I.
Dai tortuosi vicoletti del Mercato arrivavano pian piano. Sbucarono a piazza Dante, si fermarono un pezzetto sotto l’arco istoriato della Porta Alba, guardarono qua e là, incantati. La piazza larga era piena di gente che andava e veniva, i giardinetti vi segnavano, più in là, a destra, un quadrato tutto verde, screziato di bianche achillee in fiore, di dracene eleganti, di peonie ritte, sveltissime. A sinistra, dietro il muro d’un palazzo che faceva angolo, Toledo romorosa cominciava; ne veniva un immenso mormorio, in cui di tanto in tanto le fruste schioccavano, gli organini si lamentavano sotto alle finestre e un carro pesante rotolava sul selciato.
Erano tre — due bambine e un maschietto.
Il maschietto poteva aver cinque anni; gli avevano messo in testa un berretto che non era suo, troppo largo; gli scendeva sulle orecchie. Portava in mano una cannuccia e per la via se ne serviva come di bastone, appoggiandosi. La cannuccia gli dava una grande gravità. Aveva le scarpe sdrucite, senza tacchi, tutte arse. Il colletto della camicia gli si rivoltava sul panciottino, al quale tre bottoni mancavano; degli altri tre due erano bianchi, uno nero, attaccato col filo bianco. Attorno alla vita una cordicella gli assicurava i calzoni rattoppati alle ginocchia. Cacciava a ogni momento una mano in saccoccia, metteva fuori uno scatolino da fiammiferi vuoto, ne osservava sbadatamente le figurine, lo apriva, lo rinchiudeva, rimettendolo in tasca, con sopra la mano. Era biondiccio come la più piccola delle sorelle: come lei aveva gli occhi azzurri, il nasino all’insù, il mento rotondo.
A quella, più grande d’un anno, mancavano due denti superiori, tra la filza bianca e allineata. Vestiva di panno scuro, con un piccolo grembiale bianco, senza tasche. Sulla fronte le si dividevano i capelli fini, cascandole sulle tempie, arricciandosi naturalmente dietro la testa, alla nuca, ov’erano mozzati. Uno scialletto da pupa le copriva le spalle: la vesticciuola troppo corta le giungeva appena al ginocchio, lasciando vedere i due nastrini azzurri che sostituivano le giarrettiere alle calze bianche e rosse a fasce.
Parlava sola, sottovoce, con una manina in quella della sorella grande, che stava in mezzo; passando agitava il braccio ciondoloni, indicava qualcuno con l’indice teso, toccava leggermente, in punta di dita, le vesti delle signore, ragionando da sola, pigliando pose di donna fatta, interrogandosi, rispondendosi. A un momento, mentre si fermavano, dette una strappatina alla frangia d’uno scialle, tentata dalle palline di vetro che vi lucevano.
— Bestia! — fece la sorella, arrossendo, tirandosela dietro pel braccio, mentre la signora dallo scialle si voltava, sorpresa.
E la trascinò via, mormorando, menandole uno scappellotto. La piccina fece il muso e non disse nulla. Ma dopo quattro passi si volse, cautamente. La signora, appoggiata al braccio del marito, ancora la guardava con gli occhi che volevano parer severi. Allora lei le tirò fuori tanto di lingua, con una smorfia, socchiudendo le palpebre, mettendosi in fianco il pugno, piegandosi in una riverenza comica.
In piazza Dante, sotto la statua, si fermarono.
— Vogliamo restare qui? — disse la grande.
Sì, sì! Non chiedevano altro, volevano restare lì un poco. La piazza, piena di sole, piena di monellucci liberi che facevano baccano sulla terra battuta, li entusiasmava. Subito il piccino abbandonò la mano della sorella.
— Dove vai? — disse lei.
— Qui…. qui….
Aveva adocchiata una comitiva di ragazzetti seduta per terra in giro. Giocavano con certe pietruzze in un quadrato con tante caselline, disegnato col gesso sullo sterrato. Lui s’avvicinò lentamente, trascinando la cannuccia. Rimase lì in piedi a guardare, con le mani dietro sul dosso, immobile. Poi si stancò, sedette per terra anche lui. Allora, dopo un momento, uno de’ monellucci che non giocava lo urtò col gomito. Il piccino si volse.
— Tu che fai qui? — disse quello.
— Niente.
— A chi sei figlio?
— A papà, — disse il piccino.
Disse l’altro ridendo:
— Grazie!
— A Giovanni il lustrascarpe, — si corresse il piccino.
Si guardarono. Il piccino cominciava a impensierirsi. L’altro lo esaminava con gli occhi vivi, pieni di malizia. Poi chiese:
— Mi vuoi dare questa cannuccia? Cosa ne fai?
— Mi serve, — balbettò il piccino, tirandosi un poco indietro.
— Vattene! — disse quello.
Il piccino s’alzò impaurito, puntando a terra le palme, senza lasciare la cannuccia. Se ne andò senza voltarsi, passo passo, co’ calzoni sporchi di terriccio. Le sorelle sedevano sotto alla statua, sul gradino più largo. La più piccola piegava in quattro un moccichino, stirandolo sulle ginocchia con le palme delle mani; l’altra guardava innanzi a sè distratta, con le mani in tasca.
— Malia, — piagnucolò il bambino accostandosele, — quello lì voleva la cannuccia!…
— Siedi, — fece lei.
Egli sedette accanto alla piccola, con la quale si mise a parlare sottovoce, raccontando il fatto. Malia guardava ancora; le era parso di riconoscere nel piccolo servitorello inguantato, che se ne stava ritto allo sportello d’una carrozza, il figlio del macchinista il quale, un tempo, abitava di faccia a loro, al mercato. Ah! sì! era proprio Peppino!
Ora la carrozza, lasciando le signore che entrarono in un palazzo, girò e venne a mettersi nella piazza. Il servitorello scese, gironzò un poco attorno, guardò in aria, s’accomodò sulla testa la tuba lucida, e rimase lì impalato, sbadigliando.
— Sentite, — disse Malia a’ bimbi, — aspettatemi qui, ora vengo, non vi movete….
Passò dietro alla statua, sedette su uno de’ poggiuoli di marmo, e sciolse i capelli, mettendosi in grembo le forcinelle. Rifece la treccia, passò due o tre volte la palma della mano sulla frangetta ribelle che il vento le avea scompigliata in fronte e strinse dietro la vita il nodo dello scialletto. Tornò a’ bimbi. Il maschietto già sonnecchiava, la testa sprofondata nel berretto, sino agli occhi.
— Levati, su! — disse Malia. — Andiamo….
Gli aggiustò in capo il berretto, gli nettò dal terriccio i calzoni e se lo prese per mano.
Il servitorello non si moveva, guardando ai balconi di rimpetto. A un momento se la vide passare innanzi lentamente, in mezzo ai bimbi.
— Buongiorno, — sorrise Malia.
— Oh! — fece lui. — E che fate qui?
— Niente; camminiamo; la mamma è uscita.
Carina, con quella sua veste a fiori! Il ragazzo se la mangiava cogli occhi. Era alta quanto lui, avevano la stessa età, dodici anni. Lui veniva su atticciatello, co’ capelli neri crespi e gli occhi castagni.
— Fatevi in qua, — disse. — Da quanto non vi si vede! E la mamma vostra come sta?
— A servirvi, — disse Malia.
— Favorirmi, — disse il servitorello.
Vi fu un silenzio. I bambini lo guardavano: il maschietto esaminava curiosamente i grandi bottoni dorati, che lucevano, sul soprabito attillato, in due file.
— Voi vi siete fatta grande. Che fate? — disse il servitorello. — Fate la sarta?
— Eh! no, — rispose lei, — ci vuol tempo. Mi son messa con una stiratrice. Sto imparando.
— Ah! davvero? — e s’incamminavano co’ bambini dietro. — Allora le camice mie le voglio fare stirare a voi. Quanto mi fate spendere?
Ella sorrise e lo guardò, arrossendo un poco.
— Se foss’io la padrona, — mormorò, — non vi farei…. Ve le stirerei per niente….
— Davvero? — disse lui.
E con uno sguardo di ragazzetto impertinente la fece arrossire anche più.
— Venite con me, — disse ai bambini.
Li condusse innanzi alla panchetta d’uno che vendeva i ceci arrosto, ne comprò per due soldi, n’empì loro le mani. Il maschietto se li cacciava in tasca e ne mise perfino nella scatola de’ fiammiferi.
— Oh! — diceva Malia, confusa. — E perchè fate questo?
— Lasciate andare, — rispose lui, gettando i due soldi sulla panchettina, come un signore.
Tornarono indietro passo passo. I piccini si erano messi a rosicchiare i ceci, in silenzio. Malia accosto al piccolo galante si dava un’aria di languore, socchiudendo gli occhi al sole, guardandosi le mani, con la testa china.
— Voglio venire a trovarvi; — ripigliò il servitorello, — voglio salutare mamma vostra che non vedo da tanto tempo. Abitate ancora laggiù, di faccia alla bettola?
— Sì, — fece Malia, rialzando il capo, — non vi potrete sbagliare. Ma lo dite per dire, voi non ci verrete….
— Oh! parola d’onore! — giurò, stendendo la mano.
E afferrò e strinse quella della bambina, che lo guardava sorridendo.
— Ahi! Mi fate male! — disse Malia.
Di colpo, a un fischio acuto, il servitorello si volse, lasciò andar la mano.
— Diamine! — esclamò. — Le signore scendono…. addio…. statevi bene…. arrivederci!…
Prese la corsa a capo basso.
— Ricordatevi la promessa! — gli gridò dietro Malia.
Egli accennò di sì col capo, galoppando per trovarsi in tempo allo sportello, con le ali del soprabito che svolazzavano. Malia si fece innanzi sul marciapiedi, per vederlo passare. Il servitorello, seduto in serpa accosto al grosso cocchiere tutto serio, la salutò con un lungo sorriso. Ella tenne dietro con lo sguardo alla carrozza che s’allontanava, sino a quando, nel lontano, sparve.
Per via il piccino chiese alla sorella:
— Chi è quel signore?
Malia gli strinse il braccio con un’aria circospetta e maliziosa, e gli ammiccò, coll’indice sulle labbra.
Il marmocchio non capì, ma fu contento della risposta silenziosa. Si rimise a rosicchiare i ceci, trascinando la cannuccia.
Malia andava innanzi di due passi, la testa alta, tutta compresa dell’idillio. Gli occhi grandi, attraverso alla frangetta, ridevano.
II.
La via larga era piena di sole, quasi deserta, quantunque dalla piazzetta di Porto si potesse, attraversandola, arrivar presto alla marina. Era come un silenzio fra que’ due continui romori della piazzetta e del Molo. A Porto, sotto gl’immensi ombrelli incatramati, sotto le tende larghe, sotto le tettoie di zinco luccicanti, i venditori urlavano dall’alba, le spighe bollivano nelle caldaie enormi, le frittelle s’ammonticchiavano a piramidi, tra un fumo di tizzi scoppiettanti, in un odore di strutto bollente ch’entrava in gola come un’arsura e faceva venir la tosse stizzosa.
I marciapiedi sparivano sotto le ceste dai fianchi gravidi, una voce gridava ai passanti il sapore e il colore bello de’ pomodori, de’ peperoni gialli, delle prugna more ammucchiate su per le panchette, in piattelli. Gli odori si confondevano: a volte dal gran magazzino di coloniali usciva un profumo dolce di alcool travasato.
In giù il mercato del pesce era tutto un formicolio, lo favoriva la giornata di magro. Dai tronchi immani dei tonni il sangue scorreva gocciolando nelle pozze, metteva qua e là sul selciato sdrucciolevole delle larghe macchie rossastre. La povera gente, la borghesia meschina si decideva pei tonni, tentata dalle fette doppie e rotonde che ne tagliavano, tutta carne. Pei signori i cuochi venivano a pigliare i merluzzi e le orate rare e le triglie lucenti, macchiate di carmino sul dosso, stese sul letto verde di musco, le bocche spalancate.
Al Molo era un commercio più largo, un movimento più romoroso. Passavano i carri a tre, a quattro, in fila, carichi di balle, di botti enormi, con un fracasso di frustate, di cigolii aspri di ruote, di scricchiolamenti di balestre, di «arri», urlati alle bestie affaticate arrampicantisi sulle rotaie del tramway che davano sbalzi improvvisi alle carrozzelle frettolose, agli omnibus lenti e pesanti. A destra, sul mare, l’inferriata a lance s’allungava perdendosi nel lontano, come fusa in una parete di ferro luccicante, dietro cui s’intricava la ragnatela de’ pennoni, de’ lunghi alberi delle navi ancorate. In cima agli alberi le banderuole colorate pendevano nell’afa, immobili.
Questa via larga e deserta sbucava a Porto per un capo e per l’altro metteva al Molo. Era una scorciatoia, ma i vicoli attorno, pieni d’ombra e di frescura, la lasciavano abbandonata. Si passava per questi vicoli girando quel tratto di strada lungo e soleggiato, ove scottavano i lastroni, ove tutto era giallo di sole.
Le tre bambine, dopo aver guardato qua e là, si fermarono in questa strada, andarono a cacciarsi sotto un androne, sedettero a terra e cominciarono a chiacchierare, gesticolando.
Parlavano a bassa voce, dando a volle occhiate rapide nella via, quando qualcuno passava discutendo. La più grande mise fuori delle strisce di pannolino vecchio, infilò un ago, fece a pezzetti uno straccio. Le altre guardavano attentamente, aspettando.
— Rosinella, — disse lei.
Rosinella stese il braccio e tirò in su la manica della camiciuola.
— Non mi pungere…. — mormorò.
— Via! — disse l’altra.
Le aggiustò attorno ai polso dei pezzetti di quello straccio, risalendo sino a metà del braccino scarno.
Avvolse tutto in una delle bende e si tirò il braccino sulle ginocchia, tenendovelo fermo, cercando l’ago. Poi cominciò a cucir la benda perchè non si svolgesse. A Rosinella salivano de’ brividi per tutto il corpo: spalancava gli occhi e seguiva l’ago paurosamente. A un tratto, come le parve che questo entrasse troppo, ritrasse il braccio con un piccolo grido.
— Che è stato? — disse Peppina.
— Tu mi pungi!… — mentì Rosinella, per trovar la scusa.
— Non è vero! — disse Carmela, la più piccola. — Non l’hai punta, vuol far la preziosa.
— Non fare la preziosa! — disse Peppina.
Quand’ebbe finito, strofinò sulla fasciatura due ciliege, spremendone il sugo, sporcandola di una macchia rossa che pareva sangue.
— E una, — disse.
Carmela stendeva il braccio, sorridendo. Era una piccola grassottella scapata, con i capelli biondicci, con la bocca rossa fatta per ridere e per mangiare.
— Oh! aspetta! — disse a un momento, — qui no, qui ci ho l’anello.
Infatti, si ricordava, al dito mignolo della manina aveva un cerchietto di stagno, una galanteria che voleva mostrare. Stese l’altro braccio e si lasciò fare tranquillamente. All’ultimo le due piccole fasciarono Peppina.
Così le tre minuscole mendicanti si facevano storpie. S’avviarono. Per le vie popolose e affaccendate di Porto allungarono il passo senza chiedere; i piccoli affari, l’occupazione della vendita e delle compere non potevano distrarre i passanti. Le urtavano, se le toglievano di fra le gambe con una spinta, non le guardavano nemmanco. Solo Peppina nella piazza si mise dietro a un marinaro russo, che arrotolava una sigaretta, camminando con le gambe allargate. Lui da prima le sorrise bonariamente, guardò il braccio ch’ella stendeva tutta piagnucolosa, le borbottò qualcosa in una lingua che lei non capì.
— Carasciò! — fece Peppina, chiamandolo con la sola parola russa che i monellucci conoscono, — guardate, carasciò, mi son fatta male alla mano, non posso lavorare….
Il marinaro le accarezzò i capelli, tornò a sorriderle, le offrì la sigaretta….
— Grazie, — disse Peppina, — non so fumare, dammi un soldo.
Gli s’afferrava alla giacchetta, le dava delle strappatine, invogliandolo, con gli occhi supplichevoli.
— Via, via, carasciò, un soldo!
Lui non le credeva, voleva scherzare, voleva acchiapparle il lobo dell’orecchio in punta di dita. Allora lei, seccata, lo piantò.
Salì lentamente per via San Marco, andò alla fontanella accosto a cui, per un momento, la tennero intenta delle parolaccie che si scambiavano due femmine del popolo, scalmanandosi, con le braccia all’aria. S’allontanò, sbadigliando, quando si rappaciarono. Camminava a caso. Passando innanzi a una di quelle sorbetterie che hanno fuori nella strada il gran banco, chiese al garzone un po’ di sorbetto ch’era rimasto in fondo a un bicchierino. Lo ingoiò in fretta, avidamente, con gli occhi socchiusi. Più in là trovò per terra un mozzicone di sigaro, quasi mezzo sigaro, ancora acceso. A qualcuno era caduto in quel momento; un signore che passava in vettura si voltò indietro, era suo, gli era scappato di mano. Lei se ne accorse, ma lo spense strofinandolo contro il selciato e se lo mise in tasca lo stesso.
S’avvicinava a Toledo. Le sue curiosità ricominciavano innanzi alle vetrine, alla varietà delle bacheche. Sovra tutto i giocattoli l’attiravano. Contemplò lungamente, nella vetrina di un mercante di giocattoli, un cosacco barbuto che ingollava soldati, afforchettandoli. Se ne andava piena di desiderii. Vi fu a un tratto un affollarsi di carrozze e di pedoni; si traevano da parte per far luogo a un mortorio. Appariva in alto, a dieci passi, lo stendardo, barcollante, d’una confraternita. La piccina si perdette in quella confusione.
Suonavano le tre. Il caldo diventava insopportabile, si camminava in fila rasente i muri, sotto l’ombra delle tende che scendevano davanti ai negozii.
Ora le piccine s’incontravano al luogo dell’appuntamento, lassù in via del Museo. Peppina da lontano vide Carmela e Rosinella che discutevano sotto il grande portone dell’Istituto di Belle Arti. Sedevano sugli scalini, sotto uno de’ grandi leoni di bronzo, in una striscia d’ombra.
— Rosinella ha i soldi! — annunziò Carmela, correndole incontro. — Ma uno l’ha speso, ha voluto comprare una galletta.
— Non è vero! — gridò l’altra.
Tornavano a sedere sui gradini. Rosinella mise fuori tre soldi. Carmela non possedeva nulla. Per un po’ rimase mortificata, poi fece spallucce. Era così piccola, era! Nessuno le aveva badato. E poi lei chiedeva, lei faceva la faccia rossa e Rosinella intascava.
— Gesù! — fece costei. — Non le credere! È una bugiarda. E perchè non te ne vai sola?
— Mi sperdo, — disse Carmela, gravemente.
— Io ho avuto un sorbetto, — disse Peppina.
E raccontò la sua fortuna, esagerando, con una cornice di piccole bugie. Era stato un sorbetto bianco con la fragola in mezzo. Se lo aveva sorbito col cucchiaino, in un bicchiere grande, sotto il pergolato. Le bambine stavano a sentire sgranando gli occhi. A Carmela, golosa, saliva l’acquolina alla bocca. Mai aveva assaporato un sorbetto. Era dolce?
— Un po’ dolce, un po’ diaccio, — disse Peppina.
— Signore! signore! — gridò all’improvviso, levandosi. — Un soldo! Non posso lavorare!…
Scendevano ridendo per le scale dell’Istituto due sposi, a braccetto. L’uomo voleva tirar innanzi, continuava a ridere, parlava d’un quadro che gli aveva fatto una impressione grottesca. Ma la donnina ebbe un tremito, gettando gli occhi su quel braccio fasciato, su quelle macchie vive di sangue.
— Oh! mio Dio! — mormorò.
— Signora bella! — pregava Peppina. — Un soldo, signorina bella….
— Ma come è successo?
— Sono caduta, m’è passata una ruota sul braccio….
— Oh! — fece l’altra, rabbrividendo.
Il marito avea cacciata in tasca la mano. La cavò con due soldi. Allora Carmela e Rosinella s’accostarono, gli gironzarono attorno, mettendo in mostra la fasciatura.
— Come! — disse il signore. — Anche voi?
— Sono caduta…. — balbettò Rosinella.
— Sono caduta…. — disse Carmela.
Il signore si mise a ridere. Carmela rideva anche lei, divertendosi, senza paura; le pareva naturale.
— Ebbene-? — disse Peppina, dopo un silenzio e con tutta serietà. — Dobbiamo metterci a far qualche altra cosa? È meglio questo!
Egli la guardò, meravigliato. Era una bimba a dieci anni, non più. Pronunziava quelle parole gravemente, senz’arrossire, con l’incoscienza infantile della colpa vera, ma con l’aria maligna delle figlie del popolo, delle bimbe sperdute e libere che già sanno qualche cosa.