Tacevano quelle due donne, sul ballatoio del terzo piano, come se meditassero sulle ultime loro parole. Ancora la narratrice, Rosa Bellavita, sospirava, conserte le braccia, le labbra strette, lo sguardo doloroso perduto nel vuoto. Donna Fortunata Marino pensava alla confidenza che le era stata fatta, e dalla balaustra non levava gli occhi intenti, e batteva leggermente col manico del ventaglio nella mano spiegata, ricca d’anelli.
— Ditemi voi, — ruppe il silenzio quell’altra, — consigliatemi voi, per l’amore che portate alle vostre creature. Vi pare vita, la mia, che possa continuare a questo modo?
— È una pena…. — mormorò la Marino, compassionando.
— E dite. Che posso fare?
Quella cercava nel copioso corredo di consigli che aveva pronti per tutte le occorrenze.
Il ventaglio chiuso seguitava a picchiar nella mano.
— Gesù! — esclamò improvvisamente. — Sentite voi che cattivo odore?
Rosa Bellavita, con gli occhi lagrimosi, si volse intorno, fiutando, per conoscere di dove l’odore venisse. La Marino, vinta dalla nausea, stringeva tra il pollice e l’indice le pinne nasali e torceva il muso.
— Lo sentite?
Allora Rosa s’affacciò sulla balaustra, guardò in giù, al terzo piano. Là, in un angolo, si ammonticchiavano rifiuti d’ogni sorta, su’ quali roteava un nugolo di mosche avide, in attesa che fossero sazie le prime arrivate. Il caldo era forte; da quelle immondizie saliva un lezzo di lische in putrefazione, di rimasugli di pesce fradicio.
— Gesù! — fece Rosa.
— Sono i Gambardella, della Pietra del Pesce. Mangiano pesce ogni giorno. Siccome l’hanno per niente!
— Donna Fortunata mia, chi ci pensa? Io? Or voi li conoscete i guai miei. Non capisco più nulla, ho perso financo il sapore del pane!
La Marino si faceva vento. Un fiocco di velo crespo le si gonfiava sul petto, sotto la gola. Rosa Bellavita, in gonnella e ciabatte, con una mano sulla chiave che veniva fuori, per la toppa, dall’uscio, con l’altra che frugava nella saccoccia del grembiale tra gli spiccioli e il ditaletto, lo sguardo chino, aspettava. Incombeva intorno il grave silenzio meridiano, disotto taceva la strada. Soltanto un sommesso chiacchierio passava tra le stecche d’una persiana, di rimpetto al finestrone del ballatoio: un parlottio di femmine in confidenze.
— Chi vi confessa? — chiese subitamente la Marino.
Si voltava ad affisare Rosa. Il ventaglio spiegato or ella si premeva sul petto.
— Padre Bonaventura al Carmine.
— Ah, padre Bonaventura! Quello de’ buoni numeri…. E glielo avete detto a padre Bonaventura?
— Credete? No; vi devo dire la verità: ho avuto vergogna….
— Brava! Come se foste voi quella tale! — esclamò la Marino.
Tornava a farsi vento.
— Questo è il consiglio che vi do. Sentite l’uomo di Dio, che di cose simili è pratico e sa come vanno accomodate.
— E sia, voglio sentirvi. Domani vado a consultare padre Bonaventura. Me gli confido sotto suggello di confessione.
L’altra seguitava a farsi vento, approvando con gli occhi socchiusi, con tentennamenti del capo. Era sul punto di licenziarsi quando la Bellavita lasciò star la chiave, fece un passo e le agguantò il braccio.
— Se questo succedesse a voi, dite, donna Fortunata, innanzi a Dio, che ci vede e ci sente!
— Be’?
— Che fareste, voi?
— Io?
Impreparata, taceva. Poi chiuse il ventaglio, battè col piede sull’ammattonato, si fregò le mani come se le prudessero.
— Eh? Che farei? Voi dite, che farei?
— Che fareste?
— Me lo mangerei vivo! — strillò, levando le mani in faccia alla Bellavita, come minacciandola. — Vivo, vivo! Ma voi, non siete buona a nulla, e lui vi mangerà gli occhi per fare piacere a quella grandissima….
Si battè quattro dita sul muso, e borbottò: — Uh, uh! — e guardò in cielo, come per dire: «Cielo, chiudimi la bocca!»
L’altra torceva il grembiale, nervosamente,
— Avete ragione, — mormorò.
— Eh! — ammoniva la Marino. — Chi prima non ci pensa….
— …. dopo si pente, è vero.
— E arrivederci. Dio vi dia forza. Raccomandatevi a lui.
— Buona giornata, — sospirò la Bellavita.
Fortunata Marino scese le scale raccogliendo lo strascico della veste di seta, mettendo sotto il naso un moccichino dall’orlo ricamato. Sul ballatoio del terzo piano, in cospetto della spazzatura ammonticchiata, una repugnanza la trattenne. La nausea le turbava lo stomaco: era incinta, per giunta.
— Arrivederci, — faceva di sopra la Bellavita, sporta dalla balaustra.
La Marino levò il capo, levò la mano, salutando con gli occhi amichevoli e col ventaglio.
Malinconicamente la Bellavita rientrò in casa. L’uscio che si tirò dietro le si chiuse alle spalle senza romore, avendo ella, poco prima, unta d’olio la linguetta della toppa. Di dentro, tra la porta di strada e quella pur chiusa d’una stanzuccia attigua, si fece una silenziosa oscurità. Rosa Bellavita, ritta, invogliata dalla solitudine, vi singhiozzava e si seguivano le lagrime copiose, le rigavano tepide la faccia, mentre lei cercava a tentoni il muro di rimpetto, e vi poggiava la fronte, vi poggiava le palme, nell’atto infantile d’una bimba stizzosa.
— Ah! Madonna! Ah! Sant’Anna mia! Che m’avete fatto!
Le gambe non le reggevano, tutta quella amarezza la disfaceva. Seguitando a piangere ella prima cadde ginocchioni, con la faccia rivolta al muro, poi lungo il muro scivolò abbandonandosi, cercando per terra, nel gran dolore, la comodità della disperazione.
— Vuoi star fresca! — intanto mormorava Fortunata Marino, per la via. — Sei troppo stupida!
La Bellavita, stesa lunga per terra, si lamentava pianamente, come una donna ferita. Vi fu un momento in cui la propizia posizione le fece venir voglia di sonno. Il lamento s’affievoliva, s’interrompeva a tratti, per poi presto ricominciare: qualche singhiozzo le faceva staccare con un soprassalto, di tanto in tanto, il petto copioso dal pavimento, e le scoteva tutto il busto.
Era, nell’ora meridiana, così alto il silenzio che ogni più piccolo romore suonava a doppio; salivano le voci per la tranquillità della scala distintamente, saliva persino un mormorio di persone raccolte al primo piano, a ciarlare. Come, tra il pianto e il sonno, la Bellavita dava orecchio alle vicende della scala, le parve a un tratto di riconoscere le voci. Puntò le mani sul pavimento, sollevò a fatica da quell’abbandono il corpo grassottello, terse in fretta le lacrime e aprì la porta. Il sole affacciandosi dentro, pel finestrone, metteva sul ballatoio un gran dado giallo sul quale era mollemente steso il gatto dei Gambardella, con gli occhi chiusi, come morto. Comparendo la Bellavita il gatto si rizzò lento, senza paura, e se ne andò, soffermandosi a mezzo la scala per voltarsi a guardarla, con una queta attenzione di bestia curiosa.
— Salvatore! — chiamò la Bellavita, di su la balaustra.
Nessuno rispose. Anzi quelle voci, laggiù, si tacquero. Ma dopo un silenzio suonarono passi maschili nel cortiletto. Saliva certamente un uomo.
La Bellavita tornò a chiamare
— Salvatore!… Salvatore!…
E aspettò, con gli occhi che avidamente esploravano le tortuosità della scala, col petto tormentato dal legno del parapetto. Saliva qualcuno. Ella intravide qualcuno ove l’ultima tesa della scala svoltava; un uomo era, certo.
— Salvato’! — ripetette a bassa voce, mentre appariva infine quell’uomo sul ballatoio del terzo piano.
Invece era costui Pasqualino Offretelli, lo studente di medicina del quinto piano, un piccolo bruno, molto pulito. Saliva con fra mani un rotoletto di quaderni, fumando la sigaretta, lietissimo. Aveva compiuto il suo primo esame felicemente, e pensava compiaciuto alla nessuna difficoltà de’ quesiti, alla bonarietà di un de’ professori, che gli aveva battuto familiarmente con la mano sulla spalla, tra una dimanda e l’altra, felicitandolo.
— Scusate…. — balbettò donna Rosa.
Un lieve rossore le saliva alle gote, sulle quali ancora lucevano i solchi delle lacrime. Ella si provava a sorridere, tirandosi indietro per lasciarlo passare, nascondendo i piedi nudi nelle pantofole, come poteva.
— Vi avevo preso per Salvatore….
— Vostro marito Salvatore? — fece lui sul ballatoio, ancora ansimando per la lunghezza della scala, afferrato con la mano al bastone della balaustra.
Ristette un momento a contemplarla, incantato. Come mai non aveva notata questa Bellavita nel palazzetto, da un anno? Questa bella bionda grassottella!
— Vostro marito Salvatore? — ripetette, trattenendola con la dimanda, mentr’ella retrocedeva.
Rosa Bellavita si fermò.
Interrogava con gli occhi ansiosi, con la bocca schiusa, tremante.
Lo studente si grattò il cocuzzolo con l’unghia lunga e pulita del medio, e torse il muso.
— Ve lo devo dire? — arrischiò, levando gli occhi dal pavimento.
— Dite, dite! — proruppe la Bellavita, dimenticandosi. — Dove l’avete visto? Solo lo avete visto? Non era proprio lui, quaggiù, poco fa?
Pasqualino sorrideva, acconsentendo, muto. La Bellavita gli si fece addosso, gli afferrò il braccio. Lui sentì quell’alito piacevole sulla faccia, sentì tentato il suo dalla soda rotondità del braccio di lei.
— Con chi era? — ella chiedeva, convulsa.
— Non qui, — mormorò lo studente, — qualcuno potrebbe salire…. non qui….
— Dite…. dite!…
— Ma non qui….
Allora la Bellavita se lo trascinò in casa pel braccio, come fa una madre col figliuolo.
Sulla soglia l’Offretelli resistette ancora, irresoluto.
— Aspettate….
— Venite, venite! — gli fece, con un’ultima strappannata.
Allora lui rinserrò alle spalle la porta e si trovò con la Bellavita nella oscurità.
— Ditemi tutto, tutto! Sedete qua, parlate, ora nessuno ci ode….
L’Offretelli, sospinto, cadde a sedere su di un divanuccio che gli si allungava dietro le gambe. Erano nella camera da pranzo. Un odore di aceto vi si spandeva, poichè, poco prima, la Bellavita ne avea conciata un’insalata di cetrioli. Del balcone erano chiusi gli scuri, ma un lume sottile trapelava per la fenditura, un filo giallino s’allungava sul pavimento.
— Dite, dite!… — chiedeva lei, stringendosegli tutta accosto.
— Bene, quand’è così….
La Bellavita gli accennava che continuasse. Il seno le si sollevava a balzi.
— Ho visto vostro marito Salvatore con una…. capite? Con una di quelle che noialtri giovanotti….
Rosa si torceva le mani. Non poteva parlare.
— Due lire, — mormorò lo studente, per dir tutto.
Ella mise un piccolo grido e si rovesciò in dietro, con le mani sulla faccia. Un singhiozzo le rompeva la voce.
— Alta?… Nera di capelli?…
— Alta, sì, nera. Brutta.
Rosa ruppe in un pianto dirotto, abbandonandosi sul divano, mordendosi le piccole mani pienotte, con una furia di bambina in convulsione.
— Oh! oh! oh! — singhiozzava.
— Non vi mordete le mani! — disse l’Offretelli. — Lasciate stare, sentite, se avessi saputo….
Si chinava sopra di lei, le afferrava i polsi tra la paura che davvero ella si facesse male e la dolcezza del contatto. Quasi sotto il suo quel corpo caldo palpitava, vestito appena della gonnella e della camiciola. Pervenne finalmente a strapparle le mani dalla bocca, che nell’impeto rimase aperta, vogliosa ancora di mordere, con le labbra frementi. Ella piangeva, riversa. Lo studente le guardò una mano, nella penombra. I denti vi lasciavano un’impronta circolare, violacea, tra un luccicore di saliva. Egli, perduto, baciò la mano a quel posto, implorando:
— Non vi fate male…. Non vi mordete!…
Si faceva un silenzio. Nessun romore saliva dalla strada, tranne, improvvisamente, l’eco metallica d’un martello di fabbro ferraio, che batteva a cadenza sull’incudine. Vibrava lungamente l’incudine, colta all’estremità, e una voce accompagnava i colpi. Subitamente l’Offretelli fu acceso da una voglia brusca, irresistibile, in quel calore afoso della stanza, sulla complice mollezza del divano di sargia verde. Cominciò a baciar da per tutto quella femmina discinta: sui capelli, sulla faccia bagnata dalle lacrime, presso l’orecchia, furioso. Ella da prima lasciò fare, singhiozzando, senza respingerlo.
Nell’abbandono una gamba le pendeva lungo il divano, scossa da nervosi trasalimenti. Il piè nudo, ond’era scivolata la pantofola, sfiorava il pavimento, e si torceva.
— No…. no!… — singhiozzava la Bellavita. — Questo no…. questo mai….
Tentò di risollevarsi, tra la foga irrefrenata del pianto. Si afferrò con le braccia al collo dello studente, e fu peggio.
— Questo no…. — balbettava ancora.
Ma così pianamente che le parole furono un soffio. Si rifece il silenzio. Un moscone ronzò per la stanzuccia dando del capo nelle imposte del balcone, cercando di penetrare per lo schiuso. Daccapo risuonò il tintinnio dell’incudine, ma questa volta senza la voce compagna. Il mistero del momento, nella penombra, fu breve e concitato; il singhiozzo continuava, in un susurro di parole mozze.
Or egli, ritto innanzi a lei, contemplava imbarazzato la Bellavita, vinta. Non sapeva che dirle. Ma pur gli occhi accesi frugavano ancora tra il disordine biancheggiante delle gonnelle, avidamente. Ella taceva. Allora le si chinò sul petto anelante, le accarezzò teneramente i capelli umidi, appiccicati alle tempie. Ma subito la Bellavita si rizzò sul divano, respinse come spaventata questa intimità, nella quale lui, mormorando, le dava del tu, inebriato dal caldo profumo che si sprigionava da quel corpo caldo, dai capelli di lei, dalla bocca odorosa di lei, supina.
— Via! via!… Andate via!…
Tremava da capo a piedi. Pareva che a momenti qualche violenta convulsione dovesse rigettarla sul divanuccio, ch’era lì a imbarazzarli, sotto gli occhi loro, come se volesse parlare….
Invano egli cercava qualche scusa, una buona parola che li riavvicinasse. Non trovò nulla. Non ardiva nemmanco guardarla.
Allora la Bellavita, macchinalmente, andò al balcone, e aperse le imposte. Una luce abbagliante empì la stanza. Ronzava ancora il moscone su per la vetrata.
— Oramai è fatto, — balbettò l’Offretelli, come la sentiva ancora singhiozzare.
— Se l’ho fatto…. — piagnucolò donna Rosa, — è stato perchè lui l’ha fatta a me….
Vi fu un silenzio. Ripetette dopo un momento:
— Lui a me e io a lui…. Ben gli sta…. Lui a me, io a lui!
L’Offretelli pigliava la via della porta, lento e silenzioso, senza aver coraggio di voltarsi. Mise la mano sul lucchetto, aprì la porta. Un singhiozzo lo perseguitò fin là presso. La voce della Bellavita, rotta dalla commozione, pianse daccapo, mentre l’uscio si chiudeva.
— Lui a me…. E lo a lui…. E io a lui….
In tre salti lo studente fece la prima tesa della scala, e si fermò a pigliar fiato sul ballatoio superiore. Di lì sporse il capo, guardando in giù l’uscio, chiuso, della Bellavita.
— Per Cristo! — mormorò. — Pare una farsa!
Tutto rosso e sudato, col cappello buttato indietro sul cocuzzolo, la cravatta di traverso, si contemplava e ricordava, stupefatto.
— E i quaderni?
Li aveva dimenticati laggiù, sul divanuccio, forse. Lasciarglieli? Mah! Ridiscendeva lentamente, indeciso. Di fronte all’uscio della Bellavita s’indugiò, tentando con le dita irresolute la corda del campanello.
Certo ella piangeva ancora, quella stupida, si lamentava ancora! Accostò l’orecchio al buco della toppa. Proprio; piangeva ancora. Nella pace della stanza, subitamente, mentr’egli origliava, risuonò un piccolo grido angoscioso, che fu seguito da un singhiozzare a schianti. Lo studente lasciò star la cordicella e tornò addietro in punta di piedi.
— Ci ho persi i quaderni. — mormorava per la scala silenziosa. — Già, sempre qualcosa ci si rimette. È destino, è destino! E io ci ho rimessi i quaderni….