Nonostante la goffa pesantezza dell’attrezzatu- ra, l’Aorai avanzava facilmente nella brezza, e il suo capitano la dirigeva a dovere finché l’arrestò proprio fuori del risucchio dei frangenti. L’atollo di Hikue- ro si alzava di poco sopra le acque: un circolo di sabbia di corallo finissima d’un centinaio di metri, con una circonfe- renza di venti miglia, alto da tre a cinque piedi1 sul livello dell’alta marea. Al fondo della grande e vitrea laguna vi erano molte conchiglie perlifere, e dal ponte della goletta, al di là del sottile anello dell’atollo, si vedevano all’opera i pescatori di perle. La laguna però non offriva possibili- tà d’ingresso nemmeno a una goletta mercantile. Con una brezza favorevole i cutter2 potevano entrarvi attraverso il canale basso e tortuoso, ma le golette restavano di fuori, al largo, e mandavano dentro piccole scialuppe.

L’Aorai ammainò con disinvoltura una lancia; una mezza dozzina di marinai dalla pelle bruna, vestiti soltanto d’uno straccio rosso intorno alle reni, vi saltarono dentro e presero i remi mentre a poppa, al timone, sedeva un giovane vestito del bianco abbigliamento dei tropici che di- stingue l’europeo. Ma europeo del tutto non era. La vena dorata della Polinesia si rivelava nell’abbronzatura della sua pelle bionda e accendeva bagliori dorati nei suoi scintillanti occhi azzurri. Era Raoul, Alexander Raoul, il figlio minore di Marie Raoul, la ricca meticcia che possedeva e dirige- va una mezza dozzina di golette mercantili simili all’Aorai. Traversando un vortice proprio davanti all’entrata e infilan- do e superando un tumultuoso ribollire di schiuma, la lan- cia si aprì a fatica la strada nel calmo specchio della laguna. Il giovane Raoul saltò sulla sabbia bianca e strinse la mano a un indigeno alto. Il petto e le spalle di costui erano ma- gnifici, ma il braccio destro, ridotto a un mozzicone da cui l’osso scolorito dal tempo sporgeva di parecchi centimetri, attestava l’incontro con un pescecane che, ponendo fine alla sua vita di pescatore, aveva fatto di lui un maneggione, sempre indaffarato a procacciare piccoli favori.

“Hai sentito, Alec?” furono le sue prime parole. “Ma- puhi ha pescato una perla… ma una perla incredibile! Non si è mai pescata una perla simile né a Hikuero né in tutte le Paumotu né in tutto il mondo. Compragliela, l’ha ancora lui. È un idiota e gliela porti via con poco. E ricordati che per primo te l’ho detto io. Hai del tabacco?”

Raoul si avviò per la spiaggia verso una capanna all’om- bra di un grande pandano. Era il supercargo3 di sua madre, e aveva il compito di girare per tutto il Pacifico a rastrellare le ricchezze di copra4, di conchiglie e di perle che conteneva. Era un supercargo molto giovane e faceva il suo secondo viaggio con quel ruolo; si logorava molto, senza darlo a vedere, per la mancanza d’esperienza nel valutare le perle. Tuttavia, quando Mapuhi gli presentò la sua perla, riuscì a trattenere un sussulto e a conservare un’espressione indiffe- rente, da maturo uomo d’affari.

Perché la perla lo aveva folgorato. Era grossa come un uovo di piccione, perfettamente sferica, di un biancore che rifletteva con bagliori opalescenti tutti i colori circostanti: una cosa viva. Non aveva visto mai niente di simile. Quan- do Mapuhi gliela mise in mano, restò sorpreso dal suo peso. Quindi era una buona perla. La esaminò accuratamente da vicino, con una lente d’ingrandimento tascabile: era senza macchia e senza difetto, d’una purezza tale che sembrava quasi svanire nell’aria, fra le sue mani. All’ombra splende- va, dolcemente luminosa, come una tenera luna. Era d’un bianco così tralucente, che quando la fece cadere in un bic- chier d’acqua stentava a vederla. Dalla rapidità con cui calò a fondo capì che il peso era eccellente.

“Beh, quanto vuoi per questa?” chiese fingendo una bella indifferenza.

“Voglio…” cominciò Mapuhi, e dietro di lui, inqua- drando il suo viso bruno, i visi bruni di due donne e di una ragazza annuivano a ritmo alle sue parole, curvi in avanti, pieni d’un’ansia mal celata, gli occhi balenanti d’avidità.

“Voglio una casa” continuò Mapuhi. “Deve avere un tetto di ferro galvanizzato e un orologio a pendolo. Deve essere lunga sei fathom5, con una veranda tutt’intorno. Nel centro ci dev’essere una grande stanza con una tavola ro- tonda in mezzo e l’orologio a pendolo alla parete; poi quat- tro camere da letto, due per parte della stanza grande, e in ogni camera un letto di ferro, due sedie e un lavabo. E dietro una cucina, una bella cucina con pentole e padelle e una stufa. E devi costruire la casa nella mia isola che è Fakarava.”

“Questo è tutto?” chiese Raoul, stupito.

“Ci deve essere una macchina da cucire,” intervenne Tefara, la moglie di Mapuhi.

“Non dimenticare il pendolo” insistette Nauri, la ma- dre di Mapuhi.

“Sì, questo è tutto” concluse Mapuhi.

Il giovane Raoul rise. Rise a lungo e di cuore; ma men- tre rideva eseguiva vari esercizi di calcolo mentale. Non aveva mai costruito una casa in vita sua, e le sue nozioni in proposito erano molto vaghe. Sempre ridendo, calcolava il costo del viaggio a Tahiti per i materiali, quello dei mate- riali stessi e del viaggio di ritorno a Fakarava; e la spesa per scaricare i materiali e costruire la casa. Poteva ammontare a quattromila dollari francesi, all’ingrosso, e quattromila dol- lari francesi equivalgono a ventimila franchi. Impossibile! Come poteva sapere, lui, il valore di quella perla? Ventimila franchi! Erano un sacco di soldi, e soldi di sua madre, so- prattutto.

“Mapuhi,” disse “sei un grande idiota! Fa’ un prezzo in denaro.”

Mapuhi scosse la testa, e le tre teste dietro di lui si scos- sero con la sua.

“Voglio la casa” ripeté. “Deve essere lunga sei fathom, con una veranda tutt’intorno…”

“Sì, sì,” lo interruppe Raoul, “ho capito! Ti darò mille dollari cileni.”

Tutte insieme, tacitamente, le quattro teste dissero di no.

“Più altri cento in merci.”

“Voglio la casa” ricominciò Mapuhi.

“E che te ne farai, d’una casa?” domandò Raoul. “Il pri- mo uragano te la porterà via, lo dovresti sapere. Il capitano Raffy dice che minaccia un temporale proprio adesso!”

“A Fakarava no” ribatté Mapuhi. “La terra è molto più alta, lì. Su quest’isola sì, qualunque uragano può spazzar via Hikuero. Mi farò la casa a Fakarava. Deve essere lunga sei fathom, con una veranda tutt’intorno…” E Raoul fu costretto ad ascoltare ancora la storia della casa. Impiegò parecchie ore a tentar di smantellare quell’ossessione dalla mente di Mapuhi; ma la madre e la moglie e Ngakura, la figlia, cospiravano risolutamente ad appoggiarla. Dalla porta aperta, mentre ascoltava per la ventesima volta la de- scrizione particolareggiata della casa richiesta, Raoul vide la seconda lancia della goletta che si avvicinava alla spiaggia. I marinai fermarono i remi e gli fecero cenno di sbrigarsi. Il secondo dell’Aorai saltò sulla spiaggia, scambiò una paro- la con l’indigeno senza un braccio, poi corse verso Raoul. Il giorno si oscurò all’improvviso mentre un acquazzone nascondeva il sole. Sulla laguna, Raoul vide avvicinarsi la sinistra linea del vento.

“Il capitano Raffy dice di andare anche al diavolo pur- ché fuori di qui” fu il saluto del secondo. “Se c’è qualche conchiglia ritorneremo a prenderla dopo, dice. Il barome- tro è calato a 29,70.”

Una raffica investì il pandano su di loro e infuriò tra le palme sottostanti scagliando a terra con tonfi pesanti una mezza dozzina di noci mature. Poi la pioggia venne da lon- tano, avanzando col rugghio d’un vento possente e facen- do fumare sotto lo scroscio l’acqua della laguna. Le prime gocce crepitavano sulle foglie quando Raoul balzò in piedi.

“Mille dollari cileni in contanti, Mapuhi” disse, “e due- cento in merci.”

“Io voglio una casa…” ricominciò l’altro.

“Mapuhi!” urlò Raoul per farsi udire “ Sei un idiota.”

Si slanciò fuori dalla capanna col secondo e corsero a fatica per la spiaggia fino alla lancia. Ma non scorsero più nessuna lancia. La pioggia tropicale batteva tutt’intorno così fitta che vedevano soltanto la sabbia sotto i piedi e le ondine dispettose della laguna che schioccavano sulla riva. Una figura si delineò nel diluvio. Era Huru-Huru, il mon- co.

“Hai preso la perla?” urlò questi all’orecchio di Raoul. “Mapuhi è un idiota!” urlò Raoul in risposta, e un mo-

mento dopo scomparvero l’uno agli occhi dell’altro nella violenza dell’acqua scrosciante.

Mezz’ora dopo Huru-Huru, guardando dall’atollo ver- so il mare, vide che le due lance venivano tirate su e che l’Aorai volgeva la prua al largo. E lì accanto, quasi venuta dal mare sulle ali dell’uragano, scorse un’altra goletta che si fermava e calava una scialuppa. La conosceva: era la Orohe- na, di proprietà di Toriki, il mercante meticcio che fungeva da proprio supercargo e che senza dubbio in quel momen- to era lì, seduto a poppa. Huru-Huru ridacchiò. Sapeva che Mapuhi era indebitato con Toriki per certe merci anticipa- tegli l’anno prima.

L’acquazzone era passato, il sole caldo ardeva di nuovo e la laguna era di nuovo uno specchio; ma l’aria densa e appiccicosa opprimeva i polmoni e toglieva il respiro.

“Hai saputo la notizia, Toriki?” disse Huru-Huru. “Ma- puhi ha pescato una perla. Non è stata pescata mai una per- la simile a Hikuero né in nessun altro porto delle Paumotu né in nessuna parte del mondo. Mapuhi è un idiota, e poi ti deve dei soldi. Ricordati che per primo te l’ho detto io. Hai del tabacco?

E così Toriki andò alla capanna d’erba di Mapuhi. Era un uomo avvezzo a spadroneggiare, anche se piuttosto stu- pido. Guardò con indifferenza la perla meravigliosa, dan- dole appena un’occhiata, e con indifferenza se la cacciò in tasca.

“Sei fortunato” disse. “È una bella perla. Ti farò credito sui registri.”

“Io voglio una casa” iniziò Mapuhi, costernato. “Dev’es- sere lunga sei fathom…”

“Sei fathom un corno!” ribatté il mercante. “Tu vuoi pagare i debiti, ecco quello che vuoi. Mi dovevi milledue- cento dollari cileni. Benone: non me li devi più. Il conto è chiuso. Per di più ti farò credito per duecento dollari. Se a Tahiti venderò bene la perla, ti farò credito per un altro centinaio di dollari, il che fa trecento. Ma bada, eh? Se la vendo bene. Posso anche perderci.”

Mapuhi incrociò le braccia, avvilitissimo, e sedette con la testa china. Gli avevano rubato la sua perla. Al posto della casa aveva pagato un debito. E della perla non gli era rimasto niente in mano.

“Sei un idiota!” gli disse Tefara.

“Sei un idiota!” rincarò Nauri, sua madre. “Perché gli hai messo la perla in mano?”

“Che potevo fare?” protestò Mapuhi. “Gli dovevo quei soldi, e lui sapeva che avevo la perla. Avete sentito anche voi che mi ha chiesto di mostrargliela! Lui lo sapeva, qual- cuno gliel’aveva detto. E poi gli dovevo quei soldi.

“Mapuhi è un idiota!” ripeté Ngakura.

Era una ragazzina di dodici anni, e come tale si com- portava. Mapuhi si sfogò allungandole un ceffone che la fece traballare, mentre Tefara e Nauri scoppiavano in pian- to e continuavano a rimbrottarlo come fanno sempre le donne.

Guardando dalla spiaggia, Huru-Huru vide una terza goletta che beccheggiava oltre l’ingresso e calava un battel- lo. Era la Hira, così chiamata a proposito perché apparte- neva a Levy, l’ebreo tedesco, il più grande compratore di perle; e come si sapeva, Hira era il dio tahitiano dei ladri e dei pescatori di perle.

“Hai sentito la notizia?” chiese Huru-Huru mentre Levy, un omaccione dai lineamenti massicci e asimmetrici, metteva piede sulla spiaggia. “Mapuhi ha trovato una perla. Non si è vista mai una perla simile a Hikuero, in tutte le Paumotu, in tutto il mondo! Mapuhi è un idiota: l’ha ven- duta a Toriki per millecinquecento dollari cileni, io stavo di fuori ad ascoltare e l’ho sentito. Anche Toriki è un idiota, gliela puoi ricomprare a buon mercato. Ricordati che io te l’ho detto per primo. Hai del tabacco?”

“Dov’è Toriki?”

“Nella casa del capitano Lynch, a bere. Sta lì da un’ora.” E mentre Levy e Toriki bevevano assenzio e contratta- vano la perla, Huru-Huru stette ad ascoltare e li udì discu- tere e poi accordarsi sulla favolosa cifra di venticinquemila franchi.

Fu allora che tanto la Orohena quanto la Hira, avvici- nandosi alla spiaggia, cominciarono a sparare e a lanciare frenetici appelli. I tre uomini uscirono giusto in tempo per vedere le due golette affrettarsi verso il mare aperto, mano- vrando le vele in senso inverso all’uragano che le incalzava sulle acque biancheggianti. Poi la pioggia le cancellò.

“Torneremo quando sarà finito,” disse Toriki. “È meglio che ce ne andiamo da qui.”

“Scommetto che il barometro sarà calato ancora,” os- servò il capitano Lynch.

Era un capitano di mare dalla barba bianca, che aveva imparato che il solo modo per passarsela in buoni termini con l’asma che l’affliggeva era di vivere a Hikuero. Rientrò per dare un’occhiata al barometro.

“Gran Dio!” lo udirono esclamare, e corsero dentro per guardare con lui, stupefatti, il quadrante che segnava 29,20. Poi uscirono di nuovo, ma questa volta per consul- tare ansiosamente il mare e il cielo. L’acquazzone era finito, ma il cielo restava coperto. Si vedevano le due golette che indietreggiavano a tutta velocità, raggiunte da una terza. Un cambiamento di vento le indusse ad allentare le scotte, e cinque minuti dopo un altro improvviso cambiamento le prese a collo tutte e tre; e quelli sulla spiaggia videro i paranchi del boma allentati o sciolti dal sobbalzo. Il rombo dei frangenti era alto, cupo e minaccioso, e si preparava una grossa mareggiata. Il terribile squarcio d’un lampo il- luminò il cielo nero e il tuono rimbombò paurosamente.

Toriki e Levy, che galoppava come un ippopotamo at- territo, si slanciarono di corsa verso i loro battelli. Mentre sboccavano fuori del canale incontrarono quello dell’Aorai che rientrava. A poppa c’era Raoul che incitava i rematori. Incapace di allontanare da sé la visione di quella perla, tor- nava ad accettare la proposta di Mapuhi.

Approdò sulla spiaggia in mezzo a un acquazzone to- nante e scrosciante, così fitto che si urtò con Huru-Huru prima di vederlo.

“Troppo tardi!” gemette questi. “Mapuhi l’ha venduta a Toriki per millequattrocento dollari cileni e Toriki l’ha venduta a Levy per venticinquemila franchi. E Levy la ri- venderà in Francia per centomila. Hai del tabacco?”

Raoul si sentì sollevato. I suoi dubbi erano risolti. Non c’era più da rammaricarsi se non aveva avuto la perla, ma non credeva a Huru-Huru. Mapuhi poteva ben averla ven- duta per millequattrocento dollari cileni, ma che quel Levy, intenditore di perle, l’avesse pagata venticinquemila fran- chi, era troppo grossa! Decise di interrogare in proposito il capitano Lynch, ma quando arrivò alla casa di quel vecchio lupo di mare, lo trovò che fissava il barometro con gli occhi sgranati.

“Che ci leggi?” gli chiese il capitano mettendosi gli oc- chiali e tornando a fissare lo strumento.

“29,10!” rispose Raoul. “Non l’ho visto mai così basso!” “Lo credo bene!” sbuffò il capitano. “Cinquant’anni di mare, da ragazzo e da adulto, e non l’ho visto mai calare così. Zitto!”

Rimasero per un momento in ascolto, mentre i fran- genti rumoreggiavano, scuotendo la casa; poi uscirono in- sieme.

La pioggia era cessata. Vedevano l’Aorai che, ferma per mancanza di vento a un miglio di distanza, beccheggiava e sussultava come impazzita alle terribili ondate che avan- zavano in solenne processione da nord-est e si scagliavano furiosamente sulla spiaggia di corallo. Uno dei marinai del battello indicò la bocca del canale e scosse il capo. Anche Raoul guardò e vide una bianca anarchia di schiume e di ondate.

“Credo che stanotte resterò qui con voi, capitano” dis- se; poi si volse al marinaio e gli ordinò di tirare a secco il battello e di trovarsi un riparo con i compagni.

“29 tondi.” riferì il capitano Lynch uscendo fuori con una sedia, dopo aver dato un’altra occhiata al barometro.

Sedettero, e guardarono lo spettacolo del mare. Il sole ricomparve, accrescendo l’afosa pesantezza dell’aria, men- tre continuava la bonaccia. Il mare ingrossava sempre.

“Quello che mi chiedo è perché ci sia un mare simile” borbottò Raoul, petulante. “Non c’è vento, eppure guarda- te, guardate quella roba!”

Era un’ondata lunga miglia e miglia, che portava mi- gliaia di tonnellate di peso; urtò il fragile atollo squassan- dolo come un terremoto. Il capitano Lynch trasalì.

“Misericordia!” esclamò alzandosi a metà sulla sedia e subito ricadendovi.

“E non c’è vento!” insistette Raoul. “Lo capirei, se ci fosse vento.”

“L’avrai presto, il vento, non aver paura” fu la cupa ri- sposta.

I due rimasero seduti in silenzio. Il sudore sgorgava dal- la loro pelle in miriadi di goccioline che formavano larghe chiazze d’umidità, si raccoglievano in rivoletti e gocciola- vano a terra. Entrambi respiravano a fatica e gli sforzi del vecchio erano particolarmente penosi. Un’ondata invase la spiaggia allungandosi intorno ai tronchi dei cocchi e in- frangendosi proprio ai loro piedi.

“Ha superato il limite dell’alta marea” osservò il capi- tano. “E io che sto qui da undici anni!” Guardò l’orologio. “Sono le tre.”

Un uomo e una donna, seguiti alle calcagna da una pittoresca schiera di mocciosi e di cani, si avvicinarono sconsolati, si fermarono a una certa distanza e dopo molte esitazioni sedettero sulla sabbia. Pochi minuti dopo un’al- tra famiglia avanzò dalla direzione opposta, gli uomini e le donne curvi sotto un’eterogenea accozzaglia di utensili do- mestici. In breve parecchie centinaia di persone di entrambi i sessi e di tutte le età si raccolsero intorno alla dimora del capitano. Questo si rivolse a una degli ultimi venuti, una donna con un lattante in braccio, e la donna spiegò che la loro casa era stata spazzata nella laguna.

Quella era la località più alta per varie miglia intorno; già in vari punti, da una parte e dall’altra, i marosi supera- vano il sottile anello dell’atollo, e ripiombavano nella lagu- na. L’atollo si stendeva per una ventina di miglia e in nes- sun punto era più largo di cinquanta fathom. Era il culmine della stagione della pesca e gli indigeni si erano riuniti lì da tutte le isole circostanti, perfino da Tahiti.

“Ci sono milleduecento uomini, donne e bambini, qui,” disse il capitano Lynch. “Non so quanti ne resteranno domani mattina.”

“Ma perché non c’è vento? Lo vorrei tanto sapere!” in- sistette Raoul.

“Non preoccuparti, giovanotto, non preoccuparti: avrai i tuoi problemi molto presto.”

Proprio mentre il capitano parlava, una enorme massa d’acqua colpì l’atollo. Un frangente schiumò sotto le loro sedie a un’altezza di 3 pollici; un lungo gemito di paura salì dalle donne; i bimbi, con le manine giunte, fissavano le ondate gigantesche e piangevano da far pietà. Quasi di comune accordo, i polli e i gatti, uscendo a fatica dall’ac- qua, si rifugiarono con zuffe e parapiglia sul tetto della casa del capitano. Un paumotano con una decina di cuccioli appena nati in un cestino, si arrampicò su una palma e legò il cesto a dieci piedi da terra. La madre lottava con l’acqua al disotto, gemendo e abbaiando.

E ancora il sole splendeva e la bonaccia continuava. I due, seduti, guardavano il mare e il folle beccheggio dell’A- orai. Il capitano fissava le enormi montagne d’acqua che si avvicinavano, ma a un tratto non sostenne più quello spettacolo: si coprì il viso con le mani per non vedere, poi entrò in casa.

“28,60,” disse laconicamente, quando tornò.

Teneva infilato a un braccio un rotolo di corda; lo ta- gliò in pezzi di due fathom circa, ne dette uno a Raoul e ne tenne uno per sé, poi distribuì il resto fra le donne, consi- gliandole di trovarsi una palma e arrampicarcisi.

Un soffio d’aria cominciò a spirare da nord-est, e Raoul si rallegrò sentendoselo passare sulle guance. Vedeva l’Aorai che orientava le vele al vento e si allontanava dalla spiaggia, e rimpianse di non essere a bordo. In tutti i casi, la golet- ta si poteva spostare, ma l’atollo… Un’ondata si ruppe fa- cendogli quasi perdere l’equilibrio. Cercò un albero con lo sguardo, poi ripensò al barometro e corse in casa. Incontrò il capitano Lynch che aveva avuto la stessa idea ed entrambi andarono dentro.

“28,20” disse il vecchio marinaio. “Che razza d’inferno ci sarà qui fra poco… Che cos’è?”

L’aria sembrava piena di uno strano fruscio. La casa vi- brò e tremò, e si udì lo stridere di una nota acutissima. Le finestre tintinnarono, due vetri s’infransero, una raffica si slanciò dentro e li investì facendoli traballare. La porta opposta si chiuse di colpo, fracassando la serratura; il pomo bianco della maniglia si sbriciolò sul pavimento. Le pareti si dilatarono come un pallone a gas per un improvviso pro- cesso di rigonfiamento, poi si udì un rumore nuovo, come una scarica di moschetteria, mentre la spruzzaglia di un maroso colpiva la parete della casa.

Il capitano Lynch guardò l’orologio; erano le quattro. Infilò un impermeabile da pilota, staccò il barometro dal gancio e se lo ficcò in una delle grandi tasche. Di nuovo un’ondata colpì la casa con un tonfo pesante, e il legge- ro edificio si inclinò, si torse di un quarto di cerchio sulle fondamenta e si sfasciò sul pavimento a un angolo di dieci gradi.

Raoul uscì per primo. Il vento lo investì e lo travolse. Con grande sforzo, notando che il vento aveva girato verso est, si gettò per terra, raggomitolandosi, e tenne duro; ma il capitano Lynch, trasportato come una pagliuzza, gli piom- bò addosso. Due marinai dell’Aorai, lasciata la palma a cui si erano afferrati, vennero loro in aiuto, piegandosi contro il vento ad angoli inverosimili e facendosi strada con uno sforzo disperato, centimetro per centimetro.

Il vecchio non si poteva arrampicare, con le sue giun- ture irrigidite; perciò i marinai lo issarono per il tronco per mezzo di pezzi di corde annodate, un poco per volta, finché lo assicurarono in cima all’albero, a cinquanta pie- di da terra. Raoul passò la corda intorno al tronco di un cocco vicino e sostò un momento a guardare. Il vento era terribile: non avrebbe mai creduto che potesse soffiare così. Un’ondata s’infranse sull’atollo, bagnandolo fino al ginoc- chio prima di precipitare nella laguna. Scomparso il sole, era calato un crepuscolo livido. Alcune gocce di pioggia lo colpirono battendo orizzontalmente: avevano la violenza di pallottole di piombo. Uno schizzo di spruzzaglia salata lo prese in pieno sul viso come uno schiaffo, e involontarie lacrime di dolore gli riempirono gli occhi brucianti. Parec- chie centinaia di indigeni si erano rifugiati sugli alberi, e avrebbe riso, se avesse potuto, dei grappoli di frutti umani che pendevano dalle cime. Poi, essendo tahitiano di nasci- ta, si piegò in due, afferrò l’albero con entrambe le mani, premette le piante dei piedi contro la superficie del tronco e cominciò a salire. In cima trovò due donne, due bambine e un uomo. Una delle bimbe stringeva fra le braccia un gattino.

Dal suo nido aereo Raoul salutò, agitando la mano, il capitano Lynch e vide che quell’indomito patriarca gli ri- spondeva. Era atterrito dal cielo che si era fatto più vicino, anzi sembrava proprio sulla sua testa, e da plumbeo era diventato nero. Molte persone stavano ancora a terra, rag- gruppate intorno ai cocchi, e resistevano; parecchi prega- vano intorno al missionario mormone che stava predican- do. A un tratto un suono fantastico, ritmico, lieve come lo stridio di un grillo lontano arrivò all’orecchio del giovane: fu un attimo appena, ma bastò a suggerirgli un’idea di cie- lo, di musiche angeliche. Guardò in giro e vide, ai piedi un’altra palma, un grosso gruppo di persone cinte di corde e legate le une alle altre. Vedeva i muscoli dei visi che si muovevano e le bocche che si aprivano all’unisono; non gli giungeva alcun suono, ma capì che cantavano un inno religioso.

E intanto il vento continuava a soffiare sempre più for- te. Non aveva alcun mezzo cosciente per misurarlo, perché superava già ampiamente ogni sua esperienza; eppure in certo modo capiva che era sempre più forte. Non lontano da lui una palma fu sradicata e gettò a terra il suo carico di grappoli umani; un’ondata piombò su quella striscia di spiaggia, ed essi sparirono. Tutto accadeva rapidamente. Raoul vide disegnarsi una spalla bruna e una testa nera contro il bianco ribollire della laguna: l’istante dopo, an- che quelle erano scomparse. Altre palme cadevano, incro- ciandosi come fiammiferi. Quella su cui stavano lui e i suoi compagni si squassava paurosamente; una delle don- ne urlava stringendo a sé la bimba che a sua volta stringeva il gattino.

L’uomo che teneva fra le braccia l’altra bambina toccò la spalla di Raoul e indicò qualche cosa. Raoul guardò, e vide la chiesa dei mormoni che se ne andava barcollando come ubriaca un centinaio di metri più in là. Era stata di- velta dalle fondamenta e il vento e il mare la sollevavano e la spingevano verso la laguna. Una spaventosa parete d’ac- qua l’afferrò, la fece roteare e la scagliò contro un gruppetto di cocchi. I grappoli di esseri umani caddero giù come noci mature. L’ondata, ritraendosi, li rivelò tutti a terra; alcuni erano immobili, altri si dibattevano o si contorcevano e, chissà perché, a Raoul sembrarono formiche. Non prova- va nessuna impressione: ormai, era al disopra dell’orrore. Come una cosa naturalissima, osservò che l’ondata seguen- te spazzava via dalla sabbia quei relitti umani. Una terza, colossale, mai vista, scaraventò nella laguna la chiesa, che si allontanò galleggiando nell’oscurità in direzione di sot- tovento, semisommersa, facendo pensare a un’arca di Noè. Cercò con lo sguardo la casa del capitano Lynch e fu sorpreso di vedere che non c’era più. Sì, tutto accadeva ra- pidamente. Notò che molti di quelli che stavano sui cocchi ancora intatti erano ridiscesi a terra. Il vento continuava ad aumentare; lo dimostrava la palma su cui si trovava, che non ondeggiava più, non si squassava più avanti e indietro, ma rimaneva praticamente stazionaria, piegata ad angolo retto. Ma la vibrazione era intollerabile, sembrava quella di un diapason o della linguetta di uno scacciapensieri, ed era la rapidità stessa che la rendeva così tremenda. Anche se le radici tenevano, l’albero non avrebbe sopportato a lungo

quello sforzo: qualche cosa si doveva spezzare.

Ah, eccone uno che era andato: non lo aveva visto spez- zarsi, ma il tronco stava lì, schiantato a metà. Non si capiva quel che succedesse se non quando lo si vedeva: lo scroscio degli alberi abbattuti e le urla della disperazione si perdeva- no in quell’inaudito ammasso di suoni. Raoul guardava per caso in direzione della palma del capitano Lynch quando la cosa accadde: vide il tronco spaccarsi al centro e dividersi in due senza rumore. La vetta, coi tre marinai dell’Aorai e il vecchio capitano, volò verso la laguna. No, non cadde a terra: passò in aria come una pagliuzza. Il giovane seguì quel volo con lo sguardo per un centinaio di metri finché tutto piombò in acqua. Aguzzò gli occhi, e fu certo di aver visto il capitano che gli faceva un gesto d’addio.

Non aspettò oltre; toccò l’indigeno e gli fece cenno di scendere. L’uomo era disposto a farlo, ma le sue donne sem- bravano paralizzate dal terrore e lui preferì non abbando- narle. Raoul passò la corda intorno al tronco e scivolò giù. Una massa d’acqua salata gli passò sulla testa. Trattenne il respiro e si avviticchiò disperatamente alla corda. L’acqua si ritirò e a riparo del tronco respirò di nuovo. Assicurò me- glio la corda, poi andò sotto un’altra volta. Una delle due donne scivolò giù e gli si mise accanto mentre l’indigeno restava su con l’altra, le due bambine e il gatto.

Il supercargo aveva già notato che i gruppi rimasti ai piedi degli alberi diminuivano rapidamente, e ora capiva perché. Gli ci voleva tutta la sua forza per resistere, e la donna si indeboliva. Ogni volta che riemergeva dalle onde era sorpreso, prima di tutto di trovarsi ancora lì, poi che anche la donna vi si trovasse. Infine una volta riemerse, ed era solo. Guardò su: anche la cima dell’albero era scompar- sa. A metà dell’altezza originale vibrava un mozzicone: ma lui era salvo. Le radici tenevano ora che la palma era stata sfrondata della sua chioma. Cominciò ad arrampicarsi. Era così debole, che andava piano piano, e uno dopo l’altro i marosi lo riafferravano prima che riuscisse a issarsi al di sopra di essi. Arrivato al sicuro, si legò al tronco e si irrigi- dì, anima e corpo, per affrontare la notte e chissà che altro ancora.

Si sentiva solo nelle tenebre. Talvolta gli sembrava che quella fosse la fine del mondo e quasi temeva d’esser rima- sto vivo lui solo. E il vento aumentava sempre. Quando, secondo i suoi calcoli, furono le undici, il vento era diven- tato una cosa incredibile, orrenda, un furore urlante, un muro che passava e schiacciava ma continuava a passare e a schiacciare, un muro senza fine. Gli sembrava di esser di- ventato leggero leggero, etereo; di essere lui che si muoveva, trasportato con incredibile velocità attraverso una massa solida. Il vento non era più aria in movimento, era una so- stanza come l’acqua o il mercurio; gli sembrava di potercisi immergere e farlo a brani come la carne di una carcassa di cervo; di poterlo afferrare e attaccarvisi come ci si attacca a un precipizio.

Era mezzo strangolato. Non si poteva voltare senza che il vento gli si precipitasse nella bocca e nelle narici gonfian- dogli i polmoni come vesciche, e in quei momenti gli sem- brava che il suo corpo fosse pieno zeppo di terra pressata. Riusciva a respirare solo premendo le labbra contro il tron- co della palma; e poi quell’urto incessante lo stremava, ani- ma e corpo; non osservava più, non pensava più, era semi svenuto. Tutta la sua coscienza era concentrata in un unico pensiero: “così è questo, un uragano”. Anche quel pensiero persisteva irregolarmente, debole fiammella che ogni tanto vacillava. Da uno stato d’istupidimento ritornava a: “così è questo, un uragano”; poi ricadeva nel torpore.

L’acme dell’uragano durò dalle undici di sera alle tre di mattina; e appunto alle undici l’albero a cui erano attaccati Mapuhi e le sue donne si spezzò.

Mapuhi riaffiorò alla superficie della laguna tenendo stretta sua figlia Ngakura. Solo un isolano dei mari del Sud avrebbe potuto resistere a tanto. Il pandano a cui stava an- cora attaccato si voltava e rivoltava nelle acque schiumanti e ribollenti, e solo tenendo duro un momento e aspettan- do, e un momento dopo spostando rapidamente la presa, riusciva a tenere la propria testa e quella di Ngakura alla superficie a intervalli abbastanza vicini per continuare a respirare. Ma l’aria era più che altro acqua, un po’ per la spruzzaglia volante, un po’ per la pioggia che scrosciava fit- ta come una tenda.

C’erano dieci miglia di laguna fino all’estremità oppo- sta dell’anello di sabbia. Laggiù, tronchi sobbalzanti, legna- mi, relitti di cutter e di case uccidevano nove su dieci degli sciagurati sopravvissuti al volo sulla laguna: semi annegati, esausti, venivano scagliati in quel pazzo mortaio degli ele- menti e maciullati in una massa informe di carne. Mapuhi fu fortunato. Aveva una probabilità su dieci di scampare, e per un capriccio della sorte quella probabilità gli fu conces- sa. Riemerse sulla sabbia, sanguinante per una mezza doz- zina di ferite; Ngakura aveva il braccio sinistro spezzato, le dita della destra schiacciate, la guancia e la fronte spaccate fino all’osso. Mapuhi si afferrò a un albero che stava ancora dritto e vi si avviticchiò stringendo a sé la ragazzina e re- spirando a singhiozzi, mentre l’acqua della laguna gli scro- sciava intorno alle ginocchia e qualche volta fino alla vita.

Alle tre del mattino la spina dorsale del ciclone si spez- zò. Alle cinque non soffiava più che una brezza ostinata. Alle sei era tornata la bonaccia e splendeva il sole. Il mare si era ricomposto. Sull’orlo ancora agitato della laguna Ma- puhi vide i corpi straziati di coloro che non erano riusciti ad approdare; senza dubbio Tefara e Nauri erano fra quelli.

Andò lungo la spiaggia guardandoli a uno a uno finché si imbatté in sua moglie, che giaceva mezza dentro e mezza fuori dell’acqua; allora si sedette e pianse, emettendo i suo- ni gutturali e animaleschi del dolore primitivo. La donna si mosse a fatica e gemette. Mapuhi guardò più da vicino: non solo era viva, ma del tutto immune: dormiva. Anche la sua era stata una probabilità su dieci.

Delle milleduecento persone vive la sera prima non ne restavano che trecento. Il missionario mormone e il gendarme fecero il censimento. La laguna era ingombra di cadaveri. Non rimaneva più né una casa né una ca- panna; in tutto l’atollo non c’erano più di due pietre una sull’altra. Solo una palma di cocco su cinquanta era an- cora eretta, e tutte erano una rovina, spoglie fin dell’ul- tima noce. Non c’era acqua potabile: le basse cisterne che raccoglievano il trasudamento della pioggia erano piene di sale. Fuori della laguna furono recuperati alcu- ni sacchi di farina completamente fradici. I sopravvissuti tagliarono la midolla dei cocchi caduti e la mangiarono. Strisciavano qua e là nelle minuscole capannucce scavate nella sabbia e coperte dai frammenti delle lastre zincate dei tetti. Il missionario costruì una distilleria primitiva, ma non poteva distillare abbastanza acqua per trecento persone. Alla fine del secondo giorno Raoul, bagnandosi nella laguna, si accorse che la sua sete ne era alquanto alleviata; gridò la notizia, dopo di che si videro trecento uomini e donne e bambini immersi nella laguna fino al collo per cercar di bere l’acqua attraverso la pelle. I loro morti galleggiavano tutt’intorno o venivano scavalcati se erano rimasti a giacere sul fondo. Il terzo giorno i su- perstiti seppellirono i morti, poi sedettero ad aspettare i piroscafi di salvataggio.

Nel frattempo Nauri, strappata alla famiglia dal ciclone, era stata sbattuta in un’avventura per conto suo. Afferrata a una rozza tavola che la feriva e la ammaccava e le riempiva il corpo di schegge, era volata al di là dell’atollo, e il mare se l’era portata via. Laggiù, sotto schiaffi inauditi di mon- tagne d’acqua, perdette la tavola. Era una vecchia di quasi sessant’anni, ma nativa delle Paumotu, e aveva trascorso sul mare tutta la vita. Mentre nuotava nelle tenebre, stran- golata, accecata, lottando per respirare, venne colpita vio- lentemente a una spalla da una noce di cocco. In un lampo formò il suo piano e afferrò la noce. Nell’ora seguente ne catturò altre sette; legate insieme, le noci formarono una cintura di salvataggio che la tenne in vita, pur minacciando ogni momento di ridurla in gelatina. Era una donna grassa e si ammaccava facilmente; ma aveva la sua esperienza di cicloni, e pregando il suo dio squalo affinché la proteggesse dai pescecani, aspettò che il vento cadesse. Tuttavia alle tre era immersa in un istupidimento tale che non capiva più niente. Era nello stesso stato alle sei, al sopravvenire della bonaccia. Riprese i sensi quando fu scagliata da un’onda sulla spiaggia: vi si attanagliò con le mani e i piedi escoriati e sanguinanti per resistere al risucchio finché arrivò al di là della portata dei frangenti.

Sapeva dove si trovava. Quella non poteva essere che la minuscola isoletta di Takokota, che non aveva laguna e dove non abitava nessuno. Hikuero era a quindici miglia di distanza; non la vedeva, ma sapeva che stava più a sud. I giorni passavano e lei si sostentava con le noci di cocco che l’avevano tenuta a galla e che ora la provvedevano d’acqua da bere e di cibo; ma non beveva quanto avrebbe voluto bere, non mangiava quanto avrebbe voluto mangiare. La salvezza era problematica. Vedeva all’orizzonte il fumo dei piroscafi di salvataggio, ma quale si sarebbe avvicinato alla solitaria, disabitata Takokota? Fin dal principio fu tormen- tata dai cadaveri. Il mare continuava a gettarli sulla piccola spiaggia, e lei continuò, finché non le mancarono le forze, a ributtarli in mare, dove i pescecani li sbranavano e li di- voravano. Quando non ne poté più, i cadaveri festonarono la spiaggia di cose orrende, e lei se ne ritraeva quanto le era possibile, cioè ben poco.

Ma il decimo giorno le sue provviste erano finite e la sete la straziava. Si trascinò lungo la spiaggia cercando noci. Strano che galleggiassero lì intorno tanti corpi e nemmeno una noce! Finalmente ci rinunciò e giacque stremata. Era la fine. Non le rimaneva che aspettare la morte.

A un certo punto, svegliandosi da quello stato di tor- pore, si accorse di fissare un ciuffo di capelli rossicci sulla testa di uno dei cadaveri. Il mare spingeva il corpo verso di lei, poi lo ritirava indietro; a un tratto lo voltò e vide che non aveva più viso. Eppure c’era qualche cosa di familiare in quel ciuffo di capelli rossicci. Trascorse un’ora. Nauri non si sforzò di fare l’identificazione: tanto, aspettava di morire; che le importava di sapere che razza d’uomo fosse stata quella cosa orrenda?

Ma a un certo punto si tirò su pian piano e guardò più attentamente il cadavere. Una grossa ondata l’aveva gettato sulla sabbia, al di sopra della portata delle onde più piccole. Sì, proprio così: quel ciuffo di capelli rossi poteva appar- tenere a un uomo solo in tutte le Paumotu: a Levy, cioè, l’ebreo tedesco, quello che aveva comprato la perla e se l’era portata via sulla Hira. Ebbene, una cosa era certa; la Hira aveva fatto naufragio, Hira, il dio dei pescatori e dei ladri non aveva protetto il compratore di perle.

Nauri strisciò pian piano accanto al morto. La camicia era stata strappata via e si vedeva la cintura di cuoio intorno alla vita. Trattenendo il respiro, tirò le fibbie, che cedettero più facilmente di quanto avrebbe creduto, poi si affrettò ad allontanarsi più presto che poteva sulla sabbia, tirandosi dietro la cintura. Sbottonò un taschino dopo l’altro e li trovò tutti vuoti. Dove mai l’aveva messa? La trovò nell’ul- timo: l’unica perla comprata in quel viaggio. Strisciò qual- che centimetro più in là per sfuggire al fetore della cintura ed esaminò la perla. Era proprio quella che Mapuhi aveva trovato e che gli era stata rubata da Toriki. La soppesò nel- la mano, la strofinò carezzevolmente con le dita. Eppure non ne vedeva l’intrinseca bellezza: vedeva la casa che lei e Mapuhi e Tefara avevano costruito nella loro mente, parte per parte, con tanta cura. Ogni volta che guardava la perla vedeva la casa in tutti i suoi particolari, compreso l’orologio a pendolo alla parete. Adesso sì che valeva la pena di vivere. Strappò un lembo del proprio ahu e si legò solidamen-

te la perla al collo; poi vagò per la spiaggia, ansimando e gemendo, ma decisa a trovare qualche noce di cocco. Ben presto ne trovò una, e subito dopo, guardandosi intorno, un’altra. La ruppe, bevve il succo, che era diventato tie- pido, e mangiò fin l’ultimo pezzettino di polpa. Un po’ più tardi trovò una canoa sconquassata. Lo scalmiere non c’era più, ma lei era piena di speranza e prima che il giorno calasse trovò lo scalmiere. Ogni conquista era di buon au- gurio: la perla era un talismano! Più tardi, nel pomeriggio, vide una cassetta che galleggiava semisommersa nell’acqua. Tirandola sulla sabbia sentì che vi suonava dentro qualco- sa, e infatti vi trovò dieci scatole di salmone. Ne aprì una battendola contro la canoa; quando riuscì a ottenere una fessura, bevve tutto il liquido, poi occupò parecchie ore a tirar fuori il salmone, picchiando la scatola e strizzando fuori un bocconcino per volta.

Per otto giorni ancora aspettò di essere raccolta; e nel frattempo riattaccò lo scalmiere alla canoa, adoperando tutte le fibre di cocco che poté trovare e perfino l’ultimo pezzo del suo ahu. La canoa era tutta spacchi e fessure e lei non riusciva a metterla in grado di reggere all’acqua, perciò ripose a bordo una noce di cocco vuota. Ebbe molte diffi- coltà per la pagaia. Con un pezzo di latta si segò i capelli fino allo scalpo e li intrecciò formandone una corda, e con questa corda attaccò un pezzo di manico di scopa lungo tre piedi a una tavola della cassetta di salmone. Dalla stessa cassetta estrasse delle schegge rodendole coi denti e le infilò come cunei nelle legature.

L’ottavo giorno, a mezzanotte, lanciò la canoa nella ri- sacca e si mise in viaggio per tornare a Hikuero. Era vecchia; le fatiche e la fame l’avevano spogliata fin dell’ultima oncia di grasso, non le rimanevano più che pelle e ossa e pochi tendini di muscoli; la canoa era grande e avrebbe richiesto l’opera di quattro robusti rematori; ma lei supplì a tutto da sola, con una pagaia di fortuna. E poi, l’imbarcazione face- va acqua, e un terzo del suo tempo era dedicato a vuotarla. A giorno chiaro, cercò invano Hikuero. A poppa Takokota era sprofondata sotto il livello del mare. Il sole dardeggiava sulla sua nudità strizzando dal suo corpo fin l’ultima stilla di sudore. Le rimanevano due scatole di salmone, e durante la giornata vi praticò dei buchi e ne succhiò il liquido: non aveva tempo da perdere a estrarne la carne. La corrente an- dava verso ovest, e verso ovest lei era trascinata, per quanto tentasse di andare a sud.

All’inizio del pomeriggio, stando in piedi nella canoa, avvistò Hikuero. Tutta la sua ricchezza di palme era scomparsa e solo qua e là, a grande distanza, si vedevano gli smozzicati resti dei cocchi; eppure quella vista la rallegrò: era più vicina di quanto avrebbe creduto. La corrente la spingeva sempre verso ovest, lei fece forza per resistere e continuò a remare. I cunei infitti nelle legature si allentava- no e ogni tanto doveva perdere molto tempo a rincalzarli; e poi ogni tre ore doveva perderne una per buttare via l’ac- qua. E intanto veniva trascinata verso ovest.

Al tramonto Hikuero sorgeva a sud-est, a tre miglia di distanza. Nauri lottò ancora per un’ora, ma la terra era sempre lontana come prima. Era nel pieno della corrente, la canoa era troppo grande, la pagaia troppo inadeguata, troppo del suo tempo e delle sue forze veniva consumato nel vuotare l’imbarcazione. E poi era molto debole e di- ventava sempre più debole. Nonostante tutti i suoi sforzi la canoa la trascinava sempre verso ovest.

Rivolse in cuor suo una preghiera al dio squalo a cui era particolarmente devota, scivolò fuori bordo e cominciò a nuotare. L’acqua la rinfrescò, e in breve si lasciò a poppa la canoa; un’ora dopo la terra era sensibilmente più vici- na. Ma a un tratto l’assalì lo spavento. Proprio davanti ai suoi occhi, a nemmeno venti metri di distanza, una grossa pinna emergeva dalle acque. Nuotò dritta contro di essa, e la pinna lentamente scivolò via volgendosi a destra e com- piendole un giro tutt’intorno. La tenne d’occhio e conti- nuò a nuotare. Quando la piuma scomparve, si stese con la faccia sott’acqua e aspettò. Quando quella ricomparve, ricominciò a nuotare. Il mostro, lo capiva, era pigro. Sen- za dubbio si era ben nutrito dopo il ciclone; spinto dalla fame, non avrebbe esitato a piombarle addosso. Era lungo quindici piedi e con un morso solo, lei lo sapeva, l’avrebbe stroncata in due.

Nauri non aveva tempo da perdere: nuotasse o no, la corrente la trascinava sempre lontano dalla terra. Trascorse una mezz’ora e il pescecane cominciò a farsi più ardito. Vedendo che nulla lo minacciava, si avvicinava a circoli sempre più stretti, occhieggiandola quasi con insolenza, mentre le passava vicino. Prima o poi avrebbe trovato il coraggio necessario per attaccarla, e lei lo sapeva. Nauri decise perciò di agire per prima. L’atto che meditava era disperato. Era una donna, vecchia, sola in mezzo al mare e indebolita dall’inedia e dalle fatiche, eppure, di fronte a quella tigre del mare, doveva prevenirne l’assalto assalendo lei per prima. Continuò a nuotare aspettando l’occasione propizia, e quando finalmente il pescecane le passò fles- suoso accanto a otto piedi appena di distanza, gli si buttò addosso all’improvviso, fingendo di attaccarlo. Il mostro fuggì con un violento colpo di coda, e urtandola col fianco squamoso le strappò la pelle dal gomito alla spalla. Nuo- tò rapidamente in circoli sempre più larghi e finalmente scomparve.

Nel buco nella sabbia coperto con frammenti di lastre di zinco Mapuhi e Tefara stavano svegli e litigavano.

“Se avessi fatto come dicevo io,” riattaccava Tefara per la millesima volta, “se avessi nascosto la perla senza dir niente a nessuno, l’avresti ancora!”

“Ma c’era Huru-Huru con me quando ho aperto l’o- strica… non te l’ho detto e ridetto non si sa quante volte?” “E adesso non avremo più la casa. Raoul mi ha detto

oggi che se non avevi venduto la perla a Toriki…” “Non gliel’ho venduta, me l’ha rubata!”

“… che se non avevi venduto la perla, lui ti avrebbe dato cinquemila dollari francesi che ne valgono diecimila cileni.”

“Ha parlato con sua madre,” spiegò Mapuhi. “Lei se ne intende, di perle.”

“E adesso la perla non c’è più!” gemette Tefara.

“Ho pagato il debito con Toriki. Così, dopotutto, ce ne siamo fatti milleduecento.”

“Ma Toriki è morto!” gridò lei. “Non s’è saputo più niente della sua goletta. È andata perduta con l’Aorai e la Hira. Ti pagherà, Toriki, i trecento dollari di credito che ti aveva promesso? E se non avessi trovato la perla, dovresti adesso i millecinquecento a Toriki? No, perché non si pa- gano i morti!”

“Levy non ha pagato, Toriki, gli ha dato un pezzo di carta buono per il denaro a Papetee; e adesso Levy è morto e non può pagare e Toriki è morto e la carta è scomparsa con lui e la perla è scomparsa con Toriki. Hai ragione, Te- fara: ho perduto la perla e non ci ho guadagnato niente. Adesso dormiamo.”

A un tratto alzò la mano e stette in ascolto. Fuori si udiva un rumore, come di qualcuno che respirasse pesan- temente e a fatica. Una mano tastò la stuoia che fungeva da porta.

“Chi è?” gridò Mapuhi.

“Nauri” fu la risposta. “Mi sapete dire dove sta mio figlio Mapuhi?”

Con un urlo Tefara si attaccò al braccio del marito. “Un fantasma!” mormorò battendo i denti. “Un fantasma”!

Il viso di Mapuhi era di un giallo spettrale. Si strinse debolmente a sua moglie.

“Buona donna” balbettò cercando di cambiar voce, “co- nosco bene tuo figlio, abita dall’altra parte della laguna.”