«Giusta di glorie dispensiera è morte» ha detto il poeta: o che sia presso a poco vero lo dimostra il seguente fatterello accaduto in Milano quest’inverno scorso, di cui possono far fede tutti coloro che hanno gli occhi per leggere un libro stampato.

Guai se non ci fosse la speranza che almeno sulla tua tomba il mondo ti renderà giustizia! Come potrebbero i galantuomini sopportare i titoli, gli onori, le ricchezze profuse ai furbi matricolati e ai birboni di mestiere, mentre gli onesti sdegnosi son lasciati nel cantuccio delle ragnatele, se pur non patiscono la fame e la malinconia? Come potrebbero gli artisti o gli scrittori morigerati sacrificare la vita all’ideale, al casto e magro ideale dell’arte che non si vende, mentre basta un’elegante porcheria per far di te un uomo di genio e per rendere famoso il tuo nome ai quattro punti cardinali? Ma consolatevi, o ignorati! ecco scende per voi la morte, giusta dispensiera di luce elettrica. Se non lascerete gloria e denari, vistosi monumenti e rimbombanti panegirici, immortale e invisibile sederà sulla vostra fossa la soddisfazione d’aver compiuto il proprio dovere; sul vostro capo cresceranno le simboliche ortiche, e meste circoleranno le lucertole dai glauchi occhi soavi. Detto questo, ecco il fatterello….

Quest’inverno scorso, quando più infieriva l’influenza e a Milano si moriva come muoiono le mosche ai primi freddi, tra i morti illustri che la città ebbe il dovere di rimpiangere e di portar via in fretta ci fu anche il commendatore Ugolino Cerbatti, un chimico di gran valore, membro effettivo del R. Istituto Lombardo, uno dei XL di Modena, S.c. della K.K. Ph. Ps. W.G. di Berlino e, se non sbaglio, cavaliere dell’Aquila nera, del Sole di Persia e di molti eccetera. Era insomma uno di quegli uomini illustri molto complicati, che portan via essi soli una pagina intera dell’Annuario della Pubblica Istruzione e che vanno al mondo di là vaiolati di asterischi e di onorificenze. I giornali, còlti in un momento di crisi politica e di raffreddori, non dissero quasi nulla dell’Uomo. Registrarono semplicemente con quattro righe la notizia della grave perdita tra un fatterello di cronaca e un rebus monoverbo, riportando al più i titoli sbagliati dei libri che il Cerbatti aveva scritti e anche di quelli che non aveva mai scritti. Si dette poi il caso che in quel giorno fosse mancato anche un uomo mezzo politico, certo Palamede Bottigella, ex cuoco dell’albergo Rebecchino, ex garibaldino, vicepresidente dell’associazione dei giovani di caffè, un vecchio combattente delle gloriose Cinque Giornate, che fece una spietata concorrenza all’altro morto dell’Istituto lombardo. Specialmente i fogli radicali, che non avevano una parola per il chimico illustre, profusero un barile d’inchiostro a celebrare le virtù, il disinteresse e i sensi veramente liberali del valoroso Bottigella, che in fine per la patria non si era nemmeno fatto ammazzare.

Io non spingo la mia aristocrazia intellettuale fino al punto da preferire sempre e in ogni circostanza un membro del R. Istituto lombardo a un cuoco onesto che sappia bene il suo mestiere; anzi come m’inchino ai meriti della scienza, così m’inchino ai meriti del patriotismo. Ma vorrei che la stampa davanti alle tombe fosse meno avara di carattere garamone anche verso gli uomini che fanno progredire le scienze, le lettere e le arti e che, onorando sè, onorano insieme la patria e l’umanità.

Se Chevreul non avesse scoperta la stearina, avremmo noi le candele steariche? Se Hoffmann non avesse saputo estrarre i colori d’anilina dal carbon fossile, avremmo noi i bei colori di anilina? Senza l’ingegno di un Liebig avrebbe potuto il Bottigella preparare una buona tazza di brodo e servirla calda in cinque minuti?

Questo basta a dimostrarvi che in tutti i campi dell’umana attività l’ingegno e la volontà si equivalgono, perchè da molte parti l’umanità concorre a ungere le ruote del civile progresso. Tornando al povero Comm. Cerbatti, s. c. della K. K. ecc., appena si seppe ch’egli era morto davvero, il presidente dell’Istituto, un poco influenzato e febbricitante anche lui, non potendo prender parte personalmente, scrisse al socio corrispondente professore Falci per pregarlo di voler compiacersi di rappresentare il sodalizio ai funerali del compianto collega.

Chi ha qualche cognizione di spettroscopia sa che Federico Falci è oggi uno dei più stimati cultori di questa scienza, Ma pochi sanno che strano uomo sia nelle cose ordinarie della vita e come ogni avvenimento che esca un dito da’ suoi studi basti a fargli perdere la sinderesi e a buttarlo in una tremenda confusione di spirito.

Figlio di un portinaio di casa Gambarana, venuto su a forza d’ingegno, di studio e di sussidi di carità; costretto per molti anni a vivere nella soggezione di una mezza povertà, egli ama vivere nel suo guscio, tra i suoi libri, sotto la guida e la protezione di sua sorella, una donnona grassa, ignorante, tutta esperienza, che lo veste come un abate e lo mantiene come un ragazzo. Il Falci poco o nulla sa di quel che accade nel mondo politico e nel mondo elegante: poco o nulla legge di quel che si stampa fuori de’ suoi libri e delle sue riviste irte di formole matematiche. Serafina pensa a vestirlo, a nutrirlo, a fargli la barba, a parlare, a rispondere per lui tutte le volte che cápita di trattare qualche piccolo interesse di famiglia e si persuade, l’ingenua donna, che i libri son fatti apposta per imminchionire gli uomini. Nell’animo suo la Serafina pensa che, se non ci fossero gli ignoranti a salvare il buon senso, il mondo diventerebbe in breve andare una gran gabbia di matti.

Guai se la buona Serafina non pensasse a mettere in disparte tutti i mesi qualche soldo degli stipendi del suo Taddeo, il pover’uomo, a lasciarlo fare, ingolfato a leggere e a graffiare que’ suoi libracci mezzo greci e mezzo turchi, si lascerebbe marcire la camicia indosso. Essa ha trovato apposta per lui il nome tondo di Taddeo, perchè le pare d’indicar meglio e di riassumere meglio con questo nome la bontà e la dottrina balorda di suo fratello scienziato.

Delle passioni umane, oltre i libri, il Falci non ne conosce che una, per il suo caffè nero, quel buon caffè nero un po’ lungo della Serafina, ch’egli beve caldo in una scodella larga di maiolica, come se fosse brodetto, e che lo tien alacre e sveglio tutta la notte sui libri, finchè i passeri vengono a saltellare sul davanzale e il sagrestano muove le campane della vicina chiesa.

Dato un uomo di questa natura, è facile immaginare come la preghiera del Presidente gli dovesse orribilmente seccare. Oltre alla perdita di tempo, al pigliar freddo, al bagnarsi i piedi con tutta la neve ch’era caduta in terra, bisognava vestirsi di nero, mettersi in vista, leggere un discorso…. C’era da sudar caldo e freddo per un uomo come lui! Tuttavia nella sua docile obbedienza, che in fondo si riduceva a una grande incapacità di disobbedire, per non saper che scuse pescare, per paura di mancare a un sacro dovere, per rispetto al morto, accettò la rappresentanza. La Serafina tirò fuori dall’ultimo cassettone i calzoni neri, che mandavano un acre odore di canfora e di pepe, li sciorinò all’aria; poi dalla guardaroba cavò il palamidone di panno, preparò i guanti, la camicia di bucato, il cappello a cilindro, bello lucido e spazzolato, e suggerì anche qualche idea del discorso funebre. Il povero Taddeo, così dotto come sapete, così agguerrito di spettroscopia, era un pesce fuori dell’acqua messo a trattare di argomenti in cui entrasse un poco di sentimento e di bello stile.

Col Cerbatti non si eran trovati che poche volte nella sala quasi oscura dell’Istituto e forse non gli aveva detto dodici parole in tutta la sua vita, Poco o nulla sapeva delle virtù che il morto aveva avute o avrebbe dovuto avere prima di morire, e nella sua fanciullesca ignoranza non pensava nemmeno a quel che tutti sanno, cioè che i morti hanno tutte le virtù possibili e specialmente quelle che non hanno avute. Ma la Serafina che era sempre il suo braccio diritto in tutte le contingenze, vedendolo più impicciato d’un pulcino nella stoppa, pensò d’andar lei in cerca di notizie. Uscì, cercò del bidello dell’Istituto, un suo vecchio vicino di casa, che la presentò al segretario: e dopo qualche ora tornò con un foglietto pieno di dati biografici e bibliografici che presentò al fratello dicendo:

—Eccoti il tuo morto. Gianella dice che questo tuo scienziato era un avaro dannato, che non regalava mai un soldo di mancia a nessuno; ma non è necessario che tu lo dica nel tuo elogio. Dirai anzi il contrario, che aveva le mani buche, che aiutava i poverelli. Si dicon tante bugie per i vivi, che si può dirne una anche per un morto. E a questo proposito mi ricordo d’aver conservato l’elogio che hanno stampato a Lecco, quando morì quel nostro povero zio prete, che fu un gran mangiatore di libri anche lui e che a furia di libri morì pitocco come Giobbe. Penso che ci siano lassù dei periodi che possono andar bene anche per questo avaro. Ogni paio di calze e ogni camicia vanno bene ad un morto. Del resto Gianella mi ha anche detto che il tuo scienziato era sordo come una campana; per cui gli puoi cantare anche l’Epistola che lui non sente lo stesso.

Con questi incoraggiamenti e coll’aiuto della necrologia stampata in onore dello zio prete, a furia di pestar nel calamaio colla penna, riuscì anche a Taddeo di mettere insieme trent’otto righe di belle parole non prive d’un certo suono, colla solita citazione del Foscolo: «Sol chi non lascia eredità d’affetti… Cominciava così:» Davanti a questa bara che racchiude i resti mortali del nostro compianto collega ed amico, la voce vien meno e altro non resta che di pronunciare un mesto addio a nome di quell’Istituto di cui egli fu gloria e ornamento…

E finiva coll’epifonema:—Salve, spirito eletto! tu hai finito di soffrire in questa dolorosa battaglia della vita…. (Questa frase era tolta di peso dall’elogio dello zio prete morto dopo lunga malattia d’un cancro allo stomaco) …. Valga l’esempio delle tue nobili virtù d’incitamento a tutti noi, che abbiamo imparato alla tua scuola come si possa congiungere la scienza all’ideale, la modestia alla virtù, la costanza dei propositi alla bontà indulgente dell’animo. (Tutta roba rubata allo zio prete).

* * *

Serafina trovò il discorso fin troppo bello per un avaraccio, che non dava mai un soldo di mancia a nessuno. Vestì il suo Taddeo, lo spazzolò una volta più del solito, gli accomodò la cravatta, gl’infilò i guanti neri sui diti grossi come salamini e lo buttò fuori dell’uscio che già sonavano le nove e mezza, l’ora stabilita per il trasporto.

Taddeo sceso in furia le scale e nella confusione di spirito in cui si trovava, invece di piegare a destra, nella direzione di San Giorgio, seguendo l’abitudine di tutti i giorni, voltò a sinistra verso Brera e l’Istituto. Non si accorse d’aver sbagliato, se non quando fu sulla porta del palazzo. Questo contrattempo aiutò a scombussolarlo ancor di più.

Tornò in fretta sui propri passi e col suo andare sconnesso e frettoloso che gli dava l’aria d’un barile rotolato, passò in mezzo al gran via vai delle strade, coi pensieri arruffati, masticando macchinalmente la prima frase del discorso: «Davanti a questa bara» col fastidio di chi sente dolere il dente guasto mentre sale le scale del dentista.

Non poteva quel benedetto Presidente incaricare qualche altro di questa faccenda? C’è della gente che va così volentieri ai funerali e par fatta apposta per accompagnare i defunti illustri, per far dei discorsi, per mettersi in vista come lampadari! C’è chi non manca mai al séguito d’un morto di talento, e ci tiene anzi a far sapere che c’è, a far mettere il nome sul giornale. A queste piccole fiere del dolore non manca mai chi ha da spacciare un residuo di vanità insoddisfatta. Ebbene, perchè non fanno una società di mutuo accompagnamento questi lampadari, che si accendono alla fiamma d’un illustre che se ne va, e perchè non lasciano stare in pace i poveri diavoli, che amano lavorare nel loro guscio?

In queste idee ch’egli brontolava mentalmente insieme a frasi smozzicate dell’elogio funebre, il Falci arrivò alla casa del morto, in via dei Piatti; ma sentì che il morto era già partito.

Voltò subito ancora più sconcertato verso la chiesa di S. Giorgio, e visto sulla porta di questa un nomo vestito di rosso, lo scaccino, gli domandò:—Il morto? voglio dire il Commendatore?

—Eh, eh!…—rispose lo scaccino, tagliando l’aria colla mano, per significare:—A quest’ora è già in paradiso.—Però se imbocca San Sisto e infila Santa Marta, in dieci minuti lo può raggiungere…. È un funeralone, non può sbagliare.

Lo scaccino parlava ancora che già il nostro Taddeo imboccava San Sisto e infilava Santa Marta: di là scendeva verso la piazza del Castello: e finalmente, giunto nelle vicinanze della chiesuola detta della Madonnina, gli parve di vedere il suo morto, cioè una gran folla nera che si addensava dietro un carro alto coperto di fiori, nella nebbia di quella giornata bigia di febbraio. E non aveva ancora raggiunto il corteo che risonò in lontananza una malinconica marcia funebre, che dopo aver messo anche il nostro Taddeo al passo cadenzato delle meste circostanze, lo commosse un pochino. Quei clarinetti parevano gemere sulla vanità delle glorie umane….. Ma! Taddeo si asciugò la fronte (era stata una bella corsa!) si mise in coda anche lui in mezzo ai poveri, e lentamente, quanto fu lunga quell’eterna strada, seguitò il suo morto, badando a schivare il fango e le pozze d’acqua.

Al cimitero monumentale, (così detto perchè ci sono dei brutti monumenti) il feretro fu deposto sotto un portico praticabile alle correnti d’aria e ai dolori reumatici e venne subito circondato dalle rappresentanze e da molte bandiere. Il prof. Falci, agitando il suo foglietto, cercò di farsi strada in mezzo ai dolenti, finchè trovò un buon parente, meno dolente degli altri, che lo fece passare mentre già si recitava un discorso. Il nostro amico un po’ per la distanza, un po’ per il bisbiglio, un altro po’ per la confusione e per la soggezione, non afferrò di quel primo discorso che qualche frase più sonora, come…. patrie battaglie…. sentimenti liberali… principii immortali della democrazia….

Queste parole e lo sfoggio di molte bandiere e di molti petti sfolgoranti di medaglie avrebbero dovuto dirgli che non era roba di chimica e d’Istituto. Ma il suo cuore era così immerso nelle trent’otto righe che doveva recitare al cospetto del pubblico, che se gli avessero fatto un salasso, non gli veniva una goccia di sangue. E poi non era uomo da saper distinguere tra il dolore dei dotti e quello dei valorosi patrioti: o se anche avesse saputo distinguere, tirava là sotto un’aria così maledetta, che non lasciava l’animo disposto alle sottili analisi filosofiche.

Finalmente si sentì tirato e poi sospinto da quel medesimo buon parente che l’aveva fatto passare, vide davanti a sè il suo morto, sentì il gran silenzio che lo circondava e con quel coraggio che assiste negli estremi pericoli i più disperati, cominciò anche lui con voce di clarinetto:—Davanti a questa bara….—e tirò via bel bello: e quando fu sul finire, animato da una sincera commozione, rinforzò, elevò la voce e suonò il suo finale anche lui con buona intonazione:—Valga l’esempio delle tue nobili virtù d’incitamento a tutti noi che abbiamo imparato alla tua scuola come si possa congiungere la scienza all’ideale, la modestia alla virtù, la costanza dei propositi alla bontà indulgente dell’anima….

Erano le quattro righe copiate letteralmente dall’elogio dello zio prete, che morto e sepolto da un pezzo, non poteva più risuscitare a protestare e a pretendere la roba sua.

La gente mormorò: bene, bravo. Molte mani di patrioti si allungarono a stringere la mano dell’oratore che sudato, trafelato, non vedeva innanzi a sè che una gran macchia d’inchiostro e non sentiva che il filo d’aria diacciata che gli fischiava nell’orecchio. Il buon parente con dolce violenza gli tolse di mano il manoscritto per poter unirlo alle altre necrologie, che l’Associazione dei giovani di caffè intendeva pubblicare in onore del benemerito suo vice-presidente.

Era avvenuto quel che il più fino di voi ha già capito da un pezzo.

Taddeo, tutto assorto nella paura di un discorso a fare, aveva preso un morto per un altro. Imbattutosi nel funerale dell’ex cuoco garibaldino, si era lasciato rimorchiare dalla folla e dalla banda senza pensare che a Milano non si muore mica uno per volta. Aveva seguitato il corteo e aveva recitato il suo bel discorso senz’accorgersi che il suo morto non puzzava di commendatore. E nemmeno tra gli uditori ci fu chi se ne accorse. Qual’è quel morto che non congiunge la modestia alla virtù, la costanza dei propositi alla bontà indulgente dell’anima?…. In quanto alla scienza tirata in ballo nel discorso davanti alla bara d’un cuoco, chi l’ha definita così bene questa benedetta scienza, che non si abbia mai a confondere con qualche altra cosa?

Per tutte queste ragioni il discorso del prof. Falci scritto per un chimico membro del R. Istituto, uno dei XL di Moderni, S.c. della K. K. Ph. Ph. W.G. ecc. ecc., potè servire benissimo per un cuoco garibaldino democratico: e chi lo legge oggi tra le necrologie stampate in onore di Palamede Botigella dice che è bellissimo. Anche il Secolo trovò modo di lodarlo con queste parole: «Il prof. Falci, vecchio amico del defunto, recitò un commovente discorso ispirato a sensi liberali e a idee generose…»

Taddeo è ritornato subito a’ suoi studi di Spettroscopia coll’animo sereno e tranquillo di chi ha compiuto un pio dovere verso un compianto collega. Ma devono aver riso veramente di gusto al mondo di là il Comm. Cerbatti e Palamede Bottigella, quando s’incontrarono collo zio prete…. a meno che i morti non siano gente più seria di noi.