Era rimasta indietro, a causa dell’erba umida, per mettersi le soprascarpe, e quando uscì di casa trovò il marito che l’aspettava intento ad osservare la meraviglia di un fiore di mandorlo in procinto di sbocciare. Cercò con lo sguardo nell’erba alta e tra gli alberi del frutteto.
«Dov’è Wolf?», chiese.
«Era qui un momento fa.» Walt Irvine distolse prontamente la sua attenzione dalla metafisica e dalla poesia dell’organico miracolo della fioritura, e si guardò intorno. «Stava inseguendo un coniglio, l’ultima volta che l’ho visto.»
«Wolf! Wolf! Vieni, Wolf!», chiamò lei, mentre lasciavano la radura e s’incamminavano lungo il sentiero che attraverso il groviglio dei cespugli fioriti di manzanita conduceva alla strada principale.
Irvine si mise i mignoli delle due mani tra le labbra e collaborò alla ricerca con un fischio acuto.
Lei si coprì in fretta le orecchie e fece una smorfia.
«Santo cielo! Te, un poeta, sensibile alle delicate armonie e cose del genere, mi perfori i timpani. Fischi meglio…»
«Di Orfeo.»
«Stavo per dire di un mendicante arabo», concluse lei con aria severa.
«La poesia non impedisce di essere pratici, almeno non lo impedisce a me. La mia non è la futilità del genio che non può vendere gemme alle riviste.»
Assunse un’espressione ironica, e proseguì:
«Io non inseguo lo stile raffinato e non sono un usignolo da salotto. E perché?
Perché sono una persona pratica. La mia non è una poesia da quattro soldi che non possa trasmutarsi, se ben valutata, in un cottage bordato di fiori, in un dolce prato montano, in un bosco di sequoie, in un frutteto di trentasette alberi, in un filare lungo di more e due corti di fragole, per non menzionare mezzo chilometro di ruscello gorgogliante. Io sono un fornitore-di-bellezza, un commerciante in canti, e cerco l’utile, cara Madge. Io canto, e grazie agli editori, trasmuto la mia canzone in un palpito del vento dell’Ovest frusciante attraverso le nostre sequoie, nel mormorio di acque su pietre muschiose che mi rimanda una canzone diversa da quella che io canto, e tuttavia miracolosamente la stessa, meravigliosamente, ehm, trasmutata.»
«Auguriamoci che tutte le trasmutazioni siano altrettanto fortunate!», rise lei.
«Dimmene una che non lo è stata.»
«Quei due bei sonetti trasmutati nella mucca che fu considerata la peggiore produttrice di latte del paese.»
«Era bella…», cominciò lui.
«Ma non faceva latte», interruppe Madge.
«Ma di’ la verità, era o non era bella?», insisté lui.
«Ed è qui che la bellezza e l’utile si dividono», fu la sua risposta. «Ed ecco Wolf!»
Da un boschetto sulle pendici della collina si udì uno scricchiolio di rami secchi, e poi, un metro sopra di loro, sull’estremità della parete a picco, apparvero la testa e il dorso di un lupo. Le sue forti zampe anteriori smossero un sasso, e con le orecchie appuntite e gli occhi scrutatori lo guardò rotolare finché colpì i piedi della coppia. Poi girò lo sguardo e con la bocca aperta li guardò ridendo.
«Wolf! Qua Wolf!» e «Benedetto Wolf!», gridarono l’uomo e la donna.
Le orecchie si afflosciarono al suono delle voci, e la testa sembrò accucciarsi sotto la carezza di una mano invisibile.
Lo guardarono ritirarsi nel bosco, e continuarono per la loro strada. Qualche minuto dopo, a una curva del viottolo dove la discesa era meno ripida, Wolf li raggiunse in mezzo a una minivalanga di sassi e terra smossa.
Non era espansivo. Una pacca o uno strofinio dietro le orecchie dall’uomo, una carezza più prolungata dalla donna, e via giù per il sentiero davanti a loro, scivolando agilmente con le movenze di un lupo.
La struttura fisica, il manto e il pelo ispido erano quelli del lupo grigio; ma il suo colore e certi segni caratteristici tradivano inconfondibilmente il cane. Nessun lupo poteva essere del suo colore. Era marrone, marrone scuro, marrone rossiccio, un’orgia di marroni. Il dorso e le spalle di un marrone caldo che sui lati e sulla pancia sbiadiva sul giallognolo. Il bianco della gola, delle zampe, e le macchie sopra gli occhi erano di un bianco sporco, a causa dell’ostinato persistere del marrone, e perfino gli occhi erano due topazi, dorati e marroni.
L’uomo e la donna amavano molto il cane; forse perché era costato tanto guadagnarsi il suo amore. Non era stata cosa da poco quando si materializzò la prima volta dal nulla nel loro piccolo cottage di montagna. Affamato e colle zampe dolenti, aveva ucciso un coniglio davanti ai loro occhi, sotto le
loro finestre, e poi era filato via, addormentandosi accanto alla sorgente vicino ai cespugli di more. Quando Walt Irvine scese a osservare l’intruso, fu accolto da un ringhio, e la stessa accoglienza ricevette Madge, quando, in segno di amicizia, gli portò giù una bella ciotola di pane e latte.
Si dimostrò un cane tutt’altro che socievole, respingendo tutti i loro approcci, rifiutando di farsi toccare, minacciandoli con le zanne in evidenza e il pelo irto. Ciononostante rimase, dormendo e riposando accanto alla sorgente, e mangiando il cibo che loro gli portavano, andandosene dopo averlo posato a debita distanza. Rimaneva, era chiaro, solo a causa delle sue debilitate condizioni fisiche; e quando si riprese, dopo vari giorni, sparì.
E così sarebbe finita la storia, per quanto riguardava Irvine e sua moglie, se proprio in quel periodo Irvine non si fosse dovuto recare a Nord. Mentre stava attraversando il confine tra la California e l’Oregon, gli capitò di guardare fuori dal finestrino del treno, e vide il suo asociale ospite trotterellare lungo la strada ferrata, marrone e lupesco, stanco eppure instancabile, tutto sporco e ricoperto dalla polvere di trecento chilometri di strada.
Irvine era un impulsivo, un poeta. Scese dal treno alla prima stazione, comprò un pezzo di carne dal macellaio, e catturò il vagabondo alla periferia della città. Ritornarono nel vagone del treno merci, e Wolf giunse così per la seconda volta al cottage. Qui fu legato per una settimana, e coccolato dall’uomo e dalla donna. Ma in modo molto circospetto. Remoto, estraneo come un essere proveniente da un altro pianeta, ringhiava in risposta alle loro parole affettuose. Non abbaiava mai. Mai una volta abbaiò, finché restò con loro.
Conquistarlo divenne un problema. Irvine amava i problemi. Fece incidere una targhetta di metallo, con su scritto: RIPORTARE A WALT IRVINE, GLEN ELLEN, SONOMA COUNTY, CALIFORNIA. La
targhetta fu applicata a un collare, e il collare messo al collo del cane. Il giorno successivo, giunse un telegramma da Mendocino County. In ventiquattr’ore aveva percorso più di centocinquanta chilometri a Nord, e era ancora in marcia quando venne catturato.
Tornò col Wells Fargo Express, fu legato per tre giorni, fu sciolto il quarto, e perso. Questa volta aveva raggiunto l’Oregon meridionale prima di essere acchiappato e rispedito. Immancabilmente, non appena veniva liberato, fuggiva; e sempre verso il Nord. Era preda di un’ossessione che lo spingeva a Nord.
L’«istinto di casa», lo chiamò Irvine, dopo aver speso gli introiti di un sonetto per farlo rispedire dall’Oregon.
Un’altra volta il vagabondo riuscì ad attraversare metà California, tutto l’Oregon, e quasi tutto lo Stato di Washington prima di essere pescato e rispedito «a carico del destinatario». Era straordinaria la velocità a cui viaggiava. Nutrito e riposato, appena libero spendeva tutta la sua energia a guadagnare terreno. Il primo giorno si calcolò che riusciva a percorrere oltre duecento chilometri, dopodiché faceva una media di centocinquanta chilometri al giorno. Ritornava sempre sparuto, e affamato, e selvatico, e sempre ripartiva fresco e vigoroso, e riguadagnava la via del Nord in risposta a una qualche chiamata del suo essere che nessuno poteva comprendere.
Ma alla fine, dopo un anno di inutili fughe, accettò l’inevitabile e scelse di rimanere nel cottage dove aveva la prima volta ucciso il coniglio e dormito alla sorgente. E anche dopo, dovette passare molto tempo prima che l’uomo e la donna riuscissero ad accarezzarlo. Fu una grande vittoria, perché soltanto loro potevano toccarlo. Era incredibilmente selettivo, e nessun ospite riuscì mai a farselo amico. Un sordo mugolio accoglieva qualsiasi approccio; se qualcuno osava avvicinarglisi, le labbra si sollevavano, apparivano le zanne, e il mugolio diventava un ringhio – un ringhio così terribile e minaccioso che spaventava i più coraggiosi, come pure spaventava i cani del vicinato avvezzi al ringhio dei cani, ma ignari di quello dei lupi.
Non aveva passato. La sua storia cominciava con Walt e Madge. Era arrivato dal Sud, ma non trapelò mai un indizio sul padrone da cui era evidentemente fuggito. Secondo Mrs. Johnson, la vicina che li riforniva di latte, era un cane del Klondike. Poiché il fratello cercava l’oro in quei gelidi territori, lei si considerava un’autorità in materia.
E loro non la contraddicevano. C’erano le punte delle orecchie di Wolf, con i segni di un antico congelamento che non sarebbe mai guarito.
E poi rassomigliava alle fotografie dei cani dell’Alaska pubblicate sulle riviste e sui quotidiani. Spesso, da quello che avevano letto o sentito raccontare, tentavano di immaginare il suo passato, e ricostruire la sua vita nelle terre del Nord. Che il Nord ancora lo attirasse, lo sapevano bene; di notte lo sentivano talvolta guaire lievemente; e quando fischiava il vento del Nord e l’aria si faceva gelida, una grande irrequietezza s’impossessava di lui, e nel suo malinconico lamento essi riconoscevano il lungo ululato del lupo. Eppure non abbaiava mai. Non c’era provocazione che gli facesse emettere quel suono canino.
Ebbero lunghe discussioni, nel periodo in cui tentavano di addomesticarlo, su chi dei due fosse il suo padrone. Ciascuno lo reclamava come proprio, e ciascuno vantava ogni espressione di affetto ricevuta. Ma
l’uomo ebbe la meglio, all’inizio, soprattutto perché era un uomo. Era palese che Wolf non aveva esperienza del femminile. Non capiva le donne. Non arrivò mai ad accettare le gonne di Madge; bastava il loro fruscio a fargli rizzare il pelo con sospetto, e nelle giornate ventose Madge non poteva neanche avvicinarlo.
D’altra parte, era Madge a dargli da mangiare; era lei la regina della cucina, ed era grazie a lei, e soltanto a lei, che gli era concesso di penetrare in quello spazio sacro. Ed è per questo che Madge sembrava avere buone possibilità di superare l’ostacolo del suo abbigliamento. Fu allora che Walt s’impegnò a fondo, introducendo l’usanza che Wolf giacesse ai suoi piedi mentre scriveva, e, tra una pacca e una chiacchiera, sottraendo gran parte del tempo al suo lavoro. Walt vinse alla fine, e la sua vittoria fu quasi certamente dovuta al fatto che era un uomo, sebbene Madge asserisse che avrebbero posseduto qualche centinaio di metri di gorgogliante ruscello in più e almeno altri due venti dell’Ovest sibilanti attraverso le loro sequoie, se Walt avesse dedicato le sue energie alla trasmutazione del canto e lasciato Wolf libero di seguire i suoi istinti naturali e fare le sue scelte.
«Sarebbe ora di sapere qualcosa delle terzine», disse Walt, dopo cinque minuti di silenzio, durante i quali avevano continuato a scendere lungo il sentiero.
«Ci sarà un vaglia all’ufficio postale, lo so, e lo trasmuteremo in un bel sacco di farina, cinque litri di sciroppo di acero, e un nuovo paio di soprascarpe per te.»
«E in un bel latte dalla bella mucca di Mrs. Johnson», aggiunse Madge.
«Domani è il primo del mese, sai.»
Walt si accigliò inconsciamente; poi il volto s’illuminò, e batté la mano sul taschino della giacca.
«Non ti preoccupare. Ho qui una bella mucca nuova, la migliore fornitrice di latte della California.»
«Quando l’hai scritta?», chiese lei con curiosità. Poi, con tono di rimprovero.
«E non me l’hai mai fatta vedere.»
«Ho aspettato di fartela leggere mentre eravamo in cammino, in un posto esattamente come questo», rispose, indicando con la mano un tronco secco su cui sedersi.
Un ruscelletto proveniente da una folta macchia di felci scorreva zampillando su una pietra ricoperta di muschio, e attraversava il sentiero ai loro piedi.
Dalla valle proveniva il dolce cinguettio delle allodole, e tutt’intorno, fra luce e ombra, svolazzavano grandi farfalle gialle.
Salì dal basso un altro suono che interferì con la soave lettura del manoscritto di Wolf. Era uno scalpiccio di piedi pesanti, intervallato di tanto in tanto dall’acciottolio di un sasso smosso. Quando Walt ebbe finito e guardò la moglie per l’approvazione, dalla svolta del sentiero apparve un uomo. Era a capo scoperto, e sudato. Con un fazzoletto in mano si asciugò la faccia, mentre nell’altra aveva un cappello nuovo e un colletto duro un po’ stropicciato che si era tolto dal collo. Era un uomo di aspetto robusto, e i possenti muscoli sembravano sul punto di scoppiare dall’abito nero, e vistosamente nuovo, che indossava.
«Giornata calda», salutò Walt. Walt credeva nella democrazia campagnola, e non si perdeva un’occasione di metterla in pratica.
L’uomo si fermò e annuì.
«Temo di non essere molto abituato al caldo», disse a mezza bocca con tono di scusa. «Sono più allenato ai zero gradi».
«Non ne troverete in questo paese», rise Walt.
«Direi proprio di no», rispose l’uomo. «E non sono neanche qui per cercarlo.
Sto cercando mia sorella. Forse sapete dove abita. Si chiama Johnson, Mrs.
William Johnson.»
«Non sarete il suo fratello del Klondike!», gridò Madge, gli occhi brillanti di curiosità, «di cui abbiamo sentito tanto parlare!»
«Sissignora, sono io», rispose umilmente. «Mi chiamo Miller, Skiff Miller.
Pensavo di farle una sorpresa.»
«Siete sulla strada giusta, allora. Solo che venite dal sentiero invece che dalla strada.» Madge si alzò per spiegargli la via, indicando un punto a qualche centinaia di metri dal ca¹on. «Vedete quella sequoia colpita dal fulmine? Prendete il sentiero sulla destra. E’ la scorciatoia per casa sua.
Non potete sbagliare.»
«Sissignora, grazie signora», disse.
Provò ad andarsene, ma sembrava goffamente radicato sul posto. La guardava con aperta ammirazione di cui era del tutto inconscio, e che lo trascinava in un crescente mare di imbarazzo in cui si dibatteva.
«Ci piacerebbe sentire parlare del Klondike», disse Madge. «Potremmo venire un giorno mentre state da vostra sorella? O, ancora meglio, perché non venite voi a cena da noi?»
«Sissignora, grazie, signora», mormorò meccanicamente. Poi si riprese e soggiunse: «Non mi fermerò per molto. Devo tornare al Nord. Riparto col treno di stanotte. Devo portare della posta».
Dopo che Madge ebbe detto quanto le dispiaceva, egli fece un altro futile sforzo di proseguire. Ma non poteva distogliere lo sguardo dal suo viso. Nella sua ammirazione dimenticò l’imbarazzo, e fu lei stavolta ad arrossire e sentirsi imbarazzata.
Fu a questo punto, quando Walt aveva appena deciso che era tempo di dire qualcosa per alleviare la tensione, che Wolf, il quale era stato in giro annusando nella macchia di felci, apparve, trotterellando colla sua andatura lupesca.
Skiff Miller tornò in sé. La graziosa donna di fronte a lui uscì dal suo campo visivo. Gli occhi si concentrarono solo sul cane, e un’espressione di meraviglia apparve sul suo volto.
«Che mi prenda un accidente!», disse con lentezza e solennità.
Sedette meditabondo sul tronco, lasciando Madge in piedi. Al suono della sua voce, le orecchie di Wolf si afflosciarono, poi la bocca si aprì in una risata. Trotterellò lentamente verso lo straniero e prima gli odorò le mani, poi le leccò.
Skiff Miller accarezzò la testa del cane, e con lentezza e solennità ripeté,
«Che mi prenda un accidente!»
«Mi scusi, signora», disse subito dopo, «ero solo sorpreso, questo è tutto.»
«Siamo sorpresi anche noi», rispose lei dolcemente. «E’ la prima volta che vediamo Wolf amichevole verso un estraneo.»
«Così lo chiamate, Wolf?», chiese l’uomo.
Madge annuì. «Ma non riesco a capire il suo atteggiamento verso di voi – a meno che non sia perché venite dal Klondike. E’ un cane del Klondike, sapete.»
«Sissignora», disse Miller con aria assente. Sollevò una delle zampe anteriori del cane e esaminò il retro delle dita, pressandole forte col pollice.
«Un po’ molli», osservò. «E’ da molto che non vede una pista.»
«Perbacco», intervenne Walt, «è straordinario come si lascia manipolare.» Skiff Miller si rialzò, senza più quell’aria goffa che aveva assunto nell’ammirare Madge, e con tono brusco e diretto chiese, «Da quanto tempo
è con voi?»
Ma proprio allora il cane, dimenandosi e strusciandosi contro le gambe del nuovo arrivato, aprì la bocca e abbaiò. Fu un abbaiare esplosivo, breve e gioioso, ma un abbaiare.
«Questa mi viene nuova», osservò Skiff Miller.
Walt e Madge si guardarono. Era avvenuto il miracolo. Wolf aveva abbaiato.
«E’ la prima volta che abbaia», disse Madge.
«La prima volta anche per me», assentì Miller.
Madge gli sorrise. L’uomo evidentemente aveva il senso dell’umorismo.
«Naturalmente», disse, «visto che lo conoscete da cinque minuti.»
Skiff Miller la scrutò cercando nel suo viso tracce della scaltrezza che le sue parole gli facevano sospettare.
«Pensavo che aveste capito», disse lentamente. «Pensavo che ci sareste arrivati vedendo come si comportava con me. E’ il mio cane. Non si chiama Wolf. Si chiama Brown»
. «Oh, Walt!», fu il grido istintivo di Madge a Walt. Walt si mise immediatamente sulla difensiva.
«Come fate a sapere che è il vostro cane?», domandò.
«Perché lo è», fu la risposta.
«Pura e semplice affermazione», disse Walt seccamente.
Nel suo modo lento e riflessivo, Skiff Miller lo guardò, poi chiese, con un cenno di testa verso Madge:
«Come sapete che è vostra moglie? Dite semplicemente E’ Perché lo è, e io dirò che è una pura e semplice affermazione. Il cane è mio. L’ho allevato e cresciuto, e lo saprò bene, no? Guardate. Ve lo proverò».
Skiff Miller si voltò verso il cane. «Brown!» La sua voce risuonò acuta, e a quel suono le orecchie del cane si afflosciarono come per una carezza.
«Gee!» Il cane piroettò velocemente verso destra. «Mush-on!» E il cane smise di colpo di girare e andò dritto avanti, fermandosi prontamente al comando.
«Posso farlo fischiando», disse orgogliosamente Skiff Miller. «Era il mio capomuta.»
«Ma non ve lo riporterete mica via con voi?», chiese Madge con un tremito nella voce. L’uomo annuì.
«Lo riporterete in quell’inferno del Klondike?»
Annuì e aggiunse: «Oh, non è così tremendo. Guardatemi. Non sono un bell’esemplare di salute?».
«Ma i cani! Le tremende fatiche, il lavoro durissimo, la fame, il gelo! Oh, abbiamo letto queste cose e le conosciamo bene.»
«L’ho quasi mangiato una volta, sul Little Fish River», Miller soggiunse amaramente. «Si è salvato solo perché trovai un alce.»
«Sarei morta piuttosto!», esclamò, Madge.
«Le cose sono diverse laggiù», spiegò Miller. «Non si devono mangiare i cani.
Si pensa diversamente non appena si è là. Non ci siete mai stati, perciò non ne sapete niente.»
«Questo è il punto», interruppe lei accalorandosi. «In California i cani non si mangiano. Perché non lo lasciate qui? E’ felice. Non gli mancherà mai il cibo – lo sapete. Non soffrirà mai né per il freddo né per la fatica.
Qui tutto è facile. Né gli uomini né la natura sono selvaggi. Non sarà mai più frustato. Quanto al tempo – non nevica mai qui.»
«Ma si crepa di caldo d’estate, con rispetto parlando», rise Skiff Miller.
«Ma non mi rispondete», Madge proseguì appassionatamente. «Cosa avete da offrirgli voi, su al Nord?»
«Da mangiare, quando c’è, cioè quasi sempre», fu la risposta.
«E quando non c’è?»
«Non si mangia.»
«E il lavoro?»
«Si’, quello tanto», Miller esclamò con impazienza. «Lavoro a non finire, e fame, e gelo, e tutte le altre sofferenze – questo è ciò che avrà quando tornerà con me. Ma gli piace. Ci è abituato. Conosce quella vita. Ci è nato e cresciuto. E voi non ne sapete niente. Non sapete di che parlate. E’ a quel mondo che il cane appartiene, ed è lì che sarà più felice.»
«Da qui il cane non si muove», annunciò Walt con tono deciso. «Quindi è inutile continuare a discutere.»
«Cosa?», domandò Skiff Miller, piegando le sopracciglia mentre un flusso di sangue gli arrossava la fronte.
«Ho detto che il cane resta qui, e tanto basta. Non credo che sia il vostro cane. Lo avrete visto qualche volta, forse lo avrete anche guidato per il suo padrone. Ma il fatto che obbedisca agli usuali comandi delle piste dell’Alaska non prova che è vostro. Qualsiasi cane eschimese vi avrebbe obbedito come ha obbedito lui. Inoltre, è sicuramente un cane di valore, perché i cani in Alaska sono preziosi, e questo spiega il vostro desiderio di impossessarvene.
In ogni modo, dovrete dimostrare che è vostro.»
Skiff Miller, freddo e compassato, la fronte leggermente più arrossata, i forti muscoli gonfi sotto la stoffa nera dell’abito, guardò attentamente il poeta dall’alto in basso come a misurare la forza della sua esilità.
Sul volto dell’uomo del Klondike si dipinse un’espressione sprezzante, e disse infine: «Penso che niente mi possa impedire di prendermi il cane qui e ora».
Walt arrossì, e i muscoli delle braccia e delle spalle sembrarono irrigidirsi e tendersi. La moglie si intromise temendo che la discussione degenerasse.
«Forse Mr Miller ha ragione», disse. «Temo che abbia ragione. Sembra che Wolf lo conosca, e sicuramente ha risposto al nome di E. Brown. Ha
fatto amicizia con lui immediatamente, e sai bene che una cosa simile non era mai successa.
E poi, guarda come ha abbaiato. Stava scoppiando di gioia. Gioia di che? Certamente per aver ritrovato Mr Miller.»
I muscoli di Walt si rilassarono, e le spalle sembrarono piegarsi davanti all’inevitabile.
«Credo che hai ragione, Madge», disse. «Wolf non è Wolf ma Brown, e deve appartenere a Mr Miller.»
«Forse Mr Miller lo venderà», suggerì lei. «Possiamo comprarlo.»
Skiff Miller scosse la testa, non più bellicoso, ma gentilmente, pronto a rispondere con generosità alla generosità.
«Avevo cinque cani», disse, cercando il modo migliore di attenuare il suo rifiuto. «Lui era il capomuta. Era la miglior muta dell’Alaska.
Nessun’altra poteva stargli alla pari. Nel 1898 rifiutai cinquemila dollari.
Il prezzo dei cani era alto, allora, comunque; ma non era per questo che mi offrirono quel prezzo fantastico. Era per la qualità della muta. Brown era il migliore di tutti. Quell’inverno rifiutai per lui mille e duecento dollari. Non lo vendetti allora, e non lo vendo adesso. Ci tengo molto a quel cane. L’ho cercato per tre anni. Sono stato male quando ho scoperto che me lo avevano rubato – non per il suo prezzo, ma, insomma, gli ero affezionato da morire. Non potevo credere ai miei occhi quando l’ho visto, adesso. Era troppo bello per essere vero. Sapete, gli ho fatto da balia.
Lo mettevo a letto, a cuccia tutte le notti. Sua madre morì, e io lo allevai a latte condensato a due dollari il barattolo quando non potevo permettermelo per il mio caffè. Non ha mai avuto un’altra madre. Aveva l’abitudine di ciucciarmi il dito, la dannata bestiaccia – questo dito qui!»
E Skiff Miller, troppo commosso per parlare, mostrò loro un indice.
«Proprio quel dito», riuscì ad articolare, come se in qualche modo esso costituisse la prova irrefutabile della sua proprietà e la testimonianza del legame affettivo.
Stava ancora fissando il suo dito proteso quando Madge cominciò a parlare.
«Ma il cane», disse. «Non avete tenuto in considerazione il cane.» Skiff Miller sembrò perplesso.
«Ci avete pensato?», chiese lei.
«Non capisco dove volete arrivare», fu la risposta.
«Forse il cane ha una scelta in materia», proseguì Madge. «Forse ha i suoi gusti e i suoi desideri. Non lo avete preso in considerazione. Non gli date scelta. Non vi ha sfiorato l’idea che potrebbe preferire la California all’Alaska. Pensate solo a quello che preferite voi. Lo trattate come un sacco di patate o una balla di fieno.»
Questo era un modo nuovo di vedere la cosa, e Miller fu visibilmente scosso mentre rifletteva. Madge approfittò della sua indecisione.
«Se lo amate davvero, la sua felicità sarebbe anche la vostra», insisté.
Skiff Miller continuò a dibattere fra sé e sé, e Madge lanciò uno sguardo esultante al marito, che la ricambiò con un’espressione di approvazione.
«Cosa pensate voi?», chiese improvvisamente l’uomo del Klondike. Fu lei stavolta a restare perplessa. «Che volete dire?», chiese.
«Pensate che preferirebbe restare in California?» Lei annuì vigorosamente. «Sono sicura.»
Di nuovo Skiff Miller si dibatté nell’indecisione, ma questa volta ad alta voce, osservando contemporaneamente con occhio critico l’animale oggetto della contesa.
«Era un buon lavoratore. Ha fatto un mucchio di lavoro per me. Non si è mai tirato indietro. Ed era un campione nel far filare una muta inesperta.
Gli manca solo la parola. Capisce quello che gli si dice. Guardatelo, ora. Sa che stiamo parlando di lui.»
Il cane giaceva ai piedi di Skiff Miller, la testa accucciata sulle zampe, le orecchie dritte e in ascolto, e gli occhi svegli e intenti a seguire il suono delle voci dei contendenti.
«E c’è un sacco di lavoro in lui ancora. Può essere utile ancora per anni. E gli voglio bene. Gli voglio un bene dannato.»
Una o due volte ancora Skiff Miller aprì e chiuse la bocca senza parlare.
Infine disse: «Ecco che faremo. Le vostre osservazioni, signora, hanno un certo peso. Il cane ha lavorato sodo, e forse si è guadagnato il diritto a una cuccia soffice e ha diritto a scegliere. Faremo decidere a lui. Qualsiasi cosa scelga, va bene. Voi due resterete seduti qui. Io vi saluterò e me ne andrò tranquillamente per la mia strada. Se vuole restare, può restare. Se vuole venire con me, lo lascerete venire. Io non lo chiamerò, e voi non lo richiamerete».
Guardò con improvviso sospetto Madge, e aggiunse: «Ma dovete essere onesti.
Non tentate di convincerlo alle mie spalle».
«D’accordo», cominciò Madge, ma Skiff Miller la interruppe.
«So come sono le donne», disse. «Hanno il cuore tenero. Quando s’inteneriscono possono cambiare le carte in tavola e guardare sotto il mazzo e mentire come il demonio – con rispetto parlando, signora. Parlo delle donne in generale.»
«Non so come ringraziarvi», disse Madge con voce tremula.
«Non vedo di che», replicò lui. «Brown non ha ancora deciso. Ora se non vi dispiace me ne andrò lentamente. E’ più che giusto, visto che sparirò fra un centinaio di metri.»
Madge fu d’accordo, e aggiunse: «E vi do la mia parola che non faremo niente per influenzarlo».
«Bene, allora posso anche mettermi in cammino», Skiff Miller disse col tono normale di uno che sta per andarsene.
A questo cambiamento nella sua voce, Wolf alzò rapidamente la testa, e ancora più rapidamente balzò in piedi quando l’uomo e la donna si strinsero la mano.
Si sollevò sulle zampe posteriori, poggiando le zampe anteriori sui suoi fianchi e contemporaneamente leccando la mano di Skiff. Quando Skiff strinse la mano di Walt, ripeté il gesto appoggiandosi a Walt e leccando le mani dei due uomini.
«Sarà dura, ve lo dico io», furono le ultime parole dell’uomo del Klondike, mentre si avviava lentamente su per il sentiero.
Per i primi cinquanta metri Wolf lo guardò andar via, fremente e agitato, come se si aspettasse che l’uomo si voltasse e tornasse indietro. Poi, con un sordo mugolio, Wolf balzò dietro di lui, lo raggiunse, gli prese la mano tra i denti con riluttante tenerezza, e cercò con dolcezza di trattenerlo.
Non riuscendovi, Wolf corse indietro dove sedeva Walt Irvine, afferrandogli la manica della giacca nei denti e cercando invano di trascinarlo verso l’uomo in cammino.
L’agitazione di Wolf cominciò ad aumentare. Desiderava l’ubiquità. Voleva essere in due posti allo stesso tempo, col vecchio padrone e col nuovo, e intanto la distanza tra i due cresceva. Nell’eccitazione saltava qua e là, si dimenava nervosamente, ora verso l’uno ora verso l’altro, in una penosa indecisione, non sapendo cosa voleva, desiderando entrambi e incapace di scegliere, gemendo e mugolando, e cominciando ad ansimare.
Si sedette improvvisamente, il naso per aria, con la bocca che si apriva e si chiudeva a scatti, sempre più aperta. Questi movimenti bruschi erano all’unisono con ricorrenti spasmi che lo afferravano alla gola, ogni spasmo più forte e più intenso del precedente. La laringe prese a vibrare, dapprima silenziosamente, accompagnata dal soffio d’aria che gli usciva dai polmoni, poi risuonando una nota bassa, profonda, la più bassa nel registro dell’orecchio umano. Tutto ciò era il preliminare nervoso e muscolare dell’ululato.
Ma proprio quando l’ululato era sul punto di prorompere dalla gola, la bocca spalancata si richiuse, il parossismo cessò, ed egli fissò a lungo l’uomo che stava per scomparire. All’improvviso Wolf girò la testa, e altrettanto fissamente guardò Walt. L’appello restò senza risposta. Il cane non ricevette né una parola né un segno, nessun suggerimento o indicazione su quello che ci si aspettava da lui.
Un’occhiata indietro al vecchio padrone che stava per svoltare la curva lo eccitò di nuovo. Balzò in piedi con un gemito, e poi, colto da un’altra idea, volse la sua attenzione a Madge. Finora l’aveva ignorata, ma adesso, essendogli venuti meno i due padroni, era rimasta solo lei. Le si avvicinò e le accoccolò la testa in grembo, strofinandole il braccio col muso – un suo vecchio trucco per implorare i suoi favori. Si allontanò da lei e cominciò a dimenarsi e a contorcersi giocosamente, saltellando e facendo capriole, arretrando e impennando le zampe anteriori nella terra, lottando con tutto il suo corpo, dagli occhi adulanti e le orecchie flosce alla coda dimenantesi, per esprimere il pensiero che era in lui e che gli era negato di proferire.
Presto smise anche questa tattica. Era deluso dalla freddezza di questi esseri umani che non erano mai stati freddi prima. Non riusciva a estorcere loro nessuna reazione, a ottenere nessun aiuto. Non gli badavano. Erano come morti.
Si girò e fissò in silenzio il vecchio padrone. Skiff Miller era arrivato alla svolta. In un attimo sarebbe sparito. Eppure non girò mai la testa, tirando dritto davanti a sé, lento e metodico, come totalmente disinteressato da ciò che stava accadendo alle sue spalle.
E con quest’andatura sparì dalla vista. Wolf aspettò che ricomparisse. Aspettò un lungo minuto, quieto, in silenzio, immobile, come impietrito – ma di una pietra tutta tensione e desiderio. Abbaiò una volta, e aspettò.
Poi si girò e trotterellò verso Walt Irvine. Gli odorò le mani e si accasciò pesantemente ai suoi piedi, guardando la vuota curva del sentiero.
Il ruscelletto che scorreva giù dalla pietra muschiosa sembrò improvvisamente aumentare il volume del suo gorgoglio. Ad eccezione delle allodole, non c’era altro suono. Le grandi farfalle gialle volteggiavano silenziosamente nella luce del sole e si perdevano nelle ombre sonnolente. Madge guardò il marito con aria trionfante.
Qualche minuto dopo Wolf si alzò. I suoi movimenti erano decisi e deliberati.
Non degnò di uno sguardo l’uomo e la donna. Gli occhi erano fissi sul sentiero.
Aveva deciso. Lo capirono. E capirono, che per quanto li riguardava, la loro prova era appena cominciata.
Cominciò a trotterellare, e le labbra di Madge s’incresparono, pronte a emettere il suono carezzevole. Ma il suono non fu emesso. Sentì la necessità di guardare il marito, e vide la fermezza con cui egli la stava osservando. Le labbra increspate si rilassarono, ed ella sospirò silenziosamente.
Il trotto di Wolf si trasformò in corsa. I balzi erano sempre più lunghi.
Non una volta girò la testa, la folta coda da lupo dritta dietro di lui. Tagliò velocemente la curva e scomparve.