Ella avea scritto con la sua calligrafia timida, con l’ingenuità delle sgrammaticature e delle sconcordanze, sopra un piccolo foglietto roseo, con l’inchiostro annacquato del quale si serviva suo padre per firmare le ricevute agl’inquilini. La lettera era molto sentita; de’ rimpianti confusi a tenerezze malinconiche, delle vaghe apprensioni, delle speranze arrischiate timidamente. A un punto diceva: «Io prego ogni sera prima di mettermi a letto, prego tutti i santi del Paradiso perchè si muovano una buona volta a pietà di me sventurata. Non so a chi confidarmi. Se mia madre, buon’anima, fosse viva me le sarei gettata al collo, le avrei detto tutto. Ah! Carlo mio! Vi sono certi momenti in cui maledico quel giorno che ti conobbi! Ma non impensierirti. Io t’amo sempre, più di me, più di mio padre, più della mia povera mamma morta. E di questo ho un rimorso, una spina nel cuore; mi considero come una grande peccatrice. Carlo mio, tu solo mi sei rimasto!…» Più in là erano confidenze intime, tra le quali, lo si vedeva dalla forma impacciata e sconnessa, correva un rossore di fanciulla pudica a cui, nello scrivere, la penna avea dovuto tremare fra mano. Una parola era addirittura cancellata da una lagrima, un’altra non finiva, spezzata forse da un singhiozzo improvviso che la dimenticava lì, in fondo alla letterina. «Vediamoci, — era scritto sulla seconda paginetta, — io ti voglio vedere. A voce debbo dirli tante cose che non posso affidare alla carta. Io uscirò sola, oggi alle tre; ho detto che andavo dalla sarta. Mio padre guarda il letto con un reuma alla spalla. Non c’è nessuna paura. Questo è l’appuntamento: Io alle tre entrerò nella chiesa di San Giovanni a Mare, e vi rimarrò dieci minuti. Fatti trovare quando esco, sul marciapiedi, accosto alla fontana. Spero che verrai. Mi sento una malinconia nell’anima, una stretta allo stomaco. Piglieremo un po’ d’aria. Vieni, vieni, per carità! Mandami la risposta per la bambina».
Egli ebbe la lettera a mezzogiorno. La lesse sotto alla porta aperta, innanzi alla servetta che aspettava china sulla balaustra della scaletta, tirando delle bucce d’arance a un cane nel cortile. La lesse sorvolando, distrattamente, senza quasi preoccuparsene. La rimise nella busta, cacciò tutto in saccoccia e dette due soldi alla bambina.
— Che debbo dire? — chiese costei.
— Va bene, — rispose, — dille che restiamo intesi.
Chiuse la porta e s’avviò nella sua camera, lentamente. Si mise a sedere in una grande poltrona nell’angolo d’un balconcello. Puntò i piedi al muro di faccia, stendendosi; mise fuori un’altra volta la lettera e la rilesse con maggiore attenzione.
Il sole entrava nella stanzetta gaia e pulita; una striscia gialla si stendeva sul letto passando sulla coverta rossa di lana lieve, risalendo a una delle colonnine bronzate, appiedi. I mobili in giro lucevano di nettezze scrupolose; certo a toglierne via così accuratamente la polvere, a ripassare lo spazzolino nelle intarsiature, c’era voluta la mano amorosa e paziente del padrone. L’acqua era fresca in un vasetto di fiori posto in mezzo a due figure di terra cotta, sul canterano di legno di noce a balaustra. Fra il canterano ed una scrivania, ove tutto era in ordine, dalla carta sugante sino allo scatolino delle penne, si stendeva un divanetto a spalliera. Per terra, innanzi al divanetto, un tappetino rosso e nero a dadi. Le pareti, rallegrate da un parato a fiori azzurri e giallognoli, si coprivano qua e là di incisioni e di fotografie. Dietro alla porta, nella inquadratura di legno, una caricatura a colori. Una piccola libreria accosto al letto: in uno scaffale a tre ordini, i libri, tutti nuovi, tutti rilegati a un modo. De’ fascicoli illustrati occupavano lo spazio sotto alle tavolette per le divisioni. Innanzi al balconcello, che guardava l’inferriata lunga e la grande lanterna del molo più in là, una piccola toletta. Egli aveva appeso lo specchio a uno scuro del balcone, per farsi la barba. Nella lastra tersa si riflettevano dal porto, intricati e neri, gli alberi de’ bastimenti, immobili. I rumori della via salivano morendo sino a quel terzo piano; nel pulviscolo luminoso, ch’entrava a fasci per la vetrata, le molecole pazze, correvano, roteando.
Egli era rimasto sopra pensiero, con gli occhi sul fogliettino spiegato ove il suo sguardo si posava senza attenzione. A volte inarcava le sopracciglia in atto di chi è preso da sbalordimenti subitanei, a volte si mordeva le labbra, scotendo la testa leggermente, dall’alto in basso. Piegò le braccia a croce, chinò il capo sul petto, socchiudendo gli occhi. Pareva si volesse tutto chiudere in sè, preoccupato della gravità dell’avvenimento che esigeva delle considerazioni lunghe e profonde…. Che aveva fatto? Ah! Dio santo! Se ci pensava troppo ne ammattiva. Com’era passato il tempo, come si eran succedute le disgrazie! Lui si domandava: Come mai da un sorriso, da un’occhiata, così di sfuggita, siamo venuti a questo? E che rimedio c’era adesso?… Alla mente gli si affacciava uno scampo. Fuggire. Metter la roba nei bauli, vendere quello che non ci capiva, sloggiare di notte e non farsi veder più, nè vivo nè morto. Stupido! E la casa? E gli affari? E quello che si sarebbe detto sul conto suo? E lei, lei, quella poveretta!? No, no; mai! E intanto che fare? Ora che cosa doveva dirgli Bianchina? Perchè gli dava quell’appuntamento, di giorno, esponendosi, esponendolo? Era diventata pazza?… Cominciò a pentirsi d’aver acconsentito. Ma intanto, a pensarci, era megìio. Le avrebbe detto una buona volta che adesso bisognava finirla a ogni costo…. le avrebbe detto…. Poi le idee, i propositi s’ingarbugliavano. Tutta colpa di lui, tutta colpa di lui! Gli stava bene per Dio, gli stava bene! E intanto come rimediare?
Battè i piedi a terra, incollerito, levando minacciosamente gli occhi al soffitto, mormorando imprecazioni violente, con uno sconforto, con una irritazione che gli facevano venir le lagrime. Si mise a misurar la stanzuccia a gran passi, concitato. Si fermò innanzi alla scrivania, prese un libro di conti, lo aperse, vi guardò. Le cose non andavano male. Le tre partite di zucchero erano arrivate a New-York, il telegramma avea fatto effetto. Che peccato non pigliar via tutto! Avrebbe venduto un terzo di più. Aspettava gli stracci da Gallipoli. La commissione gli era stata data cinque giorni innanzi, quando già il mercato era pieno. Ora mancavano. Buon affare anche questo.
Si fece il conto a memoria. Il vapore avrebbe dovuto arrivare tra le cinque o le sei del giorno. Tornò al balcone, salì in piedi sopra una seggiola, guardò lungamente il mare. Quieto come l’olio. Meno male. Ci guadagnava anche il denaro dell’assicurazione.
Si fregò le mani. Corse un’altra volta alla scrivania, sedette, eseguì in fretta e furia una regola di sconto, stette un pezzetto a meditarvi, co’ gomiti sul panno scuro, la testa fra mani. Poi sopra un gran foglio azzurro di carta commerciale scrisse una lettera cifrata, dalla calligrafia bizzarramente convenzionale, piena di ghirigori. La firma pigliava da sola un terzo del foglio. Chiuse la lettera in una busta gialla bislunga, cercò un francobollo nel tiretto e lo incollò all’angolo della busta.
— E una, — mormorò, con un sospiro di soddisfazione.
Avea preparato un altro foglio. L’orologio accapo alla scrivania suonò le due e tre quarti. Egli fece un salto sulla seggiola.
— Perdio! Ho appena il tempo di vestirmi!
Lì, nella preoccupazione degli affari, dimenticava l’appuntamento. Si pettinò con molta cura, passò il piumino della cipria sulla barba rasa che gli bruciava un poco, fece e disfece tre o quattro volte il nodo alla cravatta di seta rossa a piccole righe gialline. Mise in testa il cappelluccio a tese molli, gli dette un leggero garbo sull’orecchio sinistro perchè si vedesse un po’ a destra, sulla fronte, il ricciolo naturale. Si guardò le unghie lunghe, mise la mano aperta sul petto, compiacendosene. Era molto bianca sul nero del soprabito chiuso. All’ultimo inaffiò un moccichino con acqua verdognola che aveva un profumo stufoso di muschio. Chiuse gli scuri del balcone, accese un sigaro sotto l’uscio, e scese la scaletta, canterellando a mezza voce come se andasse a spasso.
Bianchina uscì dalla chiesa dieci minuti dopo le tre, come aveva detto. Era vestita di scuro, al solito, e aveva la veletta sui cappellino. Lui passeggiava in su e in giù sul marciapiedi, fumando, guardando distrattamente le barcacce immobili, coverte di botti enormi. Se la vide accosto d’un tratto, lei gli aveva dato una leggiera gomitata, senza guardarlo. Allora si misero a camminare, in silenzio, vicini.
— Che volevi dirmi? — chiese lui, guardandola, quando furono nelle via larga della marina.
Lei parve che non avesse udito: non rispose. Poi, di colpo, quando lui pensava ad altro:
— Che volevo dirti? — esclamò. — Non lo sai? Non te l’ho scritto? Non hai capito? Ora te lo ripeto a voce. Non ne posso più. Ti pare che a questo modo si possa andar innanzi? Per chi m’hai pigliata? Di’, per chi m’hai pigliata?
— Ma che è successo?… — fece lui, accigliandosi.
E le ruppe lo sfogo sulle labbra; ella per un pezzo non seppe che rispondere, sopraffatta.
— Va bene, — disse dopo un momento, — va bene, ho torto io, ho levato troppo la voce, ma una volta, tempo fa, non m’avresti risposto così. Hai visto a che cosa son ridotta? Che vogliamo fare? Dimmelo. Almeno ch’io possa regolarmi. Debbo buttarmi giù dalla finestra? Te lo giuro sull’anima di mia madre, se vuoi far entrare la disgrazia e il disonore nella casa mia, io lo farò….
— Fossi pazza? — disse lui, pigliandole il braccio, attirandola, dolcemente.
— Andiamo via di qui, — mormorò Bianchina.
Entrarono nella Villa del Popolo, sedettero a una panca, di rimpetto al mare. Il mare aveva una tinta fortissima di azzurro, delle barche lontane biancheggiavano, con le vele tese. Passava un vaporetto, nero, correndo, con l’elica che faceva spumeggiare l’acqua. La giornata era calda; nel sole di giugno li pigliava come un torpore, sulla panca solitaria.
— Qui mi vien sonno, — disse lui, levandosi, — passeggiamo fuori.
Ella si alzò e gli tenne dietro.
— Dove andiamo ora?
— Dove vuoi, — disse lui. — Vogliamo tornare?
— Torniamo.
Ripresero la via di casa. Nessuna parola. Egli si batteva sulla coscia, col bastoncello, tenendo gli occhi a terra. Bianchina guardava qua e là, senza nessuna irrequietezza, con gli sguardi lunghi delle persone indifferenti. A volte lui si metteva a osservarla di sottecchi, meravigliato di quel silenzio. Ella aveva le labbra socchiuse; le agitava, come s’ella mormorasse qualcosa, un tremito leggero. Passando innanzi alla chiesa di San Giovanni a Mare ella vi guardò profondamente, con un sospiro. La chiesetta era chiusa; s’era seduta sugli scalini una mendicante e i suoi bimbi le gironzavano attorno.
— Signora, signora! — piagnucolò quando le passarono accosto, — la carità! La Madonna accompagni voi e il vostro sposo, signora….
Bianchina le gettò un soldo, impallidendo. Lì dentro, nella chiesuola scura e malinconica, tra le pareti coperte di voti e di quadretti, ella avea pianto, poco prima; la sua preghiera interrotta dalle lacrime forse v’aleggiava ancora.
— Che vogliamo fare ora? — disse lui, quando furono a dieci passi dal palazzetto.
— Vieni, — disse Bianchina, — accompagnami fin laggiù; debbo dirti una cosa…. vieni….
Lo avea afferrato pel braccio, se lo traeva dietro, pareva convulsa.
— Aspetta, — disse lui. — Ma che è? Dimmelo qui…. ci vedono…. perchè non hai parlato per via?
— No, no, vieni! — insisteva lei.
Quando furono nel palazzetto, presso a’ primi gradini della scala, nella penombra, lo afferrò pel soprabito, gli accostò la bocca all’orecchio, mormorando parole rotte, balbettando nella commozione. Lui si sentì sulla faccia l’alito di febbre, il respiro affannoso di lei, il sibilo de’ denti stretti fra i quali passavano le parole….
— Hai capito? — proruppe, ritta sulla scala, tremante, rossa d’emozione e di vergogna. — Hai capito? hai capito? Ora hai capito, va; questo è, questo volevo dirti!…
Egli era rimasto stupefatto, non sapeva che rispondere.
— Senti…. — mormorò.
Ma su per la scaletta ella ora fuggiva, senza voltarsi, lasciandogli la sua confessione.
— Corpo di Dio! — fece lui quando fu solo. — Ah, corpo di Dio!…
E rimase lì impalato, guardandosi le punte delle scarpe, col pugno chiuso sul bastoncello che si piegava ad arco.
Il sole arroventava quell’ora di canicola. Lontanamente uno strepito sordo di ruote, uno schioccare di fruste, un tintinnio aspro di campanelle rompevano il silenzio della via che il giorno festivo lasciava quasi deserta. L’acqua nel porto luceva come l’oro sotto ai bastimenti ancorati. E sino a Capri, perduta vagamente in un vapore luminoso, una larga striscia gialla si stendeva sul mare seminandolo di pagliuzze irrequiete.
Bianchina quando fu nella sua camera aperse la finestretta. Le mancava il respiro, aveva una stretta alla gola, l’aria le veniva meno. Sedette alla sponda del lettuccio poggiando un braccio alla spalliera, lasciando cader la testa sul braccio. Lungamente i suoi pensieri tennero dietro alla scena di poco prima. Ella, facendo uno sforzo per rimaner calma, si chiedeva che sarebbe successo, poi. Che farebbe lui? Ora glielo aveva detto, lui aveva capito; era una disgrazia immensa, irreparabile. E lei che farebbe? Lei che farebbe? Degli urli di collera e di paura le si spegnevano nella strozza: serrava le mani fortemente, torcendosele.
— Dio mio! Dio mio! — mormorò.
Ora dalla stradicciuola salivano un accordo di violino, il suono rauco d un trombone. Ella andò a guardare alla finestra. Erano quei due cantastorie, con la gobbetta che suonava la chitarra. S’erano seduti con le spalle al muro; la gobbetta aveva sotto al braccio un fascio di fogliettini sui quali era stampata la storia che stavano per narrare. Quello del trombone guardava per aria e soffiava nello strumento.
— Signori miei, — disse la gobbetta, — questa è la storia di Sant’Anna potente e del miracolo che fece.
— Fatto vero, — disse il violino cieco. — Fatto che è successo e sta scritto sui giornali. Sant’Anna miracolosa v’aiuterà….
Vi fu un preludio brevissimo, dopo il quale la gobbetta si mise a cantare con la testa indietro e la chitarra sulla pancia:
A la strada di Forcella
abitava una donzella,
con un giovin dirimpetto
si mise a amoreggiar.
Sant’Anna potente,
Nun l’avite da guardà!…
L’aria era flebile, a piccole stese lamentevoli.
Il ritornello vernacolo cambiava ad ogni quartina e, secondo gli avvenimenti della narrazione, consigliava alla santa quel che dovesse fare.
— La madre, — spiegava quello del trombone, — la madre non voleva che ci amoreggiasse, ma la figlia fu ostinata e quello che doveva succedere, successe.
La gobbetta ripigliò:
E in capo a nove mesi….
E qui il ritornello supplicava:
Sant’Anna potente,
Vuie l’avite perdunà!
— Allora, — soggiunse il trombone, mentre gli strumenti tacevano e la folla s’inteneriva, — una notte sant’Anna che fa? Apparisce in sogno alla donzella e le dice….
La gobbetta riprese a cantare:
Io mi chiamo Sant’Anna,
abito a le Padule,
portami là le cere
e vienimi a trovar….
Ora in coro, tutti e tre, intonavano l’ultimo ritornello:
Sant’Anna potente,
Sti miracoli sape fa!
Poi la gobbetta andò in giro vendendo per un soldo la storia de’ due amanti, diventati marito e moglie per virtù della santa. Sotto alla bottega il barbiere si mise a leggerla in piedi, con la moglie e le figlie attorno. Un coscritto la comprò per mandarla forse alla sua amorosa, come una promessa.
Bianchina, quando se ne andarono, richiuse la finestra e appoggiò la fronte a’ vetri, guardando ancora nella strada che si vuotava.
Una profonda amarezza le scendeva al cuore. Barcollò; si dovette afferrare a un battente della finestra per non cadere. La pigliava un capogiro, le tempie le battevano; chiuse gli occhi, li riaprì dopo un momento, lasciando il battente, affidandosi alle braccia che stendeva innanzi, facendo un passo nella camera. Arrivò sino al canterano di legno nero, sul quale una immagine della santa guardava innanzi a sè con l’occhio severo, con le labbra chiuse, impassibile.
Con le mani tremanti le accese il lumino innanzi. La santa si rischiarò. Ma la faccia rimase com’era, con la stessa piega di meditazione alle labbra fini e lunghe, con lo stesso sguardo implacabile, con le mani stecchite sul tono scuro della veste.
Ella provò a pregarla. Aveva la bocca amara, si sentiva un dolore fitto nella testa, come se le avessero stretta al cranio una cordella. Un singhiozzo convulso l’afferrava alla gola.
— Sant’Anna mia! — balbettò, — Sant’Anna mia, perdonatemi! perdonatemi!…
Aspettava; aspettava che la santa si movesse a pietà, aspettava che sorridesse, che le mormorasse qualcosa, in quel silenzio della stanzuccia, innanzi a quel raccoglimento di peccatrice compunta. Levò lo sguardo. La santa rimaneva indifferente, chiudeva l’orecchio alle sue preghiere, non aveva compassione….
— Oh! Sant’Anna mia!… — susurrò Bianchina.
E cadde lunga sul pavimento, co’ denti che le battevano, con la febbre che la bruciava sino all’ossa.