Per via.
— Ah lei va al nostro stabilimento di….? — mi disse un cittadino del capoluogo vedendomi montare in carrozza.
— Appunto.
— Cura ordinata dal medico?
— No. Me la sono ordinata da me. Penso che di questa stagione un po’ d’acqua fresca non nuoce.
Il mio interlocutore fece una smorfia come a dire: — Che gusti! — poi soggiunse: — È la prima volta?
— La primissima.
— Ed è solo?
— Come vede.
— Ma lassù troverà qualche conoscente?
— Eh, forse sì e forse no.
— Buona fortuna allora, — conchiuse l’ottimo signore salutandomi con la mano e avvolgendomi in uno sguardo pieno di commiserazione.
Son venuto a sapere più tardi che gli abitanti della regione, pur andando orgogliosi di quella fonte d’acqua viva e purissima che porta loro ogni anno parecchie centinaia di ospiti, guardano questi ospiti con mal celato sospetto. Essi non sanno intendere come mai delle persone a modo che possono viver libere a casa loro vadano a chiudersi per tre o quattro settimane in una specie di carcere, ove tutto si regola a suon di campanello, in base a norme fisse, ove occorre alzarsi alle cinque del mattino e mettersi a letto alle dieci della sera, ove una mancanza alla disciplina vi espone ai rabbuffi del direttore, e, in caso di recidiva, persino allo sfratto. Onde chi si accinge alla cura per suggerimento del medico dev’essere un malato grave; chi vi si assoggetta per suo capriccio dev’essere un matto…. Matti effettivi, o matti dilettanti, ecco la conclusione a cui la gente pratica arriva. E, per natural conseguenza, lo stabilimento idroterapico di…. non sarebbe che una succursale del manicomio.
Intanto la vettura ha percorso un buon tratto di strada nè brutta nè bella, e il cocchiere mi assicura che fra un quarto d’ora saremo alla meta.
— Ehi, ehi, cocchiere, di dove vengono questi originali?
— Vengono proprio dallo stabilimento. Hanno fatto la doccia e adesso fanno la reazione.
Tipi curiosi in verità. Pallidi, torvi, a testa bassa, soli per lo più e taciturni anche se sono in due, scendono a passi concitati giù per la china e paiono assorti in così gravi pensieri che nessun fatto esteriore giunge a turbarli. Anche a me balena un istante l’idea: Che sian matti?
L’arrivo.
La strada che saliva a zig zag intorno al monte si spiana ad un tratto. Eccoci giunti. Il rotabile corre sopra un piazzale alla cui destra sorgono tre corpi di fabbrica a uno e a due piani, alla cui sinistra verdeggia un viale di platani. Sotto il viale uomini e signore passeggiano o seggono in crocchio. Mi sembra udir pronunziato il mio nome, mi sembra che qualcuno agiti le braccia verso di me in segno di saluto. Ma il veicolo tira innanzi e non s’arresta che dinanzi a una porta ove il proprietario dello stabilimento accorre sollecito ed ossequioso, mi aiuta a scendere, mi dice di lasciar a lui la cura dei bagagli e m’affida a una vispa servetta.
Seguo la mia guida su per una piccola scala di legno, assumo da lei qualche informazione essenziale, ed entro nella stanza che mi è destinata. Proprio una cella, coi muri bianchi e il pavimento di legno, col letto di ferro, un tavolino zoppo, un cassettone piccolissimo, uno specchio chiazzato di macchie, un lavamano, un canterale, un cappellinaio, e due o tre sedie malferme. Lagnarsi è impossibile. Non c’è di meglio. Uno degli usci dà nell’andito, l’altro metterebbe in comunicazione con la camera attigua, ma è chiuso a chiave.
— È occupata quella camera? — io domando.
— Sissignore.
— E non resta libera per adesso?
— Ah nossignore. Il forestiero è qui da poco.
— E da questa parte?
— Da questa parte non c’è nulla. Il signore ha la fortuna d’aver la camera in angolo.
Meno male; sarò spiato da una parte sola. Poichè attraverso le pareti sottilissime d’uno di questi alberghi non ci sono segreti, e l’orecchio meno acuto sorprende ogni suono intimo e fuggevole. Il vicino entra, il vicino esce, il vicino apre un cassetto, il vicino si lava la faccia, si soffia il naso, si raschia la gola, sospira, il vicino…. Basta, non approfondiamo le indagini.
— Comanda altro? — chiede la rustica Colombina.
— Nient’altro. Buon giorno, cara.
Dopo un po’ di toilette mi accingo a discendere, e nel dar un’ultima occhiata all’ingiro m’accorgo d’una tabella appesa accanto al letto, come un’immagine sacra. Una tabella, del resto, molto pratica e savia, ove sono indicati l’orario della cura e quello dei pasti, i prezzi giornalieri della camera, del vitto e gli accessori, tra cui la visita medica obbligatoria all’arrivo. Sommato tutto quanto, è un conto salato. Pazienza!
L’amico.
Oh gioia insperata! Quelle due braccia che s’agitavano festosamente al mio arrivo appartenevano ad un amico, ad un carissimo amico. Chi è? Non lo so, almeno fin ch’egli non me lo abbia detto; so ch’egli aspettava con impazienza ch’io uscissi di camera, so che mi corre incontro e che mi esprime il suo piacere infinito di vedermi.
— Grazie, grazie…. Ma con chi ho l’onore….?
— Come? Non mi ravvisa?
— Ecco…. la fisonomia mi è nota…. Ma il nome…. al momento….
— Già, in città ci si urta coi gomiti migliaia di volte senz’aver l’occasione di parlar insieme.
E l’espansivo uomo m’informa del suo nome e cognome, della sua professione, del suo domicilio, delle sue condizioni domestiche, eccetera, eccetera…. M’incontra quasi ogni mattina nella tale strada, presso il tal ponte; egli va al suo ufficio, io probabilmente andrò alla mia scuola;…. perchè egli sa benissimo ch’io occupo una cattedra al nostro Istituto superiore…. anzi il nipote d’un cugino di suo cognato, anni addietro, era stato mio studente…. E come parlava di me!… Tutti, del resto, ne parlano bene…. Io sono una di quelle persone (così dice almeno il mio affabile interlocutore) sul conto delle quali non c’è alcun disparere…. Perciò egli era tanto lieto di mettersi a mia disposizione…. Ero nuovo del sito?
— Ma…. sì….
Egli invece ci veniva già da due anni, per sua moglie…. me l’avrebbe fatta conoscere…. e aveva ormai pratica dei luoghi, relazione intima con le persone…. A proposito, non avevo ancora visto il dottore dello stabilimento?… Era laggiù poco prima insieme col bagnajuolo…. Ah, eccolo….
Il dottore si presenta da sè; è un bell’uomo, di modi schietti, simpatici. Atteggia il labbro a un risolino scorgendo il mio compagno che si profonde in saluti ed inchini, e dice con una certa benevolenza ironica: — Il signor Peretti è il nostro factotum.
Il signor Peretti ringrazia; poi, côlto da una subitanea inspirazione, si rivolge a me, e soggiunge: — Vado a vedere che posto le han dato a tavola.
E fila via come una saetta.
— Bell’originale! — dico io, — seguendolo con lo sguardo.
— Un buon diavolo, — risponde il medico, — di quelli che hanno la mania di prestar servigi a tutti.
— Un seccatore, però.
— In fondo è innocuo…. Non abbia paura…. Lei è l’ultimo arrivato, e aspettiamo ancora tanta gente….
— Ah…. capisco.
Il signor Peretti ritorna dalla sua missione diplomatica, e mi annunzia misteriosamente che il mio posto è di fronte alla porta laterale a sinistra vicino alla famiglia Cirieri di Asti. Egli avrebbe voluto farmi collocare accanto a lui, ma gli spostamenti son sempre difficili, promuovono delle lagnanze, delle discussioni…. A meno che non intervenga il dottore….
— No, per carità, — esclamo spaventato. — Nessun privilegio. È sempre meglio assoggettarsi alla sorte comune.
— Ho dato anche un’occhiata al menu, — ripiglia il signor Peretti. — Abbiamo pasta di cappellini col pomodoro…. E per secondo piatto….
Ma l’arrivo d’un landau frena sul labbro del signor Peretti questa importantissima confidenza. — I Martinoni! — egli grida con entusiasmo. E agitando il cappello si slancia verso la carrozza.
Il dottore passa confidenzialmente il suo braccio sotto il mio. — Ella ha perduto l’amico.
Din, din, din. È il primo annunzio del pranzo. Alla seconda scampanellata andremo a tavola.
Il pranzo.
Per abbracciar con un colpo d’occhio la posizione non c’è quanto l’ora dei pasti che raccoglie nell’ampia sala da pranzo, senza differenza di condizione sociale, di sesso, di età, tutti gli ospiti dello Stabilimento. Certo che per chi sia avvezzo alla mensa casalinga è, in principio, una gran confusione. Fra il correre affannoso dei camerieri, l’acciottolìo delle stoviglie, il tintinnare delle posate, il gorgogliare di tante voci diverse, alte, fioche, gravi, acute, che si confondono in un suono simile a quello che fa il mare lontano, ci si sente presi da una specie di vertigine, e si osa appena alzare gli occhi dal piatto e guardare la doppia fila dei commensali seduti intorno alla lunga tavola a ferro di cavallo che s’allunga e s’accorcia secondo il bisogno. Però questa impressione quasi di sgomento non dura un pezzo, e dopo poche cucchiaiate di minestra si è come usciti di minorità.
— Che ne dice di questa minestra? — mi domanda uno de’ miei vicini Cirieri, quello che pare il capo della famiglia. — Ed è sempre così…. O sa di fumo o non sa di niente.
Ma un signore dirimpetto che seppi poi essere un negoziante di oggetti di cautchouc è molto meno calmo.
— Una porcheria, una vera porcheria…. Una cucina da cani…. Sentirà poi a cena…. Sentirà….
E lo schizzinoso uomo tronca la frase con un gesto d’orrore.
Il bello si è che con un’intonazione più o meno tragica, più o meno feroce lo stesso discorso si fa da un capo all’altro della tavola. Gli arrabbiati, gl’idrofobi addirittura sono quelli che a casa loro pranzano molto peggio, e che appunto per questo vogliono lasciar credere di aver il palato esercitato a tutte le delicatezze gastronomiche; ma anche le persone per bene a cui l’educazione vieta certe escandescenze, anche le persone serie che in condizioni ordinarie s’accorgono appena di quello che mangiano, qui diventano d’una suscettibilità estrema e fanno eco ai citrulli. Le lagnanze principiate alla minestra si ripetono al lesso, si esacerbano al secondo piatto e si mantengono inalterate al dolce e alle frutta.
Son giuste? Ecco, a dirle ingiuste affatto si avrebbe torto. Il proprietario dello stabilimento somiglia a quei direttori di Collegi-convitti che danno poco da mangiare ai ragazzi per risparmiar loro le indigestioni. Anch’egli, il proprietario, ubbidisce a un alto concetto igienico. Non deve, non può, non vuole paralizzar con una cucina succulenta gli effetti benefici della cura. Eppoi se ne appella al medico. Non è forse lui che proibisce le droghe, il formaggio, gli eccitanti di qualunque specie?
Il dottore risponde di sì. Tuttavia, preso a tu per tu, egli non osa affermare che per la salute dei curanti sia necessario che la minestra sappia di bruciato, che la bistecca non si lasci tagliare, che il dolce sia crudo e le frutta siano acide.
C’è piuttosto un argomento psicologico da addurre a favore dello statu quo. In uno stabilimento di questa natura il lagnarsi della cucina è cosa di prammatica, è un modo di passare il tempo. Se lo stesso Brillat-Savarin approntasse di sua mano le salse più ghiotte, tanto e tanto si sentirebbe ogni giorno un coro di maledizioni. Ciò posto, val meglio non darsi troppi pensieri e cercare nell’economia dell’azienda un compenso alle critiche acerbe dei signori bagnanti.
Comunque sia, il pranzo è finito, e mettendomi accanto alla porta mi vedo sfilar dinanzi la lunga schiera dei commensali. È una folla variopinta e diversa. Signore eleganti che nel vestito, nello sguardo, nell’andatura rivelano il desiderio e l’abitudine di piacere; donne di casa che non fanno nessuna concessione alla società, e dopo aver subìto per forza il supplizio della mensa comune si tirano in un canto insieme con la famiglia; uomini serii, emaciati, venuti per la cura e non altro che per la cura, ogni momento alla ricerca d’un consulto medico; zerbinotti allegri in traccia di distrazioni; bimbi malaticci e bimbi fiorenti; insomma una lanterna magica nella quale con un po’ di pazienza spiccheranno alcune figure caratteristiche. Per oggi bisogna contentarsi delle linee generali. Passa anche il mio amico e mi saluta, ma è in compagnia dei Martinoni e deve rimandare a più tardi l’onore di presentarmi a sua moglie. Il dottore aveva ragione; l’amico è meno pericoloso di quello che si sarebbe creduto. Ho invece la grata sorpresa di trovar qualche vecchio conoscente che, a tavola, non avevo ravvisato; scambio qualche stretta di mano, qualche parola, faccio in buona compagnia una passeggiata di mezz’ora sino a un punto da cui si gode una bellissima vista. Il senso pauroso d’isolamento da cui ero stato colto all’arrivo va attenuandosi a grado a grado.
Nell’ingranaggio.
E fino dal secondo giorno son preso nell’ingranaggio. Ho ricevuto all’alba la visita del dottore, sono stato, per pura formalità, interrogato, auscultato e palpato, e poichè sembra ch’io abbia i visceri sani sono promosso ai corsi superiori senza bisogno di passar pei corsi preparatori. Mi spiego. I novizi non vengono ammessi immediatamente agli onori della doccia; devono prima pigliarsi in santa pace l’impacco, la spugnatura e che so io…. Ai provetti la doccia, la tinozza, la piscina. Partecipo anch’io ai sacri riti. Mi alzo per tempissimo, bevo un bicchier d’acqua fresca alla fonte, cammino su e giù a passo di bersagliere davanti allo Stabilimento per la cosidetta preazione in attesa della campana che chiami i fedeli a raccolta e del campanello che annunzi con due squilli il turno del secondo gruppo a cui appartengo. Giunto l’istante fatale, mi chiudo nel camerino, mi riduco nelle condizioni d’una statua greca, meno la bellezza, ed entro nel misterioso recinto ove il pontefice massimo circondato dai minori officianti, ritto sopra una piattaforma, con la destra su un manubrio mi dà alcuni ordini secchi, precisi, e quando io son collocato nella posizione voluta con la faccia rivolta al muro e con le due mani su una spranga d’ottone, mi scarica addosso le sue artiglierie acquee accompagnando l’atto feroce con altri comandi e suggerimenti laconici. — Bassa la testa. — Fregarsi il petto e le gambe. — Voltarsi. — Ancora. — Basta. Ed eccomi avviluppato in un bianco lenzuolo, ricondotto nel mio camerino, fregato e strigliato come un asino, aiutato a vestirmi in gran furia, e slanciato fuori a somiglianza d’un proiettile che deve compire la sua parabola…. Su per sentieri erti e sassosi, giù per la strada postale o per viottoli angusti fra campi e prati senza indugiarmi nè a guardare una prospettiva, nè a raccogliere un fiore sinchè le membra intirizzite non siano invase da un tepore benefico. Allora, sicuro dell’avvenuta reazione, penso con più calma al ritorno e allo spuntino che m’aspetta, due ova e una tazza di latte. Non è propriamente un pasto in comune; la tavola è apparecchiata dalle sette alle otto; pur di non lasciar passare questo limite si viene quando si vuole. I ritardatari stanno a digiuno fino al tocco. Ma già, nel termine prescritto vengono tutti. Vengono alla spicciolata, ansanti, trafelati dalla corsa, le signore in abiti dimessi, per lo più coi capelli chiusi in una rete. I discorsi che si sentono sono pieni di varietà. — Ha fatto una buona reazione? — Fa due o tre doccie al giorno? — Ah due sole…. La terza è troppo molesta. — A me no davvero…. Quando si è in ballo bisogna ballare. — S’intende, ma con una certa moderazione. — No, no, o la cura sul serio, o niente.
Perchè anche quassù, come da per tutto, abbiamo i fanatici e gli scettici. I primi con la loro aria solenne, compunta, sacerdotale, non ammettono scherzi, non aprono la bocca che per esaltare i miracoli dell’idroterapia. Sono per solito i veterani dello Stabilimento, vi capitano da cinque, da dieci, da quindici anni, e citano sè stessi come esempi parlanti dell’efficacia della cura, che, del resto, essi seguono anche a domicilio, senza interruzione. A sentirli discorrere non si riesce a figurarseli che in istato adamitico, sotto la doccia. E l’immagine non è mica sempre attraente. Gli scettici, che il cielo li benedica, sono affabili, disinvolti, e ridono volentieri del culto, dei sacerdoti e dei fedeli. In quanto a loro, son qui perchè di luglio preferiscono il monte al piano, l’acqua fresca all’acqua calda.
Senonchè il tipo originale per eccellenza è un certo conte Ortigli (lo chiamo così) il quale essendo, in fatto di cure, più ancora che scettico, miscredente, si sottopone a tutte quante a vicenda.
— Caro signore, — egli mi dice un giorno fra una doccia e l’altra, dandomi un colpettino sulla spalla, — questa delle cure è una camicia di Nesso. Una volta che la si è indossata non la si depone più. Naturalmente la prima cura fa male. Se ne tenta una seconda. La seconda forse mitiga le conseguenze della prima ma produce essa pure i suoi effetti sinistri, ond’è indispensabile provarne una terza e poi una quarta e una quinta, fin che, scusi la parola, si crepa. Io andavo soggetto a un po’ di calore alla pelle; il medico mi ordina i bagni salsi e mi spedisce a Venezia. Anzichè guarire divento un mascherone e rimango tale per cinque o sei mesi. Consulto un nuovo Esculapio. — Vada nel prossimo giugno a Levico a far la cura arsenicale. — Vado; in principio mi scuoio; dopo sto meglio e sembro ristabilito nel mio incomodo. Ma mi rovino gli intestini al segno che l’anno appresso il dottore mi manda nientemeno che a Carlsbad. Un luogo amenissimo. Migliaia e migliaia di persone che per quattro settimane consecutive si purgano. Oh gl’intestini son ripuliti per bene, non c’è che dire, ma a cura finita stento a reggermi in piedi e son bianco e sottile come un fantasma. — Bisogna rintonarsi in montagna, — sentenzia il mio archiatro. E io salgo a Saint-Moritz, trovo in agosto due gradi sopra zero, mi sforzo a far delle passeggiate di parecchi chilometri e ripiglio lena e colore. Ma ci guadagno una bronchite fastidiosa e insistente. — Roba da nulla, — dichiarano i medici (ne ho interrogati tre), — roba da nulla; i polmoni sono in istato perfetto; non c’è che un’eccessiva sensibilità alla cute, e a questa si rimedia con l’idroterapia. Ed eccomi qui, caro signore, eccomi qui con un principio di dolori artritici….
— Eh via….
— Non ischerzo. Sento delle fitte alle giunture e prevedo che quest’inverno sarò inchiodato a letto e che nell’estate ventura andrò ad Abano o a Monsummano a sudare tra i vapori come un dannato e a ravvoltarmi nel fango come un maiale….
— Ma allora…. — incominciai.
— Perdoni se la pianto così, — interruppe il conte. — A momenti suona la campana, io ho il primo turno, e devo far quindici minuti di preazione. Arrivederla.
Soddisfazioni morali, piccole noie, arrivi, partenze.
C’è da inorgoglire. Un’eco della mia fama letteraria è giunta fino quassù. Credo abbia contribuito a ciò lo zelo del mio carissimo amico Peretti, il quale, sebbene abbia frenato gli slanci del suo cuore espansivo, mi dimostra una considerazione superiore a’ miei meriti. È certo che si sa ch’io sono quello che scrive. Il proprietario mi fa degli inchini profondi sperando un articolo di elogio; qualche signora spinge la degnazione fino a volere ch’io le sia presentato. In complesso mi sembra che nessuno abbia letto i miei libri, ma, viceversa, tutte desiderano di leggerli, e pensano al modo di procurarseli. L’idea luminosa che il modo più semplice di procurarsi un libro sia quello di comperarlo non entra quasi mai nel cervello degl’Italiani. Le signore specialmente, così pronte a gettare il danaro in fronzoli vani e gingilli inutili, diventano, a questo proposito, modelli di economia domestica. — Un libro? Che cosa se ne fa dopo averlo letto? — Una delle mie ammiratrici mi domanda il titolo del mio ultimo romanzo. Glielo dico. — Ah, ella esclama, quanto pagherei ad averlo! — Sarei tentato di risponderle che le basterebbe pagar quattro lire, ma taccio per prudenza. La signora resta un poco soprappensiero, poi soggiunge: — Al mio ritorno pregherò mio fratello di farselo prestare dal Club. Al Club lo avranno? — Ma! — replico io in tuono dubitativo.
Nessuno mi leva dalla mente che la signora mi giudica un somaro perchè non le offro io stesso un esemplare del romanzo con le sue due righe di dedica. Un’altra ha trovato una maniera singolarissima di lusingare il mio amor proprio. Convien notare ch’ella si è portata seco un marmocchio di undici mesi, slattato appena, il quale non fa la doccia, ma la fa fare, tepida, a chi lo prende in collo senza le debite precauzioni. Or bene, questa mamma fortunata tiene, me presente, al suo bambino dei lunghi sproloqui per eccitarlo a diventare una brava persona come me, a scrivere, quando sarà grande, dei libri come li scrivo io. E si capisce ch’ella non dubita nemmeno ch’egli li scriverà molto meglio, tanta è l’intelligenza ch’egli spiega alla sua tenera età, tanto il criterio ch’egli dimostra in ogni atto della sua vita. Del rimanente, questo è il più piccolo ma non il più nocivo tra i fanciulli che si trovano nello Stabilimento. I più nocivi sono quelli tra gli otto e i dodici anni, sia che strepitino e s’accapiglino insieme, sia che si caccino fra le gambe degli adulti, sia che si esercitino nella divina arte di Euterpe (maniera difficile per dire la musica) sedendo due o tre ore di fila al pianoforte della sala, o portando nei boschetti del giardino i loro strumenti insidiosi, flauto, violino, clarinetto, eccetera, eccetera. Vittor Hugo augurava a’ suoi cari di non veder mai
….. la ruche sans abeilles
La maison sans enfants!
Pensiero alto e gentile. Pur che le api restino nell’alveare e i fanciulli nella casa.
— E pettegolezzi, e galanterie, e scandali non ce ne sono?… mi chiederà qualcheduno. Di scandali non so; certo che i pettegolezzi e le galanterie non mancano. E qui, con questa vita tutta preazioni, docce e reazioni, i pettegolezzi e le galanterie sono un piacevole diversivo. Ma che sugo c’è a rammentarli? Chi non se li immagina? Non son sempre le medesime cose? Le tali e tali guardano in cagnesco le tali altre o per gelosia di bellezza, o per gelosia di toilette, o per bizze e dispetto dei figliuoli, o per un saluto freddo, o per un biglietto da visita non ricambiato subito, o per la naturale e insanabile antipatia di classe; la signora X va troppo spesso col signor Z, la signora K si dilegua dopo cena col signor Y, la signora Tre Stelle in assenza del marito si fa custodire da un cugino che non è cugino, il dotto e grave professore Asterisco dell’Università di…. sospira ai piedi della elegantissima marchesa W che si ride di lui; le due coppie A e B hanno eseguito d’accordo uno dei movimenti della quadriglia: changez de dame et de place. E così all’infinito. Tutte le cronache dei luoghi di cura si rassomigliano.
E si rassomigliano anche per la grande importanza data a ogni arrivo e ad ogni partenza. Chi si aspetta oggi? O, meglio ancora, chi verrà inaspettato? E allo spuntare d’un landau i curiosi sporgono il capo dalla finestra o scendono nel piazzale. — Chi è? Chi è? — Non manca mai qualche signor Peretti a saperlo addirittura o a correr subito ad informarsene.
Le partenze ordinariamente si conoscono uno o più giorni prima e basta la notizia per promuovere mille lamentazioni finte o sincere. — Come? — Vogliono (o vuol) già partire? — Così presto! — Che peccato!
Poi la mattina compare la carrozza vuota coi non focosi bucefali. Camerieri e bagnaiuoli ronzano intorno per le mancie; il capo della famiglia (s’è una famiglia che se ne va) invigila perchè sien messi a posto i bauli, gli scialli, le cappelliere, gli ombrelli, donne e fanciulli scendono alla spicciolata, in abito da viaggio, con aria contrita, scambiano con gli amici baci e strette di mano. — Presto, presto, — dice il marito e babbo, guardando l’orologio. — Su, su. — Ci siamo? — Sì, pronti…. Il cocchiere monta a cassetto, scuote le briglie sul collo ai cavalli, e via. — Buon viaggio, buon viaggio. Arrivederci…. — Si agitano i cappelli, si sventolano i fazzoletti fin che il veicolo abbia svoltata la strada.
Un individuo che parta solo fa meno chiasso. Ecco, oggi per esempio, ci ha lasciato tacitamente il conte Ortigli, il quale, essendo misantropo per sua natura, non aveva destate molte simpatie. Io, per altro, non posso lagnarmene perch’egli mi trattò sempre con rara cordialità e mi diede oggi stesso una prova della sua deferenza. — Ha il mio indirizzo? egli mi chiese nell’accommiatarsi. Mi farà un vero piacere scrivendomi a suo tempo se nell’estate prossima va ad Abano od a Monsummano. Dove andrà Lei andrò io.
— Grazie, — replicai. — Ma io non vorrei andare in nessuno di questi due posti.
— Preferisce Battaglia?
— Nemmeno.
— Oh scusi! — egli riprese infastidito. — Crede forse ch’io ci vada per elezione? Crede che di mio gusto sarei venuto qui, che sarei andato a Levico, a Carlsbad, a St. Moritz? Si ricordi la mia teoria. Le cure sono come le ciliegie. Una tira l’altra. Dura lex, sed lex. Dopo la cura dell’acqua fredda, l’artrite, dopo l’artrite, la cura termale. Si rassegni….
Era inutile combattere quest’idea fissa. Mi contentai di ridere.
— Riderà bene chi riderà l’ultimo, — soggiunse il conte a modo di conclusione, mentre la timonella s’allontanava.
— Crepi l’astrologo! — dissi fra me. — Tuttavia, non lo nego, l’accento solenne di Ortigli mi fece una certa impressione. Se i suoi pronostici si avverassero?… Eh, in tal caso, vi spedirei nell’agosto prossimo una corrispondenza da Monsummano o da Battaglia o da Abano.