Il Calchi venne a casa mia prima delle quattro colla carrozza e mi trovò già quasi vestito e pronto. La mattina era bellissima, fatta più per una scampagnata che non per un duello. Non abituati a levarci col sole, noi poveri redattori d’un giornale del mattino, che andiamo a letto quando canta il gallo, ci sentivamo ancora la testa piena di sonno e di nebbia; ma un bicchierino d’acquavite svizzera, che all’amico parve una cosa spiritata più che spiritosa (il Calchi è famoso per questi giochetti di parole) finì col risvegliarci.

In quattro salti scendemmo le scale e prima delle quattro e mezzo eravamo alla casa del giovine ed elegante dottor Sirchi.

Era costui un bel ragazzo laureato di fresco, sempre inappuntabile nelle sue camicie, come di rado sono i signori medici. Mezzo letterato, mezzo artista, amico dei giornalisti, quasi sempre innamorato d’una qualche contessa tisica, cercava tutte le occasioni per mettersi in vista. Quale occasione migliore d’un duello, che avrebbe fatto le spese dei discorsi di tutta la città e riempita per lo meno una colonna di cronaca? Egli prese posto nella nostra carrozza e collocò sulle ginocchia la cassettina nuova de’ suoi vergini ferri.

Davanti alla casa di Massimo trovammo l’altra carrozza. Dato un fischio «come augel per suo richiamo» si aprì una finestra al terzo piano: Massimo mise fuori la testa, ci fece un segno e cinque minuti dopo le due carrozze uscivano da Porta Vigentina.

—Come ti senti?—chiesi a Massimo ch’era salito nella mia carrozza.

—Sono grigio—borbottò.

—Che bella mattina! è di buon augurio—dissi per dir qualche cosa.

—Ho dovuto dare a intendere a mia madre che andavo a Chiasso per l’inaugurazione della ferrovia. Quella benedetta donna è sempre in sospetto quando esco di buon’ora e quando mi sente tramestare nella camera. Sono entrato a salutarla e mi ha sgridato, perchè non ho messo il panciotto bianco sotto la cravatta nera. Povera vecchia!

Massimo parlava tenendo gli occhi fissi sulla siepe, coll’aria astratta di chi parla in sogno. I manuali che in quell’ora mattutina vanno alla città, a lavorare, colla giacca di fustagno su una spalla e un pane misto sotto il braccio, si voltavano a guardar le due carrozze chiuse, che procedevano di corsa, almanaccando chi sa che romanzetto; e poi tiravan via al loro mestiere, che in fondo era migliore del nostro. Qualche ragazzaccio ci gridò; dietro: crèpa i sciori!

—Sono entrato per salutarla, ma ero forse un po’ troppo commosso. Non ho mai potuto correggere questo mio porco carattere…—Seguitò Massimo colla sua voce naturale, un poco velata e quasi affogata nella gola ampia e robusta. Quell’omone grande e grosso colla sua barba da brigante, colla sua corporatura da spaccalegna aveva un’anima più di buon papà, che non di scapolo avventuriere, di giornalista garibaldino e di focoso polemista.

Come fosse entrato a far questo maledetto mestiero si spiega coi casi della vita, che sballottano un pover’uomo come le onde un turacciolo di bottiglia. Massimo era figlio del popolo. Sua madre, ortolana del verziere, aveva sempre avuta una banca d’erbaggi in piazza di Santo Stefano, che è come chi dicesse la city delle patate e dei piselli. Scoppiata la guerra, Massimo, che cominciava a provar la voce anche lui sulla bella magiostrina, andò con Garibaldi, fu nel Tirolo, a Bezzecca, si guadagnò due medaglie, poi passò in cavalleria. Ma sempre un po’ ortolano d’animo e di maniere, si guastò presto coi superiori, che ne fecero un martire delle idee liberali. Tornato a casa, entrò in una tipografia, s’impiastricciò d’inchiostro, e siccome è detto che per fare il giornalista non è necessario saper scrivere, eccolo giornalista. Non cattivo ragazzo nel fondo, ma un poco frondeur, ebbe il suo quarto d’ora di celebrità durante il famoso processo Lobbia e fu appunto nello strascico di quelle polemiche che andò a urtare nell’onorevole Dassi, un fegatoso intransigente. Massimo osò scrivere che l’onorevole Dassi attingeva al pozzo nero dei fondi segreti, che si appoggiava alla stampa dei rettili, che era una spia della questura, anzi un questurino travestito addirittura.

Se fossero vere o false queste accuse poco importa verificare; in certi momenti ciò che importa al giornalista è che ci sia della gente disposta a credere. L’onorevole Dassi aspettò Massimo sulla soglia del Biffi, e assalendolo di sorpresa, lo cresimò sulla gota destra proprio in mezzo al maggior concorso di gente. Massimo, sempre ortolano, rispose con uno sgozzone, che mandò l’onorevole a sedersi nella vetrina del caffè! Quindi un duello a condizioni un po’ grave, come gravi erano state le provocazioni. Nella questione personale s’imperniavano molte questioni di principio e le passioni avevano bisogno di qualche sfogo. Tra le altre, un duello non poteva che far bene al nostro giornale che cominciava a calare.

L’amico accese un mezzo sigaro, che lasciò subito spegnere. Tornò ad accenderlo tre o quattro volte di fila durante il viaggio, senza voglia di fumare.

—Ho un cattivo presentimento stamattina—tornò a dire,

—Fa piacere, bambino—esclamai un po’ ruvidamente—non metterti al sentimentale. Se Dassi vuol farsi affettare come un salame, è nel suo pieno diritto.

Massimo borbottò delle oscure parole, alzando le spalle. Del resto chi può sottrarsi a certi brividi interni che ci pigliano in questi momenti, quando si va sul terreno a giocar la vita colla punta della spada? non era il caso di parlar di paura con Massimo, ma la carne vuol dir la sua ragione. Per fortuna il viaggio fu breve. Mezz’ora dopo la nostra partenza da Milano, le due carrozze si fermarono in un sito deserto, da dove si distaccava una stradicciuola lungo un canaletto, in mezzo ai pioppi.

Si discende, si prende la stradicciuola, un dopo l’altro in fila, si rasenta un muro di cinta, si picchia a un uscio, l’uscio si apre e ci troviamo in un orto pieno di pomidoro.

Di là, dopo aver attraversata una scuderia e un cortile rustico pieno di galline, ci fecero passare per gli spianati che servono al giuoco delle boccie, e dopo, per una scaletta, fino alle sale del primo piano. L’oste della Fraschetta (ch’era stato avvisato fin dalla vigilia e che ci aspettava) c’introdusse segretamente in un bel camerone dipinto grossolanamente, dal quale aveva fatto togliere le tavole che ora si vedevano addossate al muro,

—Procurino di far presto—susurrò l’uomo prudente.

All’osteria della Fraschetta famosa nella storia delle scampagnate milanesi, specialmente in primavera, quando fioriscono le mammolette e gli amori delle sartine, c’è sempre vin buono, latte fresco, buon salame, un bel giardino, delle sale pronte e molta indulgenza per tutti i peccati di gola. L’oste, il sor Fabrizio, un ometto rossiccio con una piccola virgola al posto della barba, che porta gli anellini d’oro negli orecchi, non osa rifiutar mai nulla ai signori pubblicisti che gli possono restituire il cento per uno: e se due buoni amici della stampa desiderano, come nel caso nostro, farsi un occhiello nel ventre senza molto rumore, offre dietro un modesto compenso il suo salone, purchè si faccia presto e si conservi il segreto. Non vuole però armi da fuoco che tiran gente. La spada non fa mai troppo male e permette il più delle volte ai duellanti e ai padrini di rimanere a mangiare un’insalata e una dozzina d’ova sode cotte da Iside, la più seria ragazza che Dio abbia creato per imbrogliare i conti ai signori avventori.

Quando entrammo in salone vedemmo vicino a una finestra, sotto la pittura di Guglielmo Tell che infilza il pomo, l’onorevole Dassi, i suoi due secondi e il suo dottore dalla barba solenne e dalla testa filosofica. Queste brave persone ci salutarono con un rispettoso segno del capo. L’oste chiuse l’uscio col paletto e se ne andò a far dare un fastello di fieno ai cavalli e un bicchier di vin bianco ai vetturali. Egli aveva collocato le sue sentinelle intorno alla casa, il guattero sull’uscio della cucina, la moglie sulla porticina dell’orto, Iside sulla porta della bottega colla consegna di tener a bada con ciarle, se mai capitavano, i carabinieri di ronda. Uomo prudente è colui che in una difficile circostanza sa fare in modo che le cose cattive finiscano bene e che sa tirare al suo molino la farina degli altrui spropositi. Un padre di famiglia deve avere più d’una campana nel cuore e bisogna che le lasci sonare un po’ tutte, deve chiudere un occhio a tempo, o anche due, e anche le orecchie se può. Così deve contenersi un oste che ha una bella ragazza da maritare.

Il Calchi e il cav. Magi, padrino dell’onorevole Dassi, cominciarono a contare i passi e a preparare il terreno, segnando delle righe in terra col carbone; su una tavola in fondo sotto la pittura del Guglielmo Tell che scappa dalla barca, gli altri due padrini confrontavano le sciabole, mentre i due medici nel vano d’una finestra stendevano sopra un banco pieno di mosche e di goccie secche di vino la batteria dei loro ferri chirurgici bianchi, lucenti, di cui andavano ripolendo l’acciaio fino sul panno della manica. Non mancavano le bende, il cotone fenicato e le ultime novità della fasciatura Lister.

La testa nuda e filosofica del dottor Carone faceva un forte contrasto colla zazzera chiara e ben pettinata del dottor Sirchi; ma il più bel roseo sole di settembre, entrando per la finestra, scendeva come un’aureola a illuminare e a stringere in un caldo amplesso quei benemeriti sanitari, che si sacrificavano alle cinque del mattino a beneficio dell’umanità sofferente.

Il tintinnio delle sciabole e dei bistori finì coll’irritare l’onorevole Dassi, un romagnolo impaziente che credeva d’aver aspettato fin troppo ai comodi nostri. Spadaccino di mestiero, era abituato a far presto. Entrava in giuoco colla furia scatenata di un pazzo e sia che ne dasse via, sia che ne pigliasse, voleva che non s’irritassero troppo i suoi nervi. Questa furia romagnola era il segreto di trionfi riportati contro avversari venti volte più bravi di lui.

Tirato in disparte Massimo, lo pregai sottovoce di essere paziente e pedante in principio, se voleva disarmare l’avversario della sua forza più pericolosa, la furia. Non so se Massimo mi ascoltasse o no. Indicandoci le galline che razzolavano su un mucchio di strame, uscì colla strana osservazione che le galline hanno più buon senso di noi.

—Sì, sì—dissi celiando—fin che non si lasciano spennacchiare e mettere in pentola.

—Che cosa si dà al dottore in queste occasioni?—domandò dopo un momento.

—Tu lo saprai meglio di me…

—Mi son sempre battuto senza dottori, o c’era qualche amico che si prestava per piacere. Questo giovinotto non lo conosco e mi pare anche un dottore di lusso.

—Capisci che non c’è una tariffa. Ognuno fa secondo le suo forze.

—Per esempio?

—Nel caso tuo io credo che se gli mandi una spilla infilzata in un biglietto rosso da cento, fai fin troppo. Avrai mille occasioni per rendergli un servigio.

—Ti pare proprio abbastanza?

—È giovine e si paga un poco coll’onore che gli si fa. Se scriverà un opuscolo sul modo di guarire la tosse alle pulci, gli potrai dare del distinto batteriologo sul tuo giornale.—Scherzavo per tener viva l’aria, per far ridere Massimo, che mi pareva alquanto depresso.

—Bene, se crepo, fai piacere tu… To’ la chiave. Andrai a casa mia, aprirai il cassetto del mio tavolino, troverai un libretto della Banca Popolare. Ci pensi anche alla spilla. Ci sarà da pagar l’oste, le carrozze….

—Adesso mi fai anche il testamento.—E alzando la voce come un deputato che protesta per la conculcata libertà statutaria, gridai:—Andiamo, perdio! qui si perde un tempo prezioso.

—È ciò che dicevo anch’io—grugnì l’onorevole Dassi, che si raggirava per la stanza come un leone nella gabbia. E cominciò lui a togliersi la giacchetta, il panciotto, i polsini, il colletto, come se si preparasse per andare a dormire e finì col rimboccare le maniche della camicia fin sopra i gomiti.

Allora mi avvicinai al colonnello Barconi, altro padrino del nostro avversario, per vedere se c’era ancora il mezzo di combinare una conciliazione o almeno di attenuare le condizioni dello scontro. Ma il colonnello per tutta risposta inarcò le ciglia e mi guardò strabiliato, come se gli avessi proposto di lavare la faccia alla luna. Pareva dire: Con chi parla? e si fanno sul terreno di queste proposte? e si osa farle a una persona rispettabile? a un soldato? ma in che mondo vive lei? non ha letto mai il più elementare trattato di cavalleria? non sa che ci sono dei codici stampati apposta per gli ignoranti come lei?—Tutte queste cose mi parve di leggere nell’arco delle ciglia e negli occhi sbarrati del colonnello: e non osai insistere.

Massimo si tolse lentamente la giacca. Io gli detti una mano per tirargli di dosso il panciotto, (quello che gli aveva procurato la ramanzina della mamma) e attaccai il colletto e la cravatta alla maniglia della finestra. Non volle che gli si rimboccassero le maniche, perdio non era venuto, disse, a lavare scodelle. I padrini dettero un’ultima occhiata alle sciabole, il Barconi battè le mani e gridò: in guardia!

Io non sono il Tasso e non starò quindi a descrivervi un duello. I due avversari sapevano tenere una sciabola in mano, non mancavano di coraggio, ma non erano così grandi maestri da insegnare a noi e tanto meno al colonnello qualche cosa di nuovo. Costui, a giudicare dagli occhi che faceva, dovette fremere subito nel suo cuore accademico di maestro di scherma tanto della furia sfrenata e scorretta dell’onorevole Dassi, quanto della pesantezza di mano di Massimo, che ai primi colpi cominciò a sudare come un cavallo e a soffiare come un mantice. Era stata scelta la sciabola senza guardia, buoni tutti i colpi, e il duello doveva finire soltanto quando uno dei combattenti fosse nell’impossibilità di continuare; ma i padrini erano d’accordo di non lasciar andare le cose troppo in là e d’impedire una catastrofe con una di quelle motivazioni che salvano capra e cavoli. Alla prima scalfitura che fosse toccata a Massimo o al primo riposo, noi avremmo fatto appello al cuore generoso dell’onorevole Dassi, che si contentava d’ogni piccola vittoria. Si poteva contare anche un poco sulla svogliatezza cinica del suo rivale, che quella mattina era più grigio del solito. Ma il caso volle che la lentezza di Massimo irritasse il suo avversario, che si vide impedito il primo bel colpo da un giuoco freddo e pesante.

A questo si aggiunse che il primo sfregio lungo qualche centimetro andasse a cadere proprio sull’occhio del deputato, un dito sopra il ciglio, in modo che il sangue, spruzzando come da un fontanile, gl’innondò la faccia, rigandola come una maschera e togliendogli la vista. I padrini arrestarono il duello.

Il Dassi cominciò a bestemmiare in dialetto romagnolo, non tanto per il male quanto per il dispetto di non vincere subito. Ci vollero le belle e le buone per indurlo a lasciarsi lavare il viso coll’acqua tiepida, e a lasciarsi mettere un fiocco di bambagia sulla ferita e una fascia in giro.

Quel diavolo a quattro non capiva più la ragione e tanto meno la volle intendere il colonnello, che nel suo primo aveva in giuoco la rinomanza della sua scuola. Con una eloquenza fredda e rigida, precisa come un logaritmo, il Barcone ci dimostrò che una conciliazione in queste circostanze non aveva ragione d’essere, a meno che il signor Massimo lasciasse mettere a verbale…

—Ma che verbale!—gridò Massimo inorgoglito un po’ troppo della sua fortuna; e si preparò ad attendere il secondo assalto.

Questo fu ripreso subito, prima ancora che i padrini fossero al loro posto. Massimo, avendo riscaldato il ferro e sentendosi più rianimato dall’esercizio, fece tre o quattro mosse stupende in cui brillò ancora una volta il suo vigore giovanile e la vecchia foga del volontario.

Dassi ad ogni colpo gridava come un ossesso. Lo scontro si fece vivo, ardente, bellissimo. Il deputato pagò subito il suo debito con una puntata, che Massimo cercò di parare, ma il filo della sciabola, scorrendo sul braccio, ne lacerò tutta la carne, producendo una ferita superficiale, ma per la sua ampiezza molto sanguinolenta. Il sangue, cadendo e dilatandosi nella stoffa della manica bianca di bucato, si sparse in grandi macchie che fecero comparire il danno più grave che non fosse. Bisognò fermarsi ancora.

I medici esaminarono la ferita e non trovarono che fosse tale da impedire a un uomo come il signor Massimo la continuazione del duello. Quindi la teologia cavalleresca stabilì che dopo cinque minuti di riposo si ripigliasse il terzo assalto.

Io n’ero quasi stufo e mi ricordo d’aver detto qualche parola vivace, forse senza senso, che fece sogghignare il colonnello, mentre i due dottori con una pazienza da santi e con una abilità di suora infermiera cercavano di togliere al ferito la camicia per poter lavare e dare un punto alla lacerazione. Bisognò che tagliassero la pezza col bistori. Il petto di Massimo, messo a nudo, uscì tutto a chiazze di sangue. Mentre il dottore giovine dava in fretta in fretta quattro punti alla pelle, l’altro, il barbone illustre, con una spugna passava sul corpo e andava via via spremendo il sangue in una catinella.

Proprio davvero: due suore di carità non avrebbero potuto essere più amorose di quei due buoni scienziati, che dedicavano la loro vita al bene della sofferente umanità.

Dopo aver sogghignato, il colonnello mi indicò il foglio del processo verbale, dichiarando che per conto suo si lavava le mani in quella catinella. Ho ancora nelle orecchie la sua voce fredda, acuta; e capisco che le cose si fanno o non si fanno.

Ritornati al terzo assalto, la stanchezza, l’irritazione, l’odio che esce dal sangue, dettero al duello un carattere più brutale, voglio dire meno artistico; non pareva più un duello, ma una partita a coltelli, tanto che i padrini e lo stesso Barconi dovettero farsi avanti e gridare un perdio! che ricacciò i combattenti nelle regole delle cose pulite. Ammazzarsi è nulla, ma lo si faccia con garbo, perdio! se non altro per rispetto ai medici che assistono.

Non so se i due combattenti intendessero le nostre ragioni. I poveretti avevano certi visi stravolti, certi occhi cattivi, certe bocche sguaiate, che non parevano più uomini civili. Una ferita di poco conto toccò ancora a Massimo fra la spalla destra e il collo: il Bassi ripetè il colpo con una traversata. La sciabola nel tornare dal sangue me ne spruzzò alcune goccie sullo sparato bianco della camicia. Anche il terreno era segnato di spesse orme sanguigne, che andavano allargandosi, perchè nella furia le due parti giravano, s’inseguivano, venivano a mezza lama, rendendo il terreno, dove il sangue si mescolava alla polvere del mattone, sempre più lubrico e sporco.

I padrini e i due dottori erano come affascinati da quel terribile giuoco d’armi e lo stesso Barconi non potè che ammirare, come mi confessò più tardi, una magnifica finta di Massimo, che pochi maestri, tanto della scuola napoletana come della scuola francese, avrebbero saputo eseguire con più eleganza. Il Barconi cercava allo schermitore principalmente l’eleganza. La scherma è un’arte, come la danza, come la musica, come la pittura: e il ferro bisogna saper adoperarlo come il pittore adopera il pennello, come il musico adopera la bacchetta, con grazia, con semplicità, con armonia. Peccato che sul terreno le parti non sappiano sempre mantenere il contegno che si deve…! Ma i medici dimostrano alla loro volta che lo stato patologico degli avversari ha una certa influenza, per cui l’irritazione nervosa, disturbando le disposizioni callisteniche dei soggetti, li porta ad inconscie ed atavistiche ferità brutali.

Si continuava da un poco a combattere fuori di ogni legge callistenica, quando risuonò sul pianerottolo un grido sinistro di donna e dietro al grido una voce stridula, che contrastava accanitamente colla voce fessa e turbata dell’oste; e poi si sentì un grande urto e un seguito di colpi violenti nell’uscio con un diabolico scassinamento del catenaccio. Massimo, che aveva il viso in fiamma, divenne smorto come un cadavere, mi lanciò un’occhiata supplichevole e mi comandò:—Non lasciare entrare quella donna.—Aveva riconosciuto la voce di sua madre.

La povera donna, messa in sospetto dal contegno misterioso del figlio, era discesa dal letto, aveva dalla finestra vedute le carrozze e siccome non era la prima volta che Massimo partiva per queste spedizioni, si vestì, corse, interrogò il portinaio che non seppe mentire, poi era salita in una carrozza di piazza; ma aveva perduto del tempo nell’inseguirci su qualche falso indizio. Finalmente colla furia e colla divinazione d’una madre spaventata aveva scoperto il luogo. Scese di carrozza, entrò come un fulmine nell’osteria e colla forza con cui soleva una volta muovere un cesto di castagne, prese la mano d’Iside e parlando col solo respiro, disse:—Menami dove l’ammazzano!—Iside fu quasi trascinata da quella mano di ferro ai piedi della scaletta. Dal cortile si udivano i colpi, i passi, i gridi dei combattenti. Dunque era salita, era piombata su quell’uscio dove stava il sor Fabrizio in sentinella e cominciò di fuori un altro duello. E certamente la donna colla forza che vien dalla disperazione avrebbe finito col buttare il vecchio uscio in terra, se al comando compassionevole di Massimo non fossi corso a mettere le mani sulla maniglia del catenaccio e a puntellare l’uscio colla spalla.

—Cani, cani, cani!—gridava la donna dando terribili scosse al paletto.

—Non lasciarla entrare, Cesare.—Massimo mise tanto accoramento in quel nome di Cesare, che non usava mai parlando con me, ch’io compresi tutta la grandezza della preghiera. Egli non voleva esser vile, nè sfigurare davanti agli amici, che potevano, chi sa? credere a una segreta intesa della madre col figlio; non voleva comparire brutto, osceno di sangue innanzi a lei.

Ma la donna era più forte di me. Cacciato via l’oste con un pugno terribile nel petto, si era buttata sull’uscio col vigore della sua robusta costituzione di popolana e con scosse forti da sfondare un muro non che un assito tarlato, procurava di levarlo dai cardini, sempre gridando con quella sua voce assassina:—Cani, cani, cani!—Dietro di me inferociva la battaglia; ma non era certo meno feroce la battaglia ch’io sostenevo contro quella donna pazza d’amore e di dolore.

Dovevo forse permettere che si cacciasse in mezzo alla carneficina?

Ho detto carneficina?—ho sbagliato. Tranne una volta o due, cosa di piccola importanza, il duello era stato regolarissimo e il verbale è là a disposizione di chi vuol vedere. Ma in quel momento non sapevo nemmeno io in che mondo fossi. Massimo era caduto e si rotolava in una pozza di sangue, vomitando sangue dalla bocca sull’ammattonato. Sentii che sarei caduto anch’io come uno straccio, se non mi fossi tenuto ben stretto al catenaccio e all’uscio che la vecchia tempestava coi pugni, coi calci, strillando sempre con voce lacerata dal pianto:—Cani, cani, cani!

Vi fu un gran trambusto nella sala à manger del sor Fabrizio. Il Dassi bianco come un foglio di lettera, guardava Massimo e pareva irrigidito.

I padrini e i dottori sollevarono il morente e lo portarono in uno stanzino contiguo sopra un pesto e troppo usato divano. La donna entrò in quel momento.

Com’era entrata? non so. Essa vide, capi, fece alcuni passi e cadde come un cencio in terra nel sangue. L’oste che non si aspettava una catastrofe, cominciò a correre, a chiamare, a sbuffare, a bestemmiare. Non saprei dire come portassero via anche la donna che pareva morta anche lei. Non so più nulla, come d’un brutto sogno di cui non resta nella memoria che la spaventosa impressione.

Ricordo soltanto questo: il guattero entrò con due secchi di legno e cominciò a versar abbondantemente l’acqua sul pavimento; poi con due scope padrone e guattero cominciarono a lavare il suolo di tutta la porcheria.

—Peggio che i beccai!—diceva il guattero spaventato.

—Taci, asino!—borbottò l’oste—porta della crusca.

* * *

Quindici giorni dopo mi fu consegnato in redazione il seguente biglietto:—Dichiaro d’aver ricevuto lire cento. E grazie della spilla. Dott. Sirchi.