Nel caffè detto del Paolo c’è un salottino color cioccolatta, dove molti anni fa si ritrovavano tutte le sere dalle otto alle dieci i «soliti.» Torniamo a quei tempi e cerchiamo di farle rivivere le cinque belle macchiette.

Il più vecchio di questi «soliti» è don Procolo, sopranominato nel quartiere anche il prete senz’anime, perchè non è addetto alla parocchia, ma vive d’incerti, sopra una piccola messa obbligatoria e su qualche candela, quando muore una persona di considerazione. È un povero diavolo, che porta una veste color così così, con certe maniche verdognole, con al collo di solito un fazzoletto bianco, che fa parer più lunga la barba corta, con corte unghie, parlando con poco rispetto, che taglierebbero una forbice. Ma con tutto questo, don Procopio non è un asino, tutt’altro; se avesse voluto, se non fosse stato quel gran trasandato, avrebbe potuto essere un eccellente professore di filosofia; ma le abitudini son invecchiate colle ossa e il bislacco ha seppellito il filosofo.

* * *

Don Procopio è sempre il primo a sedersi al solito tavolino, tra le sette e mezzo e le otto; e mentre il Paolo accende il gas e da un’occhiata ai giornali, il prete fa un po’ di tenera conversazione con Marianna, la vecchia gatta del caffè, alla quale porta tutte le sere o una crosta di formaggio, o una filaccia di carne, o lo pelli del salame, e non di raro qualche ossicino di pollo non tutto da buttar via.

La Marianna, appena vede qualche cosa di nero svolazzare dietro la vetrina, salta dalla cassettina dei bonbons, dove sta ronfando, e facendo arco colla schiena e arco colla coda, si sdruscia tutta sulle calze del prete, che la tien a bada un pezzo colle ciarle, prima di tirar fuori il famoso pacchettino. In quei teneri discorsi tra il prete o la Marianna, lui la chiama la sua vecchia amorosa, la sua cara golosaccia, la sua sorniona, tirandola ora per la coda, ora per la còppa, o le fa certe carezze a contropelo, che non potrebbe far di più verso la sua Nemica un Aurispa fin de siècle.

Nei giorni di solennità poi ho veduto io stesso don Procolo dividere colla micia il navicellino dolce ch’egli si regala insieme al «cappuccino» e chi sa quanto il buon vecchio sia goloso, può misurare l’estensione del sacrificio. Bisognerebbe inventare uno stile apposta per dir bene certe profondità della psiche.

Il caffè del Paolo è una bottega all’antica, che conserva una vecchia clientela di gente pia e religiosa, non vi si fa musica, non vi si vedono giornalacci. Gli specchi riquadrati in cornici di legno color zucchero brulè, hanno la vista languida: i tavolini stanno ancora come una volta su quattro gambe: su quattro gambe stanno anche gli sgabelli coperti di cuoio: tutto insomma è quadrato sull’archetipo ideale d’una tavoletta di caraca fina. I divani, rasenti al muro, sono coperti di vitello con borchiettine di ottone e in fondo, dietro il banco, cigola un armadio di noce, che il nonno del Paolo comprò per ottanta svanziche all’asta del marchese Rescalli.

È verso le sette e mezzo che la sora Peppa comincia a brontolare. La sora Peppa non è la sorella, non è la moglie del Paolo, che ha giurato di morir celibe, ma il nome di una grossa cocoma di rame, dai fianchi larghi, dal labbro sporgente che, secondo l’idea di don Procolo, aveva in quei tempi una grande somiglianza colla sora Peppa Schineardi, priora di S. Maria Segreta. Son cose, (direte) piccine di gente piccina; ma abbiamo noi forse ricevuto dal genio nostro l’incarico di costruire il Sopra-Uomo? mai più. A noi piacciono gli uomini come natura li fa, presso a poco come a don Procolo piacevano i navicellini appena usciti dal forno. Solamente procuriamo di raccogliere in questi modesti documenti qualche ultima nota della semplice bonarietà umana.

Ho detto che di giornalacci il Paolo non ne vuole in bottega, La più eretica è donna Paola, cioè la Perseveranza, che don Procolo legge volentieri, perchè vi si difende qualche volta il Rosmini. C’è l’Osservatore Cattolico la Gara degli Indovini e basta. Niente Secolaccio! niente robaccia illustrata che riporti roba poco vestita, e ciò per principio, e poi anche per rispetto ai ragazzi e alle ragazze, che vengono colle loro mammine a mangiare il caffè e panna dopo essersi confessati e comunicati.

* * *

Tra i soliti, oltre a don Procolo, viene tutte le sante sere d’inverno il signor Tazza, detto Battistone, maggiore in pensione, un avanzo di Crimea, grande grosso come una torre, celibe anche lui, già sull’invecchiare. Più sul tardi ci viene anche il Cavaliere (il nome preciso non l’ho mai saputo per colpa di questo benedetto titolo). È un uomo sui cinquant’anni, magro, pulito, grazioso, impiegato in uno dei molti uffici del Demanio, celibe anche lui. Non sempre, ma ci vien spesso l’avvocato Chiodini, che par sempre che caschi dalle nuvole o che esca da un mucchio di cenere per quel suo colore slavato, per que’ suoi occhietti cenericci, pieni di fumo, ma non senza malizia. In cause di condotta d’acqua si vuole che guadagni de’ bei denari. Anch’egli è celibe, nel senso legale della parola.

* * *

Una volta non ci mancava mai anche Carlinetto, detto ‘legrìa, sempre giovine e sempre biondo, sebbene camminasse anche lui verso l’età canonica. Carlinetto, impiegato alla Congregazione di Carità, non solo era un gran raccoglitore di francobolli e un filatelico appassionato, ma conosceva tutti i bugigattoli dove ci fosse del vin rosso potabile: talchè «i soliti» davano sempre a lui l’incarico di ordinare i pranzetti straordinari le poche volte che di primavera o d’autunno uscivano a far un po’ di baldoria in qualche osteria suburbana.

Senza Carlinetto che sapeva, dirò così, cucire le ciarle degli altri, far la rima e il calembour sulle parole, don Procolo, Battistone, il Cavaliere, il Chiodini erano come tanti organetti senza il manubrio. Carlinetto, invece, detto «‘legrìa» con quella sua faccia rossiccia da bambola, con quei suoi occhietti che ballavano dietro gli occhiali, con quel nasino corto e gobbo, col suo argento vivo che gli usciva dalle gambe, co’ suoi eh, eh, eh, eh,… che parevan la trombetta dei pompieri, avrebbe fatto ridere i tavolini del Paolo. Se poi c’era di mezzo una bottiglia di buon vino potabile, Carlinetto diventava un raggio di sole.

Una volta c’era in bottega la sora Peppa Schincardi e la fece tanto ridere, che la povera donna fu costretta a moversi: e chi conosce un poco di vista la priora capirà che cosa voglia dire far ridere una beghina come quella. Era una festività contagiosa, alle volte senza sugo. Cominciava Carlinetto a dire, per esempio:—Oggi ho mangiata la frittata eh… eh!…—E il Paolo ripeteva:—Ha mangiata la frittata eh! eh!—Poi subito don Procolo:—Tu hai mangiata la frittata…. E il Chiodini:—Egli ha mangiata la frittata… Egli altri:—Noi mangeremo la frittata….. E tutti:—Perchè non si mangia una frittata?—Si mangi una frittata…—E quando la frittata vera faceva il suo ingresso nel salottino «i soliti» ridevano a tenersi il ventre colle mani. Nessuno aveva per la testa in quel momento che un uomo possa aver sete dell’irraggiungibile o di qualche altro ideale dell’altro mondo; per la frittata non c’è di meglio che il vin bianco secco.

Ma capitò anche a Carlinetto ciò che capita quasi sempre ai ragazzi di buon cuore. Una certa signora Letizia, già sua padrona di casa, un falchetto di donna, dopo averlo tenuto sulla frasca due o tre anni per conto suo, venuta a morire improvvisamente, gli raccomandò al letto di morte due sue figliuole, Erminia e Paolina, che non avevano più nessuno al mondo. Carlinetto, preso per la punta del cuore, per quanto amasse la sua santa libertà, il solito tarocchino, la pesca nel Lambro, e quel non pensarci che è la più gran fortuna dell’uomo libero, per quanto chiudesse gli occhi al fuoco di fuori e a quel di dentro, non potè a lungo rimanere insensibile alle lagrime dell’Erminia (una bella bionda di vent’anni impiegata nei magazzini Bocconi). Tentennò un pezzo tra il sì e il no, tra il voglio e il non posso, finchè un giorno vide ch’era meglio sposarsela e cadde sulla fiamma della candela.

I «soliti» quando seppero questa grande novità, rimasero profondamente addolorati, come se avessero sentito dire che Carlinetto s’era appiccato a una finestra. Poi si sfogarono contro di lui, che non li aveva nemmeno consultati sulla scelta della corda. Si sapeva chi era stata la sora Letizia…. Don Procolo, che non usava perifrasi con nessuno, cominciò a dire ch’egli era stato un asino: che a credere alle donne uno non si salva più, fosse già nell’anticamera del paradiso: che ad impiccarsi un uomo ha sempre tempo…. Carlinetto fu per la compagnia un uomo perduto e rovinato per sempre. Per quindici giorni «i soliti» furono d’un umor tetro come la tappezzeria della bottega, e se ne accorse anche la Marittima una sera che si permise qualche insistenza colle calze del prete. Dal giorno del suo matrimonio, vale a dire da circa tre anni, Carlinetto non si era più lasciato vedere dal Paolo. Qualche volta Battistone raccontava d’averlo incontrato in Cordusio, ma non era più il Carlinetto d’una volta. Magro, colla barba lunga, coi calzoni corti….. pareva anche mal vestito. Il Cavaliere avrebbe buttata via la testa, quando ci pensava. I conti eran subito fatti: Carlinetto col suo impiego alla Congregazione, a star bene, non tirava duemila lire: e con duemila lire, a Milano, non si vive in tre, anzi in quattro, perchè allo scoccar dei nove mesi il bimbo fu pronto come una cambiale. E le bionde hanno anche dei capricci, si sa. Povero asinel povero ‘legrìa! I soliti provavano tanta rabbia, che avrebbero pianto. Chi lo vedeva brutto e malato. Chi diceva che s’era ridotto in quattro miserabili stanzette laggiù nei quartieri di porta Volta, vicino al cimitero. Chi sapeva di certo che oltre ai lavori di ufficio teneva anche i conti di un droghiere e l’amministrazione delle ossa dei Morti a S. Bernardino. Già s’intende, non più caffè, non più sigaro, non più vin bianco, non più pesca all’amo, non più tarocchino. Casa e ufficio: ufficio e casa, moglie, bimbo, fascie….. e miseria! E che cosa gli mancava a quel satanasso per vivere più felice d’un papa? Ma le donne son fatte apposta per guastare la felicità degli uomini. Il Signore—raccontava don Procolo—creò l’uomo a sua immagine e somiglianza e poi si pentì, perchè capì nella sua onniscienza che il birbone l’avrebbe bestemmiato e rinnegato. Il primo pensiero fu di ridurlo di nuovo in un pugno di fango, o di cavarne un animale meno superbo; ma questo sarebbe stato come un confessare d’aver sbagliato, e Dio, si sa, non isbaglia mai. Ebbene che cosa ha pensato il Signore per correggere il suo sproposito? Ha creata la donna e gliel’ha confitta nelle costole. La donna non è la compagna, ma la errata-corrige dell’uomo.

—Fra le altre cose—raccontava Battistone—pare che questa sora Erminia i calzoni voglia portarli lei. Comanda a bacchetta, si fa accompagnare alla messa cantata, vuole che per le dieci l’ometto sia in casa….

—È stato un asinaccio….—commentava don Procolo.

—Non saranno tutte vere le storie che si contano, ma è certo che, se Carlinetto potesse tornare a fare il quarto a tarocco, darebbe la sua metà di paradiso.

—È un asino in piedi—-andava brontolando il prete senz’anime.

—Una notte sul tardi—prese a dire una volta il Cavaliere—tornavo dal teatro Dal Verme dov’ero stato a sentire la Galletti, e venivo bel bello, come si fa, verso casa….

Il discorso fu interrotto da un gran pugno, che Battistone lasciò cadere sul tre di picche, al qual pugno segui uno schiamazzo indiavolato. Don Procolo aveva arrischiato un asso in seconda, sbagliando il conto dei tresette. Era una sera cattiva. Il Chiodini era più distratto del solito e rifiutava senz’accorgersi d’aver le mani piene di carte del gioco. Fatto un po’di silenzio, il Cavaliere riprese:—Dunque tornavo bel bello verso casa….

—-Paolo, non ci si vede stasera—gridò don Procolo, che perdeva già dodici soldi.

Battistone, che sul pranzo si lasciava sempre andare con troppa voracità, sbadigliava, masticando colla bocca aperta tutte le vocali dell’alfabeto. I soliti non erano allegri.

—E dunque, sto Carlinetto?—chiese il prete.

—L’ho incontrato tra le dodici e le dodici e mezzo, in via di S. Vincenzino, tutto imbacuccato in un soprabito d’inverno, in mutande. Eravamo ai tanti d’agosto e c’era una splendida luna.—Dove vai, a quest’ora, da queste parti?—gli domando.—Sei tu?—risponde—A mia moglie è venuta una voglia. Vuol mangiare una carota. Dice che non può dormire, se non mangia una carota. Vado a vedere se trovo un ortolano aperto…

—Oh! oh!—esclamarono i soliti.

—Che cosa vuoi? che mi nasca un figliuolo con una carota al posto del naso? le donne bisogna contentarle quando sono in certe condizioni.—Così dicendo, mi salutò e svoltò per la piazza Castello in cerca della carota.

O povero Carlinetto! Battistone che pativa mancanza di respiro, fu preso a questa storiella da un singhiozzo nervoso, che lo fece ballare un pezzo come un sacco di crusca sulle molli del divano.

Come avviene però delle cose del mondo, belle e brutte, cull’andar del tempo anche il discorso di Carlinetto cedette il posto ad altri argomenti nella solita saletta del Paolo e quasi me lo avevano dimenticato.

Ci fu nel frattempo un gran processo di assassinio, con complicazione di adulterio. Poi seguì la guerra dell’Afganistan: poi scomparve la povera Marianna senza più dare notizie di sè. Insomma Carlinetto sarebbe stato dimenticato per sempre, se la sera del diciotto dicembre, tre anni dopo il matrimonio di quell’asinaccio, Battistone non avesse domandato, spiegando un foglio sul tavolino:

—Indovinate chi mi scrive.

Nessuno era indovino.

—È Carlinetto che scrive.

—Ahi! Campane a stormo!

Tutti pensarono che il povero ragazzo venisse a invocare la misericordia dei vecchi amici.

—Sentite quel che dice: «Caro Battistone, Scrivo a te che vedi gli altri. Giovedì è il giorno di Natale e alla mia Erminia i parenti di Rho hanno regalato un bel tacchino e dodici bottiglie di moscato di Siracusa. A nome dunque di mia moglie, che ha una gran voglia di conoscervi, invito te, don Procolo, il Cavaliere e il Chiodini a farmi onore. Non andate a pensar scuse. Si pranza alle sei. L’uomo può prendere moglie senza perdere i caratteri indelebili dell’amicizia, i quali sono immarcescibili. Rispondete subito al vecchio Carlinetto detto ‘legrìa.

—Povero figliolo!—disse il prete—se la andasse a buon cuore, sarebbe il re dei re.

—Credete proprio che gli si faccia un buon servizio ad accettare?

—Siamo quattro bocche.

—E che bocche! Ma d’altra parte egli non aveva nessun obbligo d’invitarci. Gli si farebbe torto.

—Non sentite che si tratta ancora d’una voglia di sua moglie?

—Sicuro. Se la sora Erminia non vede don Procolo, le potrebbe nascere un figliuolo vestito da prete.

—-Eh! eh! oh! oh!—Fu una gran risata. La lettera di Carlinetto fece scattare un poco della vecchia allegria.

—Andiamo tutti a consolarlo, a distrarlo un po’—disse don Procolo—Forse ha bisogno di vedere la faccia degli amici, di rifarsi il sangue, povero ‘legrìa! Andiamo a liberarlo dalle fiamme del purgatorio.

Si combinò una lettera collettiva, firmata da tutti e quattro, nella quale si accettava ringraziando: e si combinò che ciascuno porterebbe qualche cosa, chi il vasetto della mostarda, chi il rosolio, chi un mazzo di fiori….

—Io gli porterò il panettone—disse il Chiodini: e si lasciarono.

Don Procolo si trascinò fino alla Canonica dove aveva uno stambugietto accanto al solaio della sagrestia. Battistone trovò che la sua Ludovina, una serva padrona piena di premura, gli aveva messo il trabiccolo in letto e stava riscaldandogli del latte col miele per ammorbidirgli la raucedine. Il Cavaliere fe’ scricchiolare le sue scarpe su per le scale: un ragazzetto gli aprì l’uscio e portò il lume in camera. Dei quattro celibi soltanto l’avvocato si perdette per distrazione nella nebbia e nell’oscurità delle viottole e non giunse a casa che verso la mezzanotte. Provò ad aprir la porta di strada, ma aveva presa la chiave della cantina in luogo della chiave giusta, così che bisognò picchiare un pezzo per svegliare il portinaio. Il quale, da uomo che non vedeva mai un soldo di buona grazia, finse d’aver il sonno duro e non si mosse se non quando il casigliano, già fuori dei gangheri, minacciò di buttarne fuori anche la porta. Finalmente s’intese uno strascico di pianelle, il portello si aprì, nello spiraglio luminoso i due uomini mugolarono quattro parole rabbiose, e tutto ricadde nel buio e nel silenzio.

—Vecchi giovinastri!—brontolò il portinaio, quando tornò sotto le coltri accanto alla sua vecchia cuffia.

* * *

Il giorno di Natale don Procolo e il Cavaliere, incontratisi sull’angolo di via Porlezza, si avviarono insieme verso la casa di Carlinetto, che dava sul fianco del teatro Dal Verme colla vista delle piante e della nebbia di piazza Castello. Il prete teneva in mano il suo vasetto di mostarda, non troppo grande, per non far torto all’ospite: e il Cavaliere aveva un pulcinella coi campanelli.

Giunti sulla soglia di una porta di assai modesta apparenza, dettero un’occhiata al numero.—È qui—ed entrarono.

Non ora un palazzo, ma una casa abbastanza pulita, col bugigattolo del portinaio, con una scaletta stretta ma chiara e con un certo odor di cuoio su tutti i pianerottoli. Fatti alcuni scalini, don Procolo si voltò verso il compagno e disse:—Non si sente odor di risotto.

Il Cavaliere, che faceva tanto bene scricchiolare, le scarpe sugli scalini, si rannicchiò nel bavero di pelo, sporse il labbro inferiore, aprì le due mani, tutte smorfie che volevan dire:—Povero diavolo!

—Ah donne, donne, donne!…—canterellò fino in cima il prete. E su e su, quando piacque a Gesù bambino, arrivarono all’uscio e sonarono. Di dentro rispose un abbaiare fesso e un gran raspar d’unghia contro la porta.

—O Gesù d’amore acceso, anche la cagnetta!—brontolò il prete.

Il Cavaliere si rannicchiò ancor di più nel pelo del bavero.

Venne ad aprire il ragazzo del fornaio, che aveva riportato qualche cosa. La voce di Carlinetto gridò dal fondo della stanza:

—Siete voi?

—Nos numerus sumus et fruges consumere nati.

—Avanti don Procolo, l’uscio in faccia. Sono occupato a voltare il bestione, che è stanco di cuocere sul fianco.

A queste parole tenne dietro un friggío di burro e un profumo delizioso, che aggiustò la coscienza frusta di don Procolo, il quale per non guastare l’avvenire si era limitato sulla colazione. Andarono avanti e si trovarono in un salottino rettangolare, addobbato con un certo buon gusto. Sul caminetto ardeva un bel focherello e gli stavano davanti alcune poltroncine coperte di una tela bigia, con bottoncini bianchi e con bracciolini freschi di ricamo all’uncinetto. Un piccolo divano appoggiato alla parete lasciava a stento il posto per un pianoforte verticale, che reggeva due candele accese. Sul camino c’era la solita specchiera, la solita pendola di bronzo, fra due campane di vetro, coi soliti fiori di pezza. Qua e là qualche fotografia, qualche cespuglio d’erba sempreverde, di lauro o di edera per far boscaglia nei luoghi più nudi; una cosettina insomma modesta, ma pulitina proprio, che lasciava intravedere la manina di buon gusto.

Al Cavaliere avvezzo al lusso grandioso di casa sua, quell’addobbo limitato di «volere e non posso» parve un altro segno della strettezza in cui s’era cacciato a vivere il povero Carlinetto; e dètte al prete un’occhiata che voleva dire ancora: povero diavolo! Il prete invece abituato a dormire in una tana, rispose con una occhiata di meraviglia. Ma come due filosofi non riuscirono ad intendersi, perchè entrò Carlinetto che finiva d’asciugarsi le mani.

Quando furono bene asciutte, stese la destra prima alla santa madre chiesa, poi agli ordini costituiti, e cominciò a ridere.

«‘Legrìa» era un uomo di mezzana statura, colla fronte piuttosto alta e bianca, con pochi capelli chiari, cogli occhi grigi, vivi, pieni di bontà. Allegro, ingenuo, incapace di star quieto colle gambe, apparteneva alla classe di quei buoni figliuoli di ingegno non molto esteso, che i grandi individualisti non possono nè tollerare nè compatire. Ma se gli mancava la potenzialità d’un cenobiarca che si mangia in uno sbadiglio l’universo, era un uomo caldo di cuore, un diligentissimo vicesegretario, un animo capace di rendere un buon servigio anche a una persona antipatica: era poi un marito modello.

—Vedeste il bestione! ha preso un abbronzato magnifico.

—Ci avrai messo, immagino, la sua bella fascia di prosciutto—domandò il prete.

—S’intende. Il prosciutto asciuga il grasso del dindo e gli dà un saporino filosofico… eh! eh!

—E nella pancia, che gli hai messo nella pancia?

—Un ripieno di salsiccia con prugne di Provenza e qualche castagna.

—Va, Carlinetto, tu sei all’altezza dei tempi. Ti ho portato un vasetto di mostarda.

—È dolce?

—Di miele… Alle signore piace il miele. È dolce come il mio cuore…—soggiunse ridendo don Procolo, che cominciava a sgranchire l’appetito nel tepore della sala e nel buon odore che veniva dalla cucina.

—Mia moglie vi prega di perdonarle, se per il momento c’è Bebi che ha bisogno di lei.

—Chi è questo Bebi?

—Il grande, il terribile Bebi.

—Quello della carota?

—No… suo fratello, Eh! eh! eh!—Carlinetto si appoggiò al pianoforte per rider meglio.—L’ho poi trovata la carota quella famosa notte—soggiunse, rivolgendosi al Cavaliere—ma ho dovuto picchiare alla porta di tre erbivendole, finchè ne trovai una più pietosa che me la buttò dalla finestra. Un orso, a cui col mio picchiare avevo rotto il sonno sul più bello, mi scagliò dal terzo piano un cavastivali, che se mi piglia giusto, mi faceva nascere una carota sulla zucca. Eh, eh, eh…

Il ridere elettrico e d’un suono metallico con cui Carlinetto accompagnò il suo racconto, cominciò a far solletico anche al cuore mal disposto dei soliti. Il Cavaliere a ridere faceva ah, ah, ah… Il prete: oh, oh, oh, mostrando tutti i denti e la immensa cavità della bocca. La ragione di questa musica la si capisce: gli organetti ritrovavano il manubrio.

—E Battistone?

—Di Battistone—disse il Cavaliere—ho da raccontarne una bellissima.

—Allora sedetevi, mentre vi preparo un bicchierino di amaro tonico di Pavia, un amaro che aguzza l’appetito come una lesina. Accostatevi al fuoco, asciugatevi i piedi.

—Battistone—ripigliò il Cavaliere—questa mattina mi mandò un biglietto con queste parole:—Siamo alle solite. Ludovina non vuole che vada a pranzo fuori di casa senza di lei. Mandami il telegramma dello zio Catarro.

—Chi è questa sora Ludovina che non vuole?—chiese Carlinetto.

—È la Perpetua, la serva padrona—brontolò il prete.

—Non ti ricordi quella contadina grassa come una pollastra, che cammina come una trottola?

—Quella di Vercurago?

—Bravo!

—E che c’entra lei per proibire al suo padrone di andar dove vuole?

—Ma…! misteri del cuore umano, caro mio….

—Le donne c’entran sempre—brontolò il prete—Le donne passano dappertutto, specialmente quando son grasse.

—Che cosa mi raccontate! Battistone, così grande, così grosso, così serio, si lascierebbe comandare da una donna di servizio…. Dunque non avremo con noi il nostro Battistone….

—Verrà, verrà, forse un po’ più tardetto, ma verrà. Ora salta in scena lo zio Catarro. Bisogna sapere che Battistone ha uno zio vecchio vecchio, più che ottuagenario, molto ricco, dal quale spera di ereditare un bel gruzzolo di denari. La Ludovina, che forse al gruzzolo ci tiene più ancora che il suo padrone, non vuole che Battistone lasci scappare nessuna occasione per mostrarsi pio, amoroso, pieno di carità verso il povero zio asmatico. Tutte le volte che il servitore dello zio Catarro (lo chiamiamo così per far presto) gli manda un telegramma d’allarme, Battistone piglia la valigia e corre a Como ad assisterlo. Così tutte le volte che le scene di gelosia della Perpetua gli fanno perdere la pazienza, mi scrive un bigliettino e io in risposta gli mando un telegramma con queste parole, per esempio:—Zio non dorme—Zio olio santo—-Zio catarro…. La serva ignorante e analfabeta, che ha una gran fede nel telegrafo, mette una camicia nella borsa e beve. Battistone fa un giro intorno alla stazione e viene a pranzo da me: poi andiamo a teatro, o si va fuori di porta, come due studenti in vacanza.

—Ah, ah, oh, oh, eh, eh…—Don Procolo si asciugò gli occhi bagnati col suo fazzolettone turchino, esclamando:—Ah vecchi giovinastri!

Quando il Cavaliere potè riprendere il fiato, continuò:—Ciò che oggi mi tiene in pensiero è che il telegramma dello zio Catarro l’ho mandato fin da mezzodì e io aspettavo Battistone non più tardi delle tre. Non vorrei che la serva si fosse messa in sospetto e avesse fiutato l’intrigo.

—E quell’animale grazioso e benigno che risponde al nome di Chiodini, perchè non si vede ancora?—chiese il padrone di casa.

—Questo l’ho incontrato un quarto d’ora fa, mentre correva a casa a cambiar le scarpe. Aveva in mano un gran panettone. Mi disse che sarebbe venuto subito.

Il campanello sonò.

* * *

Poco dopo entrò Battistone alquanto scalmanato, colle orecchie rosse, con un ombrello sotto il braccio, una valigia in mano. E fu accolto da un vivo applauso.

—Hai fatto buon viaggio? si temeva che tu avessi perduta la corsa.

—Si temeva anzi di un deragliamento, o di uno scontro ferroviario.

Carlinetto gli tolse la roba dalle mani e lo spinse verso il fuoco in mezzo agli altri due, che non cessavano di tormentarlo.

Ma in quel momento entrò l’Erminia e i tre vecchi giovinastri si schierarono in fila come i soldati. Carlinetto cominciò le presentazioni.

L’Erminia vestiva quell’abito color vino di Montevecchia che porta tutte le feste alla messa del prevosto a S. Maria alla Porta, quando la si vede raccolta nel suo gran velo nero, col libro di velluto sanguigno fra due morbidi guanti chiaretti, Al Sanctus s’inginocchia, nasconde la faccia tra le pagine della sua «Via al Cielo» e si alza poi più lieta e più rossa dopo aver pregato per i bambini, per Carlinetto e un poco anche per i suoi peccatucci veniali. Vivendo un po’ di tempo in un gran magazzino di mode, ha imparato il savoir faire di trattare colla gente e una grazietta un po’ biricchina, che le mette due fossette sulle gote e una sul mento quando ride. Ha poi dei dentini meravigliosi, bianchi e piccini come grani di riso.

Oggi per la circostanza si è messa indosso tutti i gioielli di sposa, la catena d’oro e i pizzi freschi alle maniche e al collo. I tre invitati, in fila come i soldati, fecero una bella riverenza, presero la bella manina fresca, balbettarono qualche complimento col modo confuso e goffo che usano sempre i giovinastri, quando sono sotto la suggezione di una donna di garbo. Il trattar bene colle donne, specialmente colle più belle e colle più maliziose, non è questione di coraggio, nè d’ingegno, e nemmeno d’aver studiato belle lettere. Anzi niente è più inutile per dire a una bella signora il suo sentimento quanto il sapere molte lingue. Dunque non è meraviglia se, con tutto il suo latino, anche don Procolo non sapesse trovar di meglio che la solita frase:—Ho piacere di fare la sua conoscenza…..

—E io ho piacere di conoscere i miei più tremendi rivali. Carlinetto parla sempre di loro come di antiche amorose. Fra noi dunque ci dovrebbe essere della ruggine e della gelosia, ma oggi è giorno di pace.

—Pax in terra hominibus—disse il prete.

—Et donnibus—soggiunse Carlinetto con un latino tutto suo.

Si rise ancora una volta tutti insieme. L’Erminia a ridere pareva un campanello. Carlinetto (quell’asino!) acceso in viso d’un bel porporino che tradiva tutte le sue diverse e profonde affezioni, alzando le braccia, lasciò cadere le mani aperte sulla schiena di Battistone, larga come una piazza, e gridò:—Merito proprio d’essere impiccato?—E voleva dire se per una donnina così non c’è il suo tornaconto anche a fare uno sproposito. Battistone capì l’antifona e dopo aver studiata la bella figura della padrona di casa coll’occhio dell’uomo navigato (era stato in Crimea, lui) si volse verso il camino, ruminando non so che confiteor.

Ma tutti erano curiosi di sapere com’era andata l’avventura del telegramma. Carlinetto, non volendo che si toccassero certi tasti in presenza dell’Erminia, la mandò via con un grazioso pretesto.

—Vado, vado, non son mica curiosa delle loro avventure….

—Resti, resti…—gridarono in coro.

—Che, che, che….—E ridendo, quella testolina a riccioli, immersa come in un canestrino nell’apertura fresca del colletto di pizzo, scomparve fra le pieghe della tenda. I giovinastri rimasero un poco sconcertati anche dopo, come se la bella donnina non fosse scomparsa del tutto. Qualche cosa resta sempre nell’aria dove è passata una bella donna.

—E dunque, da dove vieni, Battistone? io t’ho aspettato fino alle quattro.

—Vengo da Monza.

—Ti è toccato partire?

—La Ludovina, dopo la scenata di ieri l’altro, era in sospetto e volle accompagnarmi fino alla stazione, anzi fino al vagone, e non se ne andò se non quando vide partire il treno. A Monza son saltato giù e ho preso il tram a cavalli per ritornare a Milano.

—Ahi! ella comincia a sospettare…—osservò il Cavaliere.

—Ma infine che diritti ha questa sora Ludovina?—chiese brutalmente don Procolo.—Non la puoi buttar nel Naviglio?

—È una buona donna….—mormorò il maggiore.

—Quando la serva comanda al padrone, latet anguis in herba.

—C’è l’anguilla nell’erba…—E Carlinetto fece seguire alla sua traduzione una lunga risata… eh, eh, eh, eh… Gli altri risposero: oh, oh, ah, ah…. Il fuoco scoppiettava nel caminetto. Gli spiriti si scaldavano strofinandosi.

Il prete stava per dare a Battistone un buon consiglio, ma gli venne in mente la massima evangelica:—Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra…—E poi in queste faccende ne sa più un matto in casa sua, che un prete sul pulpito. Son le circostanze che fanno l’uomo peccatore.

Intesero una grande scampanellata. Carlinetto corse a vedere di chi fosse la manina leggiera. Ed entrò il Chiodini con un grosso cartoccio sopra una mano e nell’altra il fiocco del campanello.

—Tu hai una forza di dopo pranzo, caro mio…

—Credevo di essere a casa mia dove ho una serva sorda e bisogna sonar forte—disse l’avvocato, collocando il grosso cartoccio del panettone sopra una tavola e intascandosi sbadatamente il fiocco.—Ho voluto passar di casa a cambiare le scarpe e nella furia ho sbagliato, ho mescolate due paia. Ho calzato le due scarpe diritte e una mi fa veder le stelle. Puoi tu, Carlinetto, prestarmi una pantofola?

—Te ne posso prestar due, anima mia.

—Ti ho portato un panettone. Anche qui, guarda la mia distrazione! L’ho comperato apposta stamattina per averlo più fresco, e due volte sono uscito di casa senza ricordarmi di prenderlo nè la prima, nè la seconda volta. Per cui ho dovuto risalire una terza volta le scale al buio e quasi mi rompo il naso nello stipite dell’uscio.

—Ah vecchio giovinastro! tu hai bisogno di prender moglie.

—M’è capitata l’istessa storia ieri a conto di un cappello nuovo che mi ha portato il cappellaio, che non so più dove l’abbia ficcato. Pigliami dunque col cappello vecchio…. E fa le mie scuse alla tua signora, se vengo a tavola con una pantofola—Il Chiodini, sospinto bel bello da Carlinetto, fece il suo ingresso nel salotto, zoppicando. Fu accolto, col solito schiamazzo, I soliti perdevano la suggestione e sì credevano nella bottega del Paolo. Fecero girare il Chiodini sulla pantofola e tutti si credettero obbligati di dargli un consiglio. La distrazione non può derivare che da un abuso di applicazione. Dunque, adelante, Pedro, con iuicio…

Qualche cosa si agitò sotto la tenda, qualche cosa che non era un cagnolino.

Ne uscì un bimbo di forse due anni, con un tamburello al collo, che traballando sulle sue gambe grassottelle, disse:—Cignòli, è in taola.

—Presento Peppinotto. En avant, monsieur le general, faccia il suo dovere. Come ti ha insegnato la mamma?

Peppinotto intese che dovesse recitare la poesia del santo Natale, aprì le braccia, fece un mezzo inchino e declamò colla graziosità di chi non capisce nulla:

Co il bambin che dolme in cuna

È il Cignol del mal, del ciel….

Battistone, il reduce dalla Cernaja, non lo lasciò finire. I corpi grossi, ha dimostrato Newton, attraggono i piccini. Se lo prese in braccio e mentre don Procolo misurava al bimbo la grossezza dei polpacci dentro il cerchio delle dita, il cavaliere agitava il pulcinella dietro le spalle di Battistone.

—Tornò la signora Erminia con sua sorella Paolina, molto più giovine di lei, una ragazzona di quindici anni e mezzo, pettinata ancora alla bambina, con due trucioli castagni cascanti sugli occhi, piena di salute e di cuor contento, un po’ vergognosa e molto pacifica in tutti i suoi movimenti.

—Questa poi me la prendo io!—disse don Procolo, offrendo il braccio alla ragazza che accettò subito.

Battistone e il Cavaliere presentarono insieme il braccio all’Erminia, che li prese tutte e due.

Le scarpe del Cavaliere stridevano come nelle grandi occasioni, e Battistone, sentendo quel braccio leggero e delicato sul suo e quel profumo delicato dei capelli, non potè sottrarsi a un confronto ripugnante, Gli pareva d’aver sul braccio un panierino di fiori. Non era avvezzo a portare dei canestri così leggeri, l’ortolano!

Per andare nel salotto da pranzo dovettero traversare prima la camera da letto, che formava l’angolo della casa.

Una lucernetta nascosta da un paralume, rischiarando a mala pena il passaggio, lasciava lo sfondo nell’ombra, dove biancheggiava confusamente un padiglione bianco e luccicava qualche cornice d’oro.

—Riverenza all’altare!—disse sottovoce il prete; e Battistone, che sentiva il suo canestro sul braccio, nel traversare quel semioscuro ambiente, provò qualche cosa nell’animo, come sarebbe la paura di cadere da un gradino che non c’è.

Dalle due finestre d’angolo, che davano sulla piazza Castello, si vedevano i lampioni a gas, quasi soffocati dalla nebbia e dalla neve in un cerchio rossiccio. Le cupole bizantine del vicino teatro Dal Verme si appiattavano anch’esse nella notte, senza un respiro di luce, come la carcassa capovolta di un immane bastimento.

Il salottino da pranzo, ben rischiarato da una lampada sospesa e ben caldo, scintillava di posate di pakfond, di saliere, di bicchieri nitidi, Sopra una scansia stavano schierate dodici bottiglie di diversi autori, qualcuna col collo d’argento,

—Qui c’è odor di morto—disse don Procolo, allargando le nari al buon profumo dell’arrosto,—Gli faremo un funerale di prima classe.

Erminia fece sedere don Procolo al posto d’onore. Fra lui e il Cavaliere pose la Paolina. Poi Battistone fra lei e il bimbo. Gli altri in seguito. Bebi, di sei mesi, dormiva in uno stambugietto vicino.

—Immacolata!—gridò Carlinetto.

—Chi è quest’Immacolata?

—Vedrete. Una ragazza d’Airolo, un pezzo di montagna con vigna annessa.

—Vi prego di dare il buon esempio—disse con un sorriso la padrona di casa.

—Fuori l’Immacolata Concezione—gridò il prete.

Venne la minestra fumante.

Altro che pezzo di montagna! la povera ragazza, rossa abbruciata dal fumo della pentola e dalla vergogna, non sapeva come nascondere la faccia e come farsi sottile in certi passaggi stretti fra le sedie e il muro. La signora Erminia, al paragone delle altre due bellezze giovanili in fiore, risaltava ancor più bella per un certo languore di colori e di lineamenti. Quel sangue che mancava a lei lo aveva sulle guance Peppinotto, che scaldato anche lui dal fumo della pappa, pareva una bella ciliegia. Ma il più bello, il più raggiante, colui insomma, che poteva dar dei punti al sole, era Carlinetto (quell’asinaccio) colla sua fronte nuda e lucente, coi pochi capelli biondi irti sul cucuzzolo, avvolto nel tovagliolo come un sommo pontefice nel piviale.

Il paradiso dei mariti gli sfavillava negli occhi, come un uomo che si sente appoggiato da una parte all’amore, dall’altra all’amicizia.

Egli era il signore, il babbo e il nababbo di quelle donne e di quei bambini. Si sarebbe detto, a vederlo, che il pover’uomo, rannicchiandosi nella sua sedia, cercasse di rimpicciolire la sua dignità o di sfuggire a quel troppo di felicità che è sempre di cattivo augurio.

—Cavaliere—gridò il padrone di casa—le mani davanti e gli occhi sul piatto. Voglio che Paolina sia garantita.

—Allora si può pretendere che anche don Procolo metta i piedi sulla tavola.

—Omnia munda mundis—esclamò il prete, che cominciava a sbrodolare la coscienza colla minestra calda.

—E Battistone? a che cosa pensi, eccelso Battistone? al povero zio moribondo?

Battistone rideva nella gola d’un riso grasso e affannoso.

—Si possono conoscere questi grandi segreti?—gli domandò sottovoce l’Erminia.

—No, no, cara signora, mi compatisca…—rispose il capitano, arrossendo come un ragazzo.

—Io credo che il signor capitano sia un giusto calunniato,

—Brava, la mi difenda.

L’anima gentile e buona del capitano Tazza, perduta e impaurita nel fondo di quel suo gran corpo, risentiva nella voce di quella donna un eco della graziosa voce materna. Dopo tanti anni, dopo tante avventure di campo e di caserma, dopo molti smarrimenti per le vie del mondo, l’incontrarsi in una famiglia onesta il giorno di Natale, fra donne giovani e belle, nella confidenza di un domestico abbandono, gli tirava in mente i giorni più belli della sua infanzia, quando tutti siamo poeti per virtù d’inesperienza.

Lilì, la cagnolina prediletta della signora Letizia, che Carlinetto allevava in casa in memoria della defunta, cominciò a piangere in cucina, dove l’avevano legata sotto la tavola, perchè non venisse a disturbare gli ospiti. Ma quando questi sentirono la ragione del castigo, non vollero permettere che in un giorno di tanta festa la povera bestiola non avesse il suo piattello a tavola.

Lilì, un gomitolo di peli bianchi, venne a corsa, saltò in grembo a Paolina, appoggiò le zampette sulla tovaglia mugolando di gioia, fissando gli occhi lucidi e neri pieni di gratitudine in faccia al padrone.

Man mano che i piatti e i bicchieri andavano vuotandosi, cresceva il rumore dei piatti e dei bicchieri. La suggezione scompariva da una parte e dall’altra. Alle facezie di don Procolo due o tre volte la Paolina dovette ridere e piangere nel tovagliolo, facendo due belle pozzette nelle guance.

—Quando penso—osservò Carlinetto—che c’è della gente che va a cercare la felicità in America, provo una grande compassione.

—Felix qui potest rerum cognoscere caussas—disse, alzando un poco la voce, don Procolo.

—La felicità—disse il Cavaliere—fu definita da un filosofo un albero che bisogna abbattere chi vuole coglierne i frutti.

—Ma Carlinetto—soggiunse il prete—è un gatto che sa arrampicare sulla pianta.

—E chi vi proibisce di fare altrettanto, vecchi giovinastri?

—I sacri canoni proibiscono ai preti di arrampicare. Che cosa ne dice la sora Paolina?

—Io?—disse la ragazza tutta confusa.

—Sì, sì, sentiamo il suo parere.

—Che ne so io di piante e di frutti?

—La biricchina vuol togliere le castagne dal fuoco colla zampa del gatto.

—Eh no, vedete. Essa aspetta che i pomi caschino da sè.

—Lor signori scherzano.

—-Ebbene, sentiamo il parere della sora Erminia.

—Su che cosa?

—Sui pomi.

—È Adamo che ha mangiato il pomo.

—Bene, brava. Parli allora Carlinetto.

—O che sono Adamo io?—

In questi discorsi, a cui dava un sapore gustoso il ripieno del tacchino arrosto, e che sembrano inconcludenti soltanto a chi non ha mai posti i piedi sotto una tavola, la serata passava deliziosamente…. quando si udì improvvisamente una scampanellata così furiosa in anticamera, che fece trasalire i commensali.

—Chi sarà a quest’ora?—disse Carlinetto.

—Zitto—soggiunse l’avvocato—è l’ombra dello zio.

—Va a vedere, Immacolata.

—Che sia la sora Letizia?—pensò in cuor suo il prete.—In paradiso non si mangia di questa mostarda….

Immacolata aveva paura ed esitava a pigliare il lume. Una seconda scampanellata non meno furiosa della prima persuase Carlinetto a levarsi da tavola. Uscì e andò ad aprire. Intanto i commensali che erano arrivati al formaggio, rimasero immobili sulle loro sedie, colle bocche aperte, cogli orecchi intenti, quasi in pena, per paura di una qualche diavoleria che venisse a guastare la digestione.

Udirono la voce di Carlinetto che gridava!—Le dico che non ne so nulla.

—Ed io le dico che è qui…—rispondeva una voce sguaiata.

Battistone si alzò improvvisamente, pallido come un morto e sconcertato come un ragazzo colto dal padrone sulla pianta dei fichi. Aveva riconosciuta la voce della Ludovina, la sua donna di servizio e la sua persecuzione, che non contenta d’aver accompagnato il padrone fino alla stazione, messa in sospetto, era venuta a cercarlo in casa di queste donne.

—Non voglio portarlo via. Voglio soltanto dirgli che è un bugiardo.

—Non mi faccia scappare la pazienza, benedetta donna.

—Non lo porto via. Mi basta verificare ch’è un bugiardone come tutti gli altri….

Così dicendo, la donna cercava di mettere in disparte il padrone e di passar oltre; ma Carlinetto fu pronto a mettere la mano sulla chiave.—Oh insomma, vada fuori dei piedi….!—strillava colla sua voce di clarinetto.

Battistone, confuso, impaurito, supplicava la signora Erminia perchè lo nascondesse in qualche angolo della casa; ma non trovando lì per lì niente di meglio, si cacciò ginocchioni sotto la tavola, appena a tempo. La Ludovina entrava sgarbatamente in sala col suo dito teso in atto d’accusare e di svergognare il brutto traditore; ma non trovandolo a tavola, rimase alquanto sconcertata e confusa.

—Ecco, è persuasa ora che ha visto che non c’è?—-disse Carlinetto, affettando un gran sussiego per soffocare la gran voglia di ridere.—È contenta ora della bella figura che ha fatto? Vada, si vergogni, alla sua età! Se io fossi il capitano, vorrei insegnarle io il rispetto.

—Mi scusino….—balbettò la donna, ritirandosi.

—Che scuse! quando il capitano saprà di di questa scenaccia, non sarà niente edificato.

—Mi scusino….—Tornò a ripetere la donna, mentre Carlinetto la sospingeva verso l’uscio di scala. Quando però essa fu sulla soglia, volle pigliarsi la sua vendetta: e indicando un’ombrella dal manico a becco d’oca che il capitano soleva portare in viaggio, disse colla bocca amara:—Però le bugie hanno il becco d’oca.

Carlinetto non la lasciò finire e chiuse l’uscio con fracasso sul muso della megera.

Allora tutti si abbassarono per trarre il povero avanzo di Crimea dal suo nascondiglio. Sulle prime si ebbe compassione del suo abbattimento, ma poi una sonora risata accolse il povero risuscitato, che colla fronte bagnata e coll’aria d’uomo sfinito si abbandonò su una sedia.

Lilì, che non era in grado di giudicare, cominciò ad abbaiare senza riguardo alla dignità umana.

—Vede che cosa si guadagna a far dei misteri?—disse l’Erminia al capitano con un tono di benevolo compatimento.

—Oportet ut scandala eveniant—predicò il prete.

—Chi di voi è senza peccati scagli la prima tavoletta di torrone—gridò Carlinetto, che stava appunto intaccando il suo torrone col coltello.

—Bene, non se ne parli più—comandò la gentile padrona di casa.

Capitano, mi dia la mano e mi faccia una promessa…

—Tutto quello che vuole…—sospirò l’omone cogli occhi lustri.

—Carlinetto le darà un buon consiglio—soggiunse la Erminia.—E ora facciamo un brindisi Bebi…

—Viva la sora Erminia!

—Viva la sora Paolina!

—Viva Carlinetto e la sua felicità!

—Viva Bebi!

—Viva la vecchia amicizia!

Bebi si era risvegliato al frastuono e veniva in braccio di Immacolata a cercare il pranzo di Natale. Stese subito le piccole mani alla mamma, che lo accolse e se lo strinse al seno. Bebi era vestito d’un costumino bianco orlato di fiocchetti, un vero gomitolo anche lui come Lilì, con due buchi lucenti.

—Questi bravi signori permetteranno un’opera di misericordia: dare da mangiare a chi ha fame. Erminia sedette innanzi al caminetto in maniera da voltare le spalle ai signori uomini e servì il signor Bebi della sua buona grazia.

Battistone, a cui certe cose facevano l’effetto di una piuma sul cuore, abbassò il muso e s’ingrugnò in un umile silenzio.

Venne il caffè che ciascuno prese come gli piacque, col rhum e senza rhum, in piedi, seduto, accanto al fuoco.

Carlinetto condusse l’avvocato a contemplare la Madonna della seggiola. Anche don Procolo, dopo aver scaldata un poco la schiena al fuoco, dolcemente ispirato dal profumo del caffè, cominciò una predica dolce come la mostarda sulla santità dell’affetto materno, sulla castità sublime della madre nutrice de’ suoi figli, che desta il sorriso sulle labbra degli angeli, e citò i versi dell’abate Pozzone:

Se con labbro inesperto il fanciulletto

La giovin madre folleggiando appella….

Qual altro nome di più santo affetto

Ha la mortal favella?

Il Cavaliere messo in vena dal vin dolce faceva esplicite dichiarazioni alla Paolina, che rispondeva per le rime, ridendo, dando di tempo in tempo un bacio sulla testa di Lilì.

—Lei mi fa invidiare la brutta bestia—diceva il vecchio galante.

—Non è poi così brutta. Ce n’è di peggio…—rispondeva la briccona.

Ho detto che don Procolo era in vena di predicare. Dopo che Carlinetto ebbe stappata una bottiglia di Siracusa, il vecchio teologo divenne un padre Segneri. Le citazioni latine traboccavano a proposito e a sproposito dalla memoria scossa in una giuliva ed insolita emozione, come l’acqua da una spugna che tu spremi colla mano. Alzava il calice contro la fiamma della lucerna e nell’ambra splendente del liquore rivedeva come di scorcio il fantasma della sua vita passata e trapassata, dai caldi entusiasmi della prima messa ai rosei tramonti della sua prima parrocchia di montagna, dov’era arrivato quarant’anni fa con un breviario sotto il braccio e un sacco di fede in ispalla, dove avrebbe potuto e dovuto rassegnarsi a vivere e a morire, vergine di cuore e di pensieri, fra la povera gente, se il diavolo…

—Sa lei che cosa è il diavolo?—chiese a un tratto alla Paolina.

—Non, l’ho mai visto…—disse la ragazza.

—Io sì…—aggiunse il povero vecchio, ripigliando il filo delle reminiscenze, alzando di nuovo il bicchiere color dell’ambra a specchio della fiamma. «Il diavolo l’aveva condotto in mezzo a cento insidie e una volta che si sbaglia il primo bottone si sbaglian tutti. Si va giù alla maledetta per i gradini del disordine e il sacco della buona fede si sparpaglia per la strada. Brutta vita quella di predicar bene e razzolar male! brutto quel correr dietro ai morti colle scarpe rotte a mendicare una candela di cera vergine e le due lire e mezza del funerale! Brutti, o bisogni, che fate il vestito rattoppato, intabaccato, e le calze ragnose! Un vizio tira l’altro. Ci si attacca al tarocco, al tabacco, al vin di Stradella…. e si finisce col non capir più nemmeno il latino del papa, il quale anche lui ha il suo diavolo che lo attacca alla roba di questo mondo. E intanto le coscienze precipitano….—Don Procolo indicò anche col dito l’abisso in cui gli pareva di veder precipitare le coscienze—le pecorelle si sbandano, sitiunt animae e il pastore è ubbriaco…

—No, no, non va bene, non va bene… non va bene….

Il prete che era rimasto solo davanti al caminetto seguitò un pezzo a leggere nello viscere del fuoco quest’eterna filosofia:—Sitiunt animae e il pastore è ubbriaco. Eppure si potrebbe ancora accendere colla fiaccola gli spiriti morti. Il mondo non si governa colle ciarle. Ben venga il pastor novus a predicar la carità e il mondo gli andrà dietro come un greggie solo; ma non deve aver la mitria e il piviale d’oro. Gesù poveretto sarà sempre lui il padrone del mondo…

* * *

Carlinetto aveva menato gli altri a vedere Bebi che poppava. Egli teneva il lume: Paolina s’era inginocchiata in terra e andava posando dei piccolissimi baci sul cucuzzolo del bambino, mentre la mammina, tra il vergognoso e il superbo, abbassava gli occhi per non vedere d’esser veduta.

Don Procolo credette nella sua malinconia di veder il presepio in lontananza. Bebi era il bambino, l’Erminia la Madonna, gli altri i Re Magi e Carlinetto San Giuseppe. E lui don Procolo, lui era l’asino, a cui è stato imposto di soffiare sui figli degli altri. Se il salotto di Carlinetto era caldo e rischiarato, non bisognava dimenticare che la neve cadeva sui tetti, sulle strade, sulle campagne, a seppellire i casolari dei poveri, che non sanno come ripararsi. Perchè non mandava, almeno lui prete, un pensiero d’amore ai bisognosi, ai mendicanti, ai malati, agli orfanelli pei quali non v’è nè pane nè panettone? perchè non usciva anche lui, sacerdote e padre dell’amore e della misericordia, a bussare a tutti gli usci dei poverelli e a portare un cesto di pane a chi non ha nemmeno la mostarda per accompagnarlo? Ma la gola tira l’egoismo e tutti e due insieme fanno l’asino del presepio cocciuto contro il bene. Una soave carità scendeva a scaldare il suo cuore. Oh se egli avesse avuto le tasche piene di marenghi, avrebbe voluto attraversare Milano e sparpagliare quel bel giallo sul bianco della neve e plif e plaf….. allegri poveretti! Il Signore è nato per tutti…

Il buon vecchio, trascinato a girar come un arcolaio sopra il suo pensiero, mentre, faceva l’atto di buttar marenghi nella cenere del caminetto, cantarellò a voce alta: e plif e plaf.

* * *

—Che cosa fa, don Procolo? animo, aiuti la balia.

Così dicendo, Carlinetto collocò sulle braccia del prete il bamboccio gonfio come una mignatta, sprofondato nel cuscinetto, colle gote accese, che aveva accora sui labbruzzi la rugiada.

—Lo tenga sollevato il tempo della digestione.

Carlinetto andò a informare l’Erminia come la Ludovina nell’uscire avesse scoperta l’ombrella della bugia e insieme combinarono d’avvertirne il capitano perchè sapesse regolarsi. Battistone, tornando a casa, doveva aspettarsi una scenaccia di gelosia, ma forse l’occasione era opportuna per rompere definitivamente dei rapporti che non facevano troppo onore a un uomo di sentimento.

Battistone, preso in un angolo, stette a sentire tutto umile e raccolto la predica dei buoni amici, riconoscente che lo aiutassero a uscire da una posizione falsa e tratto tratto stringeva la mano dell’Erminia per ringraziarla.

Se si trovasse sempre sulle cantonate il nostro angelo custode, non si sbaglierebbe la strada; ma forse bisogna meritarseli i consigli!

Don Procolo, felice d’aver trovato anche lui un uomo a cui predicare la verità, dondolando Bebi sulle braccia, gli diceva:

—Anche tu correrai dietro a una visione, vorrai salire sulla scala di

Giacobbe; ma verrà anche per te il tuo diavolo….

—Glo, glo—rispondeva il bimbo.

—E allora con tutta la tua superbia farai fior di spropositi anche tu, o correndo dietro a un diavolo vestito da donna, o correndo dietro a una fissazione, cristiano battezzato anche tu nell’acqua sporca dell’egoismo. Vedrai vedrai che mestiere birbone è la vita…

—Glo, glo, bu, bu…

—Tuo padre non è un milionario—seguitava il brontolone.

—Se tuo padre non ti lascierà un milione, la tua mamma ti farà un cuore d’oro….—interruppe l’Erminia, togliendo il bimbo dalle mani di don Procolo, a cui disse in tono quasi di rimprovero:—E lei non me lo strologhi….

Don Procolo crollò due volte la testa, inghiottì qualche cosa di amaro e disse con un mezzo sospiro:—Sono un vecchio scettico, ma credo nella Madonna…

Il prete aveva gli occhi pieni di lagrime.

* * *

La serata finì allegramente.

Carlinetto si ricordò che l’avvocato Chiodini aveva portato un panettone fresco comperato da lui stesso nella bottega del Biffi.

Mandò a pigliarlo in anticamera e subito dopo l’Immacolata entrò col bel cartoccio bianco sopra un vassoio e con un coltello per l’incruento sacrificio.

Carlinetto prese il coltello, tagliò il nastrino, tolse la carta leggiera che avviluppava il panettone, e oh vista!…. non era un panettone.

Sulle prime rimasero tutti stupefatti, ma non tardarono a capire quel che l’avvocato nella sua solita distrazione stentava a spiegare a sè stesso. Nell’uscir in fretta di casa, dopo esservi ritornato a cambiar le scarpe, invece del panettone aveva preso un cappello nuovo nella sua fodera di carta come lo avevano portato la mattina.

Il panettone vero era stato chiuso in guardaroba.

Le rise delle donne e specialmente dell’Immacolata andarono al cielo. L’avvocato più balordo di prima girava intorno gli occhi affumicati, come un uomo che si sveglia e si trova seduto su un cataletto. Questo episodio fece dimenticare la Ludovina e la serata finì serenamente a onore e gloria di Carlinetto.

* * *

Quando i vecchi giovinastri furono nella via, il vento gelato che soffiava dal Sempione sbattè loro in faccia un villano nevischio. Don Procolo arrivò appena a tempo a stringere per un’ala il suo tricorno e ammainò le falde del tabarro. Tutta la piazza era coperta di neve che mandava fuori cento mille scintilluzze sotto la luce tenera dei fanali. Non un uomo, non un cane intorno, non un uscio aperto.

Attraversarono in silenzio la piazza e prima di svoltare in S. Vicenzino, alzarono gli occhi alla finestra d’angolo. Dalla stanza, quella dell’altare, usciva una luce calda attraversata da ombre fuggevoli.

—Sul letto degli uomini felici non nevica mai…—disse uno dei tre.

Dopo cinque minuti gli amici si divisero. Don Procolo si rintanò nella sua stanzaccia gelata vicino al solaio della chiesa. Il Cavaliere, che aveva la fantasia riscaldata e i piedi freddi, andò a bere un puncino nell’unico caffè aperto sotto i portici di piazza del Duomo, dove un uomo generoso trova sempre da pagare qualche cosa a un’anima raminga.

Battistone e per essere coerente a sè stesso e per paura della Ludovina, andò a cercare alloggio all’albergo del Biscione in piazza Fontana. Siccome non aspettavano forestieri in una sera consacrata alle dolci intimità della famiglia, così dovette picchiare alla porta. Il cameriere che accorse gli levò di mano la valigia e l’ombrello e guardandolo in viso con un’aria sospettosa, lo pregò di scrivere il nome e la provenienza sul registro.

L’altro girò un poco la penna tra le dita e scrisse: Capitano G. B.

Tazza, Monza.

Il letto gli parve duro e freddo. Certo stava meglio Carlinetto.

L’avvocato Chiodini, in collera con sè stesso prese la strada più corta per andare a casa. Ma sentendo un continuo freddo che gli montava su per la gamba, si fermò e alla luce d’un lampione si accorse di avere una pantofola al posto della scarpa.

La scarpa la ricevette il giorno dopo in un paniere insieme al cappello.

* * *

L’Erminia aveva dato il permesso. Carlinetto doveva l’ultimo giorno dell’anno raggiungere la compagnia nel caffè del Paolo, dove si sarebbe bevuta una bottiglia in onore della vecchia amicizia. Ma poche ore prima don Procolo moriva, pare per un vizio di cuore. Lo trovarono disteso lungo la scaletta che mena alla sua stanza, già freddo da un pezzo.—Da qualche tempo s’era fatto troppo filosofo—disse il Paolo, quando gli portarono la brutta notizia.

 

FINE.