I.

L’elegantissima carrozza attaccata a una pariglia, due morelli splendidi, stava aspettando dinanzi alla scalea del palazzo. Era la fine di giugno, verso le cinque e mezza, e tra i tetti delle ali che rinchiudevano il cortile d’onore, si stendeva un cielo pieno di luce, di calore, di letizia.

La contessa di Mascaret comparve sulla scalea proprio nel momento in cui suo marito, che rincasava, stava attraversando l’androne. Egli si fermò un istante a guardare la moglie e impallidì leggermente. Ella era bellissima, slanciata, piena di distinzione, col viso di un ovale perfetto, un colorito di avorio dorato, grandi occhi grigi e capelli neri. Salì in carrozza senza guardarlo, senza neanche mostrare di averlo scorto, e con un incesso così squisitamente di razza che egli sentì nuovamente in cuore il morso dell’infame gelosia che da tempo lo divorava. Egli le si avvicinò salutando:

– Andate a fare un passeggiata? – disse.

Ella lasciò passare due parole attraverso le labbra sdegnose:

– Come vedete.

– Al parco?

– Probabilmente.

– Mi permettereste di accompagnarvi?

– La carrozza è vostra.

Senza stupirsi del tono delle risposte, egli salì e si sedette a fianco della moglie.

– Al parco, – ordinò.

Il domestico balzò in serpa accanto al cocchiere, e i cavalli, al solito, scalpitarono dondolando il capo come per un saluto sino a che non ebbero svoltato nella strada.

I due sposi stavano l’uno a fianco dell’altra senza parlare. Il marito cercava il modo per iniziare la conversazione, ma il viso della moglie restava così ostinatamente duro che gliene mancò l’ardire.

Infine egli allungò di soppiatto una mano verso quella inguantata di lei, toccandola come per caso, ma il gesto della contessa per scostare il braccio fu così vivace e così disgustato da farlo desistere titubante, malgrado le sue abitudini di despota autoritario.

– Gabrielle! – mormorò.

– Che volete? – chiese la contessa senza volgere il capo.

– Vi trovo adorabile.

Ella non rispose, conservando il suo atteggiamento di regina irritata.

Stavano risalendo gli Champs Elysées verso l’Arco di Trionfo dell’Étoile. L’immenso monumento in cima alla lunga strada apriva il suo arco colossale sul cielo rosso. Pareva che il sole calasse su di esso cospargendolo dall’orizzonte di una polvere di fuoco.

E la fiumana delle carrozze, spruzzate di brillii sugli ottoni, sulle argentature e sui cristalli dei finimenti e dei fanali, formava una doppia corrente, verso il parco e verso la città.

– Mia cara Gabrielle, – disse nuovamente il conte di Mascaret.

Allora, non potendone più, ella replicò esasperata:

– Lasciatemi stare, ve ne prego. Ora non posso neanche più rimanere sola nella mia carrozza…

Egli finse di non aver sentito, e seguitò:

– Non siete mai stata così graziosa come oggi.

La contessa, oramai spazientita, non trattenne più la collera e replicò:

– Fate male ad accorgervene perché vi giuro che non sarò mai più vostra.

Allora egli restò stupefatto e sconvolto; la sua abituale violenza riprese il sopravvento e lanciò un: – Che cosa significa? – che rivelava più il brutale padrone che non l’uomo innamorato.

Ella ripeté a bassa voce, benché i servi non potessero udire, tra l’assordante rotolio delle ruote:

– Ah! che cosa significa? che cosa significa? Finalmente vi riconosco! Volete che ve lo dica?

– Sì.

– Che vi dica tutto?

– Sì.

– Tutto quello che ho nel cuore da quando sono vittima del vostro feroce egoismo?

Il conte era diventato rosso per lo stupore e l’irritazione. Brontolò a denti stretti:

– Sì, dite pure!…

Era un uomo alto di statura, largo di spalle, con una gran barba rossa, un bell’uomo, un gentiluomo, un uomo di mondo che aveva fama d’essere un perfetto marito e un padre eccellente.

Per la prima volta da quando erano usciti dal palazzo ella si voltò verso di lui fissandolo bene nel viso.

– Ah! vi dirò qualcosa di molto spiacevole, ma sappiate che sono pronta a tutto, che sfiderò tutto, che non temo nessuno, e voi, oggi, meno di chiunque altro.

Anche lui la guardava negli occhi, di già scosso dalla rabbia.

– Siete pazza! – mormorò.

– No, ma non voglio più essere vittima dell’odioso supplizio della maternità che state imponendomi da undici anni. Voglio finalmente vivere come una signora del mio mondo, come ne ho diritto, come ne hanno diritto tutte le donne.

– Non capisco, – balbettò il marito impallidendo improvvisamente.

– Certo che capite. Sono oramai tre mesi che ho avuto il mio ultimo bambino, e poiché sono ancora assai bella e, nonostante i vostri sforzi, ben poco sformata secondo quanto voi stesso avete rilevato poco fa incontrandomi all’ingresso di casa vostra, giudicate che sia ora di rendermi di nuovo incinta.

– State sragionando.

– No: ho trent’anni e sette figli. Siamo sposati da undici anni e voi contate di continuare a questo modo per altri dieci, dopo di che non sarete più geloso.

– Non vi permetto di continuare a parlarmi in questo modo, – rispose il conte afferrandole il braccio e stringendolo.

– E io continuerò sino in fondo, sino a che non vi avrò detto tutto ciò che intendo dirvi; e se cercaste d’impedirmelo alzerò la voce in modo da farmi sentire dai domestici a cassetta. Vi ho lasciato salire proprio per questo motivo, perché ci sono questi testimoni che vi costringono ad ascoltarmi e a contenervi. State a sentire. Mi siete sempre stato antipatico e ve l’ho sempre mostrato, perché non ho mai mentito, signore. Mi avete sposata contro la mia volontà, avete costretto i miei genitori, che si trovavano in condizioni difficili, a darmi a voi che siete ricchissimo. Mi hanno obbligata, facendomi piangere. Mi avete dunque comperata e dal giorno che sono stata in vostro potere, dal giorno che ho cominciato a diventare per voi una compagna disposta ad affezionarmi, a dimenticare i vostri modi d’intimidazione e di coercizione per ricordarmi soltanto che dovevo essere una moglie devota ed amarvi quanto più mi fosse possibile, voi siete diventato geloso come nessun uomo lo è mai stato, geloso come una spia, in modo basso, ignobile, degradante per voi e insultante per me. Non erano neanche otto mesi che eravamo sposati e già mi sospettavate di ogni perfidia. Me lo avete anche fatto capire. Che vergogna! E poiché non potevate impedirmi di essere bella e piacente, di essere giudicata nei salotti, e anche nei giornali, una delle donne più graziose di Parigi, avete cercato che cosa escogitare per allontanare da me l’omaggio della gente, e vi è venuta l’abominevole idea di farmi trascorrere la vita in una continua gravidanza sino a disgustare chiunque. Oh! non negatelo! Per molto tempo non capii, poi indovinai. Ve ne siete anche vantato con vostra sorella, che me lo disse, perché mi vuol bene ed ha avuto schifo della vostra grossolanità di villanzone. Ah! rammentate le nostre lotte, le porte sfasciate, le serrature forzate! A quale esistenza mi avete condannata da undici anni, un’esistenza di riproduttrice in una stazione di monta! Poi, appena mi trovavo incinta, voi provavate disgusto di me e non vi vedevo più per mesi e mesi. Venivo mandata in campagna, tra il verde, in mezzo ai prati, a fare il mio piccolo. E quando ricomparivo, fresca e bella, indistruttibile, sempre seducente e sempre circondata di omaggi, ogni volta sperando che finalmente avrei cominciato a vivere, almeno per un po’, come una giovane donna ricca che appartiene alla società, allora la gelosia vi riprendeva e ricominciavate a perseguitarmi con l’odioso e infame desiderio che anche in questo momento, accanto a me, vi fa soffrire. Non è desiderio di possedermi – non mi sarei mai rifiutata a voi – ma desiderio di deformarmi.

«Per di più è capitata una cosa abominevole e così misteriosa che mi ci è voluto parecchio tempo per capirla (a forza di seguire le vostre azioni e i vostri pensieri mi sono scaltrita): vi siete affezionato ai vostri figli per la tranquillità che essi vi hanno procurato durante tutto il tempo che io li ho portati nel ventre. L’avversione che avevate per me, congiunta agli ignobili sospetti, momentaneamente sopiti, e alla gioia di vedermi ingrossare, hanno formato il vostro affetto per loro.

«Ah! quante volte ho sentito in voi questa gioia, quante volte l’ho vista nei vostri occhi e l’ho intuita! I vostri figli, voi li amate come vittorie conseguite, non come sangue vostro. Vittorie su di me, sulla mia giovinezza, sulla mia bellezza, sul mio fascino, sulle dichiarazioni che mi venivano rivolte e anche su quelle che, non dette, venivano bisbigliate intorno a me. Siete fiero dei vostri figli, vi pavoneggiate con loro, li portate al Bois di Boulogne in carrozzino scoperto e a Montmorency sui somarelli. Li conducevate alle mattinate teatrali perché la gente vi vedesse in mezzo a loro ed esclamasse: – Che buon padre! – e lo si dicesse in giro…».

Il conte le aveva afferrato il polso con selvaggia brutalità e lo strinse così violentemente che essa tacque soffocando il lamento che le straziava il petto.

– Voglio bene ai miei figli, capite? – disse a bassa voce. – Ciò che state dicendo è vergognoso per una madre. Ma voi mi appartenete. Io sono il padrone… Posso esigere da voi ciò che voglio e quando lo voglio… ho la legge dalla mia parte…

Cercava di schiacciarle le dita nella stretta di tenaglia del suo grosso polso muscoloso. Ella, livida dal dolore, cercava inutilmente di ritirare la mano dalla morsa che gliela stritolava. Ansimava dal dolore e le salivano le lacrime agli occhi.

– Vi rendete conto che io sono il padrone?… – egli disse: – e il più forte?

Aveva allentato un poco la stretta.

– Credete che io sia religiosa? – ella disse.

– Ma sì, – balbettò lui sorpreso.

– Siete sicuro che io creda in Dio?

– Ma sì.

– Che potrei mentire facendovi un giuramento dinanzi a un altare che racchiuda il corpo del Signore?

– No.

– Vorreste accompagnarmi in chiesa?

– A che fare?

– Lo saprete. Acconsentite?

– Sì, se ci tenete

– Philippe, – chiamò la contessa alzando la voce.

Il cocchiere, piegando un po’ il collo, senza perdere di vista i cavalli, sembrò che voltasse soltanto l’orecchio alla padrona, la quale aggiunse:

– Andiamo alla chiesa di Saint-Philippe-du-Roule.

La carrozza, che stava per giungere alla porta del Bois di Boulogne, girò verso Parigi.

Marito e moglie non scambiarono più una parola durante il nuovo tragitto. Quando la carrozza fu dinanzi al tempio, la signora di Mascaret d’un balzo fu a terra ed entrò, seguita a pochi passi dal conte.

Ella avanzò senza fermarsi sin presso alla balaustra dell’altar maggiore, cadendo in ginocchio accanto a una sedia. Si nascose il viso tra le mani e pregò. Pregò a lungo, e il conte, in piedi dietro di lei, si accorse che ella piangeva. Piangeva silenziosamente, come piangono le donne nell’angoscia. C’era, nel suo corpo, come una specie di ondulazione che finiva con un leggero singulto represso, soffocato tra le dita.

Ma il conte di Mascaret ritenne che la cosa andasse troppo per le lunghe, e le toccò una spalla.

Ella si risvegliò, come se avesse subito una scottatura. Rialzandosi fissò il marito negli occhi.

– Ecco cosa devo dirvi. Non ho timore di nulla, potrete fare ciò che vorrete. Se vi parrà mi potrete anche ammazzare. Uno dei vostri figli non è vostro figlio. Lo giuro dinanzi a Dio che è qui a sentirmi. Era il solo modo che io avessi per vendicarmi di voi, della vostra abominevole tirannia di maschio, dei lavori forzati della procreazione ai quali mi avete condannata.

Chi è stato il mio amante? Non lo saprete mai. Sospetterete tutti. Non lo scoprirete. Mi sono data a lui senza amore e senza piacere, soltanto per tradirvi. E anche lui mi ha reso madre. Qual è il figlio suo? Non lo saprete mai. Ne ho sette, cercate… Questa confessione contavo di farvela più in là, tra molto tempo, perché non ci si vendica di un uomo tradendolo, ma facendoglielo sapere. Mi avete costretta a dirvelo oggi… Ho finito.

Riattraversò la chiesa quasi fuggendo, diretta alla porta spalancata sulla strada, aspettandosi di sentire dietro a sé il passo rapido dello sposo che aveva affrontato, e di afflosciarsi sul pavimento sotto la mazzata del suo pugno.

Non sentì nulla e raggiunse la carrozza. Vi fu sopra d’un balzo, contratta dall’angoscia, ansimante di paura.

– A palazzo, – gridò al cocchiere.

I cavalli partirono di trotto serrato.

II.

La contessa di Mascaret, chiusa nella sua camera, stava aspettando l’ora del pranzo come un condannato a morte aspetta il momento dell’esecuzione. Cosa avrebbe fatto egli? Era tornato a casa? Despota, iroso, pronto ad ogni violenza, cosa aveva meditato, cosa aveva preparato, cosa aveva deciso? Nessun rumore nei palazzo… ella guardava ad ogni istante le lancette dell’orologio a pendolo. La cameriera era venuta per la toletta vespertina, poi se n’era andata.

Suonarono le otto e subito dopo vennero picchiati due colpi alla porta.

– Avanti.

– La signora contessa è servita, – disse il maggiordomo affacciandosi.

– Il conte è tornato?

– Sì, signora contessa. Il signor conte è già in sala da pranzo.

Ella pensò per un attimo di munirsi di una piccola pistola, acquistata poco tempo prima in previsione del dramma che le si stava formando in cuore; ma poi rifletté che tutti i suoi figli sarebbero stati presenti e prese soltanto un flaconcino di sali.

Quando entrò nella stanza suo marito stava aspettando in piedi accanto alla sedia. Si scambiarono un leggero saluto e si sedettero. A loro volta i figli presero posto. I tre maschietti con il precettore, don Marin, a destra della madre; le tre bambine con la governante inglese, la signorina Smith, erano a sinistra. L’ultimo figlio, di tre mesi, restava in camera con la balia.

Le tre femminucce, la maggiore aveva dieci anni, erano tutte e tre bionde, vestite di celeste con guarnizioni di merletto bianco, e parevano tre deliziose bambole. La più piccola non aveva tre anni. Già carine tutte e tre, promettevano di diventare belle come la loro madre.

I tre ragazzi, due castani e il maggiore, di nove anni, di già moretto, facevano prevedere uomini vigorosi, di alta statura, di ampie spalle. Tutta la famiglia pareva di uno stesso sangue, forte e vitale.

Il prete recitò il Benedicite, come faceva sempre quando non c’erano invitati. Se c’erano estranei i figlioli non comparivano a tavola. Il pranzo ebbe inizio.

La contessa, turbata come non aveva certo previsto, rimaneva con gli occhi bassi, mentre il conte esaminava le fisionomie ora dei ragazzi, ora delle bambine, con sguardi angosciati che passavano dall’uno all’altro. Ad un tratto, posando il calice sulla tavola lo ruppe e l’acqua arrossata macchiò la tovaglia. Il rumore provocato da quel piccolo incidente fece fare un sobbalzo alla contessa. Per la prima volta i due si guardarono. Da quel momento, contro la loro stessa volontà, nonostante lo spasimo della loro carne e dei loro cuori, sconvolti ad ogni incontro degli occhi, essi non smisero più d’incrociare i loro sguardi come canne di pistole.

Il prete sentiva che c’era un disagio di cui ignorava la causa, e cercava di mettere in piedi un po’ di conversazione. Sgranava argomenti di discorso l’uno dopo l’altro, senza che i suoi vani tentativi facessero sbocciare un’idea o nascere una parola.

La contessa, con tatto femminile e obbedendo al proprio istinto di signora, per due o tre volte cercò di rispondergli, ma invano. Non riusciva a trovare le parole nella sua mente sconvolta, e la sua voce le faceva quasi paura, nel silenzio della grande sala in cui si udivano soltanto i tenui rumori delle posate e dei piatti.

Improvvisamente suo marito, sporgendosi avanti, disse:

– In questo luogo, in mezzo ai vostri figli, mi confermate col giuramento la sincerità di quanto mi avete dichiarato poco fa?

L’odio che le ardeva nelle vene la fece balzare in piedi e, rispondendo alla richiesta con la stessa energia con cui sosteneva lo sguardo di lui, essa levò le mani, la destra sul capo dei ragazzi, la sinistra su quelli delle bambine, e con voce risoluta, sicura, piena di fermezza, disse:

– Sul capo dei miei figli, giuro di aver detto la verità.

Il conte si alzò; con un gesto di rabbia buttò il tovagliolo sulla tavola e nel voltarsi mandò la sedia contro il muro. Quindi uscì senza profferire parola.

Allora la contessa, con un gran sospiro, come chi ha ottenuto la prima vittoria, e con voce placata disse:

– Non fateci caso, miei cari. Papà ha avuto una grossa pena, poco fa. Ne soffre ancora molto, ma tra qualche giorno sarà tutto passato.

Poi si mise a discorrere con il prete, chiacchierò con la signorina Smith; ebbe per ognuno dei figlioli frasi piene di tenerezza, di affetto, quelle moine materne che inteneriscono i giovani cuori.

Terminato il pranzo, passò nel salone con tutta la casata. Fece parlare i più grandi, raccontò favole ai piccini, e, quando venne per tutti l’ora di andare a letto, li baciò a lungo e tornò, sola, in camera sua.

Rimase in attesa, perché era certa ch’egli sarebbe venuto. Ora che i figli non le erano più accanto, si decise a difendere la propria pelle di creatura umana, come aveva difeso la propria vita di signora della società; nascose nella tasca del vestito la piccola pistola carica che aveva comperato qualche giorno prima.

Le ore passavano, le ore suonavano. Tutti i rumori del palazzo si spensero. Soltanto le carrozze di piazza protraevano per le strade il loro rotolio indistinto, fievole e lontano attraverso i parati dei muri.

Ella attendeva, energica e nervosa, senza più paura di lui, adesso, pronta a tutto e quasi trionfante poiché aveva trovato per lui un supplizio di ogni istante, per tutta la vita.

La prima luce del giorno s’insinuò al disotto delle frange in fondo alle tende senza che egli si fosse presentato. Allora ella capì, con stupore; che non sarebbe venuto. Chiusa a chiave la porta, tirato il paletto di sicurezza che lei stessa aveva fatto applicare, finì per andare a letto, rimanendo a meditare con gli occhi spalancati, senza più capire, senza poter indovinare ciò che egli avrebbe fatto.

La cameriera, portandole il tè, le consegnò una lettera del marito. Costui le scriveva che partiva per un viaggio abbastanza lungo, e l’avvertiva, nel post scriptum, che il notaio le avrebbe fornito il denaro necessario per tutte le spese.

III.

All’Opéra, durante un intervallo di Roberto il Diavolo. In platea, due signori in piedi, cilindro in capo, panciotto abbondantemente aperto sullo sparato bianco luccicante dell’oro e delle pietre dei gemelli, guardavano i palchi affollati di signore scollate, indiamantate, imperlate sbocciate in quella serra luminosa dove

la bellezza dei volti, lo splendore delle spalle sembravano come una fioritura offerta agli sguardi tra i suoni e il brusio delle voci umane.

I due amici voltavano le spalle all’orchestra e, chiacchierando, puntavano i binocoli su tutta quella galleria di eleganze, su tutta quella esposizione di grazia vera o falsa, di gioielli, di lusso, di pretese, sfoggiata nel giro dell’ampio teatro.

Uno dei due, Roger di Salins, disse al compagno Bernard Grandin:

– Guarda com’è sempre bella la contessa di Mascaret…

L’altro, allora, rivolse il binocolo verso un palco di centro, su una signora dall’aspetto ancora giovanissimo ed una sfolgorante bellezza che pareva attirare gli sguardi da ogni punto della sala. Un pallore con riflessi d’avorio la faceva parere una statua, e sui suoi capelli, neri come la notte un sottile diadema cosparso di diamanti brillava come una via lattea.

Dopo averla guardata per un momento, Bernard Grandin rispose con tono giocoso di sincera ammirazione:

– Eh! lo credo che è bella! Che età può avere adesso?

– Aspetta… Posso dirtela esattamente. La conosco sin dall’infanzia. L’ho vista esordire in società da signorina. Ella ha… trenta… trenta… trentasei anni.

– Non è possibile.

– Ne sono sicuro.

– Ne dimostra venticinque…

– E ha sette figli!

– Incredibile…

– Sono vivi tutti e sette, e lei è una buonissima madre. Vado qualche volta in casa loro, che è piacevole, molto tranquilla e molto per bene. Ella ha realizzato il fenomeno della famiglia in seno alla società.

– Un bel fatto. E non ci sono mai stati chiacchiericci sul suo conto?

– Mai.

– E il marito? Un tipo singolare, no?

– Sì e no. Forse, tra di loro può esserci stato un piccolo dramma, uno di quei piccoli drammi di famiglia di cui si ha il sospetto senza che si possano mai conoscere bene e che tuttavia a un dipresso s’indovinano.

– E che cosa?

– Non saprei dire. Adesso Mascaret è un gran gaudente, dopo essere stato un perfetto coniuge. Finché si comportò da buon marito, aveva un pessimo carattere, ombroso e arcigno. Dacché si è dato alla bella vita, è diventato molto indifferente, ma si direbbe che abbia una grossa preoccupazione, una pena, un verme roditore che lo fa invecchiare rapidamente.

I due amici filosofarono alquanto sulle pene segrete, inconoscibili, che dissimiglianze di caratteri o forse antipatie fisiche, inavvertite dapprima, possono far nascere in una famiglia.

Roger di Salins, che aveva sempre il binocolo puntato sulla contessa di Mascaret, aggiunse:

– È incredibile che quella donna abbia avuto sette figli!

– Sì, in undici anni. Dopo di che, a trent’anni ha chiuso il suo periodo di produzione, per entrare nel brillante periodo di rappresentanza che non pare prossimo alla fine.

– Povere donne!

– Perché le compiangi?

– Perché? Ah, caro mio, ma pensa un po’! Undici anni di gravidanze per una come quella! Che inferno! Tutta la giovinezza, tutta la bellezza, tutta la speranza di successo, tutto l’ideale poetico di vita brillante sacrificato all’abominevole legge della riproduzione che riduce una donna normale al livello di una semplice macchina incubatrice.

– Che vuoi farci? È la natura!

– Sì, ma io dico che la natura è la nostra nemica, che bisogna continuamente lottare contro la natura perché essa cerca sempre di riportarci alla condizione di animali. Quanto c’è di pulito, di bello, di elegante l’ideale sulla terra non è Dio che ce l’ha messo, ma l’uomo, il cervello umano. Siamo stati noi a portare nel creato, inneggiandovi, interpretando, ammirando da poeti, idealizzando da artisti, spiegando da scienziati (sbagliando magari, ma scoprendo ingegnose ragioni dei fenomeni), un po’ di grazia, di bellezza, di fascino sconosciuto e di mistero. Dio ha soltanto creato degli esseri grossolani, pieni di germi di malattie, i quali, dopo qualche anno di rigoglio animalesco, invecchiano nelle infermità con tutta la laidezza e l’impotenza della decrepitezza umana. Si direbbe che li abbia fatti soltanto perché si riproducano sozzamente e poi muoiano, come gl’insetti effimeri delle serate estive. Ho detto: «Perché si riproducano sozzamente» ed insisto. Esiste infatti qualcosa di più ignobile, di più ripugnante, dell’atto osceno e ridicolo della riproduzione degli esseri, contro il quale tutti gli animi delicati sono e saranno eternamente in rivolta? Dato che tutti gli organi inventati dal Creatore economo e malevolo servono a due scopi, perché non ne ha scelti altri che non fossero sudici e insozzati ai quali affidare questa sacra missione, la più nobile e la più esaltante delle funzioni umane? La bocca che nutre il corpo con alimenti materiali diffonde altresì la parola e il pensiero. La carne si ristora per il suo tramite e al tempo stesso comunica le idee. Il naso, che dà ai polmoni l’aria vitale, adduce al cervello tutti i profumi del mondo: l’odore dei fiori, dei boschi, degli alberi, del mare. L’orecchio, che ci consente di comunicare con i nostri simili, ci ha anche dato modo d’inventare la musica, di creare i sogni, la felicità, l’infinito e anche il godimento fisico dei suoni. Ma si direbbe che il Creatore, sornione e cinico, abbia voluto proibire all’uomo l’incontro con la donna. Per rivalsa, l’uomo ha inventato l’amore, che non è poi una cattiva risposta al Dio beffardo, e l’ha tanto bene ornato di poesia letteraria che la donna dimentica spesso a quali contatti si trova costretta. Quelli, fra di noi, che non riescono ad ingannare se stessi esaltandosi, hanno inventato il vizio e raffinato le orge, che è un altro modo di burlarsi di Dio e di rendere omaggio, un impudico omaggio, alla bellezza.

«Ma le persone comuni fanno figli come animali accoppiati legalmente.

«Guarda quella donna! Non è forse un abominio pensare che un tale gioiello, una perla nata per essere bella, ammirata, festeggiata, adorata, abbia speso undici anni della sua vita per dare eredi al conte di Mascaret?».

– C’è molto di vero nelle tue parole; ma pochi ti capirebbero, – rispose Bernard Grandin, ridendo.

Salins s’infervorava.

– Sai come io concepisco Dio? – aggiunse. – Come un mostruoso organo creatore, a noi sconosciuto, che spanda negli spazi miliardi di mondi, come un unico pesce seminerebbe le uova nel mare. Crea perché è la sua funzione di Dio; ma ignora ciò che fa, stupidamente prolifico, inconscio delle combinazioni di ogni sorta prodotte dal suo germe disseminato. Il pensiero umano è un lieve e fortunato accidente dovuto al caso delle fecondazioni, un accidente locale, passeggero, imprevisto, destinato a scomparire con la terra, e a rifarsi qui magari o altrove, sempre uguale o differente, assieme alle nuove combinazioni degli eterni ricominciamenti. Dobbiamo al piccolo accidente dell’intelligenza se non ci troviamo bene in un ambiente che non è fatto per noi, che non è stato preparato per accoglierci, ricoverare, nutrire e soddisfare degli esseri pensanti; e gli dobbiamo anche di dover lottare senza posa, quando siamo veramente civili e raffinati, contro ciò che viene chiamato «i disegni della Provvidenza».

Grandin, che l’ascoltava attentamente, conoscendo da sempre le brillanti risorse della sua fantasia, gli domandò:

– Così tu credi che il pensiero umano sia un prodotto spontaneo dei ciechi parti divini?

– Perbacco! una funzione fortuita dei centri nervosi del nostro cervello, simile alle reazioni chimiche imprevedibili in nuovi miscugli, simile anche a una produzione di elettricità con sfregamenti o vicinanze insospettate, simile a tutti quei fenomeni generati dall’infinito e fecondo rigoglio della materia che vive.

«E, mio caro, la prova è lampante per chiunque voglia guardare attorno a se. Se il pensiero umano, voluto da un creatore cosciente, avesse dovuto essere quale è poi diventato, tanto differente dal pensiero e dalla rassegnazione degli animali, e così esigente, ricercatore, tormentato, credi che il mondo creato per accogliere l’essere che oggi noi siamo, sarebbe lo scomodo giardino zoologico, orto da insalata, il campo silvestre, roccioso e sferico, nel quale la vostra Provvidenza ci aveva destinati a vivere ignudi nelle grotte o sotto gli alberi, a nutrirci di animali massacrati, nostri fratelli, o di legumi crudi spuntati sotto il sole e le piogge?

«Basta un momento di riflessione per convincerci che la terra non è fatta per esseri come noi. Il pensiero sbocciato e sviluppatosi per un miracolo nervoso delle cellule del capo, per impotente, ignorante e incerto che sia e magari sempre sarà, rende noi intellettuali eterni e miserevoli esiliati su questa terra.

«Contemplata, questa terra quale Dio l’ha data a quelli che l’abitano. Non è palesemente e unicamente sistemata e arborata per gli animali? Cosa c’è per noi? Niente. E per gli animali, tutto: caverne, alberi, foglie, sorgenti, rifugi, alimenti e bevande. Per cui, gente difficile come me non ci si troverà mai bene. Soltanto quelli che si approssimano, alle bestie possono essere contenti e soddisfatti. Ma gli altri, quelli che hanno sensibilità, i poeti, i sognatori, i pensatori, gl’inquieti!… Ah! disgraziati!

«Mangio cavoli e carote, perdio, cipolle, rape e ravanelli perché sono stato costretto ad abituarmici, persino a prendervi gusto, e perché non c’è altro. Ma sono alimento da conigli e da capre, come l’erba e il trifoglio lo sono per i cavalli e le vacche. Quando, in un campo, vedo le spighe di grano maturo, non ho alcun dubbio che siano spuntate per il becco dei passeri e delle allodole, certo non per

la mia bocca. Perciò, mangiando il pane derubo gli uccelli, come derubo la donnola e la volpe quando mangio una gallina. La quaglia, il piccione e la pernice, non sono forse le naturali prede dello sparviero, come la pecora, il capretto e il bue quelle dei grossi carnivori, piuttosto che carni da ingrassare per servircele assortite, assieme a tartufi che i maiali avrebbero dissotterrato appositamente per noi?

«Mio caro, quaggiù gli animali non hanno che da lasciarsi vivere. Sono in casa loro, alloggiati e nutriti, non hanno che da brucare o cacciare e mangiarsi l’un l’altro secondo il loro istinto, visto che Dio non ha previsto la dolcezza e i pacifici costumi, ma ha previsto soltanto la morte degli esseri accaniti a distruggersi e a divorarsi.

«Ma noi! Ah! ah! ce n’è voluto di lavoro, sforzi, pazienza inventiva, immaginativa, industriosità, talento e genialità, per rendere alla meglio abitabile questo nostro suolo di radici e di pietre! Pensa a quanto abbiamo fatto nonostante la natura, contro la natura, per sistemarci in modo appena mediocre, appena pulito, appena comodo, appena elegante e non ancora degno di noi.

«E quanto più siamo civili, intelligenti, raffinati, tanto più ci tocca vincere e dominare l’istinto animale che rappresenta, in noi, la volontà di Dio.

«Pensa che abbiamo dovuto inventare la civilizzazione, che comprende tante cose, ma tante, tante, e di ogni specie, dai calzini al telefono. Pensa a tutto ciò che vedi ogni giorno, a tutto ciò che serve a tutte le nostre necessità.

«Per alleviare la nostra condizione di bestie, abbiamo scoperto e fabbricato ogni cosa, cominciando dalle case, e poi alimenti squisiti, dolciumi, bibite, liquori, tessuti, vestiti, letti, carrozze, ferrovie, macchine innumerevoli; per di più abbiamo inventato le scienze e le arti, la scrittura e i versi. Sì, abbiamo creato le arti, la poesia, la musica, la pittura. Tutti gli ideali provengono da noi, e anche tutti gli abbellimenti della vista, i vestiti delle donne e il talento degli uomini, che hanno finito per adornare ai nostri occhi e renderla meno nuda, meno monotona e meno dura, la nostra esistenza di semplici riproduttori, per la quale, soltanto, la Provvidenza ci aveva animati.

«Guarda questo teatro. Non ci vedi un mondo umano creato da noi, non previsto dai Destini Eterni, ignorato da Essi, comprensibile soltanto al nostro spirito, una graziosa distrazione sensuale, intelligente, inventata unicamente da e per il piccolo animaletto insoddisfatto e inquieto che noi siamo?

«Considera quella signora, la contessa. Dio l’aveva fatta perché vivesse in una grotta, ignuda, avvolta in pelli di animali. Non è meglio così com’è ora? A proposito, si sa perché mai il suo bestione di marito, che ha accanto a sé una simile compagna, e, soprattutto, dopo essere stato così volgare da renderla madre sette volte, l’abbia piantata tutt’a un tratto per correr dietro le donnine?».

Grandin rispose:

– Eh, caro mio, probabilmente l’unico motivo deve essere proprio quello. Deve aver finito per trovare che gli costava troppo caro dormire sempre nel suo letto. Per economia domestica è giunto agli stessi principii che tu proclami da filosofo.

Si udirono i tre colpi per l’inizio dell’ultimo atto. I due amici si rigirarono, si tolsero il cappello e si sedettero.

 

IV.

Nella carrozza che li riaccompagnava a casa dopo lo spettacolo all’Opéra, il conte e la contessa di Mascaret, seduti a fianco, non si dicevano una parola. Ma ecco che il marito, improvvisamente, si rivolse alla moglie:

– Gabrielle!

– Che volete?

– Non trovate che ormai ha durato abbastanza?

– Che cosa?

– L’abominevole supplizio al quale mi avete condannato da sei anni a questa parte.

– Che volete mai, non posso farci nulla…

– Insomma, ditemi qual è.

– Mai.

– Ma pensate che io non posso più guardare i miei figli, vedermeli intorno, senza sentire il morso di quel dubbio… Ditemi qual è e vi giuro che vi perdonerò, che tratterò lui come gli altri.

– Non ne ho il diritto.

– Non capite che non ne posso più di questa vita, che quel pensiero mi rode e che quella domanda mi si pone continuamente e ogni volta che guardo i miei figli?

– Dunque avete sofferto molto? – ella chiese.

– Spaventosamente. Altrimenti, come avrei potuto sopportare l’orrore di vivere accanto a voi, e l’orrore, anche più forte, di sentire, di sapere che tra i miei figli ve n’è uno non mio, che non riesco ad indovinare e che m’impedisce di amare gli altri?

– Cosicché, – tornò a ripetere lei, – avete proprio molto sofferto?…

– Ma se vi dico che ogni giorno per me è un insopportabile supplizio, – rispose il conte con voce contenuta e dolorosa. – Se no, se non li amassi sarei forse tornato, avrei abitato la nostra casa, accanto a voi e accanto a loro? Ah! con me, vi siete comportata in modo atroce. Le sole tenerezze del mio cuore sono per i miei figli, lo sapete pure. Per loro, sono un padre dei vecchi tempi, come per voi sono stato il marito delle famiglie di una volta, perché io sono un istintivo, un uomo della natura, un uomo dei tempi passati. Sì, lo ammetto, mi avete reso ciecamente geloso perché voi siete una donna di altra specie, di un’altr’anima, con altre aspirazioni. Ah! ciò che mi avete detto non lo dimenticherò mai. D’altronde, dopo di allora, non mi sono più curato di voi. Non vi ho ammazzata perché non avrei più avuto modo, su questa terra, di scoprire quale dei vostri figli non sia anche mio. Ho aspettato, ma ho sofferto più di quanto possiate supporre, perché non posso più amarli, salvo forse i primi due; non oso più guardarli, chiamarli, accarezzarli, non posso più prenderne uno sulle ginocchia senza chiedermi: «Sarà questo?». Con voi mi sono comportato correttamente e sono anche stato buono e compiacente, in questi sei anni. Ditemi la verità e vi giuro che non vi farò alcun male…

Nell’oscurità della carrozza gli parve che ella fosse commossa, e sentiva che avrebbe finalmente parlato.

– Vi prego, – disse il marito, – vi scongiuro…

Ella mormorò:

– Forse sono stata più colpevole di quanto non crediate. Ma non potevo più sopportare quell’odiosa vita di continue gravidanze. Avevo un solo modo per allontanarvi dal mio letto. Ho mentito dinanzi a Dio, e ho mentito con la mano alzata sul capo dei miei figli. Non vi ho mai tradito.

Il conte le afferrò il braccio nell’ombra, stringendolo come in quel terribile giorno della passeggiata al parco, e balbettò:

– Ma è proprio vero?

– È vero…

Ma egli, sconvolto dall’angoscia, gemette:

– Ah! Ricadrò in altri dubbi senza fine! Quando mi avete mentito, allora o adesso? Come credervi, ora? Come aver fede in una donna dopo di ciò? Non saprò mai più a cosa credere, e avrei preferito che mi aveste detto: «È Jacques», o «È Jeanne».

La carrozza entrò nel cortile del palazzo. Quando si fu fermata davanti alla scalea il conte ne discese per primo, e, come sempre, offerse il braccio alla moglie per salire i gradini.

Giunti al primo piano egli disse:

– Posso ancora parlarvi un momento?

Ella rispose:

– Volentieri.

Entrarono in un salottino. Un domestico, alquanto stupito, venne ad accendere i candelabri.

Appena furono soli, il conte soggiunse:

– Come sapere la verità? Vi ho supplicata cento volte di parlare, e siete sempre rimasta muta, impenetrabile, inflessibile, inesorabile, e stasera mi dite di aver mentito. Avete potuto lasciarmi credere una tal cosa per sei anni? No, è adesso che mentite; non so per quale motivo, forse perché avete pietà di me?…

Ella rispose in tono sincero e convinto:

– Se non vi avessi mentito allora, in questi sei anni avrei avuto altri quattro figli.

– Parla così una madre? – esclamò il marito.

– Ah! non mi sento per nulla madre di figli che non sono nati, mi basta di essere la madre di quelli che ho e di amarli con tutto il mio cuore. Sono, siamo donne di un mondo civile signore. Non siamo più e ci rifiutiamo di essere semplici femmine che ripopolano la terra.

Si alzò ed il conte le prese le mani:

– Una parola, una parola sola, Gabrielle. Mi avete detto la verità?

– Ve l’ho detta. Non vi ho mai tradito.

Egli la guardò in viso, così bella con gli occhi grigi come cieli freddi. Nella cupa capigliatura, nella notte opaca dei suoi capelli neri brillava il diadema cosparso di diamanti, simile a una via lattea. Egli sentì allora, d’improvviso, sentì come per una specie d’intuizione, che quella creatura non era soltanto più la donna destinata a perpetuare una razza, ma il prodotto bizzarro e misterioso di tutti i nostri complessi desideri, accumulatisi lungo i secoli, sviati dal loro primitivo e divino scopo verso una bellezza mistica, intravista e irraggiungibile. Sono così alcune che fioriscono soltanto per i nostri sogni, adorne di tutto quanto la civiltà ha inventato di poesia, di lusso ideale, di fascino estetico per la donna, per la statua di carne che avviva la febbre dei sensi come gli appetiti immateriali.

Il marito rimaneva in piedi dinanzi a lei, stupefatto della sua tardiva ed oscura scoperta, confusamente legata alla causa della sua antica gelosia e rendendosi conto a malapena di tutto.

– Vi credo, – disse infine. – Sento che adesso non mi mentite, mentre allora mi era sempre sembrato di non sentirvi sincera.

Ella gli porse la mano:

– Amici, dunque?

Egli baciò la mano che gli veniva tesa e aggiunse:

– Siamo amici. Grazie, Gabrielle.

Quindi uscì, guardandola ancora, meravigliandosi che fosse ancora così bella, e sentendo nascere in sé una strana commozione, forse più temibile dell’antico e semplice amore.