A farlo apposta certo non si sarebbero trovati lì, tutti e due, uno seduto dietro all’altro sulle vecchie poltrone unte del teatrino, a sentire Buovo d’Antona e il tradimento dei Maganzesi. Il diavolo ci metteva le corna, li ravvicinava ancora una volta, dopo la sfuriata del giorno avanti, dopo che se l’avevano contate nere e alle mani non erano venuti ch’era stato un miracolo. E, ravvicinandoli, li tentava daccapo, mentre che ora del chiasso che avevan fatto laggiù, al mercato, non rimaneva in loro che una vaga apprensione di lunga inimicizia, un dispiacere di non doversi trattar più, essi che erano compari dal quarantotto e dentro avevano il cuore come la pasta. I guai sono le femmine che li vogliono, e se non fosse stato per Nannina, che avevano visto parlare con una guardia di pubblica sicurezza, e a cui poi Tetillo avea dato uno schiaffo all’uscire che faceva dalla messa con le compagne, adesso nessuno si sarebbe fatto del sangue acido per la collera e le male parole.

L’amore è come l’acqua chiara che ogni piccola cosa la turba, e agli uomini tante volte la passione pizzica le mani. Questo non vuol dire che d’ogni padre i figli non siano gli occhi della fronte, e se Tore lasciava passare le bravate del figliuolo, Vito se lo pigliava il diavolo quando la Nannina gli tornava a casa a sfogarsi, colla faccia rossa e gli occhi lagrimosi. I figli, i figli! E poi li vanno cercando e alla vecchiaia ingoiano i bocconi amari! E dire che a Sant’Anna si dovevano sposare, che facevano all’amore da più d’un anno e Tetillo non fumava più quattro sigari al giorno, perchè con parecchi risparmii voleva mettere da parte la prima pigione di casa.

A vederli così, con tanta buona intenzione, le famiglie stavano come pane e cacio e mai s’era detto un ette. Ora per un motivo di gelosia c’era stato l’inferno, tanto che alla siè Rosa pel gran gridare che aveva fatto che Nannina se la voleva tenere in casa scambio di darla a quello sforcato, s’era affiochita la voce e aveano dovuto chiamare il salassatore per alleggerirla del sangue.

Come sarebbe finita nessuno lo sapeva; certo è che i due compari, da vecchi amici che prima erano, adesso non si guardavano più in faccia, e per via, se uno pigliava a destra l’altro scantonava a sinistra, contando le pietre del selciato.

E bisognava dire proprio che ci avesse posto mano il diavolo, che li faceva incontrare nel teatrino e a quel modo come se si fossero intesi prima.  S’erano adocchiati e non si movevano più; l’inquietudine di quella vicinanza inaspettata li tormentava. Si guardavano di sottocchi procurando di rimanere impassibili nella loro stentata aria d’indiffenza. E, aspettando, si rassegnavano, mentre il pensiero della rappresentazione che li avrebbe distratti li confortava.

Il teatrino si riempiva, a poco a poco. L’uditorio abituale della seconda rappresentazione entrava, lentamente, scegliendo i posti migliori nelle prime file di sedie. Le conoscenze si salutavano, gravemente, e aspettando che si desse principio si mettevano a discorrere dell’epoca triste, delle regole al lotto, del pane che rincariva. Si vedevano lì col desiderio di trovarsi assieme dopo il lavoro d’una giornata. Le assenze si notavano una dopo l’altra.

Poi, mentre i discorsi ricominciavano sopra un altro tono, il fracasso dei monelli, che pigliavano d’assalto la piccionaia, provocava laggiù un malumore d’insofferenza. Prima che avessero preso posto, quei figli di male femmine, non si sarebbe potuto dir due parole! Era un chiasso d’inferno. Ora s’arrampicavano per la scaletta a chiocciola, spingendosi, cadendo sui gradini con un tonfo sordo, tra grandi risate argentine di birichini liberi. Facevano a chi prima arrivasse; qualcuno che non trovava più ove ficcarsi s’aggirava attorno, spinto qua e là, mentre spiava un cantuccio, cacciato via a fischi, urtato dai nuovi arrivati che non gli davano modo di sedere. Una fila di teste curiose rasentava il soffitto,  ove degli angioli rosei sorridevano cullati da nuvolette bianche, sfioccate. Un’afa di caldo, che la prima rappresentazione lasciava ancora nell’aria, vi saliva, sfiorando il parapetto. Delle piccole facce brune si sporgevano, già rosse, con gli occhi lucenti, pieni di malizia.

S’aspettava ancora per cominciare; il teatro, riempiendosi, si preparava, pazientemente.

In un cantuccio sotto la ribalta, di cui i quattro lumi a petrolio affumicavano il sipario che mostrava delle tristi nudità di tela, l’orchestra, in gruppo, sottovoce, si raccontava i fatti di casa. A volte delle chiamate insistenti dalla piccionaia disturbavano le confidenze; il trombone, vecchio del mestiere, le intratteneva, soffiando nello strumento che metteva una nota rauca, come una promessa; dopo, per un momento, il silenzio si ristabiliva e, nell’angolo, i piccoli gesti, le asserzioni, le curiosità del racconto ricominciavano. Ma a poco a poco, di sopra, le apostrofi ingiuriose dei monelli impazienti protestavano contro la mala voglia. Che si narravano laggiù quelle tre vecchiaie? che non s’aveva più il diritto di sentir un po’ di musica, prima? Non per niente pagavano due soldi a star pigiati come le aringhe! E si pestava il tavolato, fischiando, urlando, ricordando all’orchestra un motivo preferito. Qualche buccia d’arancio veniva giù a colpire in testa qualcuno della musica; allora essa si decideva, bestemmiando fra’ denti, nelle lunghe risate soddisfatte che esilaravano la piccionaia. Così tutti a una volta, imboccati gli strumenti, spolmonandosi, avanzando il tempo per farla presto finita, s’incoraggiavano, con una fretta rabbiosa. Dalla piccionaia gli applausi frenetici accompagnavano le prime note; si ripetevano, zufolando, variazioni che solleticavano l’orecchio.

A un punto la tela che s’alzava, arrotolandosi, decise un silenzio profondo.

La reggia di Buovo d’Antona colle grandi colonne dorate, le tendine a nappe di seta cremisi, gli specchi dipinti di verde sulle pareti, sorprese il lubbione. Sotto la porta di entrata due guerrieri di guardia si dondolavano ancora, leggermente, appesi pel loro filo di ferro a un gancio che si perdeva dietro il panneggiamento. Dimenticati, rimanevano lì, ripigliando la loro inanimata immobilità, lo sguardo fisso, le braccia pendenti, le gambe allargate, di cui i piedi strisciando sul pavimento si rialzavano sui talloni, con le punte in su. Venne fuori Buovo, già vecchio. Si fece innanzi con grandi gambate epilettiche, con la spada attaccata alla mano, l’elmo coperto di piume d’ogni colore. Girò lentamente la testa, che si fermò di scatto. Salutò i due guerrieri con un moto spezzato del suo braccio di legno. Parlò; la voce rauca dell’uomo che moveva la marionetta sembrava venisse da lei; nel silenzio, delle apostrofi brevi, delle gravi raccomandazioni accompagnate da leggeri movimenti del capo, ingannavano.

Così vecchio, povero Buovo, si raccomandava pel suo figliuolo alla cui tenera età sarebbe stato grave il peso dell’armi. Si raccomandava sapendo della venuta di Rolando e Adalberto suoi nemici, che menavano con loro tremila Maganzesi all’assedio della sua città. Fece chiamare i suoi guerrieri, ripetette i consigli. Parlando, alzava il braccio con la spada, volgendone la punta verso chi ascoltava, lasciandola ricadere lungo il cosciale che mandava un tintinnio di latta percossa.

Fidava poco nella moglie che, giovane e spensierata, niente si curava delle cose di Stato, attendendo a farsi bella. S’armassero: il pericolo era grandissimo; sapeva i due fratelli Maganzesi furibondi e desiderosi di vendicar la morte del loro padre ch’egli, in leale combattimento, aveva ucciso. La chiave della città aveva affidata alla regina e alle cure di lei il figliuolo, quand’egli, uscendo, soccombesse.

I guerrieri a gran passi s’allontanavano, il corpo in direzione delle quinte, la testa immobile, volta verso gli spettatori — e la scena mutava.

Nelle sue camere la regina, pazza di gioia per l’arrivo dei Maganzesi, affidava a un suo confidente un messaggio per Adalberto.

Il ragazzo che di sopra la moveva dandole una voce stridula di donna giovane, l’agitava nella serica veste gialla che pigliava a volte delle pieghe strane sulla rigidità delle gambe. Nell’uditorio, affezionato al vecchio Buovo, quel tradimento faceva correre un disgusto enorme.

Qualche apostrofe insultante interrompeva la regina nelle manifestazioni del suo amore colpevole. Nondimeno ella raggiungeva l’intento, il fedel servo recava al Maganzese la lettera e glie l’accostava al viso, tenendola alta perchè la leggesse. Era scritta in versi zoppicanti, le cui rime pompose incantavano il pubblico analfabeta. Figurarsi la gioia d’Adalberto! Finalmente avrebbe nelle mani quel vecchio imbecille che avea trucidato il padre di lui! Tardi giungeva ma in tempo la vendetta! Si preparassero i suoi: la regina avrebbe consegnata la chiave della città!

Un rullo assordante di tamburo copriva le nobili parole, la tela, svolgendosi, calava, battendo sul capo a un guerriero che non s’era fatto a tempo indietro. Il vocìo dell’uditorio diveniva formidabile; delle conoscenze distanti di posto si facevano notare con un fischio, qualche nuovo venuto, se la discorreva con quelli del lubbione, levando la voce per farsi sentire. Un bambino, che il rumore spaventava, cacciava dei piccoli gridi di pianto che trovavano un’eco derisoria nella turba dei monelli. — Gli desse latte la mamma: o non lo sentiva che voleva poppare?! — Dalla piccionaia un piagnisteo di creaturina poppante imitato comicamente faceva ridere tutta la platea. L’acquafrescaio, in maniche di camicia, un berretto tondo di lana colorata sul capo, profittava dell’intermezzo per fare il giro, portando nel vassoietto i bicchieri già pieni ove una sfumatura d’anice sbiaccava l’acqua.

Attorno ai bicchieri delle ciambelle da cinque un soldo attraevano l’attenzione dei bambini, che la varietà multicolore dello zucchero dipinto riempiva di desiderii. La piccionaia, più modesta, si contentava dei semi di cocomero secchi, che spilluzzicava colle braccia fuori del parapetto, interessandosi a guardare in giù la pioggia di bucce che si disseminavano in platea.

Qui i commenti del primo atto mettevano in discussione intere file di spettatori. Un giovanotto sbarazzino, che aveva un fazzoletto di seta rossa attorno al collo e al mignolo della destra una fascetta d’oro, s’ostinava contro Tore.

— Me lo chiamate tradimento?

— E che è? — disse Tore. — E a voi pare una bella cosa Adalberto che entra nella città senza scendere a combattimento?

— Vuol dire che gli conviene.

— A chi? E dove s’è inteso mai che un cavaliere dei tempi antichi si sia macchiato l’onore a questo modo?

Il giovanotto fece spallucce, con un movimento sprezzante delle labbra.

— Che c’entra l’onore? Lui gli ha ucciso il padre….

— In leale combattimento, — ribattè Tore.

— Che ne so io? Gliel’ha ucciso, sì o no?

— In leale combattimento!

— Eppoi, se volete sentire la verità, questi guerrieri di Buovo io non li ho visti mai far niente.

Tore ebbe un sorriso di compassione. Ora la discussione s’animava, quelli della fila avanti s’erano voltati a sentire, e Vito, che i Reali di Francia li sapeva a mente, spalancava tanto d’occhi.

— Volete parlare soltanto voi, — disse Tore.

Il giovanotto s’inchinò.

— Alle altre opere ci siete stato? — chiese Tore.

L’altro parve offeso della dimanda.

— Come? Ogni sera, e le tengo stampate in corpo!

— Sia lodato Dio! Allora il combattimento di Orlando coi Maganzesi….

— Macchè! — interruppe il giovane. — Che m’andate contando!…

Allora Vito non si potette tener più e uscì in mezzo anche lui.

— Chi? Ma voi scherzate o dite sul serio? Orlando se l’ha vista con sei Maganzesi, ed erano quelli buoni. È vero o dico bugia? — dimandò, volgendosi, senza volerlo, al compare, che quell’inaspettato intervento aveva stupefatto.

Tore approvò come gli altri, estatico. Il giovanotto, confuso, non sapeva più a che appigliarsi.

— E la regina? — aggiunse dopo un momento con un riso stupido, volendo cavarsela con una barzelletta, — quella sì che pensa bene ai casi suoi!

— Be’ — disse Vito, — questo è altro affare. Le donne tutte così son fatte. Eppoi che ne vuol fare di Buovo, poveretta? Buovo ha ottant’anni….

E arrischiò una facezia troppo libera, eccitando grossolane risate negli ascoltanti.

Tore rise anche lui, in modo che l’altro lo vedesse; di sfuggita fra loro due passò uno sguardo di buone intenzioni, pieno di cordialità.

L’acquafrescaio passava. Vito, soddisfatto, si volle regalare un bicchier d’acqua, lo chiamò, e bevve d’un fiato, con un gran sospirone.

Ma quando fece per mettere il soldo nel vassoietto sentì la mano di Tore che lo tratteneva e che gli s’era posata sul braccio. Si volse: l’altro, gravemente, con due dita nel taschino del panciotto, disse:

— È pagato.

— Come? — fece Vito e si volle divincolare. — No, no, non voglio, che vuol dire?…

Tore gli respinse la mano dolcemente, ammiccando cogli occhi che lo lasciasse fare, e, mentre lui protestava ancora confondendosi, gettò il soldo nel vassoio.

— Prego, — ripetette, — è pagato.

Vito non parlò più, meravigliato dell’atto che gli cadeva addosso come una tegola. Lì per lì non pensò nemmeno a ringraziare, non sapendo se dovesse offendersene o tenerselo come una finezza.

Così rimase immobile sulla sedia, senza conciarsi bene, chè a voltar le spalle a Tore in quel momento gli pareva una mala grazia. Alle gambe gli salivano delle stirature dolorose che la posizione incomoda provocava, ma tenne duro. Intanto la gentilezza del compare, meditata in un momento di calma, lo confondeva; a pensarci su si sentiva nell’anima qualche cosa     che si ribellava come ad un’umiliazione, ora che di mezzo ci correva la sfuriata del giorno avanti. Che era mo’ quel pagar lui all’improvviso? O che il rispondere suo in quella discussione se l’avesse tenuto come un’attenzione, credendo che l’avesse fatto per rappaciarsi? E senza moversi, con le spalle leggermente chinate, guardava in una grande confusione il soldo che gli era rimasto fra le dita e che per suggezione non rimetteva in saccoccia. Lo girava, stupidamente, strofinandoselo sulla coscia, facendolo passare nella cucitura dei calzoni….

A un tratto un’idea luminosa lo colpì; si ricordava di certi sigari che avea serbato dalla mattina, nella saccoccia del soprabito.

Vi ficcò la mano: c’erano, due, proprio due che pareva ci avesse pensato. Li cavò in punta di dita, con un tremito nella mano, e si volse.

L’altro che s’era accorto del maneggio, tossiva guardando in su con un’aria distratta.

— Senz’offesa, — disse Vito, stendendo la mano coi sigari.

Tore volle fare il meravigliato.

— Ebbene? — disse. — E perchè?… Volete disobbligarvi….

— Oh! oh! — protestò Vito col braccio teso.

— Quand’è così, vi ringrazio, — s’inchinò Tore.

Prese un sigaro e alzandosi andò ad accenderlo a un lume della ribalta.

Vi fu un momento di silenzio; tutti e due che tiravan fuori delle boccate di contentezza si interessavano alla musica che stroppiava il Rigoletto.  Tore, accompagnandola, si dondolava come un appassionato e batteva il tempo coll’indice sulla spalliera della sedia di Vito. L’altro se la pigliava col sigaro che non tirava. Una soddisfazione di fanciulli acchetati li metteva in allegria, incitandoli a delle piccole libertà di giovani. E come la musica moriva in un silenzio d’indifferenza, Tore, di colpo, si mise a gridare:

— Beatrice! Beatrice!

Una immensa approvazione rumorosa agitò la piccionaia. — Sì! si! Beatrice! La serenata cogli ombrelli! Beatrice! Beatrice!

Il tavolato del loggione a furia di pedate tremava tutto; nel fracasso che cresceva delle chiamate furiose, degli urli comici di monelli messi in brio arrivavano alla musica, irritandola. Giù in platea il desiderio si mostrava meno violento: solo, dei gruppetti di giovani, all’ultima fila, si passavano la voce, divenendo insistenti. Due femminucce strillavano, tenendosi i fianchi, rovesciandosi l’una sull’altra tra grandi risate. E dalle tavole mal connesse del pavimento percosso, un nugolo di polvere si levava e provocava starnuti rumorosi.

— Senti che li piglia! — disse il trombone, rovesciando in giù la boccuccia dello strumento, per farne scorrere la saliva.

I compagni guardavano in su con occhiate terribili. Ma quando si preparavano, nel rumore che cresceva, la tela, alzandosi lentamente, li dispensò da Beatrice.

L’ultimo atto durò pochissimo; il tradimento della regina si compiva, Buovo era trucidato da Adalberto, la città cadeva nelle mani dei Maganzesi. L’innamorata regina accoglieva nelle sue braccia il guerriero amato. Le calde proteste della sua passione eccitata irritavano il pubblico; insulti da trivio le cadevano addosso mentre lei sclamava, le braccia per aria, il corpo che si contorceva. I sospiri si perdevano negli urli d’insofferenza, nelle apostrofi rauche e minacciose della piccionaia aizzata, sorta in piedi. La tela scese in una ostile manifestazione di fischi e d’improperii, che assordò l’uditorio con un lungo schiamazzo. Ora s’usciva; ad ognuno, impiedi nel corridoio, pareva mille anni di trovarsi fuori. Si spingevano, coi petti che urtavano le spalle, compatti, soffocati, impazienti.

Alla porta, troppo angusta, la folla si fermava, incalzata dalle proteste di quelli che si trovavano all’ultimo e che non sapevano dell’intoppo.

— Ohè! che s’aspetta laggiù?

— S’esce o non s’esce?

— È mortorio.

— S’è arrenata la barca.

I due compari si trovavano vicini, un urtone arrivò dall’ultima fila e li spinse l’uno sull’altro.

— Mannaggia! — fece Tore, voltandosi.

— Vi siete fatto male? — chiese Vito.

— È niente, — rispose lui. E sorridendo soggiunse: — Voi poi m’avete voluto confondere….

— Ih! — disse Vito, sorridendo anche lui.

— Una cosa mi dispiace, che ci siamo trovati così ieri e abbiamo fatto ridere la gente….

— Quello che è stato è stato, — fece per dire Vito, quando un altro urtone più violento lo spinse fuori.

Nella strada, all’aria frizzante che dava loro dei piccoli brividi di freddo, s’aspettarono, guardando in su che tempo facesse. Nel cielo sereno, d’un azzurro cupo tutto uguale, delle stelle grosse come il pugno s’accendevano di bagliori di luce elettrica.

I lumi a gasse che imbiancavano, messi in giro sotto la tettoia, la facciata povera del teatrino, innanzi, nella strada sporca, mettevano una larga macchia d’ombra. Delle donne vi ronzavano, lentamente, dondolandosi, trascinando le ciabatte con un romore secco di tacchi. Rasentavano la fila chiassosa delle carrozzelle, evitando la luce chiara dei fanali che segnava a terra una fascia luminosa ove le loro ombre arrivavano, allungandosi grottescamente.

La mezza oscurità della piazza le compiaceva: s’accostavano daccapo alle carrozze, vi si fermavano dietro, immobili, aspettando. Qualcuna, le mani nelle saccocce del grembiale corto, sbadigliava, guardandosi attorno con occhiate lente, piene di stanchezza. E dopo aver fatta dieci volte la stessa strada si fermava di colpo, istupidita dall’abitudine, mentre passandole accosto, le compagne si lagnavano, a voce alta, con frasi sconce d’aspettativa insoddisfatta.

Una che abbandonava un crocchio di soldati allegri, canticchiando, le mani strette dietro sul dosso, s’accostò a Tore. E come lui faceva le viste di non accorgersi, essa, lievemente, lo urtò col gomito, guardandolo.

— Sentite…. — mormorò.

Allora tutti e due si volsero; l’invito li metteva in un’allegria di giovinotti. Ma senza darle retta, lasciandola lì disillusa, s’allontanarono, ridendo, urtandosi, inciampando nei mucchi di spazzatura.

— Che voleva, che voleva? — fece Vito.

L’altro, si guardava addietro: gli pareva d’averla ancora alle spalle.

— E che so io?

Nella piazza si fermarono, ridendo sempre senza sapere perchè. Tore che aveva infilato il suo sotto al braccio del compare, volle ritrarlo, ma l’altro lo trattenne.

— E dove andate ora?

Tore fece spallucce.

— E voi?

— Io? — disse Vito.

E si guardò innanzi, cercando. La vita rumorosa della strada, il chiasso comico dei venditori, le luminarie delle bottegucce ambulanti solleticavano in loro un timido desiderio di muoversi, d’entrare nel grande strepito, di parteciparvi.

Infine Vito si decise.

— Senz’offesa, se bevessimo un bicchiere di quello che pizzica la lingua, da Totonno? Stanotte voglio fare tutta una dormita….

— Privo di Dio, voi me l’avete tolto di bocca! — approvò Tore.

E gli rimase attaccato al braccio, mentre s’avviavano, trascinandosi. Ora la contentezza li esaltava; non si sarebbero divisi mai più! Che ragazzata l’affare dell’altro giorno! Ah! Ma si sapeva che sarebbe finita così, si sapeva. Al Sebeto c’erano andati apposta, per far la pace, che a quel modo non avrebbero potuto tirarla a lungo, col muso lungo. Ai ragazzi, poi, a casa avrebbero fatta la predica, e se fiatassero botte a occhi chiusi. O che volevano metter fuoco all’erba verde, volevano?

Allo sbocco d’un vicolo, Tore che nei panni non c’entrava più, coi settant’anni che aveva addosso si mise a cantare:

Quanto so’ belle

‘e femmene ‘e vascio Puorto!…

L’altro si sbellicava dal gran ridere, buttandosegli addosso a ogni passo.

A un tratto si fermò e gli strinse il braccio.

Nel vicolo, lontano trenta passi, c’era la Nannina che chiacchierava con Tetillo, sotto un fanale. La ragazza interrogava, coi pugni nei fianchi; l’uomo la persuadeva a poco a poco, spingendola, dolcemente, facendo atto colle mani che non se ne parlasse più. Poi, assieme, come se si fossero rappattumati, risalirono il vicolo.

I due, immobili, senza fiatare, rimanevano lì, sotto un muro.

Si guardarono, in silenzio, stupefatti.

— Salute! — mormorò Tore.

Dirimpetto la cantina spalancata li chiamava. Ah, che chiasso di bevitori allegri, e che odore fresco di vino riempiva il vicolo deserto! Dentro si suonava; degli accordi di mandolino accompagnati da una voce acuta di giovinetta rompevano il vocìo confuso.

— Favorite! — disse Vito al compare, sotto la porta.

— Oh! signori miei! — esclamò il bettoliere come li vide entrare. — Bravo! Bravo! Così vi voglio!