— Ebbene — disse la signora Rosa, una donnetta svelta ed arzilla nonostante i suoi cinquantacinqu’anni; — se gli altri non si muovono, verrà la Tilde a fare una passeggiata con me.
La Tilde, ch’era una zitellona piatta davanti e di dietro, spalancò una bocca immensa con troppe gengive e troppo pochi denti, e avvicinandosi con passo saltellante a’ suoi rispettabili genitori, rispose:
— Volentieri, se il babbo e la mamma non hanno nulla in contrario.
— Va pure, tesoro — disse il signor Nestore Ariani, impiegato al registro e bollo.
— Va pure, viscere — soggiunse la signora Veronica. — Noi restiamo a far quattro chiacchiere col signor direttore.
— Quello lì, dopo il pranzo, è come inchiodato sulla seggiola — notò la signora Rosa.
— Post prandium stabis — sentenziò il cavalier Flaminio Flaminî, direttore del Collegio-convitto omonimo in una città dell’Alta Italia.
— E noi gli teniamo compagnia — riprese il signor Nestore con la sua vocina da musico. — Col signor direttore c’è sempre da imparare.
Il cavalier Flaminî chinò dignitosamente il capo. — Bontà loro.
Scambiati i saluti, la signora Rosa e la Tilde si allontanarono. Il direttore e i due Ariani, marito e moglie, rimasero sotto la pergola, seduti intorno a una tavola rustica.
— Ma! — sospirò la signora Veronica seguendo con lo sguardo la figliuola, fin che la ebbe persa di vista.
Erano in un albergo di campagna, Al grappolo d’uva. Ivi il cavalier Flaminî (era quello il terz’anno) veniva l’autunno con la sua metà a riposarsi delle fatiche scolastiche, occupava le stanze migliori, e assumeva verso gli altri forestieri un’aria di benevolo patrocinio. Quell’autunno egli raccoglieva sotto le sue grandi ali gli Ariani, che, raggranellati due soldi, s’eran voluti dare il lusso d’un po’ di villeggiatura e alloggiavano insieme con la Tilde in uno stanzone a tetto, diviso in due da una parete mobile e impregnato d’un acuto odore di mele cotogne.
Poich’ebbe slanciato il suo ma sibillino, la signora Veronica si voltò risolutamente verso il direttore, e, ripigliando un discorso interrotto, esclamò con un accento in cui c’erano lo stupore, l’ammirazione, l’invidia: — Tutt’e sei le ha maritate?
— Sissignora, tutt’e sei — replicò di trionfo il cavalier Flaminî.
— Senza dote?
— Senza un centesimo.
— Ma come ha fatto, santo Iddio, come ha fatto? — gridarono in coro i due conjugi.
Il signor direttore si levò gli occhiali e li posò sulla tavola. Ora questo levarsi gli occhiali era pel signor direttore un gran segno. Armato di quelle lenti, egli aveva anche più sussiego che non convenisse al suo grado; parlava breve, solenne, per aforismi; privo di lenti, egli discuteva bonario e loquace, perfin troppo loquace, a quanto diceva la signora Rosa, la quale, delle due edizioni in cui suo marito si presentava al pubblico, quella di lusso e la popolare, preferiva la prima.
Adesso la signora Rosa non c’era, e il cavaliere poteva sbizzarrirsi a sua posta. Non solo egli si levò gli occhiali, ma ordinò che gli portassero un litro di quel buono e tre bicchieri. Poi, stropicciandosi le mani: — Come ho fatto?… Ecco qua….. Quando alla nascita della mia terza figliuola dovetti convincermi che mia moglie aveva la viziatura organica di non partorire che femmine, io sentii la necessità di prendere una risoluzione eroica. Ma quale? — Abstinentia — mi risponderanno loro. Eh sicuro, ma son cose più presto dette che fatte. Niente abstinentia dunque…. Invece….
Dopo aver versato del vino a sè e a’ suoi compagni, il signor direttore si portò l’indice della mano destra alla fronte per rilevare l’importanza dell’idea peregrina germinata dal suo cervello, e soggiunse: — Invece ho pensato a una restauratio ab imis fundamentis.
Gli Ariani ascoltavano con raccoglimento devoto, messi in maggior soggezione da quelle frasi latine che il signor Nestore capiva poco e che la signora Veronica non capiva affatto. Anzi ella rifletteva malinconicamente che se per maritare le figliuole ci voleva il latino, la sua Tilde sarebbe rimasta zitella tutta la vita.
— In quei tempi — ripigliò Flaminî — io davo lezioni private de omnibus rebus; mia moglie teneva una scuola elementare femminile con insegnamento di francese. Si tirava innanzi alla meno peggio, perchè la Rosina, non faccio per lodarla, era una donnetta che sapeva il suo conto e poteva dar dei punti a molte maestre di grado superiore. Ma quelle gravidanze erano una calamità, e più d’una mamma che avrebbe voluto inscrivere da noi le sue bambine arricciava il naso a veder la circonferenza della direttrice. E poi, delle bambine ne avevamo più del bisogno in casa. Insomma, al terzo puerperio, io dissi alla Rosa: “La nostra scuola si chiude.„ — E vedendola sbarrar gli occhi stupefatta, soggiunsi pronto: — “Per riaprirsi cambiando sesso…. Ih, ih, ih!… Il sesso noi non possiamo cambiarcelo, ma la scuola sì…. Era femmina e diventa maschio….„ La Rosina seguitava a fissarmi con gli occhi stralunati. Senza dubbio ella credeva che mi desse volta il cervello. Ma io le spiegai le ragioni per le quali intendevo trasformare la nostra scuoletta femminile in un Collegio-convitto per ragazzi. La Rosa sollevò mille obbiezioni: e che non si deve lasciar il certo per l’incerto, e che l’impresa richiedeva grandi mezzi, e che avremmo fatto un buco nell’acqua, eccetera, eccetera. Io però avevo in serbo l’argomento decisivo. — “Col Collegio-convitto maschile, noi, a suo tempo, sposeremo le tre figliuole che abbiamo già e quelle che, con l’aiuto della Provvidenza, ci capiteranno più tardi…. Sicuro; il Collegio-convitto sarà un vivajo di generi…. Ih, ih, ih!„ — Fu per mia moglie una rivelazione. Ella non si diede per vinta subito, ma io m’accorsi ormai che parlavo ad una convertita. E m’accorsi anche ch’ero da un momento all’altro cresciuto di riputazione nell’animo della Rosa; finalmente ella doveva riconoscere di non aver sposato un maestrucolo buono soltanto a insegnar le conjugazioni dei verbi.
Queste parole di colore oscuro potevano far credere che in illo tempore la Rosa non fosse la moglie docile ed ossequente ch’era stata poi. Comunque sia, il fine principale del signor direttore era quello d’imprimere un concetto sempre più alto del proprio valore nella mente dei conjugi Ariani. E poichè essi tacevano intontiti, egli li provocò con domande dirette: — Che cosa par loro della mia idea, eh?… Non fu una trovata di genio?… Dicano, dicano la loro opinione.
Confusi dinanzi a tanta grandezza, gli Ariani si limitavano a sorridere d’un sorriso ebete.
— Nei primordî — ricominciò il cavalier Flaminî — fu un osso duro da rodere. Il Convitto si aperse con sei allievi, e tra loro e i dieci o dodici esterni non si coprivano le spese. Convenne anzi far qualche debito, tanto più che la Rosa continuava a partorir femmine e che mi era nata la quarta figliuola, la Paolina…. Un altro si sarebbe perduto d’animo, io no…. Avevo ormai le mie viste sopra uno de’ sei convittori, un ragazzo di buona famiglia, che avrebbe potuto essere un partito eccellente per la mia primogenita, la Luisa….
— Possibile? Così presto? — interruppe la signora Veronica.
— Chi non semina non raccoglie — ribattè il signor direttore. E tracannato un secondo bicchiere di vino, riprese: — Dunque non solo non battei in ritirata, ma coraggiosamente appigionai un locale più bello e più ampio, allargai le basi del Collegio, aggiunsi nuovi insegnamenti…. e corsi pareggiati, e corsi preparatori a scuole navali, militari, commerciali, e via via. Un’insegna poi che occupava mezza facciata, con le sue belle lettere fiammanti d’oro su fondo turchino:
COLLEGIO-CONVITTO FLAMINI
sotto il patrocinio della Camera di Commercio ecc. ecc. ecc.
Ce n’era per nove righe!… Insomma a poco a poco i convittori salirono a quindici, a venti, a trenta, a cinquanta, a cento, e gli esterni crebbero in proporzione. Non mancavano gl’invidiosi…. figuriamoci!… Sparlavano di me e del mio Collegio; e ch’io ero venale e ignorante, sissignori, questo dicevano, e che i professori non valevano un’acca, e che li pagavo male, e che tenevo a stecchetto i convittori…. come se non avessi dovuto preservarli dalle indigestioni…. e che la mia era una fabbrica d’asini…. come se non si fabbricassero asini in tutte le scuole…. Io mi stringevo nelle spalle…. Avevo ben altro pel capo…. Le figliuole avevano raggiunto la mezza dozzina, e volendo assicurar loro sei mariti occorreva darsi le mani attorno. Grazie al cielo, la Rosa era entrata perfettamente nelle mie idee e mi ajutava con tutta l’anima…. Dei fiaschi erano inevitabili, e guai a essere esclusivi, guai a impuntarsi su pochi nomi…. Si getta l’amo cento volte per pigliare un pesce. Noi avevamo circa venti candidati in pectore, tre in media per ogni figliuola, i grandi per le grandi, i piccoli per le piccole…. A questi venti, con le debite cautele per non dar troppo nell’occhio, si usavano attenzioni particolari; di quando in quando un invito alla tavola di famiglia, una uscita straordinaria, una carezza, un elogio, e, al caso, una parolina nell’orecchio dei professori in limine degli esami. Che se uno di loro cadeva indisposto, mia moglie gli teneva un’oretta di compagnia, gli somministrava di sua mano le medicine, il thè di camomilla, le tazze di brodo ristretto, eccetera, eccetera. E nelle lezioni di ballo a cui partecipavano le mie ragazze quei venti erano i cavalieri preferiti, anche se ballavano meno bene degli altri. Ma il meglio era nell’autunno, in villeggiatura. Sempre conducevamo con noi, verso un supplemento di retta che ben s’intende, un certo numero di convittori; le famiglie ce li lasciavano o perchè si rinfrancassero in qualche materia, o perchè potessero godersi un po’ d’aria campestre senz’abbandonare affatto il Collegio…. Allora era una vita patriarcale…. un’ora o un’oretta e mezzo di studio sotto di me o sotto un professore che ci tiravamo dietro; pel resto erano scarrozzate, e gite sul somaro, e giochi innocenti diretti da mia moglie, che, per fortuna, non aveva più la malinconia delle gravidanze…. Basta, in quella stagione le bimbe e i convittori si trattavano come fratelli e sorelle. Rischi seri non ce n’erano, coi piccoli per un conto, coi grandi per un altro, chè già erano sempre in parecchi e si sorvegliavano a vicenda…. Però è da scommettere che, se quei ragazzi avessero avuto l’età necessaria e fossero stati padroni di sè, si sarebbe combinato un pajo di matrimoni ogni autunno. La Paolina sopratutto faceva furori. Una volta erano in cinque a starle attaccati alle gonnelle. Ma ella aveva sett’anni e il maggiore de’ suoi spasimanti ne aveva dodici!… Eh, poveri noi se non ci fossimo agguerriti contro le illusioni! Era un lavoro di Penelope, un continuo fare e disfare. I diciotto o venti candidati rimanevano invariati come cifra complessiva, ma mutavano continuamente nelle loro unità. Oggi uno era richiamato a casa per motivi domestici; domani un secondo non pagava la retta e conveniva licenziarlo; un terzo rivelava un pessimo carattere; in un quarto si scoprivano i germi d’una malattia ereditaria. Pazienza! Da bravi generali, la Rosina ed io colmavamo i vuoti con le nuove reclute. Il guajo grosso era questo: che l’educazione del Convitto, anche per quelli che seguivano i corsi preparatorî, non durava eterna…. Sarebbe stata una faccenda diversa se avessi potuto aprir dei corsi superiori, dei corsi universitari…. chè già avrebbero imparato da me quello che imparano nei grandi istituti pubblici…. Ma in questo benedetto paese, dopo tanti sacrifizî per conquistare la libertà, non è mai lecito di far quello che si vuole. Così a quindici, sedici, diciassett’anni al più i ragazzi avevano compito i loro studi nel mio Collegio. Avevo un bel dire, nel giorno in cui essi si accommiatavano, avevo un bel dire: — Questa è sempre la vostra casa, dovete rammentarvene, dovete tornarci spesso, chè sarete accolti come figliuoli. — Quanti ne tornavano poi, o, pur tornandovi, quanti non si fermavano alla prima visita? Quanti di quelli ch’eran lontani scrivevano più d’una lettera di cerimonia?… Eh, cari signori miei, chi non è parato ai disinganni, non si consacri all’educazione della gioventù.
Fatta questa riflessione profonda, il cavalier Flaminî offerse nuovamente da bere al signor Nestore e alla signora Veronica, e poich’essi lo pregarono di dispensarli, votò da solo la boccia di vino che, mezza colma ancora, gli stava dinanzi; ciò che rese più varia e più colorita, sebbene meno limpida, la sua eloquenza.
In principio prevalse la nota patetica. — Pur troppo molti di quelli che avevano avuto le maggiori cure da me e da mia moglie, che avevano mangiato i nostri migliori bocconi, che avevano figurato in prima lista fra i nostri generi possibili, non si degnarono nemmeno, una volta usciti di Collegio, di darci segno di vita. Peggio, peggio assai; alcuni dissero roba da chiodi dell’Istituto, degl’insegnanti, della Rosina, di me; ci accusarono di aver teso loro delle trappole, ci misero in canzonatura…. Disgraziati!… Per me chi sparla della scuola ove fu allevato è tutt’uno con chi percuote il seno che lo nutrì. Latte per latte, qual è il più necessario?
Lasciando insoluto il problema, il signor direttore continuò:
— Per fortuna un manipolo di veterani ci restava fedele…. Ne tenevamo a pensione due o tre che frequentavano l’Università cittadina; altri, ch’erano del paese, seguitavano a bazzicarci in casa la sera per giuocare al bigliardo o per fare un po’ di musica…. Una dozzina in tutti, compreso un paio di professori del Collegio, che, in mancanza di meglio, potevano entrar in candidatura matrimoniale anch’essi…. Di tratto in tratto, quand’eravamo a tu per tu la Rosina ed io, si tirava fuori il registro delle figliuole, perchè c’era un registro scritto dalla prima all’ultima riga di pugno di mia moglie. Ella n’era tanto gelosa; e guai se sapesse ch’io ne parlo qui!… Ma spero bene che non mi tradiranno…. Siamo fra amici…. Sì, c’era un registro. Ognuna delle sei ragazze aveva una specie di conto, intestato al suo nome in bel carattere rotondo: Luisa, per esempio. Sotto la intestazione, nella colonna a sinistra i nomi e i cognomi dei giovinetti che ci parevano poter convenirle, con la data dell’iscrizione; nella colonna a destra, allorchè per un motivo qualunque si doveva rinunziare a uno dei candidati, si scriveva a fronte del suo nome e cognome un’unica parolina: Annullato…. Dunque con la Rosa si tirava fuori il registro, e lo si sfogliava, così per curiosità, ripassando nella memoria quegli annullati…. Quanti erano!… A guardarli mi si stringeva il cuore come se fossi in un cimitero…. Anche adesso….
E veramente il cavalier Flaminî aveva gli occhietti lustri, non si sa se per la commozione o pel vino. Egli vi passò su il fazzoletto, e riprese:
— La Rosa, più positiva di me, diceva: “O non hai pensato in che imbroglio saremmo se dovessimo contentarli tutti?„ Quest’era Vangelo; ma che colpa ne ho io se mi son sempre considerato il padre de’ miei allievi?
Il signor direttore andava divagando; citava nomi, citava date, raccontava aneddoti che non avevano nulla a che fare con l’argomento; onde la signora Veronica si permise di rimetterlo in carreggiata. — Capisco; però l’essenziale si è che lei le sue ragazze le ha accasate tutt’e sei.
— Oh questo sì. — rispose il cavaliere rasserenandosi in viso; — e per merito della mia idea, per merito del Convitto…. La Luisa, la prima, è in Toscana e ha sposato un ex-convittore che ha campagne sue e mi manda del vinetto che vorrei aver qui; due ne ho a Milano, l’Ernestina e l’Amalia; i mariti sono in commercio; quello dell’Ernestina ha un deposito di vermut e altri liquori, in via Monforte 15…. roba scelta e prezzi di favore…. un bravo figliuolo, che in Collegio aveva una gran disposizione per la chimica…. anzi glielo raccomando se avessero da far provviste. La Maria abita a Torino; oh! quella è stata fortunatissima. Mio genero Ettore Giorgi è nipote del proprietario della ditta Fratelli Giorgi del fu Angelo, Fabbrica d’olî medicinali, in piazza dello Statuto N. 4…. Quando Ettorino era da noi, la sua casa ci forniva l’olio di ricino per il Convitto…. un olio che è un nettare…. La Bianca è lontana, pur troppo…. laggiù a Napoli, ove il suo sposo ha un posto in una redazione di giornale…. una testolina vulcanica, fin da piccolo; appassionato per la politica…. non mi meraviglierei di vederlo col tempo alla Camera dei deputati…. La sola ch’è rimasta con me è la Paolina…. Non per lagnarmi, ma con tanti aspiranti che ella aveva avuto, speravo che trovasse meglio…. Basta, questo mio genero…. del rimanente un ottimo giovine…. non aveva impiego, e l’ho nominato io professore nel mio Collegio; insegna la letteratura e la bicicletta; conduce a spasso i convittori…. adesso è con loro in una gita sui laghi…. Già io non ho maschi: prevedo che lascierò a lui la direzione dell’Istituto…. Una volta le cose avviate, non ci son difficoltà, e anche la croce di cavaliere, se il ministro non mi manca di parola, mio genero l’avrà più presto che non l’abbia avuta io…. Così va il mondo….
— E nipotini ne ha? — chiese il signor Nestore.
Il signor direttore allargò le braccia. — Crescite et multiplicamini…. Ho dieci nipotine…. È la viziatura materna…. Nella mia famiglia non nascono che femmine…. Per fortuna che c’è sempre il Collegio.
— Beato lei! — esclamarono i conjugi Ariani. Ma nella loro fisonomia appariva un profondo sconforto. Il metodo del signor direttore non aveva applicazione pratica per essi. Nè il Collegio-convitto Flaminî, nè alcun altro Convitto del mondo poteva ormai fabbricare un marito per la loro Tilde.
Anche sulla fronte del cavaliere s’era stesa una nube. Egli aveva la vaga coscienza d’aver parlato troppo, e guardava con aria di rimprovero la boccia vuota, come se avesse colpa lei d’esser stata bevuta.
A un tratto la signora Veronica tese l’orecchio e disse: — Mi par di sentire la voce della signora Rosa.
Il signor direttore arrossì, raccolse in fretta gli occhiali e se li accomodò sul naso, sforzandosi di riassumere l’aspetto grave e cattedratico che piaceva a sua moglie.