Accadde quel che doveva accadere. Per quanto don Cesare sferzasse i cavalli, il temporale, che s’era andato raccogliendo fin dalla mattina, scoppiò e l’acqua cominciò e cadere una mezz’ora prima d’arrivare alla Castagnola. E bisognò pigliarla.
—Ti avevo detto che non era una giornata, da fidarsi—cominciò a gemere donna Ines, che sedeva a fianco del conte sull’elegante phaeton,—Ma parlare con te e parlare col muro è lo stesso.
—Brava, se i Castagnola ci aspettano…..
—Si doveva mandare un telegramma, o partire col legno grande e col
Giuseppe.
—Che Giuseppe d’Egitto..!—brontolò il conte molto seccato.
—Intanto rovini il legno e i cavalli.
—Ai cavalli ci penso io… ep, là.—E il conte lasciò andare al capo delle bestie due belle frustate. I due cavalli fini non furono troppo persuasi di quel modo di pensare e acciecati anche dal bagliore dei lampi, flagellati da una pioggia grossa mista a gragnuola, cominciarono a galoppare malamente, a strattoni irregolari, su per la riva rotta dal fango. Donna Ines strillò:—Fermati, fermati…..
La povera contessa era livida di dentro e di fuori. E sfido! trovarsi lor due soli, in carrozza, per una strada deserta, con quel tempo in aria, con quei cavalli che don Cesare guidava quasi per la prima volta, via, chi si sarebbe divertito?
La contessa, come sono in genere tutte le donne e come devono essere tutte le contesse, era un caratterino nervoso, molto impressionabile, proprio quel che ci voleva in certi momenti per andar d’accordo con un uomo ostinato e irragionevole come il conte.
—Sacrr….—ruggì costui, accompagnando colla più energica delle sue bestemmie un terribile crac d’una ruota davanti, che fece piegare il legno da quella parte. Se non era pronto a saltar giù e a sorreggere la carrozza col suo gran corpo da gendarme, andavano tutti e quattro nel prato di sotto.
—Sacr… s’è rotta la ruota davanti. Vien giù.
—E come faccio a venir giù?—chiese la contessa con voce dolente mista di lagrime, di spavento e di rabbia.
—Vien giù in qualche maniera, per Dio sacrr… Non vedi che devo tenere i cavalli?
—Non c’è qui un uomo?—tornò a domandare la povera signora, a cui pareva impossibile che non ci fosse al mondo nemmeno un uomo per aiutarla a discendere. L’acqua veniva più grossa.
I cavalli tenuti per il muso dalle mani di ferro del conte, scalpitavano, rinculavano, dando scosse al legno. Bisognò discendere, in qualche maniera; ma un lembo di pizzo della visite restò attaccato alla mécanique.
—Se non te l’avessi detto, pazienza! che male c’era a condurre il
Giuseppe?
—Non far la stupida—rimproverò il gendarme—Apri l’ombrellino e piglia questo viottolo a destra. C’è un cascinale vicino.
—Dove?
—A destra, non a sinistra, oca! va a cercare qualcuno che venga a tenere i cavalli. Moro ha l’occhio spaventato. Se li lascio andare si accoppano questi accidenti sacrr…
Non era il momento di far questioni filologiche. Sotto il parasole di satin la contessa cercò la stradetta, saltando come potè sulle pozze d’acqua e prese a correre verso il cascinale che distava un trecento passi. Proprio in quel momento si aprirono le cateratte del cielo. L’istinto di conservazione, rinforzato dalla bile e dall’odio contro l’asino imbecille che l’aveva tirata in quell’avventura, dettero alla povera signora una forza straordinaria, che a casa sarebbe subito scomparsa alla vista del più piccolo ragno.
Ma come l’appetit vient en mangeant, così il coraggio viene dal bisogno d’averne. Lo scrisse lei stessa qualche giorno dopo in una lunga lettera a donna Mina Besozza: «l’occasion fait le larron: io che soltanto all’idea d’una fessura sento un reuma nel cuore, son uscita da quel diluvio senza il più piccolo raffreddore.»* * *
Come arrivasse alla cascina Torretta è più facile immaginare che descrivere. Avendo un colpo di vento spezzato il parasole, la povera martire dovette camminare cinque minuti sotto quella benedizione, coi piedi in un velluto di fanghiglia, d’una fanghiglia cretosa che si appiccicava agli stivaletti, alle calze, alle balzane. L’acqua che defluiva dalle campagne finiva a formare un laghetto davanti alla casa, e dovette attraversarlo sotto le grondaie, che versarono un mezzo barile di colatura sul cappellino di paglia.
—Non c’è qui nessuno?—gridò ricoverandosi sotto un rustico portichetto, appena potè tirare il fiato.—Si è rotta la ruota d’una carrozza. Ehi, di casa!—Provò a scotere il paletto e a spingere un vecchio uscio sgangherato che lasciò vedere una cucina affumicata piena di mosche. Davanti al camino stava seduto un vecchio massaio colle mani aperte su un focherello invisibile, immobile sulla sua sedia di legno come se fosse anche lui lavorato nel legno.
—Galantuomo! non c’è nessuno?
Il vecchio di legno non si mosse. Era sordo.
—Va al…—fu per dire la povera donna che, trascinandosi dietro le sottane impegolate, andò a chiedere aiuto a un altro uscio. Era (pardon) una stalla. Un uomo sui quarant’anni, rosso di pelo, con una gola larga, colle braccia e colle gambe ignude, si affacciò reggendo una forchetta non da dessert e parve impaurito di vedersi davanti una figura vestita a quel modo.
Se ne contano delle storie nelle stalle! e coi temporali, si dice, vanno intorno anche le anime dei poveri morti.
—C’è una carrozza sulla strada con una ruota rotta. Andate, mandate qualcuno, presto.
Il Rosso stentò a capire. Che carrozza? che strada?
—Sono la contessa Battini Luziares.
Il Rosso, che non aveva mai sentito dire che ci fosse una signora di questo nome, rispose:—Chi la gh’è no…
—C’è una carrozza, il conte…. Mandate, andate voi.
Il Rosso, dopo aver strologato il fenomeno atmosferico, gonfiò un poco la gola e soggiunse, indicando colla forchetta l’acqua della grondaia: —Adess, al pioev tropp…—E sotto questo punto di vista non aveva torto. Pareva il diluvio universale.
—C’è un uomo sulla strada con due cavalli spaventati, capite?—replicò la contessa, cambiando il conte in un uomo nella speranza di commuovere le viscere di questo suo simile. Poi, pensando che la Cascina Torretta poteva appartenere a un essere ragionevole, soggiunse:—Voi di chi siete?
—Sem dal Rostagn, el deputato…
Quando si dicono le combinazioni! Rostagna era da cinque anni il tirannello del mandamento, un radicale rosso anche lui come il suo villano, un mangiapreti e un mangiasignori in insalata. Eletto coll’aiuto materiale e morale degli osti e dei mediatori di vitelli, spadroneggiava i comuni a dispetto dei padroni e delle autorità, che dovevano sopportare la sua prepotenza, voglio dire la sua influenza sui ministeri. A farlo apposta, don Cesere Battini era stato l’inventore d’un famoso anagramma, che da Rostagna tirava Sta rogna e la scritta «eleggete Sta rogna» si leggeva ancora alquanto diluita dal tempo sui muri di cinta. E si sapeva da tutti chi aveva pagato l’inchiostro indelebile e la mano d’opera. Rebus sic stantibus, la povera contessa non poteva capitar peggio. Ma poi da donna di spirito pensò che la politica è una pettegola e lei era la contessa Battini: che la politesse è superiore a tutte le piccinerie elettorali: che per quanto democratico, quell’aristocraticone al rovescio dell’onorevole Rostagna, non avrebbe mai permesso che una contessa Battini Luziares morisse affogata in un barile o avesse a pigliare una polmonite fulminante. E stava per invocare in suo aiuto l’abborrito nome, come sì invoca dai disperati quello del diavolo se i santi non si muovono, quando una vecchierella col capo pelato comparve sul ballatoio di legno.
—Non si può trovare qui un paio di uomini?—provò a supplicare la signora, alzando il viso verso il ballatoio, nella speranza di trovare nel seno della vecchiezza un po’ più di visceri di umanità.
—Gh’è Meneghin dal Gatt—disse la vecchia parlando al Rosso.
—Dov’è sto Meneghin?—insistette la contessa.
—Al soo minga, sciora. A l’è andaa foeura coll’asnin.
* * *
Donna Ines provò una gran voglia di piangere. A veder quei villani così duri, così incapaci, così indifferenti per i suoi bisogni sentì tutto il suo sangue mezzo spagnuolo ribollire nelle vene. Capì come nei panni di una Elisabetta d’Inghilterra, o d’una Caterina di Russia si possa in certi momenti commettere una esagerazione; farne, per esempio, impiccare una mezza dozzina. Se si fosse trattato dell’asino o del porco oh li avresti veduti ammazzarsi in dieciotto! ma la pelle dei signori è una cosa che non conta.—Egoisti, poltroni, vendicativi!—Queste parole risuonarono e rimbalzarono come fucilate nel suo cervello fatto irragionevole dal dolore.—
—Sarete pagati. O pago subito, muovetevi…—e trasse fuori il suo bel portamonete di cuoio di Russia.
Il vecchio sordo, che si era destato anche lui al bagliore di un lampo, venne sull’uscio e riempì colla sua persona lunga, stecchita, color della terra, il vano oscuro.
—Avete visto Meneghin del Gatto?—chiedeva la vecchia pelata del ballatoio di legno.
—Che gatt?—diceva il vecchio che capiva male le parole in aria.—Potrebbe tornar sta sera—osservava il Rosso.—Se ci fosse Martin della Fornace…..—riprendeva la vecchietta.—Martin? Martin è andato a Cinisello….—E intanto che i tre villani si scambiavano dai tre punti della casa queste belle parole così conclusive, l’acqua veniva a secchi: e sotto l’acqua, poco dopo fu visto venire anche il conte coi due cavalli, uno per mano, conciato anche lui come un brigante delle Calabrie, più idrofobo che arrabbiato. La carrozza era rimasta sulla strada inginocchiata sulla sua ruota davanti.
—C’è qui un accidente di stalla da poter ricoverare queste bestie?—gridò col suo vocione da gendarme.—Bell’aiuto che mi hai mandato—riprese mangiando la contessa cogli occhi.—Se aspettavo te sarei morto annegato. Dov’è questo anticristo di stalla.
—Gh’è dent la vacca, scior…
—Tirala fuori la vacca. Vuoi lasciar crepar di tosse i cavalli?
Il Rosso, dopo essersi consultato colla vecchia, si rassegnò a tirar fuori la vacca che legò al timone di un carro sotto l’andito e lasciò che il conte mettesse a tetto le sue bestie.
—Prendi un bel fascio di paglia asciutta e fregali forte—comandò il conte con quel tono brusco che fa trottare i villani. E il Rosso obbedì come se avesse parlato ol deputato.
—E adesso uno di voi vada a Caspiano dal fattore di Ca’ Battini e gli dica di mandar qui subito il legno coperto.
Nessuno si mosse. Chi ci doveva andare? non mica il vecchio sordo, che non sentiva un cannone; non mica la vecchietta pelata, e nemmeno il Rosso che aveva la sua vacca da curare.
E poi con quel tempo…
—Non ci siete che voi tre, corpo dell’anticristo?—gridò il conte che teneva in mano la frusta per il manico—Non c’è qualche ragazzo?
—No, scior.
—Che Dio v’infilzi! non vi moverete per niente, figli di cani.
—Se ghe fuss Meneghin dol Gatt…—tornò a dire la vecchietta, che non sapeva proprio suggerire niente di meglio.
—Dove l’è sto Meneghin de la madonna…—urlò il conte.
—L’è andaa alla fornas coll’asen.
—E la fornace dov’è?—E per non bestemmiare di nuovo in faccia ai villani (che si scandalizzano facilmente) strozzò la brutta parola con un colpo di frusta, che fece scappare e strillare tutte le galline accovacciate sotto i trespoli.
Quell’uomo grande e grosso, con quel nome, con quella frusta, con quelle bestemmie aristocratiche cominciava quasi a far paura. Allora la vecchia prese a chiamare:—Teresin, Teresin…
Il conte e la contessa si guardarono un pezzo nel muso. E dico muso, perchè avevano una gran voglia di mordersi: lei livida di freddo e di veleno; lui acceso, sudato, congestionato. Grugnirono qualche parola in francese (sempre per rispetto ai villani) e si voltarono ruvidamente le spalle.
—«Pover’anima, venga in casa: così conciata com’è si piglierà un malefizio—» Chi parlava questa volta era la Teresin, detta la sposa, una donna non più molto giovine, ma ancor fresca e di buona apparenza. Nel fondo oscuro della cucina, la spera degli spilloni d’argento, che le facevano aureola al capo, illuminava il suo viso da cristiana. Chiamata dalla suocera, aveva lasciato il bimbo e cercava ora di fare verso i due poveri signori quel che non si rifiuterebbe a un cane bagnato. Fece entrare la contessa, la mise a sedere su uno sgabello su cui distese a rovescio il suo grembiale e aiutò il nonno a mettere il fuoco in una fascina di strame e di pannocchie secche, che riempirono la stanza prima di un fumo d’inferno e poi d’una fiamma che abbruciava gli occhi.
La contessa mezza affumicata cominciò a tossire.
—Lei ha bisogno di togliersi da dosso questa roba—seguitò la Teresin—Madonna dell’aiutol par tirata fuori da un pozzo come una secchia.
Se non le fa ripugnanza, venga di sopra nella mia stanza, dove potrà almeno levarsi le scarpe e le calze. Canzona? coi piedi bagnati si va al camposanto. Un paio di calze di filugello lo troveremo anche noi e poi le faremo scaldare una goccia di latte, povero il mio bene; intanto il suo uomo (voleva dire il conte) potrà tornare con un’altra carrozza a prenderla.—
Presa e sospinta da questi ragionamenti, che avevano il merito d’esser giusti, donna Ines—à la guerre comme à la guerre—si lasciò condurre su per una scaletta di legno che cigolava sotto i piedi, Dal ballatoio vide il suo uomo che partiva su un carrettino tirato da un asinello in compagnia d’un villano, sotto la cupola d’un grande ombrello rosso sghangherato. Pioveva un po’ meno.
—La venga qui, santa pazienza! la roba è netta. Lasci che le tolga gli stivalini. O care anime, che piedini bagnati gelati. È matta a tenersi queste calze indosso? c’è da pigliarsi una pilorita. O ma’, portate qua un paio delle mie calze. Ne ho portate sei paia quando sono venuta sposa e non le ho quasi toccate. E ora si tiri fuori anche il vestito, che lo metteremo al fuoco. Che peccato mortale d’aver rovinata questa grazia di Dio, con tutti questi pizzi che son così belli! sembran fatti col fiato. Se avessi anche un vestito degno di lei… ma ora penso che ci abbiamo una buona coperta di lana. Aspetti, intanto che facciamo asciugare un poco la roba, lei la si volti ben bene qua dentro, così: magari la si distenda un poco sul letto (questa è la mia parte) e lasci che le metta un coltroncino sui piedi. Gesummio, sto povero cappellino! par stato sotto i piedi della vacca. Le è proprio capitata una giornata di quelle: e quel suo uomo ha poco giudizio a strapazzare una carnagione come la sua. Stia sotto sotto, quieta quieta e cerchi di sudare. Ora le porto il latte caldo.»
Teresin uscì e tornò con una scodella di latte bollente, grande come il lago di Como, che fu un vero ristoro per la povera creatura intirizzita di dentro o di fuori. La Contessa tornò a rannicchiarsi nel grosso e ruvido coltrone, se lo tirò fin sopra le orecchie e cercò di fare una buona reazione.
Nel ritorno del calore le sue forze si sentirono consolate. La tensione stessa irritata dell’animo cedette insensibilmente nel molle e soave abbandono del corpo. Un tiepido senso di benessere calmò i suoi pensieri, percorse le sue membra strapazzate, finchè un velo di sonno trasparente e leggero come una nuvoletta passò sulle sue palpebre. Ed ebbe una visione rapida, evanescente, che la portò colla solita irragionevolezza dei sogni a vedere una gran festa di rose in fiore, di cui era pieno un gran giardino non suo, veduto forse in un romanzo giapponese di Pierre Loti. E per il viale fiorito vide venire incontro a gran salti di gioia il suo Blitz, il bel cane di Terranuova, che nel partire avevan lasciato piagnucoloso alla catena. Blitz le poneva le sue zampone sulla spalla, faceva cento baci colla lingua e si lasciava prendere e carezzare il muso. Un sentimento di infinita tenerezza la spingeva a baciare la bella testa di quell’animale così buono e intelligente…
* * *
«Fu veramente un sonno delizioso—scriveva lei stessa a donna Mina Biraga—come da un pezzo non sogno più. Ma ero letteralmente épuisée. Non ho pigliato un malanno, ma Dio ti salvi dagli idilli campestri. Per me preferisco una spanna del mio salottino a tutti i Trianon e a tutti i chalets dei poeti, a meno che i buoi e le capre non siano di porcellana. L’Arcadia è sporca. E la bestia uomo non è meno bestia delle altre, non escluse le donne. Teresin me ne raccontò di tutti i colori. Quando seppe che non ho figli, mi consigliò, indovini?—di portare in vita tre spicchi d’agli infilati in uno spago. Una sua sorella che ha provato questo rimedio consigliatole da un santo eremita di Musocco, ebbe due volte due gemelli dopo quasi tre anni che non vedeva figliuoli. Puoi immaginare un ilang-ilang delizioso? amore all’aglio. Quando tornò Cesare colla daumont era già sera. Siccome ebbe la prudenza di condurre con sè quel mattacchione del barone Barletti, (è vero che fa la corte alla Tea?) così si è evitata la scena ultima e si è finito col ridere. E bene sia quel che è finito bene; ma ho dovuto venir via colle calze di filugello e cogli zoccoli della sposa, fino alla carrozza come su due trampoli, sostenuta da Cesare da una parte e dal barone dall’altra, che mi chiamò una deliziosa Diana traballante. Glissons, n’appuyons pas. Faccio conto di mandar questi zoccoli alla madonna di Pompei in segno di grazia ricevuta. Par che faccia mirabilia quella cara madonna, se è vero quel che scrive la principessa d’Ottaiano alla madre superiora del nostro Cenacolo. Sarebbe la miglior confutazione a quella porcheria del Lourdes di Zola, qui sent la bête anche lui.
Siccome malheur à quelque chose est bon, così anche i temporali servono a qualche cosa. Cesare ha creduto dover suo di scrivere un biglietto al deputato per domicilio violato, ecc. Il deputato, che mangerebbe un prete a pranzo e un aristocratico a cena, ha risposto un biglietto cortesissimo e anche spiritoso, nel quale deplora di non essere stato avvertito a tempo, perchè avrebbe mandata la sua carrozza e ci avrebbe ospitati nella sua villa di Mirabella che è a due passi dalla Torretta. Spera però in un altro temporale. So che i due uomini si sono poi trovati su terreno neutro. Cesare gli manderà domani una coppia di conigli americani, due cosi stupidini, ma assai chéris. Politica a parte, pare che il feudatario di Mirabello sia meno orso di quel che si dice. Cesare aspira quest’anno alla deputazione provinciale e chi sa che l’asino di Meneghino e i conigli americani non abbiano a far alleanza! Questi democraticoni, a saperli pigliare, sono i nostri migliori servitori.
Mi chiamano per il bagno. È già il terzo e mi par di sentire ancora indosso la pelle della pecora. Ah quel coltrone! Il y a, poi, quelque chose aussi qui me pique. Ciao.
tua INES.
PS. Di’ a don Carlo che mi mandi la «Manna dell’Anima» legata in mezza pelle. Voglio regalare qualche cosa a quella povera cristiana in pagamento degli zoccoli. A proposito: chi è il tuo calzolaio?