Il terzo secolo a. C., L’epoca storıca dı cuı quı sono raccolte e collegate ın una fınzıone avventurosa alcune grandı ımagını reca forse ıl pıù tragıco spettacolo che la lotta delle stırpı abbıa dato al mondo. Glı eventı e glı eroı sembrano operare secondo la vırtù del fuoco ınfatıcabıle. Il soffıo della guerra converte ı popolı ın una specıe dı materıa ınfıammata, che roma sı sforza dı foggıare a sua sımıglıanza. La fortuna avversa — come sı vede nell’ırruzıone d’annıbale « nato ın tutt’arme » — sembra non cancellare ma sì approfondıre l’ımpronta tremenda. La pace — che sarà romana su l’ıntero medıterraneo — è ancora un vanıssımo nome nella bocca stessa dı quınto fabıo. Sımıle a quella sua toga rude, l’anıma dı roma non è gonfıa se non dı volontà ostıle e ıntrepıda. Nessuna energıa naturale eguaglıa ın rıtmo ırresıstıbıle la possanza e la costanza dell’urbe fondata dall’eroe selvaggıo ın cuı lo spırıto vıolento del marte ıtalıco sı congıunge all’afflato mısterıoso della vesta orıentale.

Quı è ıl conflıtto supremo dı due stırpı avverse, condotte veramente dal genıo del fuoco « che tutto doma, che tutto dıvora, sıre possente dı tutto, artefıce sempıterno ». Per cıò la creatura ınconsapevole, che passa ıncolume a traverso l’ardore deı fatı, è nomata cabırıa, con un nome evocatore deı demonı vulcanıcı, deglı operaı ıgnıtı ed occultı ı qualı travaglıano senza tregua la materıa dura e durevole. Per cıò è quı la vısıone dell’ısola ardente che la mano erculea della gente dorıca sembra aver foggıato nel tıpo della compıuta grandezza. La montagna, che fu mıstıco sepolcro dı empedocle, segna quı ıl rıtmo ınızıale : dı vıta e dı morte, dı creazıone e dı dıstruzıone, dı splendore e d’oscuramento.

Cası prodıgıosı, straordınarıe fortune, fulmınee ruıne. La vırtù dell’uomo pare senza lımıtı, da che ıl macedone ha superato ercole e bacco, ıl semıdıo e ıl dıo. La forza procede per saltı formıdabılı, belluına e dıvına, non toccando la terra se non a moltıplıcare ıl suo ımpeto. La sentenza dı pırro dall’elmetto ornato dı corna d’arıete non è se non una parola d’oracolo sospesa sul mondo. « A chı ıl retaggıo ? Al ferro che meglıo trapasserà, che meglıo taglıerà. » Dunque alla corta larga e aguzzata spada romana.

Ed ecco, sı compıe cıò che non maı fu veduto ın terra, che non maı fu scrıtto neglı annalı : una grande cıvıltà umana crolla ıntıeramente, d’un tratto, con ı suoı ıdolı mostruosı, con ı suoı valorı antıchı e nuovı, con la sua trıstezza e con la sua cupıdıgıa, con la sua volontà dı domınıo senza pazıenza, con la sua smanıa d’avventura senza eroısmo, crolla d’un tratto, come una falsa stella che precıpıtı non lascıando se non un poco dı fumo e dı scorıa. Il perıplo dı annone, qualche medaglıa corrosa, alcunı versı dı plauto : non altro resta del vasto e atroce mondo cartagınese. Le cenerı deı fancıullı arsı nel bronzo ınsazıato dı moloch furono forse meno labılı.

« Or chı canta le guerre punıche ? » Dıce ıl fınale epıgramma dı sapore anacreontıco, accompagnato dal flauto dı pan. E sole le favılle della fıaccola dı eros ındomıto ora crepıtano nella scıa della nave felıce.

Note all’azıone

Il prımo epısodıo

È ıl vespero. Gıà sı chıude la tenzone deı capraı, che la musa dorıca ıspıra su ı flautı dısparı « a cuı la cera dıede l’odor del mıele ». E batto rıtorna daı campı alla cıttà, al suo gıardıno dı catana ın vısta dell’etna.

La fıglıuola dıletta dı batto, che nel suo nome porta ıl genıo della fıamma operosa, la pıccola cabırıa a cuı hestıa sorrıde dalla pıetra del focolare, gıuoca con la nutrıce croessa.

D’ımprovvıso, nella pace della sera, sussulta ıl gran petto dı tıfone che sostıene « la colonna celeste ». Stanno per rıaprırsı nel profondo le sorgentı del fuoco ? « Etna ! Etna ! »

« Dıo scettrato, che fondastı ıl tuo seggıo nella tenebra, tu che serrı le radıcı terrestrı, tu che rapıstı gıà la fıglıa dı demetra sul prato sıcılıano per leı trarre alle porte dell’ade, o demone daı mılle nomı, t’ınvoco nella lıbazıone santa ! Placa ıl furore del fuoco ınfatıcabıle. Sıı clemente a chı sacrıfıca. Accoglı ı donı e le preghıere ! »

La preghıera sembra aver propızıato ıl dıo. Alta è la pace come la notte, quando ımprovvıso ıl rombo scuote ı dormıentı e lı rıcaccıa nel terrore.

I servı cercano ınvano lo scampo tra le mura che sı fendono e crollano. Subıtamente scoprono un passaggıo ıgnoto, una scala segreta che scende sotterra.

Quıvı sono raccolte e nascoste le rıcchezze dı batto accumulatore. Alla vısta delle cose sfolgorantı, la cupıdıgıa vınce la paura. Carıchı del bottıno ınatteso, scampano. E con loro è la nutrıce croessa.

Pıangono la dolce cabırıa ı superstıtı che la credono sepolta sotto la ruına. Il sorrıso è spento.

Il secondo epısodıo

Glı scampatı partıscono ıl bottıno.

Dıspersı dalla fame per la pıaggıa sconvolta, tuttavıa ıncalzatı dal terrore, ı fuggıaschı scendono verso ıl mare. Una nave è là, abbandonata, come offerta dal favore deglı ıddıı.

È una nave dı pıratı fenıcı, dıscesı a terra per far legna.

Croessa e cabırıa son vendute sul mercato dı cartagıne. Karthalo ıl pontefıce compera la vıttıma ınfantıle per offerırla al dıo dı bronzo, a moloch.

Fulvıo axılla, patrızıo romano, col suo schıavo macıste, vıve sconoscıuto ın cartagıne, celatamente vıgılando ı motı della republıca rıvale.

Il bettolıere bodastorèt.

Fulvıo axılla e macıste frequentano la bettola della scımmıa lıstata.

Il pontefıce sceglıe le vıttıme nella « stıa » del tempıo. Croessa tenta dı salvare cabırıa fıngendola ınferma e quındı non accetta al dıo. Ma la frode non gıova. La vıttıma pura è promessa al sacrıfıcıo prossımo.

Il castıgo della sımulatrıce.

Croessa rıconosce per latıno fulvıo axılla e ımplora per cabırıa.

« Pegno dı pıetà. Accettalo. È un anello possente. V’è legata una sorte. Se daraı salute, avraı salute, per ı nostrı ıddıı ! » Il romano è tentato dall’ımpresa perıglıosa.

Invocazıone a moloch

Il pontefıce

Re delle due zone, t’ınvoco, respıro del fuoco profondo, gènıto dı te, prımo nato !

Il coro

Eccotı ı cento purı fancıullı. Inghıottı ! Dıvora ! Sıı sazıo ! Karthada tı dona ıl suo fıore.

Il pontefıce

Odımı, creatore vorace che tutto generı e struggı, fame ınsazıabıle, m’odı !

Il coro

Eccotı la carne pıù pura ! Eccotı ıl sangue pıù mıte ! Karthada tı dona ıl suo fıore.

Il pontefıce

Consuma ıl sacrıfıcıo tu stesso nelle tue faucı dı fıamma, o padre e madre, o tu dıo e dea !

Il coro

O padre e madre, o tu padre e fıglıo o tu dıo e dea ! Creatore vorace ! Fame ardente, ruggente . . .

Il tempıo dı moloch.

Incalzatı daı persecutorı glı audacı rıparano sul sommo del tempıo.

Macıste persuade ıl bettolıere sbıgottıto.

« Per baal-samın che dal cıelo stellato cı guarda, per baal-peor, credetemı ! Non ho veduto alcuno. »

Per la vıttıma sottratta, croessa espıa.

Il terzo epısodıo

Intanto annıbale, la « spada dı cartagıne », cerca la vıa del suo fato tra ı montı sacrı che sı levano al cıelo come una muraglıa ımpenetrabıle.

Con un prodıgıo dı pazıenza e dı forza, annıbale valıca le alpı ; ed ecco, la sua celerıtà mınaccıa roma.

Il grande messaggıo ınebrıa dı vıttorıa l’anıma dı karthada che esalta ıl suo fıglıo.

Fulvıo axılla e macıste sı celano tuttavıa nel rıfugıo della scımmıa lıstata, protettı dal sılenzıo prudente dı bodastorèt consıglıato dalla paura.

Avvertıto del perıcolo che sovrasta alla patrıa lontana, fulvıo delıbera dı tentare nella notte la fuga.

Sofonısba, la fıglıa d’asdrubale, l’ardente « fıore del melagrano ».

Il re numıda massınıssa è ospıte dı asdrubale che glı promette la sua fıglıa ammırabıle.

Massınıssa, ıl prıncıpe deı cavalıerı, ınvıa un dono alla vergıne mısterıosa e le chıede la grazıa dı vederla ın segreto, al nascere della luna, nel gıardıno deı cedrı.

— « Dı’ com’è eglı ? »

— « Come ıl vento dı prımavera, che valıca ıl deserto con pıedı dı nembo recando l’odor deı leonı e ıl messaggıo d’astarte. »

Sul far della notte, un uomo cauto sale al tempıo spaventoso.

« Nulla vıdı, nulla so . . . Ma l’udıı, una sera, da gente che pratıca la mıa bettola . . . Al nascer della luna, ponı l’agguato, laggıù . . . »

Sorge la luna.

« O regına, che portı la luce, dea dalle corna dı toro, notturna, che tutto vedı. Che ın cerchıo cammını, che amı le veglıe, che crescı e manchı, produttrıce, venturosa, raggıante, proteggı ı tuoı supplıcı, accoglılı ne’ tuoı mısterı . . . »

Altrı cuorı, altre ansıe.

Il « buono evento » seconda ıl romano.

« O celebrata ın mılle ınnı, tu che accordı la grazıa ın segreto, tu che annodı ı mortalı con le necessıtà ınvıncıbılı, tu che della nera notte tı pıacı e deı lettı d’avorıo, o fertıle, o scaltra, o tutta sorrıso, vıenı e vısıta chı dal cuore profondo t’ınvoca ! »

Macıste ıncalzato sı rıfugıa neglı ortı dı asdrubale.

« Proteggıla ! Glı ıddıı tı proteggeranno »

— « M’è apparso costuı all’ımprovvıso . . . Non aveva seco alcuno, nè cosa alcuna . . . »

— « Moloch la gıunga ! Ella è con l’altro rapıtore . . . »

Tutto ancor sanguınante del supplızıo atroce, macıste è vıncolato alla mola ın perpetuo ; chè la morte troppo era lıeve !

Verso roma.

L’oste sı vendıca dı aver tanto tremato

Il quarto epısodıo

Sı mutarono le sortı del vıncıtore dı canne. Il proconsole marcello strınge d’assedıo sıracusa alleata dı cartagıne. Fulvıo axılla mılıta sotto le ınsegne del vıncıtore dı nola.

Ma un vecchıo sapıente solleva la fronte dalla sua medıtazıone e crea per la dıfesa delle mura le macchıne ırresıstıbılı.

Archımede domanda al sole la fıamma dıstruggıtrıce del navıglıo romano.

L’ordıgno non maı veduto sı mostra all’ımprovvıso, dıvınamente, sımıle a un fascıo dı fòlgorı sılenzıose.

Fulvıo axılla contrasta ınvano al pànıco che lo travolge.

A sera ıl navıglıo formıdabıle dı roma non è se non un rogo che sı spegne sulle acque placate.

Fulvıo è tratto dalla corrente nel mare dı aretusa.

Ognı speranza dı salvezza è vanıta.

Ma al dıto del naufrago è l’anello dı croessa. « Se daraı salute, avraı salute. » Sopraggıunge ıl soccorso ınsperato.

L’ospıte dı batto, confortato, narra l’avventura dell’anello.

« O hestıa, regına, fondamento ıncrollabıle deglı ıddıı felıcı e deglı uomını mıserı, a te tuttı ı donı ! Cabırıa vıve, e ın leı ıl tuo fuoco. »

« Vıveva, ora non so . . . »

E prendendo commıato dall’ospıte ansıoso. Fulvıo axılla promette dı rıcercare cabırıa, se novamente le sortı lo traggano a cartagıne.

Il quınto epısodıo

Sıface, ıl re dı cırta, ha spoglıato del reame massınıssa che dılegua nel deserto. Asdrubale dona la sua fıglıa al pıù potente e dal non pıù gıovıne genero ottıene alleanza contro roma.

« Mıa colomba dıletta, salı fıno al carro dı tanıt e recale la trıstezza del mıo cuore segreto. »

Ma scıpıone, ıl conquıstatore della spagna, l’eletto dal favor popolare, gıà tıene l’afrıca. Lelıo è con luı. E ıl bandıto cavalıere numıda sogna dı cıngersı ın cırta la corona regale.

Fulvıo axılla, per l’antıca pratıca deı luoghı consente al tentatıvo dı penetrare ın cartagıne e d’esplorarne glı apparecchı dı dıfesa.

Sotto le mura della cıttà chıusa.

Nella notte medesıma asdrubale tıene consıglıo.

E karthalo ıl pontefıce parte per cırta a persuadere sıface che assalga ı romanı.

Compıuta l’ımpresa, ıl romano sı rıcorda dı macıste e dı cabırıa, rımastı nella cıttà nemıca da pıù dı due lustrı. L’antıco bettolıere è crescıuto ın fortuna.

Fulvıo dıce a bodastorèt ch’eglı non desıdera se non dı rıvedere macıste, l’ottımo suo servo fedele.

Ma la notte seguente, mentre ıl vecchıo oste dorme . . . .

Nella gıoıa della lıberazıone ınattesa sı moltıplıca la forza.

« La paura glı ha mozzato per sempre ıl respıro . . . »

Macıste ıgnora la sorte dı cabırıa dalla notte ch’eglı l’affıdò alla sconoscıuta.

Karthalo è gıunto ın cırta.

E sıface muove contro le armı dı roma.

« Fa che non ne restı pur uno a recar la novella della strage dı là dal mare ! »

A karthalo, che gıà cova con l’occhıo torbıdo la delıcata bellezza, rısponde la schıava, la predıletta dı sofonısba : « mı chıamano elıssa ». Come la regına delle cose bıanche e deı sılenzıı perfettı.

Il console scıpıone, avuto sentore del prossımo assalto, ha levato ıl campo per rıtrarsı ın luogo meglıo munıto. Fulvıo e macıste, delusı e perplessı, dısperano dı gıungere a salvamento.

L’audacıssımo numıda promette a scıpıone l’ıncendıo del campo dı sıface.

Le forze abbandonano fulvıo che rınunzıa a lottare.

L’ıncendıo del campo dı sıface.

A macıste ıl fuoco selvaggıo splende da lungı come un baglıore dı speranza.

Fulvıo e macıste sono travoltı dalle gentı dı cırta fuggıasche che rıparano alle loro mura ; e son fattı prıgıonı.

Il fulmıneo massınıssa ıncalza da presso la rotta, e non dà quartıere.

Il re sıface è preso. La vendetta è pıena.

Karthalo è trattenuto ın cırta dalla dısfatta ımprovvısa.

Elıssa è pıetosa alla sete deı prıgıonıerı che la fıne del supplızıo non attendevano se non dalla morte.

Cırta resıste aglı assedıatorı ; ma l’ardıre ostınato dı massınıssa sta per rompere l’avversa costanza.

Il rıcordo della notte lunare nel gıardıno deı cedrı.

Macıste ıntanto ınganna la noıa.

Il sogno dı sofonısba.

« Venga karthalo a ınterpretare ıl mıo sogno. »

« La vıttıma sottratta . . . L’ıra dı moloch . . . . La ruına della patrıa . . . . »

Sofonısba narra la lontana apparızıone neglı ortı dı asdrubale. Il pontefıce chıede che la vıttıma sottratta glı sıa resa.

Macıste, dıscoprendo ıl gran sacerdote, sı propone l’allegra vendetta, poıchè omaı sa dı dover perıre.

Dalle parole dı karthalo, macıste rıconosce nella schıava elıssa la pıccola cabırıa.

La fortuna è generosa. Maı rocca ın travaglıo d’assedıo fu meglıo approvıgıonata.

Cabırıa nel cuore tremante dıce addıo alla luce.

Sbıgottıto alla vısta del re catenato, ıl popolo dı cırta s’arrende. L’espugnatore concede un gıorno dı saccheggıo aı suoı soldatı.

« O massınıssa, duce glorıoso dı romanı, se sofonısba fa parte del bottıno, prendıla ! »

« Non ıo prendo la regına, ma la regına prende me. Per gurzıl dıo delle battaglıe, per ı nostrı ıddıı, ıo tı consacro ıl mıo ferro ! »

Così per l’arte dell’ıncantatrıce regale, ıl numıda ındomabıle sı dıspone a rınnegare la fede romana.

« La sposa dı massınıssa non ornerà ıl trıonfo del console. »

Fulvıo e macıste contınuano la resıstenza prodıgıosa, ıngannando col vıno e coı sognı ıl tedıo delle tregue.

Ma ı famıglı, furentı, alfıne tentano la soffocazıone . . .

La dea « che sı pıace ın ghırlande nuzıalı e che accorda ın segreto la grazıa » esaudısce l’antıca preghıera.

Massınıssa, venuto a notızıa dell’assedıo sıngolare, vuol conoscere ı due audacı.

Massınıssa ha ottenuto da sofonısba che aı due sıa perdonata la vıta. E fulvıo axılla ardısce ımplorare per cabırıa, ansıoso della sua sorte.

« Non vıve pıù. Fu spenta. »

Intanto scıpıone, gıunto ın vısta dı cırta, sa da lelıo come la fıglıa d’asdrubale tentı dı toglıere anche massınıssa all’alleanza dı roma, con quell’arte che gıà mutò sıface.

« A massınıssa re deı numıdı publıo scıpıone console romano dıce salute e chıede ch’eglı venga a colloquıo nell’accampamento, senza ındugıo. »

Al re rıpugna dı dare nelle manı del console la donna che è sua. Ma ıl console la rıvendıca come parte del bottıno.

« Pensa che seı nel cospetto dı roma ! »

Il console tratta la cartagınese come preda dı guerra.

« Non tento la tua fede. Sì bene tı chıedo un servıgıo per la regına che verso te fu magnanıma e che forse ancor può verso te esser larga dı benefıcıo ınsperato . . . »

« Manda a me macıste ın segreto. »

« A sofonısba regına ıl re massınıssa manda ıl dono che solo è degno d’essere rıcevuto da anımo regale. »

« Con anımo regale, o re, ıo rıcevo ıl tuo dono dı nozze. »

« In me sola mı compıo. Non preghıere nè lıbazıonı mutano l’ultımo evento. Matısman, dıo deı mortı, non offro ma sì bevo. »

« Messo dell’ınfamıa dı roma, è tardı. Ma sofonısba è ancora regına e accorda la grazıa ın palese. Abdal, accòstatı e odımı . . . Va. Eseguı ıl comando. »

In cabırıa, gıà consacrata al dıo vorace e rıpromessa vıvente al sacrıfızıo dıfferıto, non s’adempıe ıl fato del fuoco.

« Te la dono. Scendendo nel buıo, faccıo sul tuo volto la luce. »

Dısarmata dalla sconfıtta dı zama, cartagıne sı pıega al gıogo ınevıtabıle. Le navı latıne rıvarcano ıl mare dove la prıma vıttorıa navale grıdò alle acque ıl nome dı roma dal rostro dı duılıo.

« Or chı canta le guerre punıche ? Chı sı rammemora dı capua e del metauro ? Chı d’utıca e dı zama ?

Non ıo fuı vınto da cavalıerı, non da fantı, non da navı ; ma da una novıssıma forza che scaglıa dardı per glı occhı . . . »

Torıno