed ampia fronte è già calva, e tutti i capelli canuti anzi tempo. Sarebbe un bel modello per un profeta o per un apostolo co’ suoi occhi profondi, col suo sguardo affascinatore, colla dolcezza severa de’ suoi lineamenti. Ei mi sembra intimamente convinto dell’arte sua, e pieno di fede nei miracoli che ne attende.
»L’Ospizio dove alloggiamo ha due compartimenti, l’uno destinato alle donne, l’altro a noi uomini. Ciascun compartimento ha parecchie stanze distinte per quelli che, per la qualità della cura, preferiscono l’isolamento, ed una clinica comune per gli altri che sono sottoposti ad un regime analogo. Nel compartimento dove io mi trovo, siamo in quattordici. Ignoro quante sieno le fanciulle che aspirano nell’altro a riacquistare il dono della bellezza e di una forma migliore.
»Nella sala comune vi sono dieci letti, ed otto soltanto sono occupati. Siamo otto infelici: una galleria di sciancati, di rachitici che espiamo probabilmente non so qual peccato d’origine, e aspiriamo a correggere le ossa deviate dalla loro natural direzione, e a rendere la simmetria perduta ai muscoli del nostro corpo. Ci riusciremo noi? Non sono ancora in grado di affermarlo nè di negarlo. Il direttore ci va consolando con esempi di guarigioni meravigliose: ma per lo più si tratta di fanciulli presi a curare fin dall’infanzia, mentre io e la maggior parte de’ miei compagni abbiamo tra quattordici e sedici anni. Le ossa sono dunque alquanto più dure, e la mala conformazione già inveterata. Ci vorrebbe proprio un miracolo a rifarci un corpo valido e sano.
»Quanto a me, voi sapete che venni per obbedire alla vostra volontà, e per non essere ingrato al nuovo tratto di benevolenza del padre vostro. Mi sottometto pazientemente alla cura lunga e dolorosa che mi è prescritta, non tanto perch’io speri approfittarne in me stesso, quanto perchè l’esperienza, buona o trista che sia, torni utile all’arte e profittevole agli altri.
»Figuratevi come io debbo trovarmi, avvezzo com’era alla vita attiva e varia della vostra casa, disteso, per lunghi tratti di cinque o sei ore, sopra un letto, che è un vero letto di Procuste, senza poter muovermi nè a dritta nè a manca. Sono precisamente nello stato di quelle povere piante che Giacinto sforza per mezzo di pali e di vinchi a prendere una forma per cui non son nate. Oggi mi si permette l’uso libero delle braccia, onde posso consacrare una parte della giornata a scrivere e a disegnare. È dunque un giorno di vita attiva: mentre i dì scorsi non vivevo se non col pensiero, e mi nutriva di non so quali strane fantasie, che a voler dirvele tutte vi farebbero ridere e piangere. Sapete che tante volte io m’immergo così profondamente in una idea, che mi par di vedere e di toccare la cosa che immagino! Temo qualche volta di divenire un visionario ed un pazzo! Non vi mettete però in apprensione. Ho il mio talismano sicuro e infallibile contro le divagazioni del mio cervello. Basta ch’io pensi a voi, e mi richiami il vostro bel nome. Così continuate ad essere l’angelo della mia mente, anche a tanta distanza. La vostra graziosa immagine sorride a miei pensieri, come la candida stella polare al navigante smarrito nelle immense solitudini dell’oceano. A voi devo la vita dell’intelletto, a voi quelle serene fantasie che mi trasportano in un mondo migliore! Mia madre mi ha dato un corpo imperfetto e deforme; voi mi avete spirato un’anima giovane e forte, e lieta e magnifica nelle sue idee. Il mondo dove ella vive e si spazia è altrettanto bello e perfetto, quanto la società degli uomini che vivono sulla terra è ingrata ed amara. Grazie a voi che mi svegliaste alla vita del pensiero! Quind’innanzi non vi chiamerò più sorella come mi avete comandato di fare. Voglio chiamarvi madre. Sorella non esprime che l’affetto reciproco. Ho bisogno di un nome che indichi meglio i nostri veri rapporti. Voi siete la madre dell’anima mia.
»Non mi domandate dunque quali progressi abbia fatto la cura, e di quanti pollici si sia raddrizzata la mia persona. Parliamo d’altro. Parliamo dello spirito che ha meno ostacoli a superare. In questi quattro mesi mi sono un po’ esercitato nella lingua francese. A forza di sentirla parlare, m’ingegno di spiegarmi alla meglio tanto che già cominciano a intendermi. Finora ho sempre letto il Leopardi sul quale ho fatto un mondo di riflessioni, che mi riservo a comunicarvi a voce. Ora assisto alla lettura di qualche libro francese che il direttore medesimo o un assistente ci vien facendo per occupare e divertire il nostro spirito durante l’inerzia forzata e l’attitudine disagevole del nostro corpo.
»Da otto giorni ci vien letto un libro nuovo scritto da un sansimonista chiamato Giovanni Reynaud. È un libro nuovo davvero, almeno per me, e credo anche per voi. Il suo titolo è: Terre et ciel; e, contro il vezzo moderno che impone alle opere i titoli più stravaganti, quest’opera parla davvero del cielo e della terra, ma sotto un punto di vista affatto straordinario. Non posso dire d’intender tutto, perchè il libro è molto scientifico, ed è scritto in uno stile molto sublime: ma quello che non intendo, a forza di pensarci, riesco a intravederlo e a indovinarlo da me medesimo nel silenzio della notte.
»Questo libro mi dà la chiave di molti dubbi che hanno finora tormentato e affaticato il mio spirito; e mi pone in grado di soddisfare assai meglio ai nostri perchè. Non ardisco ancora entrare nell’argomento, perchè tante idee nuove e meravigliose mi fanno come nuotare in un’atmosfera insolita e sconosciuta. Sono come abbagliato da una luce più forte che gli occhi non valgono a sopportare. Ma appena mi sarò avvezzato a questo nuovo elemento, vi scriverò una lunga lettera che vi aprirà un nuovo mondo.
»Per oggi restiamo ancora nel vecchio, che la vostra bontà mi renderà sempre più caro d’ogni altro.»
XI.
Il giorno che questa lettera fu ricevuta in casa Lanzoni, fu giorno di festa per Angela.
Quel tenero nome di madre, che il povero nano avea trovato nel fondo del suo cuore per esprimere l’immenso affetto di gratitudine che sentiva per lei, la commosse e inorgoglì al tempo stesso. Quel nome rivelò a lei medesima la natura del sentimento che provava per esso. E benchè pochi anni corressero fra l’età sua e quella del suo pupillo, ed ei sapesse sovente trovare col suo naturale ingegno e col suo istinto meditabondo certe ragioni ch’erano sfuggite a lei stessa e al suo precettore, pure si sentì degna di questo titolo, perchè aveva realmente esercitato l’ufficio di madre verso il povero trovatello diseredato dal mondo e dalla natura.
Quella bizzarra predilezione per ciò che gli altri disprezzano a torto, quell’amore per le creature meno privilegiate, trovò la sua più nobile espressione nell’affetto che sentiva per Cosimo. Da questo momento tutte le cure che soleva prodigare ai varj vegetabili ed animali men favoriti, si concentrarono in uno. Ella divenne tutto ad un tratto più seria, passò dalla puerizia all’adolescenza del cuore, assunse una gravità che, senza nulla togliere alle sue grazie native, le dava la dolce maestà della donna sollevata al grado di sposa e di madre.
La sera, quella lettera dovette essere letta nel picciolo crocchio d’amici che frequentavano casa Lanzoni. Il conte v’era presente e non mancò di congratularsi con Angela del buon esito delle sue cure verso il povero orfano.
La conversazione s’aggirò, com’è da pensarlo, sul contrasto tra un sì bello e sì pronto ingegno e una conformazione sì difettosa, sulle cause probabili del male e sull’efficacia dei mezzi adoperati alla guarigione. Il dottore non isperava molto dalla cura ortopedica a cui Cosimo si era assoggettato sì tardi. Il conte raccontava casi mirabili e stravaganti di guarigioni ottenute anche in una età più provetta. Angela stava in fra due, ma non osava abbandonarsi a troppe speranze. Del resto, ella lo avea preso a proteggere così malconcio, e pensava che se le fosse comparso dinanzi trasfigurato, certo ne avrebbe goduto, ma non le sarebbe parso più quello. Il suo ufficio di madre avrebbe fatto luogo ad altri rapporti ch’ella non potea prevedere. Nè la sua immaginazione, nè il suo cuore poteva dunque imaginarselo differente.
Le diverse opinioni che si esprimevano sul suo conto, l’interesse che tutti mostravano avere per lui, lo sviluppo precoce della sua intelligenza, la lettera singolare di cui si era fatta lettura, tutto ciò avea concentrato l’attenzione sul povero nano assente, e il conte d’Andria non potè a meno di chiedere ad Angela il tempo e il modo onde lo sfortunato avea chiesto e ottenuto asilo e protezione presso di lei.
Angela rispose senza pensare: — Orfano, abbandonato da sua madre per morte, da suo padre per colpevole incuria, bisognava bene che alcuno s’incaricasse di lui. Il Signore, diss’ella, provvede ai pulcini della rondine: ma non sempre agli orfani della razza d’Adamo. —
Il conte sorrise all’arguta e vivace risposta della fanciulla, e le augurò la forza e la costanza di adempiere a questo magnanimo ufficio. — E come probabilmente — soggiunse — il numero degli orfani sarà sempre più grande del numero dei tutori, vi prego a volermi associare all’opera degna. —
Egli non pensava, dicendo queste parole, che a farle uno de’ soliti complimenti: ma Angela le prese sul serio, e si propose di mettere alla prova a suo tempo le buone disposizioni del vicino.
Questi però apparteneva al numero di quegli uomini che, larghi a parole, sono difficili a confermarle co’ fatti, e trovano sempre una ragione o un pretesto per trarsi d’impaccio. Egli aveva adottato un’ammirabile scappatoja per ischermirsi dall’incommodo d’esser coerente a se stesso: la morale. Guardate dove andava a cacciarsi l’ipocrisia! Un tempo fa, un uomo che avesse viaggiato l’Europa si piccava d’aver lasciato qua e là i pregiudizi nativi. Ora i viaggi sogliono dare un’altra piega allo spirito. L’uso del mondo, il conversare con ogni genere di persone, la necessità di non cozzare con le opinioni divergenti del prossimo sparge le parole del viaggiatore d’una tinta di pedanteria che innamora. A forza d’approvar tutto e tutti, ei perde la propria opinione individuale, e dissimula questo pratico scetticismo con una vernice di moralità che serve di condimento ad ogni genere di discorsi. Il conte d’Andria lasciò l’Italia stordito, e vi tornò moralista. Ei s’era posto nella categoria di quelli che si professano i salvatori della morale, della religione, della famiglia. Non vo’ dire che fosse profondamente corrotto e pensatamente ipocrita come i creatori di questa formula; ma la ripeteva così per bon-ton, e la trovava assai comoda per darsi un’aria d’importanza e di singolarità fra’ suoi concittadini. Era una specie di diplomazia sociale, divenuta alla moda fra i nobili, un argot delle persone distinte.
Dopo aver data dunque un’approvazione la più cordiale alle generose parole di Angela, trovò il modo, parlando agli altri, di versare un po’ d’acqua sul fuoco e di elevarsi di un grado, spacciando le solite topiche sulla miseria crescente, sulla cancrena che divorava la società, sulla corruzione de’ costumi presenti, sulla immoralità che corre le vie e si predica su’ teatri, ec., ec. — Se si volesse — diss’egli — prendere sotto la propria tutela tutte le femmine di mal affare e tutti i trovatelli della città, quale posto rimarrebbe ai poveri virtuosi ed onesti? Quanto più si studia la società — conchiuse il nostro filosofo — tanto più si divien fatalista. Bisogna avere il coraggio di applicare alle miserie umane il famoso adagio degli economisti: lasciar correre, lasciar fare. Chi muore a vent’anni e chi nasce colla spina dorsale fuor d’equilibrio, certamente aveva ad espiare qualche peccato d’origine. Io dico che, in massima, gli uomini di senno hanno a pensare ai sani e agli onesti, lasciando alle anime eroiche, ai cuori angelici, come il vostro, madamigella, la virtù evangelica di correr dietro all’agnella errante, e di raddrizzare le gambe ai cani. —
Angela non era donna da lasciarsi allucinare dalle forme più o meno garbate di questo ragionamento. Ella sentì come per istinto l’egoismo che si copriva sotto questo mantello d’ipocrisia, e non mancò di replicare al signor moralista: — Ma quando la miseria e l’infermità non dipendono da vizio originale, ma da vizio effettivo di qualche padre, dimentico dei propri doveri e della propria parola? —
Il conte era ben lontano dall’immaginare che questa fosse un’allusione a lui stesso. Rispose dunque senza esitare, che in questo caso chi era l’autore del male dovea ripararvi. E qui giù un altro squarcio di morale sulla responsabilità personale e sulla santità del dovere. Questo però non distolse la giovanetta dal suo proposito, e tornato il discorso sul povero Cosimo, trovò modo di dire al conte che il nome della madre era Teresa: una povera guantaja morta probabilmente d’inedia e di crepacuore pochi anni prima.
Il conte arrossì, ma si ricompose all’istante. I viaggi sono eccellenti per dare una certa disinvoltura nei casi difficili. E la contessa d’Andria, che fino allora avea badato all’arazzo che trapungeva, venne in soccorso del figlio, chiamando Angela a sè per consultare il suo gusto sopra una tinta delle sue lane.
Così destramente fu rimessa ad altro momento una rivelazione di cui Angela sola avea il segreto, e che un oscuro presentimento la persuase a rimettere a migliore occasione.
Intanto passavano i giorni ed i mesi, senza che nulla venisse a portare la luce in questo mistero. Le lettere che Angela inviava al prigioniero dell’istituto ortopedico erano sempre affettuose, lettere di sorella e di madre ad un tempo. Ci duole non poter offerire alle nostre lettrici tutta questa corrispondenza come fu scritta. Ciò prolungherebbe di troppo il nostro racconto, e ne muterebbe il carattere. Non resistiamo però alla tentazione di riportare due lunghi frammenti del giornale di Cosimo, che servono mirabilmente a indicare lo sviluppo della sua intelligenza, e per quali gradazioni insensibili la sua fantasia lo traeva a dare al problema della sua esistenza una soluzione che ognuno apprezzerà colla indulgenza che merita un organismo imperfetto e lottante contro una dura fatalità.
XII.
Cosimo ad Angela.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Giorni sono una famiglia inglese venne a visitare lo stabilimento, non per semplice curiosità, come sogliono, ma per esaminare la realtà di certe cure maravigliose.
»La famiglia era composta di un vecchio gentiluomo, di un giovanetto vispo e ben disposto, e di due giovani misses alte e snelle della persona, come la gentile levriera che le seguiva legata al guinzaglio.
»Una di esse, che parea la più giovane, portava il viso scoperto, uno di quei visi britannici che somigliano alle camelie. L’altra copriva la faccia di un denso velo azzurro che ne celava interamente le forme. Mi corse tosto al pensiero che quella bella damina celasse sotto il suo velo qualche deformità, e non andò guari ch’io potei sincerarmene. Passando vicino al mio letto di Procuste, quella bella e nobile giovanetta si fermò per guardarmi, e parve prendere il più vivo interesse alla mia posizione. Mi chiese di qual paese fossi, e inteso ch’io era italiano, mi domandò con puro accento toscano, e con un tuono di voce soavissimo, da quanto tempo io fossi sottoposto a quella cura, se provassi molto disagio a quella postura, e se ne sperassi un buon risultato. Risposi che la cura era men dolorosa che non paresse, poichè l’attitudine forzata in cui mi vedeva non durava molto, ed anche in questo intervallo, la lettura e il pensare temperava la noja di quella dura immobilità. Quanto all’esito, non lo sperava molto felice, nè me ne preoccupavo gran fatto. Dissi che mi trovavo lì più per altrui volere che per il mio, e che non credevo di tanta importanza la forma del corpo, da doverle sacrificare a lungo l’attività dello spirito e l’aria libera della campagna.
»La mia visitatrice chinò il capo a queste parole, e mi parve che sospirasse sotto il suo velo. Dopo qualche istante di silenzio e di esitazione, prese il partito di scoprirsi il volto, e compresi la ragione di quel sospiro. La povera signorina avea deturpata la guancia sinistra d’un enorme macchia bruna che avea portata nascendo. — Siamo stati — mi disse — assai maltrattati entrambi dalla natura. Non so quale de’ due sia più da compiangere. Tu almeno puoi lusingarti, di risanare, ed hai libera da ogni deformità quella parte dell’uomo dove l’anima ha impresso il suo sigillo divino: io non potrò mai guardare alcuno, ed esser veduta, senza eccitare il riso o la pietà. Tutti i medici di Londra e di Parigi mi dichiararono essere affatto impossibile levare dal volto questa macchia originale che mi deforma. —
»Io la guardava fisso, senza poter trovarmi una parola di consolazione che credessi efficace. Ella riprese: — Addio, mio caro compagno d’infortunio: intendo che cosa vuoi tu dirmi con quella lacrima che brilla ne’ tuoi occhi. Mi ricorderò sempre di quanto m’hai detto intorno all’efficacia del pensiero e della lettura. Sarà una consolazione nella mia solitudine.
»Detto questo calò rapidamente il suo velo, mi strinse forte la mano ch’io le porsi, e raggiunse la sua famiglia che intrattenevasi col direttore all’altra estremità della sala.
»La vista di quella sfortunata giovane, e le sue meste parole mi lasciarono nell’anima una grande tristezza. Ho sempre dinanzi agli occhi l’espressione malinconica del suo sguardo; mi sembra d’udire la sua voce affettuosa e la grazia ineffabile delle sue parole.
»Intesi dire ch’ella era venuta a Parigi per consultare i più celebri medici della Francia intorno alla possibilità di una cura; e che, nel caso probabile di una risposta negativa, si proponeva di farsi cattolica e prendere il velo in un monastero. Il padre e la sorella n’erano desolati, ma la risoluzione della sfortunata parea irrevocabile Compresi allora che cosa aveva inteso di dirmi accennandomi la consolazione della solitudine, e ne fui più che mai rattristato. Non è la solitudine e il perpetuo riflettere sopra se stessa che potrà consolarla: ma la vita attiva e l’esercizio di qualche arte che le sollevi il pensiero, e lo storni dalla propria infermità.
»Ora intendo, mia cara amica, il pregio della bellezza, massime in una donna. Povera giovane! Ella dovette provare ben duro lo scherno, e ben crudele la compassione del mondo! Troverà ella un’anima angelica, come la vostra, per offerirle quelle consolazioni che partono dal cuore, e scendono ad esso?
»Dacchè vidi quella povera damina, mi torna in mente quella celebre questione agitata fra il dottore e l’abate, intorno al passo di Foscolo che, classificando i beni della terra, attribuiva alla bellezza il primato sopra la virtù e le ricchezze. La virtù infatti dipende da noi, la ricchezza non è sempre necessaria per esser felici, e ad ogni modo la fortuna può essere il frutto della perseveranza: ma la bellezza è un dono gratuito di Dio che possiamo perdere ed abusare, ma non potremmo mai procurarci con tutti i tesori di Creso e tutti gli sforzi dell’ingegno e dell’arte. La bellezza è proprio un raggio della divinità. Io me ne accorsi quando vi vidi, o madre mia; quando quel vostro divino sentimento di compassione e d’affetto era così bene espresso e significato dalla soavità delle vostre sembianze!
»Ringraziate Dio, madre mia, di quella perfetta corrispondenza che passa tra le doti del vostro spirito e le forme del vostro corpo. Non veggo perchè gli uomini e le donne ne vadano tanto orgogliose. È un dono gratuito della natura, al quale non ebbero alcuna parte, come non hanno colpa i deformi dei difetti che hanno portato nascendo….
»Povera miss! qual colpa d’origine, o qual dura fatalità la condannava, prima che nascesse, a portare quella stimmata obbrobriosa! Ecco un altro di quei perchè che ci tormentano senza pro! Ho letto qualche libro per sapere la causa di queste macchie mostruose, ma le mille ragioni che ne danno non mi sembrano concludenti.
»È caso, dicono i medici: ma questo non è rispondere. La mente umana insiste a voler trovare la causa di ogni effetto e il fine d’ogni cosa. E dove la ragione e l’esperienza non danno una soluzione plausibile, è lecito domandarla alla tradizione, alla fantasia, e creare un’ipotesi.
»Sarebbe ella condannata quella povera inglese ad espiare una colpa de’ suoi genitori? Qual colpa? E che giustizia è codesta che punisce i figli per la colpa de’ padri?
»Il libro che vanno leggendoci, e di cui vi ho parlato altre volte, ha una risposta soddisfacente, ammessa che sia la sua dottrina della trasmigrazione. L’autore di Terre et Ciel pretende che la vita de’ nostri maggiori si riproduca in noi stessi, e che le anime umane passino per differenti corpi, modificate dai meriti e dai demeriti della vita anteriore. Non so se si possa ammettere questa ipotesi in buona coscienza: ma quanto al caso presente, si dee confessare che si avrebbe una base per conciliarla colla provvidenza e colla giustizia suprema.
»Il male che uno sopporta non sarebbe da considerarsi come un vero male, ma come un’occasione e uno stimolo al bene. Per esempio, la giovane di cui parlo, potrebbe espiare in questa vita la colpa della vanità e dell’orgoglio a cui l’anima sua sarà soggiaciuta nelle fasi precedenti, per cui passò. La espia imparando a sue spese, come le altrui sventure e gli altrui difetti si devono compatire, non dileggiare. Questo sentimento di pietà che prima le mancava, perfeziona ora l’anima sua e la rende degna di riprendere, dopo questo periodo di prova e di educazione, la bellezza di prima, resa più pregevole per la nobiltà de’ pensieri e la bontà degli affetti.
»Compiango il Leopardi di non aver considerato le miserie umane sotto questo aspetto, certo più consolante, e forse più vero. Se vi è un Dio, non può essere certamente autore del male. Infinitamente giusto e infinitamente buono, non potrebbe permettere il male nè pur come pena dei tristi, se questa pena non tende e non giova a farli migliori. Il male dunque non è che un ostacolo al bene ed uno stimolo a conseguirlo, un appoggio a procedere innanzi nella via della perfezione. È come l’acqua che resiste più o meno alla barca che la va solcando: ma senza la resistenza che oppone, il remo non avrebbe appoggio, nè la barca medesima l’equilibrio. Io considero il male come un’inerzia. Bisogna vincerla: e per questo è necessario di agire, di muoversi, di combattere e svolgere nella lotta continua, le nostre facoltà naturali che, senza questo esercizio, languirebbero inerti.
»Mi spiace che non potrò più rivedere quella bella giovane. Vorrei farle parte di queste riflessioni e persuaderla a levare il suo velo, ad affrontare arditamente lo scherno del mondo, a porgere consolazione e soccorso a tutti quelli che sono più disgraziati di lei, a farsi un’anima bella e perfetta per l’abito della carità, onde rivivere in seguito felice di doppio merito e di doppia virtù!» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
XIII.
Cosimo ad Angela.
«Voi esigete ch’io vi scriva, e intanto mi raccomandate di non abbandonarmi alle mie visioni, alle mie fantasie, alle mie stravaganze. Ma come posso io fare altrimenti? Io non ho qui un giardino a mia disposizione, nè un gabinetto di storia naturale, nè un piccolo pezzetto di terra di mia proprietà per dare un asilo alle male erbe che gli altri calpestano! M’è d’uopo adunque di rivolgere la mia attenzione su questo intricato gineprajo de’ miei pensieri, e coltivare e classificare le male erbe che germogliano nel mio spirito. Voi deste asilo e conforto alla parte di me materiale e deforme: siate altrettanto indulgente alle allucinazioni strane che formano la mia vita interiore. Buone o triste che siano, non sono esse alfine la parte più nobile di me stesso? Che cosa è il mio corpo se non l’organo spesse volte inetto ad esprimerle? Voi che amate il profumo, qualunque, dei fiori che dite esser l’anima loro, e vi affaticate a interpretare il canto degli uccelli e i suoni inarticolati degli animali, non disprezzate, vi prego, o madre mia, questi vaghi sogni incoerenti che possono essere il primo balbettare di un’anima infante in cerca della verità e della giustizia. Vorreste ch’io mi limitassi a darvi conto del mio stato di salute e dei progressi che va facendo la cura? Il medico è molto soddisfatto, e mi assicura che in qualche anno di letto di Procuste io mi farò dritto e bello come un Apollo! Quanto a me, malgrado la sentenza di Foscolo che considera la bellezza come il primo de’ doni e la più invidiabile prerogativa dell’uomo, non posso persuadermi che tale vantaggio meriti di essere conquistato a sì caro prezzo. Io ho le mie idee su questo argomento, e se non temessi che aveste a darmi sulla voce un’altra volta, sarei tentato a comunicarvele. Ebbene! perdonatemi, e ascoltatemi. Sarà l’ultima volta ch’io vi trascino a queste indagini stravaganti e temerarie.
»Io credo, madre mia, che non riacquisterò mai nè la forza nè l’avvenenza. La mia infermità non è effetto d’un accidente: è un vizio di conformazione che ho portato nascendo. L’anima mia non ha saputo o non ha voluto fabbricarsi un corpo più sano e più bello. Ciò non può essere un effetto del caso, nè il decreto d’una cieca fatalità. Una legge giusta, universale, severa deve presiedere a questi fenomeni. L’anima nostra sceglie forzatamente gli elementi del suo corpo, e li sigilla della propria impronta, li configura ad imagine e similitudine sua, non secondo il capriccio del caso, ma secondo un istinto di giustizia che la ritiene in quelle condizioni che ha meritato nella vita anteriore, e che potranno meglio servirla a progredire nel bene.
»Poniamo il caso. L’uomo che mi ha generato era dominato da una smisurata vanità, da un orgoglio colpevole de’ suoi vantaggi personali unito a un disprezzo ingiusto delle altrui infermità sì fisiche che morali. Egli riprodusse se stesso trasmettendo il fiore dell’anima propria ad un figlio. Questa parte di lui che si stacca dal cespo, improntata di questa viziosa abitudine, si assimila e si costruisce un corpo in armonia de’ suoi proprj appetiti. Il padre è punito nel figlio in quella parte di lui che soppravvive al sepolcro.
»Se la punizione fosse sterile e dettata dalla vendetta, sarebbe ingiusta. Ma quest’anima, dotata d’un istinto progressivo, ha la facoltà di migliorare le sue propensioni, espia i trascorsi paterni che sono i suoi proprj trascorsi, e impara a sue spese la pietà delle altrui sventure, meritando così di essere assunta in una condizione migliore in un’altra fase della vita individua, legata alle misteriose evoluzioni della specie umana.
»In questa ipotesi, io non sarei dunque che un abbozzo destinato a perire o a riprodursi con altri organi, e con un corpo migliore, quando lo avrò meritato colla mia rassegnazione, colla mia pietà, colla mia carità verso gli altri.
»Non so se questa opinione sia ortodossa. Sottoponetela al senno teologico di don Arnaldo, il quale troverà nelle Scritture o nei Santi Padri, o almeno nei libri degli antichi filosofi qualche traccia di queste mie fantasie. Voi sapete ch’io sono docile a’ suoi responsi, e mi sottometto volentieri a’ suoi buoni consigli. Nel caso ch’egli trovi che la mia opinione sia conciliabile colla dottrina cristiana, o almeno con quella di Pitagora e di Platone, vi prego a comunicarmelo per mio conforto. Questa mia ipotesi mi sembra molto consolante per quegli infelici che sono costretti a portar la pena di colpe che in apparenza non hanno commesse.
»Tornando a me stesso, io mi considero dunque come un abbozzo, come uno sgorbio del mio spirito che, per virtù de’ contrasti, e per propria dolorosa esperienza, s’addestra e si affatica a rendersi degno di scegliere e scolpirsi in avvenire un corpo migliore. Lasciatemi dunque subir la mia sorte. Questo periodo della mia esistenza sarà forse destinato a compiersi in pochi anni, forse in pochi mesi, e si compierà forse tanto più presto, quanto più avrò perfezionato me stesso, e meritato di rinascere sotto forme migliori.
»Mi torna involontariamente al pensiero la povera giovane inglese che ho veduto pochi dì sono. Vi scrissi nell’altra mia ch’io non reputava la solitudine di un chiostro il miglior partito a cui potesse appigliarsi. Altre considerazioni più mature mi fanno mutar pensiero.
»Mi sono domandato: E s’ella, vivendo nel mondo e trovandosi a contatto colla società, s’innamorasse di qualche giovane, che non apprezzasse le sue qualità morali, e rifuggisse dall’idea di corrispondere all’amor suo? Se avesse una rivale più avvenente di lei, o almeno non condannata a portar sulla fronte quella specie di stigma, oggetto di compassione e di riso? Se, nel conflitto di questi eventi ella venisse a disperare di se medesima e de’ suoi fratelli, e l’anima sua, invece di prendere argomento dal suo difetto ad affrettarne il riscatto, si lasciasse trascinare a passioni irose, a colpevoli invidie, ad amare e sterili recriminazioni? Forse quella buona miss avrà misurato nel suo pensiero tutta la profondità di questo abisso, e diffidando delle sue forze per lottare nel mondo contro questi pericoli, avrà preferito di passare nella solitudine questa fase effimera di una esistenza immortale, che sa per istinto dover essere riservata ad assumere forme migliori.
»Mi astengo dunque dal condannare la sua risoluzione, almeno finchè non ne conosca i motivi. Deh! perchè non potete voi conoscerla, parlarle, consolarla, consigliarla? Forse a voi confiderebbe il secreto dell’anima sua, vi confiderebbe le sue illusioni, i suoi disinganni. Domanderò al direttore il suo nome e il suo domicilio. Chi sa? Il nostro incontro medesimo potrebbe non esser fortuito. Noi forse ci ritroveremo, e potremo consolarci e consigliarci a vicenda o in questa vita o nell’altra!
»Iddio le perdoni la terribile prova di amare senza essere amata! Meglio chiudere sterilmente questa esistenza interinale, e liberarsi da un corpo che non serve ai bisogni e agli istinti dell’anima nostra, lasciarlo dissolvere, e passare, nell’ora stabilita dalla provvidenza, ad informare un’argilla migliore.
»Non fate leggere, vi prego, questi miei sogni d’infermo al vostro circolo. Leggeteli solo al maestro, che non riderà delle mie fantasie. E se credete ch’egli ne rida, non comunicatele nemmeno a lui. Leggetele da sola e sul serio. Per ridicole che possano parere, vi assicuro che non le ho meditate ridendo. Non so perchè: ma dopo la visita di quella inglese, i miei pensieri, che si svolgevano senza pena nell’animo mio, e, non riferendosi che a voi, erano impressi di quella serenità che voi portate sulla fronte e nel cuore, ora invece pigliano una tinta più scura e più dolorosa.
»Non avevo mai pensato all’amore. Ora ci penso, a proposito di quella bella e sfortunata creatura, che forse è destinata a sentirlo senza poter ispirarlo. Che dura fatalità! Ma non vo’ rattristarvi di più con queste supposizioni, e fo punto per oggi.
»P.S. Il direttore ignora il nome e l’abitazione di quella giovane. Onde forse non ci vedremo più, nè voi potrete conoscerla. Vivrà e morrà ignorata in qualche convento cattolico, aspettando la sua metamorfosi. Non ci pensiamo più. La sua visita e il breve colloquio avuto con lei mi avrà almeno servito a considerare più a fondo questa pagina della vita umana, e a mettermi forse sulla via di sciogliere un problema che resta ancora insoluto. Leggete, Angela, il libro che vi spedisco. Esso vi mostrerà l’origine di queste mie fantasie, ed aprirà forse un nuovo orizzonte anche al vostro pensiero.»
XIV.
Angela a Cosimo.
«Mio caro Cosimo,
»Entra, ti prego, nel mondo reale, nel mondo presente per leggere questa lettera, e per darmi chiara e netta la tua opinione intorno ai fatti e ai disegni che ti comunico.
»Non si tratta del mio giardino, nè delle mie piante, nè del piccolo mondo che nasce, cresce e si trasforma con esse. Si tratta di me stessa, si tratta di te e di un’altra persona che fu finora quasi straniera a noi due, e che può divenire o un vincolo di unione più intima, o una causa di guai per entrambi.
»Tu non t’imagini ch’io parli del conte Alberto. — Che ha egli di comune con noi? chiederai tu. Egli ebbe qualche parte, e fu occasione della mia venuta a Parigi e della cura a cui mi son sottoposto; ma non veggo che altri vincoli mi leghino a lui! —
»Sì, mio caro Cosimo, tu hai con esso rapporti strettissimi: rapporti che ignori, che forse sarebbe meglio per te l’ignorare, ma che le circostanze mi fanno un dovere di rivelarti. Volevo aspettare a manifestarti a voce un mistero che deve avere una grande influenza sulla tua vita: ma il maestro che ho consultato mi consiglia a scrivertene senza indugio, e, dopo matura riflessione, mi ci sono risolta.
»Ricorderai di avermi consegnato da parte della tua povera madre un cerchiellino d’oro che ho sempre portato in dito, ed un foglio piegato diligentemente nel mio borsellino che mi rendesti al cancello del parco. Non so se tu sappia che foglio è codesto. Tu eri troppo giovane quando rimanesti orfano, e forse tua madre, la tua prima madre, non ha creduto doverti palesare fin d’allora il secreto della tua origine. Ora sappi che quel foglio contiene una promessa di matrimonio e il riconoscimento anticipato di un figlio. Quel figlio probabilmente sei tu: il nome segnato a tutte lettere appiè di quest’atto, è quello del conte Alberto d’Andria.
»Io non vi ho fatto attenzione al momento che gittai gli occhi la prima volta su quella carta, nè potevo imaginare con qual disegno la povera moribonda mi avesse confidato quel documento. La contessa d’Andria veniva qualche rara volta a visitare mia zia, ma io sapevo appena ch’ella avesse un figlio che viaggiava da molti anni in lontani paesi. Più tardi, dopo la tua partenza, quel nome mi colpì, cercai nella mia mente dove l’avessi inteso o veduto, e mi risovvenne del foglio che mi avevi affidato. Compresi confusamente di che si trattasse, e ne feci parola a don Arnaldo, che rischiarò i miei dubbj e mi persuase allora a tacere, aspettando consiglio dal tempo e dalle circostanze.
»Ora il tempo e le circostanze m’impongono di dirti ogni cosa. Il conte d’Andria mi ha domandata in isposa. Mio padre non ha ancora risposto affermativamente, dicendo di volermi lasciar libera nella scelta: ma la zia trova convenientissimo questo partito, e fra lei e la contessa mi circondano di un vero assedio perch’io mi decida pel sì.
»Io non ho pensato mai fino ad ora al matrimonio. Le mie piante, i miei studj, le mie fantasie, l’amore che ho per mio padre e dirò ancora per te, riempirono finora il mio cuore, e non mi lasciarono nè tempo nè spazio per pensare a scegliere, come dicono, uno stato. Sono stata fino a quest’oggi felice: chi mi assicura se lo sarò in avvenire?
»Quanto al conte Alberto, pur convenendo de’ suoi pregi personali e della sua varia cultura, non ebbi da prima alcuna propensione per lui. Esso è troppo facile a burlarsi di tutto e di tutti, troppo lontano dalle mie abitudini per andarmi a genio. Imaginandomi ch’egli avesse per me quella stessa indifferenza ch’io aveva per lui, ero lontana le mille miglia dal credere che le frequenti sue visite in casa nostra, e l’interesse che mostrava per te, tendessero a preparare il mio cuore a questo disegno. Dal momento ch’io seppi ch’egli aveva conosciuto ed amato la donna a cui tu devi la vita, la mia indifferenza fece luogo ad un altro sentimento ch’io non so ben definire. Talora mi sembra odiarlo come quello che potè abbandonare nella miseria la povera donna che ti fu madre: talora cerco nel mio cuore mille ragioni e mille scuse per attenuare la responsabilità di un tal fatto: l’età inesperta, l’orgoglio materno, mille altre circostanze più o meno probabili, e mi sembra ch’io potrei perdonargli ed amarlo ad una condizione che tu facilmente comprenderai.
»Sa egli che tu sei figlio della donna che amò, sa egli d’essere autore de’ giorni tuoi? E in questo caso, è egli disposto a mantenere la sua parola e a riconoscerti per figliuolo? Il documento ch’io tengo in deposito non avrebbe gran forza, giacchè essendo fatto in età minore, il maestro sostiene che non sarebbe considerato come valido innanzi alla legge. Ma innanzi all’onore, innanzi alla coscienza, innanzi alla croce che cuopre il sepolcro della povera derelitta? Dinanzi a te finalmente, che con quel foglio in mano potresti chiedergli un nome, uno stato, una posizione nel mondo?
»Mio caro Cosimo, eccoti informato di tutto. Tu sei ora in grado di riflettere su questo fatto, ed è perciò che mi sono determinata a mandarti il documento che è divenuto un prezioso retaggio per te. Pensaci seriamente, e fammi sapere il partito che pensi di prendere.
»Io avrò la forza di resistere al doppio assedio che mi hanno posto d’attorno e domanderò tempo a risolvere. Terrò in guardia il mio cuore contro ogni avversione ed ogni affetto, finchè non sappia che cosa tu abbia risolto di fare. Senza il consiglio del maestro, alla cui prudenza ho creduto dover conformarmi, saprei a quest’ora che cosa pensare del conte Alberto. Gli avrei mostrato quel foglio, e gli avrei letto in volto, se il suo cuore è onesto e degno d’amarmi. Una sera che la conversazione era caduta sulla misera sorte di certe persone, egli si lasciò andare ad un giudizio, che mi parve troppo duro e crudele verso le donne. Presa da un sentimento d’indignazione, io pronunciai il nome di tua madre, e gli chiesi che opinione avesse di lei. Egli impallidì e rimase un poco perplesso. Ma si rimise ben tosto e mutò discorso. Sua madre, che se n’era avveduta, colse il momento opportuno e si alzò per andarsene. Le cose restarono lì. Ma non rimarrò certo a lungo con questo dubbio sul cuore. Non aspetto che la tua risposta per domandargli una spiegazione sul tuo conto, e saprò allora qual giudizio potrò formare di quei sentimenti di probità che ha sempre sul labbro.
»Quante novità, caro Cosimo! Tu puoi diventare fra pochi giorni il figlio, ed io la moglie del conte d’Andria. Quel dolce nome di madre che tu sei solito a darmi, ti sarebbe egli stato ispirato da un sentimento profetico dell’avvenire? Non ti pare che in tutto questo risplenda la mano della provvidenza? Non basterebbero questi fatti per convincer d’errore il nostro medico che attribuisce quasi tutti gli avvenimenti al caso e ad una cieca fatalità? — M’incontro fortuitamente in un povero bimbo maltrattato da’ suoi compagni: mi pongo in sua difesa, gli do i mezzi per soccorrere la sua povera madre ammalata. Questa muore, e mi fa depositaria del povero orfano e del documento che ne attesta l’origine. Il babbo ti riceve in casa, tu cresci con me, ed una singolar simpatia ci rende l’uno all’altro sì cari. Più tardi tuo padre, guidato da un intento che lascio ad altri l’incarico di qualificare, ci capita in casa, ti vede, e senza chieder conto di te, senza saper chi tu sia, contribuisce forse a renderti la salute, e certo a svolgere la tua intelligenza in codesto istituto. Un progetto di matrimonio sta per legare per sempre i nostri destini: e tutto ciò dipende da te, da una tua parola, dal modo onde sarà ricevuta! Ci sarebbe da perdere la ragione, se non vedessimo in questo concorso di circostanze una mano invisibile che conduce gli umani destini, e li subordina ad un fine benefico.
»Ad ogni modo, qualunque sia per essere la soluzione di questo nodo, vi è una cosa che resterà: l’affetto ch’io ho per te, e il conforto di aver obbedito all’istinto che mi parlò in tuo favore.
»Tu mi hai dato il nome di madre, e tua madre io sarò, quand’anche il sentimento di padre mancasse in colui che te lo deve per obbligo di natura. Sì, Cosimo mio, tu mi sarai fratello, amico e figliuolo, come vorrai, sotto qualunque nome ti piacerà di chiamarmi.
»Prendi dunque la tua risoluzione senza preoccuparti del tuo avvenire. Sia che tu risani, sia che resti nella situazione di prima, io ti ho posto nel numero degli esseri sfortunati ai quali ho consacrato le mie più tenere cure; e questo solo titolo, ancorchè altri tu non ne avessi, mi ti farà sempre caro sopra gli uomini più ricchi e più accarezzati dal mondo.»
XV.
Non è difficile imaginare l’impressione che questa lettera ebbe a fare sull’animo mobile e sui nervi delicati di Cosimo. Le rivelazioni ch’essa conteneva erano tali da scuotere fortemente anche il carattere più tetragono. L’orfano, il trovatello ritrovava impensatamente l’autor de’ suoi giorni: il povero paria si risvegliava figlio di un uomo ricco, nobile, ragguardevole. Dinanzi alla natura, se non dinanzi alla legge, egli era Cosimo d’Andria!
Una fiamma d’orgoglio e di gioia balenò ne’ suoi occhi, e suffuse d’improvviso rossore le sue guance e la fronte. Steso sul suo letto di clinica, si trovò tutto bagnato di sudore, e così fuor di sè che non sentiva e non ricordava nè manco la steccatura e la posizione forzata e violenta in cui era.
Rilesse più volte la lettera del suo angelo tutelare, e il documento importante che vi era unito. Ad ogni lettura nuovi lumi sprizzavano e nuove idee germogliavano nel suo cervello. Tutto ad un tratto, chi fosse stato presente, avrebbe veduto quel vivo colore far luogo ad una subita e mortal pallidezza. Alla gioia di aver trovato un padre, succedeva il timore che quest’uomo potesse ricusare di riconoscerlo. Non aveva egli abbandonata la madre, non l’aveva lasciata morire d’inedia e di vergogna sul suo letto di dolore? Non s’era egli forse allontanato dal paese per isfuggire alle conseguenze di questo legame? Ora qual probabilità che, reduce da sì lunghi viaggi, e seccatoglisi il cuore fra tante avventure e fra lo spettacolo de’ vizj umani, fosse per venire a migliori sentimenti, e volesse abbracciar come figlio in faccia alla società un povero gobbo, ludibrio della natura e della fortuna?
E tuttavia ei non poteva metter in dubbio nè pur un istante d’essergli figlio. Tutto ad un tratto gli tornavano in mente certe tronche parole udite di tempo in tempo dalla sua povera madre. Quando l’aveva mandato all’asilo perchè imparasse a leggere, gli aveva detto che a suo tempo gli avrebbe fatto conoscere una scritta da cui poteva dipendere il suo destino. Evidentemente la carta di cui la povera donna intendeva parlare era quella che gli stava allora dinanzi agli occhi. E non gliel’aveva mostrata prima, poichè all’età in cui trovavasi quando morì, non aveva notizia alcuna del conte, e non lo credeva ancora maturo per comprenderne l’importanza. La buona donna, consegnandola ad Angela, era stata ispirata da un istinto quasi divino.
Un animo portato a risalire sempre alle cause misteriose dei più piccoli fatti, non poteva non ravvisare in questa catena di eventi l’azione d’una provvidenza suprema. — Mi farò ben riconoscere, — gridò egli — mi farò ben riconoscere! Egli troverà, se non nelle mie fattezze, certo nell’anima mia la traccia di un’origine non volgare. —
Ma qui un’altra serie di pensieri si avvicendava nella sua mente. Ricordava sua madre ridotta alla miseria, alla solitudine, obbligata a sopportare l’insulto della gente onesta per aver creduto alla lealtà di un alto personaggio, per averlo amato, per essere divenuta la madre del figlio di lui! E il suo viso cominciò a rinfiammarsi, ma questa volta di collera e d’indignazione. — Io lo condurrò — diss’egli — sulla fossa dove riposa la benedetta spoglia della madre mia, ve lo farò inginocchiare, l’obbligherò a domandarle perdono e a dichiarare su quella croce d’averla sposata dinanzi a Dio. E vi scriverò sopra una pietra: «Qui giace la contessa Teresa d’Andria, morta di dolore sul fior dell’età!» —
Poi tornava alla lettera d’Angela, la rileggeva e cercava d’indovinare quello che non v’era espresso abbastanza chiaro: cioè la maniera con cui considerava quest’uomo. — L’amava ella? Poteva ella amarlo e dargli amnistia del passato, quand’anche egli avesse voluto e potuto mitigarne le conseguenze? Ma egli era sì grande e sì bello! Aveva un’aria di dignità e di bontà che comandava il rispetto e l’amore. Egli è fatto, pensava Cosimo, per non temere, per non trovare rivali nel mondo. —
Ma qui un sentimento ancora più amaro, un sentimento ch’egli provava per la prima volta, s’impadroniva di tutto lui. Era un sentimento che teneva dell’avversione, dell’odio, un sentimento d’invidia e di gelosia. Non ch’egli potesse qualificarlo per tale, non che fosse in grado di confessarlo nè pure a se stesso. No. Il povero Cosimo non aveva ancora coscienza di aver per Angela altro affetto che quello di fratello e di figlio. Or come avrebbe potuto riconoscere e odiare un rivale nell’uomo che tutto ad un tratto gli si presentava qual padre? Tuttavia, chi volesse dare un nome a quel misto di sospetto e di ripulsione che sentiva nell’animo e turbava la sua imaginazione, non potrebbe chiamarlo altrimenti che gelosia. L’unione possibile di suo padre con quella che nominava con sì soave espressione d’affetto la madre dell’anima sua, doveva parergli il sommo della sua felicità, la suprema delle sue speranze: eppure questa combinazione non gli era mai venuta alla mente. Egli odiava l’uomo che stava per usurpare nell’animo di Angela un affetto al quale s’era abituato per modo da considerarlo come un suo dritto. Quel vago sentimento di simpatia che aveva risentito per quella bella straniera che gli era apparsa, trovava ora il suo compimento. L’imagine di quella giovanetta e quella di Angela si confondevano in uno come il profumo di due fiori diversi in una sola fragranza. Gli è che tutta la sua natura si era risentita a questa subita rivelazione, e tutti gli affetti, fino allora confusi e come nuotanti in un’atmosfera ideale, aveano acquistato nome e realtà. Egli usciva dal mondo dei sogni per urtarsi contro le scabrosità della vita effettiva: era come un ente fantastico che prendesse ad un tratto consistenza e figura, moto e passione.
Questa trasformazione di Cosimo, preparata lentamente dalle sue letture, dalle sue riflessioni, dal progresso medesimo dell’età, doveva compiersi e manifestarsi alla lettura di quei fogli, come al tocco d’un magico talismano. Egli era, un’ora prima, fanciullo: ora si sentiva già uomo. Domandò che gli fossero tolte le fasciature: balzò dal letto, gli parve d’essere cresciuto d’un palmo, d’esser forte e robusto, e capace di difendere i suoi diritti e le sue ragioni. I suoi compagni di clinica furono tutti maravigliati di codesta insolita vivacità che mostrava. Lo credettero sulle prime in preda al delirio, perchè parlava ad alta voce, in italiano, come avesse presente qualche persona. Il sorvegliante della sala ne avvisò il direttore che accorse e gli chiese perchè avesse abbandonato il letto più presto del solito. Cosimo rientrò allora in se stesso e rispose con calma che certe notizie che aveva ricevute d’Italia l’avevano commosso e turbato, sì che avea sentito il bisogno di levarsi e di muoversi.
Si pose allora alla sua scrivania per rispondere alla lettera d’Angela. Ma credendo di ravviare il filo de’ suoi pensieri, la febbre sopita si ravvivò. Non fu possibile che trovasse parola da mettere in carta. Si levò da sedere, si pose a misurare a gran passi la camera, e tutto ad un tratto, come avesse preso una risoluzione, esclamò: — Bisogna andare! Che scrivere? che scrivere? Bisogna andare. —
XVI.
Questa irruzione di pensieri, di affetti, di sentimenti diversi ed insoliti, non venne meno un istante nell’animo di Cosimo, finchè non fu giunto a Milano.
Nel primo viaggio che fece, due anni innanzi, fanciullo ancora, inconscio, per dir così, di se stesso, passava dolcemente dalle realtà della veglia alle tranquille allucinazioni de’ sogni: ora ei tentò inutilmente di prender sonno. Allora egli era come sospeso nel vago, come lanciato nell’azzurra libertà de’ cieli senza alcun legame di sangue che lo tenesse avvinto alla terra: ora egli sapeva di avervi radice, ora conosceva suo padre, l’autore de’ giorni suoi, dal quale però non potea prevedere come sarebbe accolto fra poco.
Come gli parvero lunghi quei due giorni e quelle due notti che spese in viaggio! Quanto maledì la catena delle Alpi e le altre circostanze che aveano ritardato all’Italia il vantaggio delle strade di ferro! L’anima sua avrebbe voluto isolarsi dagli organi materiali e volare, come l’elettrico in un istante lungo le fila metalliche, alla sua mèta! Passate le Alpi, passate le pianure subalpine, ei vide il Po, rivide il Ticino! Attraversò sull’imperiale della tardigrada diligenza i verdi ed irrigui prati lombardi. Ma invano cercava cogli occhi Milano, invano sperava discernere fra la densa atmosfera gli aerei pinnacoli del poetico Duomo!
Alla fine, dopo averlo cercato da lungi, se lo trovò dappresso. Milano non è, come alcune città d’Italia, fabbricato sopra un piano eminente. Ti sorge improvviso dinanzi agli occhi, come un’oasi dell’arte e della civiltà. Ecco Milano! Ecco Milano! fu il grido unanime di tutti i Lombardi che si trovavano nei varj scompartimenti della vettura. Chi si soffregò gli occhi, chi rassettò i suoi vestiti, chi cercò il suo cappello, chi raccolse il bagaglio per non perdere un minuto all’arrivo: tutti ravvivarono, rasserenarono il viso, come segue dopo un lungo e nojoso viaggio, quando ci avviciniamo al luogo desiderato.
Cosimo divise cogli altri per un momento l’ansietà della gioja. Ma tutto ad un tratto si rabbrunì. Dove andrebbe egli? Dove dirigerebbe i suoi passi? A qual porta picchierebbe a quell’ora così d’improvviso? Egli non aveva annunziato il suo ritorno ad alcuno, nè pure ad Angela. Non era probabile che il direttore dell’istituto ortopedico si fosse affrettato a darne conto alla famiglia Lanzoni: nè, se pure l’avesse fatto, la lettera sarebbe potuta giungere prima di lui. L’idea fissa che l’avea dominato era quella di andar difilato a suo padre, di farglisi conoscere, di abbracciarlo con infinito amore, o giudicarlo con tutta la severità di un orfano a cui si ricusa il diritto più sacro. Ora, al momento di presentarsi al conte d’Andria, al momento di squadernargli dinanzi agli occhi quel documento che stringeva nelle mani convulse, l’animo, prima così risoluto, esitò. La diligenza si arrestò nel vasto cortile della stazione: tutti erano discesi, e s’avviavano in direzioni diverse: egli restava ancora incerto e come trasecolato al suo posto. Riscosso alla voce del conduttore, discese, e domandò se la famiglia Lanzoni dimorasse molto lontano. Nessuno gliene seppe dare contezza. Lasciò il suo fardello nell’officio del corriere, ed uscì alla ventura. Raccapezzando le vecchie reminiscenze, riuscì ad orientarsi: dico vecchie reminiscenze, poichè nei due anni che stette assente, egli erasi fatto più adulto di sei: tanto i sentimenti e le idee s’erano svolte e mutate in quella sua rapida pubescenza. Alla risoluzione che avea presa d’indirizzarsi alla casa del conte, era succeduta, immediatamente la volontà istintiva di bussare a quella casa, dov’era già stato accolto qual figlio. Quasi senza saperlo, seguendo una guida interiore, si trovò dinanzi al cancello delle male erbe. Sperava vedervi il suo angelo, ma trovò il loco deserto. Stette alcun tempo come smemorato guardando, senza vedere alcuno, senza udire alcuna voce, nè alcun rumore. Era infatti troppo tardi, perchè alcuno si ritrovasse in giardino senza un motivo. Girò allora a sinistra, e riuscì alla porta anteriore della casa. La portinaja durò fatica a ravvisarlo, ma com’egli l’ebbe chiamata per nome, conobbe la voce, e gittò un grido di meraviglia. Salite precipitosamente le scale, la porta dell’appartamento si spalancò, e il povero orfano si trovò quasi svenuto nelle braccia di Angela, che, a caso, o per un presentimento secreto, era venuta ad aprire.
Egli non arrivava inatteso. Il direttore avea scritto e la lettera era giunta fin dal mattino. Angela non si era punto maravigliata del partito che aveva preso, e fu contenta di saperlo a tempo per prevenire il padre e la zia della causa vera di quel repentino ritorno. Il padre si fece serio, e rimproverò la fanciulla di avergli celata fino allora una circostanza sì grave. La zia andò sulle furie, volle negare o porre in dubbio la realtà di quel documento. Poco dopo era uscita di casa, per interpellare il conte e la contessa sopra questo imbroglio che veniva improvvisamente ad attraversare i suoi fini, o almeno a complicare la situazione. Checchè ne fosse, dopo una mezz’ora appena, ecco giugnere la contessa in casa Lanzoni, e poco appresso il conte Alberto medesimo. Il padre e la zia di Angela volevano tener celato il ritorno di Cosimo, tanto per tastare il terreno, e vedere qual fosse il consiglio migliore. Ma Angela insistette presso il padre, perchè si venisse in chiaro senza indugio della verità della cosa, e si sapesse a dirittura la risoluzione del conte. Codesta era, diceva ella, la pietra del paragone alla quale voleva sottometterlo prima di dichiararsi per il sì o per il no. Il signor Lanzoni non volle però accondiscendere a tanta precipitazione. Egli conosceva un po’ meglio le cose del mondo, e nell’interesse stesso di Cosimo riserbò a se medesimo la cura di trattar quest’affare a quel tempo e a quel modo che avrebbe giudicato migliore. Cosimo dunque dovette rassegnarsi, ed Angela, dopo di essersi lungamente intertenuta con lui, anzichè prender parte, come soleva, alla conversazione, si ritirò nella sua stanza, meditò qualche istante, e si pose a scrivere al conte la lettera seguente:
«Signor conte,
»Ho promesso a mio padre di non trovarmi presente alle spiegazioni che questa sera probabilmente vi sarebbero chieste intorno al povero giovanetto che vi deve la vita. Se non mi aveste fatto l’onore di domandarmi in isposa, mi rimarrei forse straniera a questa dilicata questione. Ma non avendo risposto con un rifiuto, e non avendo ancora preso un partito definitivo intorno alla proposizione che mi faceste, crederei mancar di franchezza lasciando ad altri la cura di palesarvi l’animo mio.
»Io credo, signor conte, alla provvidenza. Credo ad una legge suprema che collega fra loro i casi e le azioni che pajono più fortuite. Il secreto dunque che venni a conoscere, i sentimenti di affezione che mi stringono a questo infelice che mi fu confidato, l’essermi da una parte trovata sua protettrice e sua madre, mentre voi mi proponevate, forse senza saperlo, di unire i vostri destini co’ miei, tutto ciò mi sembra condotto dalla mano di Dio, e preparato ad un fine ch’io rispetto prima ancor di conoscerlo pienamente.
»Da quattr’anni e più io porto in dito un anello, povera e dolorosa eredità che mi venne da una donna che amaste, e che certo vi amò. Con questo anello, che dovette essere pegno e sacramento d’affetto, io ebbi in mia mano un foglio sottoscritto da voi in un’epoca, nella quale la prudenza mondana non aveva soffocato gl’impeti generosi del cuore. Questa carta e il secreto che cela, furono un mistero anche per me fino a questi ultimi giorni, in cui, per una strana associazione d’idee, il vostro nome mi balenò alla memoria, e mi trovai depositaria di un documento che vi risguarda sì davvicino.
»Non so qual sia la forza legale di questa promessa, nè credo che Cosimo, il mio figlio adottivo, sia disposto a prevalersene dinanzi alla legge. La sua prima idea, com’egli stesso mi ha detto, era quella di presentarsi a voi senz’altro contrassegno che il nome della sua povera madre. Poco gl’importa di acquistar un nome nel mondo, ed uno stato più comodo e indipendente. Quello che gl’importa, quello che è condizione di vita per l’anima sua, gli è d’aver trovato il cuore e l’affetto d’un padre, e di poter abbracciare senza vergogna e senza rancore l’autor de’ suoi giorni. Io credo, conte Alberto, ch’egli non s’inganni nella sua aspettazione. Io medesima ne sono così certa, che non credo necessario d’aggiungere le mie preghiere, nè di porre il pronto riconoscimento di questo povero sfortunato come condizione ad un vincolo, dal quale voi dite dipendere la vostra felicità.
»Aggiungo solo che non potrei mai riporre la mia nel legarmi ad un uomo che potesse esitare un istante a compiere un dovere sì sacrosanto.
»Qualunque sia la piega che avrà preso o sarà per prendere il colloquio di questa sera, io non volli attenderne l’esito, prima di aprirvi tutto intiero l’animo mio. Iddio voglia ch’io non abbia a pentirmi di aver secondato un primo istinto dell’animo. Ora aspetterò con calma la vostra risposta.
»Angela Lanzoni.»
XVII.
Il signor Lanzoni era uno di quegli uomini buoni che riserbano la loro energia alle circostanze un po’ gravi della vita, diversi in questo da certi faccendieri che, a sentirli, sono tutti fuoco e tutti cordialità; ma ne usano e abusano tanto nelle occasioni più frivole, che ne mancano poi sul più bello. Codesto è fuoco di paglia che poco dura e poco riscalda; mentre l’altro è la fiamma viva e durevole di un ceppo verde, che è un po’ lento ad accendersi, ma poi ti consola a lungo e ti giova.
Non appena vide entrare il conte Alberto, se gli accostò con aria franca e severa, e lo pregò di passare nel suo gabinetto dove aveva a intertenerlo di cosa importante.
Il conte rispose con un semplice inchino contegnoso ed affabile, e passarono entrambi in uno stanzino appartato, dove il padre di Angela soleva rinchiudersi pe’ suoi studj ed affari. Il conte non ignorava nè il ritorno di Cosimo, nè i sospetti che pesavano sopra di sè: sapeva che presto o tardi una spiegazione diveniva necessaria. Era dunque preparato alla lotta, e piuttosto che rimetterla ad altro tempo, accettò volentieri il colloquio che doveva risolverla. Aspettò dunque la prima parola del suo interlocutore senza inquietudine e senza curiosità.
Questi entrò senza esitazione nell’argomento. Rifece in poche parole la storia del povero orfano, per qual accidente, orfano e sconosciuto, l’aveva accolto in sua casa, educato e curato fino allora a sue spese. — Voi stesso — disse — vi avete contribuito coi vostri consigli, colle vostre commendatizie a Parigi. L’interesse, l’affetto che mostraste per un incognito, per un trovatello, non verrà meno, io spero, quando saprete che questo giovanetto vanta qualche attinenza più intima con voi…. —
Il conte Alberto affettò una certa sorpresa, e fissò gli occhi in aria d’interrogazione nel signor Lanzoni.
— Il giovanetto — continuò questi — avea perduto la madre in quei giorni medesimi ch’io lo raccolsi. Questa disgraziata si chiamava Teresa, una guantaja che voi non avrete certamente dimenticata. Essa lasciò per solo testamento e retaggio all’infelice fanciullo un cerchiellino d’oro, e un documento sottoscritto Alberto d’Andria… una promessa di matrimonio quando aveste raggiunta l’età maggiore… —
Il conte non potè impedire che il sangue gli colorasse di subito rossore la fronte: ma nel medesimo tempo si strinse nelle spalle, e sorridendo nell’imbarazzo visibile della sua posizione: — Mio caro suocero, — rispose — voi siete un uomo di mondo: foste giovane voi stesso ed esposto a tutte le seduzioni, a tutti i pericoli della gioventù. Non crederei che voleste dare più d’importanza, che non ne merita, ad una scapataggine da fanciullo. D’altronde, quella povera donna è morta da oltre a quattr’anni, e non veggo a che si volesse o potesse invocare una lettera scritta in un momento di passione e….
— Conosco il mondo — riprese il signor Lanzoni — e sono stato giovane anch’io, come dite. Ho imparato pur troppo, non per mia propria esperienza, grazie a Dio! ] ho imparato che le povere donne hanno torto a fidarsi alle parole e alle promesse dei loro amanti, massime se minorenni. Ma questo non giustifica e non iscusa l’abuso che si fa della loro credulità. Se la povera Teresa conservò con tanta cura quel foglio, e lo lasciava con tanta solennità all’infelice orfanello, certo ella avea preso sul serio una tale scrittura, e voi non gliel’avrete rilasciata senza un perchè.
— Ma in fine…. non veggo bene a che tendono le vostre parole, mio caro signor Lanzoni….
— Dite davvero? — ripigliò questi. — Io sperava invece che mi avreste compreso senza attendere più lunghi discorsi. Speravo che il cuore vi avrebbe posto sul labbro una parola affettuosa e onorevole…. speravo che mi avreste domandato di vedere quello sfortunato, che l’avreste stretto al seno come figliuolo, riparando, comecchè tardi, con questo riconoscimento, l’incomprensibile abbandono in cui lasciaste la madre sua!… Se mi sono ingannato… ditelo… Io non intendo farmi il procuratore legale di questo infelice, e cesso all’istante da ogni ingerenza in un affare che non m’appartiene. Perdonate l’imbarazzo e il fastidio che vi recai, se non alla qualità di suocero che mi avete prematuramente attribuita, almeno all’affetto quasi paterno che questo povero orfano mi aveva ispirato, prima di saperlo vostro figliuolo….
— Mio figliuolo! Questa è una supposizione che manca affatto di fondamento. La madre sola, se fosse in grado di parlare, potrebbe avere un qualche titolo ad attestarlo. Non veggo ch’egli abbia gran somiglianza con me, nè il sangue si fece sentire, ch’io sappia, nè in me nè in lui, quando ci siamo incontrati la prima volta qui in questa casa medesima… quando non voleste interpretare in questo senso l’interesse affatto gratuito che ho mostrato per esso. Buon Dio! Non vorrei farmi accusatore d’una donna che potè per qualche momento ottenere la mia affezione…. ma alfine, io non vantavo alcun diritto all’esclusivo amor suo… e altri padri potrebbero forse reclamare con egual titolo….
— Basta — interruppe il sig. Lanzoni; — veggo ch’io mi sono ingannato sulle vostre disposizioni e sul vostro carattere. Io non conobbi la madre del mio pupillo: ma non mi dà l’animo di sentirne insultata la memoria dall’uomo che si dichiarava pronto a farla sua sposa appena le leggi glielo avessero consentito!…
— Voi siete ingiusto, signor Lanzoni. Voi spingete le cose agli estremi. Vediamo. Vi sono legami che possono parer naturali e indispensabili in certi momenti della vita, ma che un po’ di esperienza e di riflessione ci dimostra impossibili. Dareste voi la vostra Angela al primo pezzente che si presentasse alla vostra porta, a quello, per esempio, che mi vorreste appioppare per figlio? Codeste sono utopie. Mi guardi però il Cielo dal voler affatto abbandonare questo infelice. Sono pronto a dividere con voi l’ufficio e la spesa della sua educazione. Gli troveremo un ricovero….
— Un’educazione, un ricovero egli lo ha già trovato senza di voi. Ma egli vuole un nome, vuole un padre, vuole riabilitare la dubbia riputazione che il vostro abbandono ha fatto a sua madre!… Egli ha lasciato Parigi per questo, voleva correre a casa vostra con quel documento alla mano, e gettarsi nelle vostre braccia, nella fiducia di trovare in voi l’affetto e il cuore di un padre. Io non volli permetterlo: ho voluto prima parlarvene. Ora conosco che ho fatto bene: ho evitato uno scandalo, e salvato quel povero visionario dalle dolorose conseguenze di un subito disinganno. Andate pure, signor conte. Tutto è rotto fra noi.
— No, signor Lanzoni. I nostri rapporti, i nostri disegni non ponno rompersi per questo incidente. Vedremo qual forza daranno i tribunali a quel documento. Io son pronto a rassegnarmi alla legge: se pure, riflettendo più maturamente alla cosa, non vedrete voi stesso la convenienza ch’io provvegga in altro modo alla sorte di questo infelice, senza pregiudicare alla prole legittima ch’io speravo e spero ancora ottenere da vostra figlia.
— Mia figlia! Non v’illudete, signore. Quand’anche io potessi transigere su questo punto, voi la conoscete ben poco, se v’imaginate di trovarla più condiscendente di me. D’altronde, io l’ho lasciata libera di se stessa. Non disporrò mai nè del suo cuore nè della sua mano senza consultare la sua volontà. Ma io la conosco più di voi. S’ella fosse stata presente, come voleva, al nostro colloquio, sapreste a quest’ora la sua risoluzione.
— Ma insomma, vorrebbe ella mai consentire a ricevere in casa come figliuolo quel povero contraffatto?
— Ella gli fu madre finora di fatto. Essa medesima era depositaria di quella lettera di cui mi fece un mistero sin qui. Ella la rimise giorni sono a Cosimo senza consultarmi. La sua intenzione non può dunque esser dubbia ad alcuno….
— È dunque un rifiuto mascherato?…
— Forse non è che una prova a cui volle sottomettere il vostro cuore. Il vostro cuore ha parlato.
— No, signor Lanzoni. Non è il mio cuore che ha parlato finora. È la ragione, la fredda ragione. Lasciatemi riflettere; riflettete voi pure alle conseguenze di questo fatto. Vedremo domani. —
Il padre di Angela crollò il capo, ma non volle chiudere ogni adito ad una miglior conclusione di questa vertenza. Entrarono ambedue nella sala dove le due vecchie signore stavano intertenendosi sul soggetto medesimo, mentre il dottore e don Arnaldo giuocavano in disparte agli scacchi.
Rimasero un quarto d’ora prendendo il tè, senza aprirsi nè da una parte nè dall’altra, e senza trovare un altro soggetto alla conversazione. La contessa fissava ora il signor Lanzoni, ora il conte Alberto per indovinare il risultato del loro colloquio: ma non essendo riuscita ad appagare la sua curiosità, domandò il cappello e lo scialle, e invocò il solito pretesto dell’emicrania per ritirarsi prima del tempo.
Il conte le diede il braccio e partirono.
XVIII.
Mentre da una parte e dall’altra si tentava di preparare una soluzione soddisfacente all’intricato viluppo, Cosimo, che n’era divenuto il protagonista, non poteva perdonare a se stesso di aver affidato ad altri la cura di troncare il difficile nodo.
Chiuso nella sua stanza, con quel documento prezioso spiegato dinanzi a sè, non poteva risolversi a coricarsi, non isperava di prender sonno, non potea riposare il pensiero in un’idea, in un partito qualunque. Sapeva che in quel momento medesimo si trattava del suo destino, che una parola del conte Alberto stava per decidere, o aveva forse deciso una questione che oggimai era divenuta vitale per lui.
Misurando a gran passi la camera, tentava di richiamarsi le oscure rimembranze dell’infanzia, evocava nella sua immaginazione le sembianze, le parole, gli atti dell’infelice sua madre. Vi fu un momento che questa evocazione divenne per esso quasi reale: vedeva sul suo letticciuolo la povera donna estenuata e morente; udiva le sue raccomandazioni, i suoi consigli supremi! Tutto ciò gli avea fatto in quell’epoca un’impressione abbastanza profonda: ma non aveva allora che dieci anni, e la vita del pensiero era appena per lui un leggiero barlume. La natura risparmia all’età prima dell’uomo l’intensità dei dolori morali che soverchierebbero le sue forze. A poco a poco quell’impressione s’era attenuata nell’animo suo. Entrato nella casa di Angela, la vista delle nuove cose, lo studio, le occupazioni svariate aprirono alla sua mente un orizzonte più vasto. L’immagine della madre gli si presentava bensì tratto tratto, ma senza distorlo dalle sue solite cure. Ora, nello stato febrile in cui si trovava, in quella forzata solitudine, con quella lettera fatale dinanzi agli occhi, l’illusione fu sì completa, che superò l’effetto che aveva un dì risentito dalla realtà. Inginocchiato alla sponda del letto, si coperse colle palme gli occhi e restò lungamente immerso in una specie di assopimento: si riscosse inondato di lagrime, in uno stato di esaltazione difficile a descriversi. Fra i singhiozzi che scuotevano profondamente il suo petto, proferiva tronche parole di doloroso affetto. Si sarebbe detto che avesse perduto la madre in quel momento medesimo, o che almeno in quel momento sentisse per la prima volta la grandezza della perdita fatta.
Tutto ad un tratto si alzò, si asciugò gli occhi, mutò pensiero, come si vergognasse della debolezza che l’avea sopraffatto. — Piangere? — sclamò, — piangere? Mia madre è morta: le mie lagrime non potrebbero già richiamarla alla vita. D’altronde, io ho un padre, ho un padre da qualche giorno. Io lo conosco, io voglio darmi a conoscere a lui come figlio. Perchè mi sono lasciato persuadere a commettere ad altri questa prima rivelazione di due cuori? Questa non può essere materia di trattative, non può essere argomento di transazioni legali. Questa lettera! Ah! se i miei diritti non avessero altro fondamento che questo, se i miei rapporti coll’autor de’ miei giorni non fossero che un diritto dinanzi alla legge, che m’importerebbe oggimai? O il cuore parlerà al cuore, e la voce della natura si farà sentire in entrambi, o noi resteremo stranieri, ed io morrò orfano come vissi, e non tarderò molto a raggiungere la sventurata che mi portò nel suo seno. — Andiamo…. — E si levò per uscire dalla sua stanza. Ma nell’aprire la porta s’accorse che la lucerna ardeva ancora, e ch’egli avea passato la notte senza coricarsi. Aprì la finestra. Era l’alba. Spense allora il lume e stette a guardare i primi albori dell’orizzonte. Il parco avvolto ancora di una nebbia trasparente si spiegava dinanzi al suo sguardo. Riconobbe e salutò ogni albero, ogni macchia, ogni cespo di rose. Una lieve brezza, che gli spirava nel volto, rinfrescò le sue guance e la fronte accesa dal bollor della febbre. Quella calma ineffabile della natura si propagò a poco a poco nell’animo suo. La fantasia diede luogo alla riflessione, e s’accorse che bisognava attendere qualche ora prima di potersi recare alla casa del conte. Si gettò adunque così vestito sul suo letticciuolo, e gustò un’ora di un sonno leggiero e balsamico che ristorò le sue forze e calmò l’eccitamento febrile che l’avea scosso.
Svegliatosi a giorno chiaro, non attese il parere nè il consiglio degli ospiti suoi, temette non ponessero ostacoli impreveduti alla sua determinazione, uscì, s’avviò senza più a casa d’Andria. Bussò, gli fu aperto, salì le scale, chiese del conte Alberto. Gli fu risposto essere ancora nel suo appartamento: tornasse più tardi se volesse alcuna cosa da lui. Chiese d’attendere, dicendo che aveva una cosa importante a communicargli, quanto prima il potesse. Il domestico non aveva, a quanto pare, alcuna istruzione in contrario; onde gli fu permesso di rimanere e di attendere nel vestibolo interno della casa. Mezz’ora dopo fu chiamato e introdotto nell’appartamento del conte Alberto che l’aspettava, preparato più o meno alla scena che non poteva evitare.
Il conte se ne stava seduto in veste da camera dinanzi a un leggìo. La sua faccia era o pareva tranquilla come d’uomo che avesse preso già il suo partito. Cosimo gettò per istinto un rapido sguardo sopra quel volto, e sentì come una mano fredda stringergli il cuore. Il suo primo movimento era stato quello di gettarsi alle ginocchia, tra le braccia di colui che sperava poter nominare col più sacro dei nomi: ma il suo aspetto freddo e impassibile lo arrestò. Pallido, perplesso, tremante, trovò appena la forza di balbettare il nome di padre, e cadde semivivo sulle ginocchia. Il conte non avea preveduto questo esordio: il suo cuore ne fu scosso suo malgrado, si alzò, si avanzò verso Cosimo, e lo sollevò da terra visibilmente commosso. La natura avea parlato e sconcertati inopinatamente i calcoli dell’egoismo. Il giovanetto, aprendo gli occhi, s’incontrò con quelli del padre suo, e diede in un pianto dirotto che compì l’opera e fu per decidere del suo destino.
Ma improvvisamente la contessa, avvertita senza dubbio di questa visita, entrò nella stanza. Arrossì di collera e di dispetto vedendo l’attitudine e indovinando le disposizioni del conte. — E voi — prese a dire — e voi, figlio mio, vi lasciate sorprendere dagli intrighi di codesto visionario? Davvero che non metteva conto di viaggiare per tanti anni l’Europa, per prestarsi con tanta bonarietà ad una tale commedia. Non abbiamo noi fatto abbastanza per questo povero aborto? —
Cosimo si levò impetuosamente a queste parole e stava per rispondere alla nobile donna: ma Alberto non gliene lasciò il tempo. Pregò la madre a lasciarli soli un istante, e l’assicurò che nulla avrebbe fatto o risolto senza dipender da lei. La contessa non osò insistere, e gettando su Cosimo uno sguardo minaccioso e sprezzante, si ritirò nella stanza vicina, lasciando socchiusa la porta.
Cosimo s’accorse dell’impressione sfavorevole che questo incidente aveva lasciato nel conte Alberto; ma non si perdette d’animo, e tratta di tasca la lettera sottoscritta dal conte: — In nome di mia madre — sclamò, permettetemi di chiamarvi padre; chiamatemi figlio una volta, e tutto sarà dimenticato. Mia madre vi perdonerà dal cielo, ed io vi adorerò sulla terra senza esigere, senza chiedere, senza desiderare altra cosa.
— Calmatevi, — rispose il conte. — Io son disposto a fare per voi le parti di padre. Non ho aspettato la presentazione di quel documento per darvi qualche prova dell’interesse che sento per voi. Quel documento non potrebbe conferirvi alcun titolo nuovo alla mia benevolenza. Io ho conosciuto la sfortunata che vi ha dato alla luce; non vo’ negare di aver avuto per essa un attaccamento che mi potè indurre ad un passo irriflessivo… a promettere una cosa che non dipendeva da me il mantenere. Vi hanno forse fatto credere che la legge avrebbe riconosciuta la validità di quella promessa…
— No, no — interruppe Cosimo. — Nessuno mi ha fatto credere questo. S’io non ho alcun diritto sul vostro cuore, non ne spero, non ne imploro altri. Prendete, signore: ecco il testamento della povera madre mia: ecco la lettera che mi ha fatto conoscer mio padre. Che voi mi riconosciate o no come figlio, i miei sentimenti non possono esser diversi da quel che sono. Credetemi, padre mio, non vengo a chieder da voi nè titoli, nè fortuna. Fossero anche scritti nel modo più valido e più legale su questo foglio i diritti più sacri e più incontrastabili, ecco il conto che ne farei. — Così dicendo lo lacerò in cento pezzi e lo gettò dall’aperta finestra. — Ora non vi è più — riprese — nessun indizio, nessuna prova della mia nascita, dei nostri rapporti. Per questo io sono venuto nella vostra presenza, eludendo la vigilanza e opponendomi forse alla volontà de’ miei protettori. Ho lasciato parlare il mio cuore. Mi appello al vostro, e aspetto ai vostri piedi, qualunque sia per essere, la parola che farà di me o un figlio felice o un orfano sventurato. —
Il conte non resistette alla toccante eloquenza di quest’atto e di queste parole. Sollevò un’altra volta da terra il povero Cosimo, lo strinse carezzevolmente fra le braccia, e le sue labbra mormorarono involontariamente il nome di figlio.
La contessa era stata spettatrice di questa scena dalla porta socchiusa. Ella aveva veduto con gioja fatto a brani quel foglio ch’ella avrebbe comperato a prezzo d’oro. Oggimai le pareva d’esser sicura da ogni pericolo, da ogni scandalo, da ogni processo. Non pensò dunque ad intervenire un’altra volta in quel colloquio che credeva senza conseguenza.
Ma ella s’ingannava di tutto punto. Cosimo, obbedendo a un impulso del cuore, ad un istinto di generosità naturale, avea tocco sul vivo l’animo impreparato del conte. Questi si era munito di tutte le ragioni e di tutti i cavilli per ribattere una domanda legale: ma non avea saputo resistere al grido della natura, alla voce arcana del sangue, a quella prima fonte di bontà che l’amor di Teresa gli avea aperto nel cuore. Tornò per un momento giovane, affettuoso, immemore della vanità e delle fredde convenienze sociali. Trovò nella fronte, negli occhi, nel nobile atteggiamento di Cosimo una reminiscenza toccante della donna che aveva amato, e un lampo di somiglianza con se medesimo. Non pensò, non s’accorse che aveva dinanzi, che stringeva fra le braccia un povero contraffatto che la cura ortopedica avea reso poco diverso da quel di prima. In una parola il ghiaccio era rotto: Cosimo avea vinto.
— Vanne — gli disse il conte, — ritorna a’ tuoi protettori. Di’ loro come t’ho accolto. Oggi verrò a trovarti colà, e c’intenderemo d’accordo sul partito da prendersi per l’avvenire. —
XIX.
Reduce a casa Lanzoni, Cosimo, fuor di sè per la gioja, domandò di Angela. Era nel suo giardino, nel giardino delle male erbe. Corse a lei difilato, e tutto acceso in volto e raggiante per l’ottenuto trionfo, le gridò da lungi, appena la vide: — Madre mia, madre mia! Ho un padre; ho ritrovato mio padre! —
Entrarono entrambi nella capannuccia di paglia che sorgeva presso al cancello di ferro e sedettero. Egli ne avea ben mestieri. La novità e la grandezza delle emozioni aveano soverchiato le sue deboli forze. Stette un buon quarto d’ora senza poter raccontar chiaramente alla sua madre adottiva ciò che aveva ottenuto. Quando narrò del documento lacerato e gittato dalla finestra, Angela lasciò cadere due grosse lagrime, ed abbracciò il povero e generoso suo allievo con tutta l’energia dell’affetto. Egli l’avea indovinata, avea giustificato le sue speranze, le sue previsioni; era degno di lei!
Quel bacio, quell’amplesso, quella tenera e viva espansione della bella giovanetta posero al colmo, raddoppiarono la gioja, la felicità dell’orfano fino allora diseredato, e che ora tutt’ad un tratto toccava l’apice dei suoi desiderii. Questa nuova febbre di giubilo che commosse l’anima sua, insueta a tali emozioni, si dipinse negli sguardi, nella fronte, in tutti i lineamenti del viso, sì che in quel momento ei brillò di una bellezza morale, di un’espressione così ineffabile, che sorprese la sua protettrice medesima, avvezza pure a considerarlo attraverso il prisma della sua materna benevolenza. Ah! l’umana natura ha bisogno della felicità per manifestarsi nella sua vera sembianza!
Cosimo taceva guardando la sua giardiniera, quella che l’avea coltivato, con una tale espressione di tenerezza, che tutti gli affetti più dolci di figlio, di fratello, di amante vi apparivano e splendevano insieme.
Fu il punto culminante della sua vita. Vi è nel successivo sviluppo di un fiore un istante brevissimo in cui le sue foglie, i suoi stami, il suo profumo prendono un’armonia di forme, un’intensità di vita ineffabile. Un momento dopo tutta quella grazia, quella freschezza, quella espansione declinano. Quel fiore ha vissuto. Lo stesso avvenne di Cosimo.
Giacinto venne a interrompere questa breve felicità recando alla padroncina una lettera che era stata portata poc’anzi.
Era una lettera, come ognuno facilmente indovina, del conte Alberto.
È facile presupporre che la lettera di Angela non era stata straniera all’accoglienza che Cosimo aveva ottenuto quella mattina. Ma, pur lasciando alla natura il merito principale di quel risultato, il conte non era tale da lasciarsi sfuggire una buona occasione per farsi un merito presso alla desiderata fanciulla. Le scriveva dunque che il foglio che avea trovato rientrando la sera antecedente avea mutate le disposizioni in cui l’aveva lasciato il colloquio avuto col padre di lei. Come non riconoscer per figlio un essere qualunque ch’ella avea risguardato ed amato per tale? Chiedeva dunque il permesso di considerare quel giovanetto come un vincolo comune, come un’arra della sua adesione all’adempimento dei suoi più vivi desiderii. Nella giornata egli si proponeva venire per prendere, d’accordo col signor Lanzoni, le necessarie misure intorno al formale riconoscimento di Cosimo; gradisse intanto l’omaggio che a lei ne faceva, e l’espressione rispettosa de’ suoi sentimenti. La lettera era garbata e piena di quella eleganza di forme che l’uso della società sa trovare; pure, in quel momento non poteva che far discendere dal loro cielo quei due cuori poetici. Ella fece ad Angela l’effetto che farebbe su noi una polizza da pagare dopo un breve ed effimero godimento.
Angela parve rassegnarsi alle conseguenze che prevedeva, e cercare negli occhi di Cosimo e nella espressione della sua felicità la ricompensa di un sacrificio che prevedeva inevitabile in un tempo più o meno lontano.
Ma gli occhi di Cosimo dimostravano in quel momento una ben diversa emozione. Un’idea che fino allora non si era formulata nella sua mente, un’idea che le speranze e i timori di quei giorni avevano soffocata nell’animo suo, brillò allora come un lampo sinistro alla sua fantasia. Egli non osò pronunciare una sola parola: ma il mortal pallore che coprì le sue gote, il sudor freddo che bagnò la sua fronte spaventarono la povera Angela che, senza vedere il fondo della cosa, ne intese abbastanza per sentirne ella stessa un brivido involontario per tutte l’ossa.
Tutte queste emozioni così diverse, così straordinarie avrebbero sopraffatto una più forte natura che non era quella di Cosimo. Ei soccombette. Angela, spaventata, dovette richiamare Giacinto che lavorava poco lontano, e tutti e due sorressero Cosimo, e lo condussero nella sua stanza in uno stato di crisi nervosa che durò lungo tempo prima di permettergli l’uso de’ sensi. Il signor Lanzoni ne fu avvertito, e informato della visita che avea fatta e delle conseguenze felici che ne aveva ottenute, attribuì quel deliquio alla gioia improvvisa, allo sforzo fatto, alla notte vegliata. Obbligò il giovanetto a coricarsi, a prender riposo, e riporre in calma i suoi spiriti. Permise ad Angela di rimanere presso all’infermo, finchè avesse mostrata disposizione a dormire, e, senza dirlo, mandò a chiamare il dottore.
Non andò molto che Cosimo si assopì, ma non fu già questo quel sonno benefico che ristaura e risana. Fu un nuovo periodo, una nuova fase della crisi che l’avea colto. Angela, che per un momento lo credette addormentato davvero, si dispose sulla punta de’ piedi a lasciare la stanza. Ma un gemito sordo e straziante partì dal petto profondo dell’ammalato. — Non partire, non lasciarmi, Angela della mia vita. Pochi momenti mi restano a vivere sotto queste forme disgraziate e già prossime a sciogliersi. Rimani! Tu sola mi potresti comprendere! Tu sola attenuare la pena del mio passaggio a una nuova esistenza…. —
Angela si fermò come fosse sotto l’influenza di un comando magnetico. Si assise accanto al letto di Cosimo senza parlare, e pose la sua mano fresca e lieve sulla fronte di lui secca e ardente per febbre. A poco a poco i lineamenti dell’ammalato si ricomposero in una calma serena. La pelle sotto la mano di Angela si coprì di un dolce madore. Quella specie di catalessi divenne sonno, ma il viso e la bocca continuarono ad atteggiarsi a varia espressione, come uno specchio dinanzi al quale passassero varie e diverse prospettive, ora amene e ridenti, ora selvagge ed ingrate.
Cosimo continuò a parlare come sognando, ma senza dirigere il discorso alla sua suora di carità. Ei vedeva certamente nei suoi sogni la bella inglese della quale avea tenuto parola in una delle sue lettere, e parea l’esortasse alla solitudine. — No, Evelina, — diceva — voi non potreste mai esser riamata dell’amore che meritate. Quella macchia originale lo impedirà. Rassegnatevi a passare la fase presente del viver vostro senza le divine consolazioni di un amor corrisposto. Che fa? Se avrete espiato con opere degne il peccato materno, rivivrete presto più bella ed immacolata un nuovo periodo vitale: avrete uno sposo che v’ami, e figli sani e leggiadri ad imagine vostra. Vivere senza amore…. non è vivere…. ma amare senza poter esser riamato è un inferno. Dio vi guardi dalla disperazione!… — Qui ci fu un’altra pausa durante la quale il sonnambulismo di Cosimo s’interruppe, o almeno non si manifestò con modi e con parole sì lucide.
Angela assisteva con un profondo accoramento a queste involontarie rivelazioni di una passione, che in istato di veglia il povero Cosimo non avrebbe mai palesata. Credette che il contatto della sua mano fosse causa di quella specie di allucinazione, e si provò a ritirarla. Ma i lineamenti dell’infermo si contrassero tosto dolorosamente, onde la buona giovanetta non osò insistere, e tornò alla prima attitudine. Da lì a un istante i primi fenomeni di calma si riprodussero, e il sonniloquo rivolse a lei la parola quasi vegliando, ma senza aprir le palpebre, e senza aver coscienza del proprio stato. — Ascoltatemi — disse — ascoltatemi bene. Vi racconterò una storia meravigliosa. Avete voi conosciuto mia madre? La chiamavano nella contrada la bella Teresa. Era guantaja di professione, ma meritava di essere una regina. Tutti quelli che la vedevano n’erano presi d’ammirazione e d’amore. Fra questi…. un giorno…. una domenica la vide il contino. Erano fatti l’uno per l’altra: giovani e belli ambidue. Il conte diceva nel suo cuore: Oh! se tu fossi nata nobile e ricca! La Teresa diceva dal canto suo: Oh! se tu fossi un buono ed onesto operajo! Ebbene: il conte divenne operajo e la sposò. Ma non potè cambiare l’animo suo. L’animo rimase sempre orgoglioso, e si vergognò ben presto di aver potuto amare e sposare una povera guantaja! Egli era tutto pieno di sè, e superbo sopra tutto della propria bellezza. Un giorno che il suo animo era più che mai compreso da un ingiusto disprezzo verso l’umanità…. gli nacque un figliuolo, che fu il figliuolo del suo disprezzo, e lo animò del suo spirito impregnato di questa mala e perversa abitudine. Ne nacque una mala erba, una euforbia velenosa, uno sterpo infecondo nel quale i succhi vitali circolavano a stento, e il germe imbozzacchito non poteva svolgersi nè in fiore nè in frutto. Il conte arrossì dell’opera sua, e si vergognò della donna che senza saperlo gli avea dato mano a compirla…. La donna morì, il figlio morì…. Sì, ve lo giuro, morì! Che poteva egli fare sulla terra? Egli non poteva nè amare, nè essere amato. Le sue labbra non avrebbero mai potuto proferire la parola amore…. —
Dicendo queste parole gli occhi del povero delirante s’impregnarono di lagrime: nè queste lagrime furono sole. Angela pianse anch’essa silenziosamente, guardando con soave espressione d’amore l’essere straordinario che avea da canto.
Noi non oseremo commentare nè quello sguardo, nè quelle lagrime. La compassione d’un’anima delicata e gentile è così vicina all’amore! Ma se nello stato di tensione magnetica, le anime si comunicano mutuamente i lor sentimenti, Cosimo dovette aver avuto in quel momento, se non la certezza, almeno una consolante speranza d’essere amato. Checchè ne fosse, la posizione di Angela cominciava ad essere imbarazzante. Non ci avea pensato fino a quel punto, ma dopo i singolari vaneggiamenti del giovanetto, il natural pudore della buona fanciulla cominciava a colorar le sue gote e a renderla più perplessa che mai.
Fortunatamente il dottore sopraggiunse, accompagnato dal signor Lanzoni e dal conte Alberto. Cosimo, benchè assopito, se ne accorse, prima ancora che Angela udisse i lor passi sopra le scale. Entrati che furono nella stanza, chiesero ad Angela come avesse riposato l’infermo. — Da oltre un’ora — rispose — è assopito a quel modo. Ma non è un sonno tranquillo. Delira sovente e parla fra sè. —
Il medico lo guardò attentamente, gli sentì la fronte, gli tastò il polso, senza che l’infermo aprisse gli occhi o facesse il più piccolo movimento. Era una vera catalessi. Senza essere soverchiamente credulo alle meraviglie del magnetismo animale, il dottore aveva avuto sovente occasione di esaminarne i fenomeni, e li avea creduti degni di studio coscienzioso e profondo. Era stato informato dal conte Alberto dello stato di esaltazione in cui l’avea posto il colloquio della mattina: e benchè ignorasse i particolari del fatto, non durò fatica a farsi una diagnosi esatta della condizione dell’ammalato. Gli fece respirare dell’etere, e ben presto lo scosse da quel morboso assopimento in cui lo vedeva.
Risentitosi il poveretto girò intorno gli occhi spaventati come colui che fino allora non aveva avuta coscienza di sè, nè del luogo dove giaceva, nè delle persone che avea dattorno. Domandò che ora fosse, e veduto il sole alto, ebbe un’idea di aver dormito e sognato fino dalla sera antecedente. Ma la presenza del conte Alberto lo rassicurò. Gli tese la mano, che quegli strinse affettuosamente nella sua. Ma entrato nella realtà della vita, sentì più forte il suo male, e i sintomi della febbre cerebrale si mostrarono sì manifesti, che il medico ordinò tosto un’emissione di sangue.
Cosimo si prestò a questo e agli altri trattamenti energici a cui fu sottoposto con una rassegnazione affatto indolente e passiva. Si sarebbe detto, ch’ei fosse già preparato a soccombere al morbo improvviso che l’avea colto.
XX.
Abbrevieremo più che si possa questa parte dolorosa del nostro racconto. Che giova insistere sui particolari di un’agonia di cui tutti oggimai possono prevedere lo scioglimento!
Il nostro povero amico rappresenta in se stesso la lotta di quei due principj che continueremo a nominare lo spirito e la materia. Questa misteriosa antinomìa che si manifesta più o meno in tutti gli esseri senzienti, era giunta in lui al massimo grado di tensione e di violenza.
Seguendo a chiamare le cose coi nomi che tutti intendono, la battaglia dell’anima e del corpo era in esso una trista ed ereditaria fatalità. Svolgete in un organismo difettoso e viziato la forza morale: questa, non potendo giugnere a crearsi organi nuovi, o frangerà il suo vaso d’argilla, o imprigionata, suo malgrado, ritorcerà la sua energia sopra se stessa, esagererà il suo principio, e proromperà in delirio e in pazzia.
Se quella fatal lettera non fosse mai caduta nelle mani di Angela, e Cosimo avesse continuato ad ignorar la sua nascita, egli sarebbe rimasto contento nell’umile sua condizione, o forse, a forza d’ingegno, di studio e d’amore, sarebbe giunto a crearsi un’esistenza poetica in cui la stessa singolarità avrebbe avuto le sue gioje e le sue secrete consolazioni.
La sua sventura, quella che fece più duro e fatale il conflitto, fu di trovare nel proprio padre un rivale, un rivale che non potea confessare, e contro cui non poteva e non voleva combattere. Si rassegnò dunque a cedere il luogo, e a morire.
Angela era troppo inesperta della vita, troppo semplice e buona per prevedere le conseguenze di questa lotta. Sentì coll’istinto del cuore di che si trattava, e più volte fu sul punto di dire al povero nano: — Consolati, io t’amo, io sarò quello che tu vorrai, madre, sorella, moglie, amica, la compagna in una parola della tua vita, l’angelo ispiratore de’ tuoi pensieri e de’ tuoi sentimenti. — Ma l’arrestava il timore che una tale rivelazione avesse a creare nel povero infermo speranze ed affetti impossibili. Suo padre, sua zia avrebbero essi mai consentito a questa unione stravagante e contraria ad ogni convenienza sociale? D’altronde, ella aveva implicitamente offerta la sua mano al conte Alberto, come condizione, come premio al riconoscimento di Cosimo; riconoscimento ch’ella credeva fino allora l’unico desiderio del suo allievo, l’unico bisogno dell’anima sua. La sua malattia, i fenomeni bizzarri che l’accompagnarono, le scoprirono un altro dolore, un altro ostacolo alla felicità di Cosimo, nè a questi sapeva trovare rimedio efficace, nemmeno col sacrificio di tutta se stessa.
Esitò a lungo se dovesse astenersi da ogni espansione affettuosa, o se fosse più utile far conoscere a quello sventurato che il di lei cuore avea indovinata la sua passione, e non era lontano dal corrispondervi. Così passarono i primi giorni senza ch’ella potesse risolversi a nulla, e la malattia, malgrado tutte le cure de’ medici, s’aggravò per modo che si disperava oggimai di poter combatterla e vincerla.
Il conte Alberto era assiduo al letto dell’ammalato come un padre verso l’unico e ben amato figliuolo. L’affetto di Angela era stato d’esempio e di stimolo al suo. Essi lo amavano come fosse davvero un frutto del loro amore reciproco. Cosimo accettava con eguali dimostrazioni di gratitudine le cure di entrambi: ma l’occhio di Angela non avea tardato a scoprire una involontaria amarezza nello sguardo e nell’accento di Cosimo, quando il conte accostavasi a lei e le parlava dell’avvenire che li attendeva.
Questa scoperta la determinò ad aprire a Cosimo tutto l’animo suo. Un giorno ch’era sola con lui, e lo vedeva meno abbattuto del solito, gli entrò a parlare del progetto di matrimonio che pareva così sorridere al conte, gli disse che questa unione le pareva accettabile solo perchè avrebbe continuato ad essergli madre, e a prestargli tutte le cure di cui abbisognava il suo stato.
Cosimo sospirò, e non rispose.
— Perchè non rispondi? — soggiunse Angela. — Tu sai bene ch’io mi son consecrata tutta intera alla tua felicità: tu sai bene che il conte Alberto non sarebbe mai divenuto mio sposo, se non a patto di accettarti qual figlio. E se un altro nome, che quel di madre, ti fosse sembrato più desiderabile, il mio cuore non avrebbe avuto alcuna ripulsa, alcuna ripugnanza a dartene un altro. Tu sai, Cosimo, che le anime nostre si sono intese fino dal primo momento, e che nessun desiderio potrebbe sorgere nella tua, che non avesse un’eco nell’anima mia. Io sono perfettamente libera, o Cosimo, e non consentirò ad alcun legame, se non a patto ch’esso possa contribuire alla tua felicità. —
Cosimo fissò i suoi grandi occhi malinconici sopra Angela, aspirò con tutti i sensi queste parole che rivelavano ad un tempo il suo segreto, e realizzavano il più vivo de’ suoi desiderii. — Angela, è egli vero ciò che mi dici? Non lusinghi tu forse con queste parole le ultime e assurde aspirazioni di un moribondo? Amarti, sapermi amato da te! . . . . . . . . . Come hai tu saputo indovinare questo secreto, ch’io sarei morto mille volte piuttosto di lasciartelo intravedere?
— Io lo so perchè amo non meno di te . . .
— Ah! taci, taci per carità . . . che nessuno lo sappia, che nessuno lo immagini mai! I miei voti sono soddisfatti, io ho raggiunto il fine della mia vita! . . . È troppo tardi, è troppo tardi! . . . — E qui si abbandonò ad un pianto dirotto che non lasciò più luogo alla voce, ed egli non potè più articolare parola.
Dopo un lungo intervallo, raccogliendo con supremo sforzo i proprj pensieri, e prendendo un tuono grave e solenne: — Angela — soggiunse — tu dài ora l’ultima prova alla nuova dottrina dell’immortalità di cui ti ho scritto e parlato sovente. Io son vicino più che non credi a toccare le soglie di quel mondo sconosciuto che rischiarerà una nuova fase della nostra esistenza. Posto fra il confine d’una vita che mi sfugge, e di un’altra che m’attende, io non posso più dubitare d’una giustizia futura che completerà la presente. La terra è un purgatorio, ove noi scontiamo le colpe passate, e ci affiniamo per meritare un migliore destino. Vi sono vite che compiono armonicamente la loro carriera, quando l’anima e i suoi organi esterni si corrispondono mutuamente. Sono quei germi ben naturati che fioriscono e fruttificano secondo la loro specie crescendo d’anno in anno in forza e in bellezza. Ma ve ne sono altri che, per mancanza d’opportuno alimento, e per cause che l’occhio umano non può discernere, abbozzano e muojono prima di avere il loro completo sviluppo. Io sono uno di questi ultimi. L’uomo è un germe che ha la coscienza di se medesimo, che ha un principio libero e attivo di cui deve render conto a se stesso e al supremo ordinatore della natura. Tu hai elevato l’anima mia a tanta nobiltà di sentimenti, di pensieri e d’affetti, che non potevano più svilupparsi negli organi difettosi che ho sortito nascendo. Qualunque sia la legge misteriosa che mi condanna ad una morte immatura, io non me ne lagno e non accuso l’ingiustizia della fortuna. Sento che io non posso morir tutto intero. Una parte di me, la parte migliore, sopravviverà alla presente esistenza, e si creerà un corpo più acconcio ad elevarsi e progredire nell’immensa scala degli esseri umani. Questa fu per me fino ad ora un’ipotesi consolante: ora è divenuta una fede. Il tuo amore mi mancava a persuadermi di quest’alta e universale giustizia: tu me lo accordi…. ebbene! io muoio contento e sicuro di rinascere migliore! —
Non era la prima volta che Angela udiva ragionare di questa palingenesi umana. Ella vi prestava attenzione come ad una graziosa e soave ipotesi, come ad una spiegazione razionale del dogma della vita avvenire. Ma giammai fino allora Cosimo aveva fatta una professione così esplicita della sua fede. Ella la udì col rispetto che si deve alle parole supreme d’un essere amato che sta per trovarsi al cospetto del misterioso avvenire. Si contentò di consigliare a Cosimo di non abbandonarsi più che non convenisse a queste divinazioni dell’infinito che stancano la mente e tolgono al cuore il necessario riposo. Non pensasse ad abbreviare la presente esistenza prima del tempo…
— No, no — riprese Cosimo. — Vedi, io sono oggimai tranquillissimo. Aspetterò senza dolore e senza impazienza la legge del tempo. Dammi quella pozione amara che ho ricusato finora di prendere. Ora non ne sentirò più l’amarezza. Vo’ prolungare quanto potrò questa fase della mia vita che tu hai sparso di tanta dolcezza e di tanti conforti! —
Malgrado questa calma apparente, il medico sopravvenuto più tardi trovò cresciuta la febbre, e indebolita la fibra dell’ammalato. Egli non lo diceva ancora, ma era facile leggere ne’ suoi sguardi accigliati che poca speranza oggimai più restava di guarigione.
Così passarono ancora parecchi giorni. Cosimo aveva ottenuto di lasciare il letto, e di coricarsi sopra di un seggiolone che faceva collocare dinanzi alla finestra del giardino, per vedere le cime degli alberi e gli uccelli svolazzare di frasca in frasca pieni di quella vita che a lui veniva insensibilmente mancando.
Una sera, mentre il sole tramontava sereno, e colorava dei caldi suoi raggi le bianche e leggiere nuvolette che vagavano sull’orizzonte, Cosimo chiese di vedere il conte Alberto. Egli venne in compagnia del padre di Angela. Prendendo allora la mano di questa che oggimai non l’abbandonava che per brevissimi istanti: — Mia madre — disse — mi vi ha lasciato in eredità. Io non sono stato un tesoro per voi, ma voi siete stata un tesoro inapprezzabile per me. Io me ne vado consolato dalle vostre cure, dal vostro affetto. Ma mi resta ancora a compiere una parte della mia missione su questa terra. — Così dicendo pose la mano di Angela che stringeva in quella del padre suo. — Ecco — egli disse — il testamento del povero Cosimo. Amatevi, e come mi foste madre e padre finora o d’affetto o di sangue, conservate entrambi questo carattere anche dopo la mia partenza. Chi sa? Io rinascerò sulla terra per completare la mia esistenza. Forse rinascerò vostro figlio, e il primo frutto della vostra unione sarà forse una riproduzione della mia vita sotto auspicj e con elementi migliori. Chiamatelo Cosimo in memoria di quello che oggi vi lascia. A rivederci! —
Angela piangeva dirottamente. Il conte Alberto e il signor Lanzoni avevano anch’essi umidi gli occhi di pianto. Le due mani che il moribondo aveva congiunte rimasero strette, ed egli spirò di lì a poco contemplando quell’unione come un pegno delle nuove speranze che la morte vicina facea germinare nell’anima sua!
NOTE.
[5]Iapelli, celebre architetto padovano, autore del caffè Pedrocchi, e ordinatore di parecchi giardini all’inglese, che si ammirano ancora nel Veneto.