Sono le otto della mattina. Ammettiamo di esserci levati così presto e di essere già fuori. È una bella mattina a fine di Giugno, dunque niente di così straordinario e possiamo ammetterlo quasi comodamente.

Noi girelliamo per uno di quei preferiti quartieri di vie secondarie, aggruppamenti di piccole vie, viette, viuzze, smilze, tortuose, che si rimescolano l’una nell’altra. Questi quartieri, situati nel centro di una grande città, vi rimangono incorniciati dalle grandi arterie, e in essi, venette venuzze, circola, rumina laboriosissima la vita in sottana, quella stessa vita che per le grandi vene circolerà poi rivestita. Da quelle vi traversa, se deve, frettolosa, vi sfugge se può; mentre soltanto poche ore dopo, vi passerà tranquillamente, beatamente in pompa magna.

Mi viene in mente una cosa: la più carina, la più affascinante delle vostre amiche, vorreste vederla nel suo elegante salotto passeggiare in gonnellino? Troverebbe ella le stesse pose, avrebbe gli stessi movimenti morbidi e felini, del giorno, quando vi riceve alle cinque per il thè? Mentre invece che essa passeggerà naturalissima col suo sottanino nella camera da letto o da bagno, nel suo spogliatoio.

Perdonatemi la divagazione e ritorniamo nei nostri quartieri e per le nostre vie. Esse hanno il loro odore particolare, che non è quello delle grandi vie; i negozi di generi alimentari che vi sono fittissimi, espandono i loro profumi, calcano la loro nota nell’aria, e specialmente nelle belle mattine estive quando tutte le porte sono spalancate e le mercanzie in parte esposte all’esterno, e dappertutto circolano barrocci e panieri colmi di frutte e di verdure.

Noi girelliamo fra le servette rubiconde, e non rubiconde, fra le grasse comari, e comari secche, in giro per le provvigioni della giornata, vecchie beghine che fanno anch’esse qualche spesicciola dopo avere ascoltata tre o quattro volte almeno la santa Messa, o che si avvicinano alla candida latteria, linda come le loro anime di fresco nettate, dopo le devozioni divenute poco alla volta necessità quotidiana della loro esistenza scarnita. Potreste voi indovinare che quelle figurine più o meno sbilenche che vi passano vicino, brune e untuose, sono invece di dentro di sì lucente candore?

È fresco. Questi quartieri secondari della città, così imbottiti nel centro, sono freschissimi anche d’estate. Le case molto alte, le vie strette e irregolari, le loro tettoie quasi si ritoccano, talune sembrano volersi baciare altre tenersi il broncio, e appena vi lasciano scorrere un ruscello azzurro; il sole non vi può dare che una sbirciatina sul mezzo del giorno, non più.

Però si presenta una giornata caldissima, l’aria è assolutamente ferma.

Noi girelliamo così per abitudine, scrutando sempre con più o meno interesse la vecchia umanità e avendo tutta l’aria di fare un vecchio mestiere.

Eccoci ad una piazzetta asimmetrica, piccolo largo fatto dinanzi alla parrocchia. Saliamo tre scalini, e per la porta sgangherata e polverosa entriamo. Noi entriamo anche lì naturalmente, è nostra abitudine di non arrestarci davanti a nessuna porta. Una capanna meticolosamente guernita di polverosissime cianfrusaglie. Sulle due file di panche alcune vecchie qua e là biascicano con disappetenza le loro orazioni. Un colpo di tosse, unico rumore. Ma ai piedi dell’altare maggiore, dove si celebra la santa Messa, subito ci colpisce un gruppetto di persone. Andiamo avanti; il gruppo è la sola cosa che possa interessarci qua dentro, e non tardiamo a identificare il fatto: si tratta di un matrimonio. Uno di quei matrimonî che debbono passare inosservati, per un pelo non eravamo usciti di chiesa senza avvedercene; fra persone perbene, che hanno tutte le buone ragioni per fare quel passo senza solennità alcuna, senza il più lieve profumo di cerimonia.

Si potrebbe scommettere che le persone di quel gruppo vennero in chiesa alla spicciolata e a piedi; infatti fuori, sulla piazzetta, nessuna vettura attende.

Arriviamo fino alla balaustrata dell’altare maggiore per vedere le nostre figure almeno di profilo. Sembra che non si accorgano affatto di noi intente come sono a guardare l’altare dove il prete sta officiando. Eppure i nostri passi hanno percosso come un martello di legno il silenzio. Il gestante marito ad un certo punto volge cautamente la testa per vedere chi osserva, ma si ricompone ben presto.

E giacchè ce li abbiamo sorpresi caldi caldi perchè non dobbiamo cercare, se ci riesce, di ficcare un po’ il naso nei fatti loro? Tanto siamo a bighellonare per le strade, possiamo trattenerci qui un poco, nessuno ci chiederà conto del tempo che avremo sciupato, non siamo noi sfaccendati di mestiere?

Gli sposi sono in mezzo, in ginocchio; ai lati dell’inginocchiatoio due signori in piedi; dietro, esse pure in piedi, due signore.

Anche le due signore si volgono quasi contemporaneamente dalla parte nostra, ma non sembra che la nostra presenza dia loro troppo fastidio e si ricompongono con molta naturalezza. I due signori ai lati sono più duri, non si volgono affatto e non hanno punto l’aria di averne voglia.

C’è però nell’atmosfera rarefatta e stranamente profumata di questo luogo, qualcosa che attrae sempre più la nostra indomabile curiosità.

All’entrare nella chiesa il gruppo sembrava di quattro persone e non di sei, gli sposi, inginocchiati nel mezzo, non apparivano, e l’assieme così stretto non saltava dapprima tanto agli occhi; se noi non avessimo notato la loro attitudine estatica potevamo averli scambiati per uno di quei famosi gruppetti di forestieri perduti dinanzi alle bellezze dell’arte; è vero però che qui, di bellezze, sfido anche gli americani di buona volontà a trovarne, ma non c’è mai da stupirsi, quella gente è eminentemente prodiga di ammirazione artistica, e gira il mondo per questo.

L’ora, pur non essendo fuori di regola, le otto della mattina…. ma più il fatto di non avere attirata l’attenzione di nessuno entrando nella chiesa. Si sa bene oramai che quando gli uomini fanno uno di cotesti passi sul loro cammino, li circonda lo stupore di moltissima gente, tanto che i poveretti, dispostissimi a fare con la massima naturalezza il loro passo, vedendosi tanto osservati hanno tutta l’illusione di mettere il piede in fallo e dare in un maledetto ciampicone. Com’è possibile che nessuno segua il corteo di un battesimo, e più, quello di un matrimonio al suo entrare nella casa di Dio? Quello di un funerale? Quest’ultimo in special modo provoca lo stupore; e considerando l’individuo avere fatti a quel certo momento tutti i suoi passi, lo si va a salutare nè più nè meno come uno che arriva alla stazione.

E il dover constatare che nessuno all’infuori di noi sia qua dentro ad appagare una così lecita curiosità mi fa supporre che questa gente non sia neanche passata per la porta. Sapete una cosa? Sono passati per la sagrestia o per la casa del parroco.

La messa è quasi alla fine. Un fatto molto evidente che per primo ci salta agli occhi è questo: la diversa età degli sposi. La fanciulla, vestita di un semplice abito di panno grigio chiaro, cappello grande di grossa paglia grigia con ali bianche, e velo rabescato dal quale appena si intravede un visino pallido, oblungo, non può avere più di vent’anni. L’uomo, forte, maturo, dalla faccia sanguigna, abbastanza grossolano, capelli neri ancora per due terzi, vestito con semplice abito blu, non può averne meno di quaranta.

A sinistra e a destra, evidentemente, i testimoni, non è facile sbagliare. E curiosa che anche qui, benchè sia un fenomeno abbastanza secondario, dobbiamo notare un nuovo squilibrio di età. Ma che cosa stiamo dicendo, i testimoni sono belli di tutte le età, non debbono mica sposarsi loro. Uno alto secco, di circa trenta anni, biondiccio, con faccia lunga giallastra, inespressiva, miope, i capelli duri, dritti come le setole di una spazzola, le lenti in oro che gli annebbiano due occhi verde-grigio stagnati.

L’altro, un vecchietto rotondo, luminosamente calvo, accuratissimo, saturo della sua posizione, con uno di quei tait neri che rasentano la cerimonia.

Le due signore dietro, una vicina ai quarantanni, figurina esile, abbastanza signorile, ancora carina, vestita di un elegante abitino di panno blu, cappello blu, ali rosse. L’altra, di circa sessanta, vestita accuratamente in nero, cappello nero, ali nere.

L’effetto complessivo che ne riceviamo è questo: gente perbene. Infatti noi non abbiamo sbagliato, e nei varî passi che siamo per citare ci proponiamo di sostenerlo a spada tratta nel caso che taluno si prendesse la bega di contraddirci.

Oh! se queste brave persone, sicure di essere sfuggite alla morbosa curiosità del prossimo loro, sapessero che l’appunto noi ci siamo a caso imbattuti nei loro interessi!

Ma chi sono? Chi sono? Ora che questa benedetta curiosità è lecita e naturale accingiamoci ad un lavoro di identificazione. Anzi procederemo con uno di semplificazione o di epurazione che dir vogliate, ci libereremo del superfluo ringraziando i bravi testimonî del loro buon servizio perchè noi non sappiamo più che farcene. Altrimenti dovremmo occuparci del prete e del chierico, e delle beghine, e anche di quello che tossì.

E rimaniamo allora con due sposi e due signore, o meglio, un maschio e tre femmine.

Un maschio di quarant’anni circa, e tre femmine, una di venti, una di quaranta e l’altra di sessanta. E anche questo sempre approssimativamente giacchè per ora lavoriamo alla facciata.

Il maschio, ditemi un poco, volete sapere che cosa fa? Fa l’ingegnere. È la sua professione. È lui l’ingegnere. È vero, chi poteva essere di quelle quattro persone dacchè le altre sono tutte femmine? Un momento, e chi vi assicurava che una di quelle tre signore non potesse essere lei, proprio lei, l’ingegnere? Non è punto impossibile, si potrebbe scommettere che in America, o anche solamente a Parigi, l’ingegnere sarebbe stato lei, precisamente, un’ingegneressa. A noi non suona ancora bene però, ci siamo abituati alla dottoressa, professoressa, avvocatessa; ingegneressa non ci suona bene, architettessa…. perchè l’ingegnere deve essere anche architetto.

Ma le nostre tre donne sono ancora da considerarsi come…. «attendenti a casa». Così cantano gli atti dello stato civile.

Abbiamo già detto che il nostro eroe può avere circa quarant’anni, ebbene, ora siamo in grado di affermare che ne ha giusti giusti quarantacinque. Non per questa piccola differenza ci sentiremo imbarazzati ad intraprendere con una certa rapidità il racconto della sua vita, o meglio, a fissarne certi punti. Abbiamo detto ingegnere, ingegnere sia, laureiamolo subito! Venticinque anni. Siamo più che a metà delle nostre fatiche! E pensare, quanti sudori, quante lunghe ore di tavolino, notti insonni, lotte di volontà, gli sarà costato quel piccolo foglio di laurea; che noi gli diamo così…. su due piedi…. con tanta leggerezza! D’altra parte, nella vita di un ingegnere non possiamo dare eccessiva importanza al tempo in cui esso costruiva i suoi palazzi colla sabbia sulla spiaggia del mare, o colla mota, o tanto meno al giorno in cui detto professionista spuntò il primo dente. Noi dobbiamo considerare il suo esame di laurea come il suo primo dente.

Appena laureato, a Pisa, il nostro giovinotto venne qui in questa città vittorioso di un concorso che lo chiamava ingegnere municipale.

Il mio maliziosetto lettore sta per tirare ironiche somme; la storia è alla fine, e il vostro eroe è bello e che sepolto. Non è mica vero che facendo l’ingegnere comunale non si possano costruire bellissime cose, come noi vedremo, un po’ di pazienza, e bando all’ironia mio scaltro amico.

Figlio di due onesti campagnoli, i campagnoli sono quasi sempre onesti, che avevano fatto l’impossibile per far giungere a tanto il loro unico figlio dotato da madre natura di spiccatissime spaventose qualità numerarie, fu, dopo tanto prodigio, il prodigio finale della vittoria di quel concorso, l’affermazione suprema: la gloria.

E d’altronde, giungere per la prima volta in una città, impiantarvi uno studio, svelarsi, imporsi, costruirsi una clientela, costruzione difficile anche per gli ingegneri, è cosa che fa sorridere anche te cittadino autentico. Non era nemmeno il caso di pensare ad imprese di questo genere. I buoni ed onesti genitori lo avevano mantenuto facendo ogni sforzo, spremendosi fino all’ultima stilla, anzi, dovendo attingere qualche gocciolina in prestito.

Ma il ragazzo, aveva corrisposto in una maniera inverosimile; alla fine del mese i soldi gli erano sempre avanzati. Udite, studenti di tutti i paesi e di tutte le facoltà, c’era una volta uno, tra voi, vi fu, al quale i soldi del mensile avanzarono sempre, e per il quale l’anno divenne, alle tasche del povero ma fortunato padre, di undici invece che di dodici mesi; o voi, che non chiedereste di meglio ad un novello Giulio Cesare, o a Numa Pompilio che ve lo rifacessero di ventiquattro!

Di questi giovani campagnoli che partono per l’università ve ne sono che si gettano di sfascio, con tutta la forza della loro verginità, in braccio all’ozio e ai vizi, e allora l’università, il tempio, diviene l’ultima spelonca dei loro pensieri. Ma ve ne sono, pochi invero, che appena voltisi attorno, fiutata la via, si isolano paurosamente, diffidenti di ogni cosa, di ogni persona, seguono le lezioni come cronometri, e se ne vanno a casa ratti, a testa bassa, per sfuggire al sorriso dei burloni vagabondi. Saranno spesso dei poveri esseri mediocri, questi, dei rustici, degli sgobboni; la loro volontà, la loro forza d’animo, li faranno alla fine mirare assai più vicino al proprio naso di che non possa guardare attraverso il fumo della propria sigaretta l’ultimo dei fannulloni; ma quante lacrime essi risparmiano agli occhi della loro madre lontana, quanti dolori al cuore del loro padre che si va di giorno in giorno disperatamente sfiduciando sul conto del proprio figliolo, e le più dolci e rosee illusioni, si vede cadere da dosso desolatamente e si sente rimanere solo e ignudo ai rigori del prossimo inverno.

Ma che cosa vado contando? Non sono le lacrime in apposite sacche dentro i nostri occhi, che cosa ci stanno a fare? E il freddo non è la salute dell’uomo? Gli accresce l’appetito e gli rassoda le carni, e pare uccida anche un’infinità di bacilli, non escluso il bacillo virgola.

Il nostro ingegnere, a dire la santa verità, era proprio nato ingegnere, ma il padre, al solito, ne aveva sognato un avvocato. Uno di quegli avvocati che vengono fatti cavalieri, commendatori, deputati…. del loro paese…. che quando arrivano le autorità vanno a salutarli fino al treno, a prenderli colla banda, che si trattengono brevemente, al più un giorno, nel quale debbono sbrigare migliaia di faccende, udire migliaia di persone, pronunziare almeno tre o quattro discorsi. Poi gli applausi…. lo stupore universale…. il banchetto, la banda, le autorità e un’altra volta al treno! Cose da pazzi! Sogni che facevano girare la testa a quel galantuomo, e i quali tanti sacrifizi aveva fatti sotto forma di risparmio. Ma di fronte alle attitudini indiscutibili del figlio…. Non era poi tipo da far l’avvocato…. parlava poco…. male…. timido…. onesto, con una fila di scrupoli, arrossiva per nulla…. Notate bene, non vi sembra che quel campagnolo lo volesse direttamente assassinare? Ma fu abbastanza ragionevole e lo prese ingegnere. Non che ingegnere non sia una bella, bellissima cosa, magnifica, mah!… Oh Dio…. sono sempre su per i ponti…. sulle fabbriche…. fra i muratori, gli sterratori, gl’imbianchini, colle scarpe impolverate, le mani anche…. C’è in tutto questo ancora troppa terra per formare l’ideale d’un campagnolo ambizioso; egli non spiccava il volo così alto sui poveri ignorantoni dei paesani che lasciava. Il padre avrebbe voluto un mestiere per il quale tutti avessero dovuto inginocchiarsi davanti al suo figliolo.

***

A venticinque anni, risultato idoneo all’esame, entrò ingegnere civile nel nostro municipio con uno stipendio di lire duecentocinquanta mensili e che avrebbero potuto giungere alla fine della carriera fino a cinquecento. Cifra molto rispettabile specialmente presso il suo paese dove con cinquecento lire si pagavano tutti gl’impiegati del comune messi insieme.

Per prima cosa bisognava trovarsi un alloggio, una camera in luogo quieto pulito, presso una buona famiglia. L’ingegnere girovagò prima, poi pensò meglio di rivolgersi ad un commissionario, di quelli che lustrano anche le scarpe, e al quale spiegò come e in quali pressi intendeva sistemarsi. Quel commissionario assicurato sul conto del suo tipo, gli seppe fornire un indirizzo davvero eccellente. Una signora con la figlia, vedova di un impiegato governativo, persone distinte, che davano via una stanza per ricavare parte della pigione troppo gravosa per le novanta lire mensili di pensione colle quali dovevano vivere.

Il signor ingegnere fu ricevuto con tutto il rispetto, la vedova capì subito che era una brava e buona creatura e gli prodigò le più cordiali accoglienze. La casa, per la sua ristrettezza, esigeva la massima familiarità fra quelle persone: tre stanze e la cucina. La stanza d’ingresso, discretamente arredata, e tenuta con proprietà, serviva da stanza da pranzo, da lavoro, da ricevimento. In fondo era la porta del dozzinante, a sinistra quella della camera delle due signore, quella della cucina, e un’altra porticina più piccina accanto, avete capito? Questa era la casa.

Quando l’ingegnere, dopo essere stato per la prima volta in un caffè pieno di luci e di splendori, la sera, alle dieci si ritirò, nella stanza d’ingresso, attorno alla tavola erano tre persone. La giovine seduta vicino ad un giovanotto bruno di ventiquattro o venticinque anni; la madre in fronte eseguiva un lavoro d’ago.

Superate le prime incertezze furono fatti i convenevoli, e il dozzinante venne dalla padrona di casa presentato con deferenza al futuro sposo di sua figlia Margherita.

Il nostro giovine però si trovò imbarazzato, non era punto avvezzo alla società, la stanza, la famiglia, tutto andava bene, ma dover passare per quel salotto dove quelle signore stavano tutto il santo giorno, e per di più la sera con quel terzo incomodo…. Quando glie l’avevano fatta vedere, la camera, non glie l’avevano mica detto che quella stanza d’ingresso lì, rappresentava un’infinità di altre stanze….

La sera dopo provò a rincasare più tardi, alle dieci e mezza. Quando fu sotto guardò prima, inutile, il salotto era illuminato, bisognava affrontare il saluto. Salì preparandosi ai convenevoli, cercò di aprire l’uscio ed entrare con disinvoltura: le tre persone erano lì come non si fossero mosse dalla sera avanti. Figlia, fidanzato, madre, tutti allo stesso posto. Sotto la luce verdastra nobilitata dalla gonnella d’un modesto lume a petrolio, se ne stavano in silenzio come spettri. Si alzarono tutti, salutarono, si risederono.

L’ingegnere rimase desto, potè constatare che il fidanzato non se ne andava che alle undici e mezza. Non c’era niente da fare, bisognava abituar la faccia a quel saluto, o cercarsi un’altra camera. Salutare tutte le sere, e anche tutti i giorni, insomma tutte le volte che fosse venuto a casa. — E se una sera dovessi andare un momento di là? — Pensava. Siccome però c’era in lui la stoffa dell’uomo che si abitua, c’era a pezze intere, a magazzini pieni, ci si abituò, e si abituò anche a fare ogni sera quattro chiacchiere, le solite, il tempo…. il comune… le sue fatiche…. le preghiere della vedova per qualunque cosa potesse occorrergli, che non facesse un complimento al mondo, che non si riguardasse di nulla e facesse conto d’essere in casa sua.

— Ma si accomodi….

— Grazie.

— Un momento.

— Grazie. — Il fidanzamento, a quando le nozze, i lavori che le signore avevano per mano, che erano naturalmente del corredo della figlia.

— Un momento soltanto.

— Grazie. — E non si accomodava mai.

E spogliandosi per andare a letto, sorridente e rubicondo, sodisfatto della sua giornata, sodisfatto di sentirsi oramai lì come in casa sua, sodisfatto dei suoi progressi di uomo di società, ripensava al terzetto. — Gente perbene, molto perbene! Che fortuna avere incontrato così subito, in una città grande, dove è tanto difficile imbattersi in brava gente. Anche quel facchino, che galantuomo! Rimaner vedova così giovane…. Poveretta…. Abituata bene…. ritrovarsi in strettezze…. E come sanno mascherare bene il loro piccolo, con che dignità! Chi sa quali sacrifizi dovranno fare…. Chi sa come mangiano poco per potersi vestire con decoro… Anche il fidanzato sembra tanto perbene, Antonio, bel nome…. bravo giovane…. Impiegato ferroviario…. Oh! farà strada! La ragazza è molto carina, un po’ pallida…. La madre invece no, è bene in carne è una bella donna, e non è punto vecchia…. che potrà avere? Trentasei o trentasette anni? Li porta bene per Dio! È ancora una bella donna! Gentile, distinta…. ha dei begli occhi neri…. mi voleva dare anche l’acqua calda!… Davvero che se avessi la disgrazia di ammalarmi qui non mi troverei in pensiero, mi sembrerebbe d’essere in casa mia, son sicuro che non mi lascerebbero un momento solo, che mi assisterebbero come fossi un loro parente. E già in camicia, — si guardava nello specchio. Oh! Non c’erano di quei pericoli per il momento! Poteva campar tranquillo, aveva una faccia da crepar di salute.

***

Una sera finalmente, dopo due mesi, l’ingegnere si accomodò. E si accomodò poi tutte le sere. E i quattro incominciarono ad impegnare vivaci e allegre conversazioni; e invece che alle dieci incominciò a ritornare alle nove e mezza eppoi alle nove. Arrivava quasi sempre contemporaneamente al fidanzato, spesso s’incontravano alla porta di casa. Avevano messo su un accanito quartetto di scopone. La signorina col suo futuro sposo, la vedova coll’ingegnere. E questi incominciò con una bottiglia di Marsala, poi dei dolci…. Sul principio portava cose di un ordine un po’ scadente, ma senza che lui se ne fosse accorto, lo avevano poco alla volta stradato nelle migliori ditte di quei generi, e passando sopra al prezzo, si chiamava felice di farsene onore e di riscuotere i complimenti della figlia e della madre.

Le serate passavano gaiamente, tutti e quattro allegri e contenti giuocavano, ciarlavano, mangiavano e bevevano, giungendo fino a toccare la mezzanotte. La casa pareva rianimata. Erano ormai tutta una famiglia, quattro persone che si volevano bene, che si erano simpatiche, che formavano un tutto invidiabilissimo.

Quando, un anno da questi tempi, la figlia, anzi, Margherita, si fu sposata e partì per un paese della Calabria dove il suo Antonio era stato destinato per far carriera, all’ingegnere balenò per la buona, dolcissima anima, l’idea d’impalmare quella vedova, perchè non avesse più a portare il luttuoso nome, e perchè in fondo, questo bravo giovanotto amava le situazioni chiare come la luce del sole. Il matrimonio dei giovani lo aveva messo in ottime disposizioni, ma la donna che pure ne sarebbe stata felice, non aveva osato sperarlo.

Poi calcolò freddamente. Perchè questo eccesso di zelo? Le faccende non erano chiare ugualmente? Incominciava a divenir cittadino davvero. I quattordici anni di differenza…. tutto compreso, e tenuto conto che nulla sarebbe cambiato ed avrebbe conservata tutta la sua libertà tirò avanti, e lasciò ogni cosa al suo posto, nella casetta dove ora i due vivevano lieti.

La donna fece il possibile per indurlo a mangiare in casa, con lei, gli avrebbe preparato la mensa secondo i suoi gusti, ogni suo desiderio sarebbe stato scrupolosamente sodisfatto. Perchè ostinarsi ad andare alla trattoria dove tutto è falso e malsano, quando si poteva mangiare così bene e così igienicamente in casa propria? Ecco perchè: per due ragioni la brava vedova non potè giungere al suo scopo: prima, perchè sembrava all’ingegnere che una volta accettata la vita in comune ci volesse ad ogni costo quel benedetto pezzo di carta bollata, seconda, perchè come noi sappiamo già, era uomo talmente abitudinario da sentirsi una stretta al cuore a dover fare un bel giorno un’altra strada per andare a mangiare.

***

Mentre qui le cose andavano così benino, tutto camminava in santa pace e beatitudine, laggiù nelle irsute Calabrie, tutto andava a rifascio. Antonio, quel caro, quel bravo, il buono, il timido Antonio, era divenuto ad un tratto un mascalzone; così, come due e due fanno quattro. Faceva soffrire pene d’inferno alla povera Margherita, glie ne faceva di tutti i colori e viveva maledicendo il momento di averla sposata, imprecando contro di lei, contro la madre, contro la Calabria, contro sua figlia, la piccola Vera, perchè bisogna sapere che dopo nove mesi di matrimonio la Margherita aveva puntualmente dato alla luce una bella bambina.

Era diventato un altro uomo, scriveva la Margherita, irriconoscibile, la lasciava di notte e di giorno, giuocava, si ubriacava, la picchiava anche nel tempo che aveva la creatura al petto.

Erano trascorsi appena due anni, quando la Margherita, pallida, magra, sofferente, ritornò nelle braccia di sua madre avendo lei nelle sue la piccola Vera. Il bello, il bravo, il timido Antonio aveva piantato baracca e burattini, se n’era andato per conto suo, chi sa come chi sa dove.

L’infelice sposina fu ricevuta nella sua casa con grande pietà ed amore, sia dalla madre come dall’ingegnere. La faccia serena di quest’uomo non si alterò, fece tutto quello che gli era possibile per alleviare le pene delle due donne, e vi riuscì. Le conduceva a spasso, a teatro, portava loro dolci, fiori, doni alla piccola Vera. Aveva sborsato, a titolo d’imprestito, tutto ciò che possedeva dei suoi risparmi. Si era comportato insomma più che da galantuomo da angelo custode. Siccome però la piccina non sempre si poteva condurla, e sola non si poteva lasciare, la nonna chinò la testa e incominciò il suo sacrifizio, se ne rimaneva tranquilla e rassegnata colla sua bella nipotina.

L’ingegnere e Margherita andavano oramai sempre insieme, per svagarsi, per distrarsi, per dimenticare. Infatti la sposina infelice incominciò veramente a dimenticare i due orribili anni della sua vita, l’orribile delusione, la tragica fine del suo amore.

Al calore di tanto affetto vero che la circondava, incominciò a riprendere, si rifaceva carina, ingrassava, si coloriva, ritornava gaia, tanto tanto carina, nella sua buona casa colla sua amata creatura. Solamente che quando pronunziava la parola Calabria le sue labbra avevano ancora un fremito febbrile.

***

Fu per virtù della Margherita che un giorno, il tanto atteso e non più sperato familiare miracolo si operò fra quelle mura domestiche alle ore dodici e un quarto.

La tavola fu circondata da quattro persone. L’ingegnere sedeva fra il seggiolotto della piccola Vera e la Margherita, la nonna gli era seduta di fronte.

Si pensò subito di cambiar casa per liberarsi da quelle strettezze e se ne trovò una di cinque belle stanze e la cucina. Sala da pranzo e salotto da ricevere; la camera dell’ingegnere, accanto c’era quella della Margherita, che davano tutte e due sulla strada, la nonna e la Verina dormivano insieme in un’altra che dava sul giardino.

***

Quante volte l’ingegnere pensò di fare della Margherita la sua cara e legittima sposa! Ma dove pescare quel demonio di marito? E come imbastire un divorzio? Si sarebbe prestato il mascalzone? Dove era? Lo si credeva in America, ma chi sa? È un’abitudine inveterata di pensare a quel benedetto paese tutte le volte che un farabutto se ne va. Che cattiva nube fra i due buoni esseri!

E il tempo passava e questa spina si conficcava sempre più nel cuore dell’uomo ora maturo. Egli voleva avere una moglie, una moglie da far vedere a tutti, ai suoi colleghi, agli amici, una donna che portasse il suo nome, un essere adorato che potesse vivere con lui senza dover mai mentire in nessuna ora e con nessuno.

E invece il tempo, incalzando, rendeva la menzogna sempre più grande, sempre più indispensabile. La Vera, la piccina cresceva, era una giovinetta ora, e minacciava di farsi un amore di ragazza.

Uscendo con queste due donne sentiva il bisogno di gridarlo per le vie, a tutti, a chi non lo voleva sapere, che se quella non era la sua legittima moglie la colpa non era sua, che lui non avrebbe domandato di più e di meglio al creatore del cielo e della terra, che fosse sua, sua proprio, a voce e per iscritto; e che per la fanciulla non sarebbe stato no, un patrigno, ma il più tenero, il più amoroso padre che fanciulla abbia mai avuto sotto la cappa del cielo.

E il tempo passava e l’uomo sereno si oscurò, la sua posizione sociale gli era divenuta una fissazione. Il semplice e buon campagnolo non poteva rassegnarsi a dover tanto amare per tutta la vita senza poter contare una moglie al suo attivo, e una buona raccolta di figlioli.

Faceva lunghe passeggiate con la Vera la domenica, e sfogava con la giovinetta il suo malumore, la sua malinconia indefinita, senza ch’ella potesse imaginare la vera causa che l’alimentava.

Quel pezzo di diavolo grasso e rosso così triste, così sconfortato la faceva di sovente dare in lacrime, e allora le lacrime di lui andavano ad unirsi alle sue e fondevano insieme la loro tristezza. La fanciulla era di natura malinconica sentimentale, egli lo era transitoriamente, e le forniva un appoggio un ricovero sicuro, e a lui si stringeva sempre di più. Lo chiamava signor ingegnere come lo aveva sempre udito chiamare in casa, dalla nonna e dalla madre, ma provava per lui un abbandono dolce, un benessere nel socchiudere gli occhi su quelle solide spalle e su quel ben costrutto torace.

Egli osava talora fissare i suoi occhi in quelli della fanciulla e si sentiva tremare le gambe mentre le guance di lei si cuoprivano di un candido rossore. Incominciava a dubitare di sè, si sentiva tutto agitato, come smarrisse la ragione, la rettitudine, non sapeva più se fuggirla o stringersela disperatamente quella pallida e dolce creatura. Ma oltre questa adunazione di nuvolaglia, oltre questa fuggente tempesta, c’era il sereno per tutti e due, e malgrado i brontolii cupi di tutti i tuoni, e le minacce metalliche più acuminate di tutte le folgori, essi guardavano tranquilli un punto luminoso.

***

È una cosa tanto logica e semplice! Eppure, agli occhi di chi non abbia come noi veduto chiaro qua dentro, può sembrare complicata e illogicissima. Ma dopo aver chiarito, tutto è chiaro! Non è vero? E non era già chiaro di suo? Vi stupite forse di vedere lì, inginocchiati dinanzi a quell’altare l’ingegnere e la bella e malinconica Vera? Con dietro, composte e indifferenti, la Margherita e sua madre? E con ai lati quei due signori che senza dubbio debbono essere le persone più specchiate, più rette che possa vantare il nostro municipio?

Eppure, se bene ti ricordi, mio difficile lettore, l’ingegnere avrebbe sposata, e a occhi chiusi, la Margherita, senza pensarci sopra un minuto, con tutto lo slancio della sua anima buona e generosa. Che colpa ne ha avuta se proprio non l’ha potuto fare? Se fra le loro due bontà c’era di mezzo il male sotto forma di marito che li ha irreparabilmente separati? Non solo, ma non gli era balenata per la testa l’idea di sposare anche la madre, la nonna? Sissignori, quando fu sposa la Margherita, se quella donna avesse voluto, lui l’avrebbe fatto, con tutto il cuore e con tutta l’anima.

Noi dunque, nella nostra conclusione, non possiamo che, tutt’al più, permetterci questa domanda, guardando il gruppetto ai piedi di quell’altare, nella chiesuccia dove per caso capitammo stamattina: che cosa penserà in questo momento la signora di sessantanni vestita accuratamente di nero, cappello nero, ali nere? E quella di quaranta, in elegante abitino di panno blu, cappello blu, ali rosse? E cosa infine la tenera colomba di venti in grigio perla, cappello di grossa paglia grigia, ali bianche? Ecco dove con tutta la nostra capacità nemmeno noi possiamo arrivare.

A proposito, e l’ingegnere? L’ingegnere…. noi lo abbiamo visto finalmente costruire qualche cosa: una solida barriera per la quarta generazione.