Un ometto sbucò a un tratto nel crocicchio della Dogana. Fumava certo suo mozzicone in punta alle labbra, passando la palma di una mano sul cocuzzolo, e con il pollice e l’indice dell’altra acconciando delicatamente sotto i mustacchi il mozzicone che certo gli diventava una grande voluttà in agonia. Il cappello, dalle tese spianate, gli veniva sugli occhi, e lui lasciava stare, benchè per levare il capo, come faceva, a guardar in su alle finestre, al cielo, ai muri dei palazzetti, si trovasse l’impiccio della tesa larga davanti agli occhi. Pure andava guardando, con boccacce che certo nella smorfia erano di meraviglia e d’ammirazione. Quando lasciava il cocuzzolo la mano gesticolava, segnando in aria sagome indeterminate e linee verticali, subito cancellate dal fumo di quel mozzicone, che sempre più si raccorciava.

Di certo era qualche pittore mattiniero, chè a un momento, cavati di saccoccia un albo e la matita, si mise a sedere sul primo gradino d’uno di quei palazzetti, e cominciò a sgorbiare sulla carta il balconcello di Gennaro Auriemma, armiere, che in quel punto schiacciava un bel sonno, senza mai poter supporre che ventura toccasse ai poponi suoi, dei quali aveva fatta una festa in giro alla balaustra del balconcello, e che l’ometto ora contemplava attentamente per metterli sulla carta, insieme alla grondaia, ai vasi di maggiorana e ad una gabbia ove una quaglia sonnecchiava.

Era la via così silenziosa a quell’ora che si sentiva bene il fruscìo di una foglia secca su pei lastroni asciutti, mossa da una folata di venticello. Era l’alba. Ma quei vicoli, le stradicciuole, la piazzetta del Mercato ancora dormivano. Intanto saliva lentamente, dall’estremo lembo del mare, un chiarore infocato di sole, e il riverbero ne colorava dirimpetto le case su per la marina, mentre le vetrate s’accendevano tra quella gran pennellata rosea, che di tutte le case confondeva le linee bizzarre. In cima, altissima, una cupoletta di mattoncelli coloriti s’arrotondava sul cielo indeciso, tutta infiammata di verde, come uno scarabeo di maiolica. Appena se ne vedeva la croce scura, sovrastante.

Dal mare in calma arrivavano romori indeterminati, voci a distesa, indefinibili. Poi, daccapo, si rifaceva il silenzio.

L’ometto era tutto affaccendato a copiare, e a poco a poco l’albo s’andava coprendo di poponi e mazzi di pomidoro, mercanzia d’ogni finestrella. Nella luce che sopravveniva, apparivano chiari e scuri nuovi, mettendo lui in certe indecisioni che lo tenevano lungamente a guardare e a mormorare, mentre l’albo rimaneva aperto sopra un ginocchio e la punta della matita gli solleticava la cute, fra i capelli.

— Oh! oh! — fece, a un tratto.

Adocchiava una tettoia, sotto la quale si ammonticchiavano bombole d’acqua solfurea, accosto a una fontanella: un quadrettino. Rifece la punta della matita, cercò una pagina bianca, e lì per lì cominciarono a passare all’albo le bombole.

Le stradicciuole erano ancora deserte e silenziose. L’ometto, tutto solo e intento, in quella sua posizione di scimmietta, era strano. Poi gli passò accosto un’altra cosa viva, un ratto, che pareva un micino, tanto era grosso. Era uscito da una feritoia, guardando nella via con gli occhietti lucenti. E come l’ometto si chinava a strofinare sul selciato la matita per aguzzarla, la bestiola si rificcò e si rintanò nella feritoia. Si vedevano solo i mustacchi e il musetto. Poi tornò a farsi coraggio, riuscì fuori e frugò rapidamente in un monticello di sudiciume. La testina, che aveva movimenti veloci, frugava in furia, levandosi dai rifiuti, dai torsoli, dalle bucce a guardare, sospettosamente. Infine, quand’ebbe finito, il ratto se ne andò ripassando innanzi all’ometto. Costui non lo vide, e seguitò a disegnar bombole in santa pace.

La penombra si diradava in fondo ai vicoletti; nel lontano appariva chiaramente la tortuosità delle stradicciuole; si dileguavano panche e carrettini abbandonati, e laggiù, ove addirittura il vicolo delle Fate terminava, all’angolo, sulla cantina Maranese, un ramo fronzuto s’affacciava verdeggiando, di sotto all’insegna.

Improvvisamente, nel vicolo, una finestretta si schiuse, senza romore; poi si schiuse una porta. Una donna sporse la testa, venne fuori, coi piedi nudi nelle piccole babbucce, con una leggera sottana bianca, con aperta la camicia sul petto, libero del busto. Un giovanotto apparve, assai cauto, sbucando all’angolo, accosto alla cantina. Senza parlare quei due, avvicinandosi, si guardavano negli occhi, ansiosi. Poi, quando lui fu sotto alla porticella e le afferrò le mani, l’idillio, in quell’alba fresca di agosto, fu provocante. Si parlavano così accosto e sotto voce che appena il sibilo di una consonante passava nel silenzio. S’erano stretti l’uno all’altra; il berretto del giovanotto cadde. Chinandosi egli a raccattarlo, non abbandonò la mano che teneva stretta, e parve che, stringendosi meglio lui pure alla ragazza, le chiedesse qualcosa.

In questo momento il solitario pittore aveva finito e si levava. Vide tutto. Mentr’egli rimaneva ancora a guardare, incantato, a bocca aperta, un bacio scoccò sotto la porticella. Subito dopo la campanina della parrocchia a Porta Nova suonò la prima messa….