Quello che più piace in una leggenda è l’ingenuità del sentimento. La emozione fresca, quasi infantile del popolo si crea un embrione d’organismo artistico che interessa forse maggiormente d’un organismo compiuto. La funzione vitale ci si presenta nei suoi momenti elementari: possiamo studiarla, sorprendendola nelle più delicate operazioni che poi si nasconderanno sotto la densità della forma. La spontaneità, l’incoscienza dell’attività artistica dello spirito umano sono lì a nudo, sotto i nostri occhi. L’organismo si svolge dal suo nucleo cellulare con una lentezza serena, con una semplicità di mezzi e, nello stesso tempo, con una vigoria di forze crescenti di mano in mano che la vita si spieghi. Curioso spettacolo quel lavorìo di assimilazione, di trasformazione, di creazione di organi, di adattamenti di forme esteriori! Riduce, alla fine, la leggenda un organismo artistico, sempre rudimentale o, se piace meglio, primitivo ma perfettamente compiuto, e lo lascia per così dire sulla soglia dell’arte, aspettando che questa venga presa dal capriccio di raccorlo e d’elevarlo ad organismo d’ordine superiore, a creazione immortale!
Da prima il sentimento, l’emozione son trasparenti nella loro qualità morale o dommatica, nella loro virtualità germinale. Ma appena l’immagine è abbozzata, scorgesi subito che un’attività d’altra natura si sia messa in moto e che già tenda a diventar predominante: è l’attività della forma. La creatura della leggenda, come tutte le creature organiche, vive e cresce per conto suo, forte della propria individualità, indipendente da qualunque altra ragione che abbia contribuito alla sua nascita nel mondo dell’arte. La ricchezza dei suoi particolari s’accumula fastosamente. Emancipata da ogni soggezione, quella creatura si scapriccia, eccede nella sua libertà, abusa della sua vigoria, arriva talvolta a prendere una fisonomia irriconoscibile per chi non l’ha seguita passo a passo lungo il corso della sua avventurosa esistenza. È andata di qua, di là, afferrando senza scrupoli il suo bene dovunque gli è venuto per le mani; e bisogna proprio sottoporla alla cruda anatomia della critica per iscoprire in che modo e dove e quando l’assimilazione sia avvenuta. Giacchè si tratti d’assimilazione; non può trattarsi d’altro. Quella creatura vivente richiama la vita anche attorno a sè. Bisogna che l’ambiente dentro cui deve muoversi, bisogna che gli esseri coi quali deve aver che fare partecipino al gran flusso vitale, colla stessa proporzione di lei. Così la leggenda assume la sua forma e il suo colorito; si spiega in un modo affatto proprio, dove la legge della vita è una cosa assolutamente diversa dalla legge ordinaria, dove la illogicità è rigorosa quanto la logica comune, dove l’assurdo apparisce come la cosa più naturale e più ovvia.
Ma cresciuta, ma ridotta già un organismo compiuto, nel genere degli organismi primitivi, la leggenda conserva sempre il suo carattere d’origine, l’ingenuità del sentimento. Per quanto v’abbia lavorato attorno, per quanto v’abbia introdotto di nuovo e d’estraneo nella lenta elaborazione del suo soggetto, lo spirito popolare non può snaturare la sua creazione: il carattere originario sussiste. Neanche quando l’arte prende uno di questi organismi rudimentali per farne, col suo divino potere, un organismo superiore, il carattere di quello si muta. La creatura popolare resiste fortemente: impone anzi il suo modo d’essere all’organismo elevato. Guardate la leggenda di Fausto. È una di quelle che lasciano veder meglio il lavorìo della loro lunga formazione. Elena non vi apparisce di primo lancio. Il pedante Wagner mette fuori la sua ridicola personalità molto tardi. Il sentimento religioso che n’è il nucleo originario s’offusca, si vela a poco a poco: la rigogliosità della forma, la solidità d’essa lo sopraffanno. Quando la leggenda viene assunta dal genio del Goethe nel cielo dell’arte, non è soltanto la forma che si sprigiona con frenetico slancio in una moltiplicità di forme secondarie, di creazioni intermedie, di vegetazioni d’ogni sorta, ma perfino il concetto si trova cambiato, o meglio, trasfigurato nel suo reale contenuto, nel suo contenuto definitivo. Però il carattere è rimasto tal quale, cioè un sentimento, qualcosa d’indefinito che non può diventare qualcosa di perfettamente definito anche quando prende una forma perfettamente definita. Questo sembra un galimatias ma non è.
— Quale idea avete cercato d’incarnare nel Fausto? fu domandato una volta al Goethe.
« — Che ne so io? rispose il Goethe. Sarebbe stata veramente bella se io avessi voluto legare ad una sola idea, come ad un magro filo a traverso l’intiero poema, le scene così diverse, così ricche di varia vita c’ho introdotto nel Fausto! Io non amavo, come poeta, cercar d’incarnare un’astrattezza. Ricevevo nell’anima delle impressioni, impressione d’ogni specie, fisiche, viventi, seducenti, screziate, quali una vivace imaginazione me le presentava; e da poeta, non dovevo far altro che dare a quelle impressioni, a quelle imagini una forma artistica, disporle in quadri, farle apparire in pitture viventi, acciocchè, ascoltandomi o leggendomi, gli altri provassero alla lor volta le stesse impressioni che avevo provato io.»
Questa risposta non significa però che il mondo del Fausto sia il regno del capriccio e dell’accidentalità della fantasia poetica goethiana. Le impressioni s’organizzavano rapidamente appena penetravano in quell’ambiente. Mantenevano il loro immenso rigoglio, si svolgevano colla più piena e più audace fecondità, ognuna per proprio conto: ma soltanto in apparenza. La legge intima del carattere primitivo dell’organismo s’imponeva inesorabilmente a quella ricchezza di impressioni che v’affluiva da ogni parte. Le impressioni non potevano presentarsi così nude e crude, dovevano cioè realizzarsi nella forma, per un diritto di vita, in quel mondo poetico; e realizzarsi tanto più elevatamente quanto più elevato era il posto del Fausto nella grande scala degli organismi superiori. Ne risultava quell’opera da matto come lo stesso Goethe chiamolla una volta, quanto dire: un’opera dove le creature artistiche hanno la loro vitalità assoluta, la loro forma assoluta: giacchè (ed anche questa è un’opinione del Goethe) un’opera poetica è tanto più perfetta, quanto più è incommensurabile e insaisissable dall’intelligenza.
Quando si parla d’organismo a proposito di opere d’arte non si fa una semplice analogia: esso è anzi il concetto più originale e più fecondo della critica moderna. Come nella natura, gli organismi delle forme artistiche non riescono sempre bene: l’arte anch’essa ha i suoi aborti, le sue creature imperfette e in tutti i gradi della sua scala animale, nell’organismo embrionale, come nell’organismo superiore. Il carattere d’una opera d’arte può esser falsato da un eccesso accidentale di svolgimento di funzioni in una parte secondaria dell’organismo: può essere falsato da un difetto di sviluppo in alcun’altra, che rompe l’economia e l’armonia dell’insieme. Nella leggenda, per esempio, il sentimento può conservare una certa ingenuità, ma non riuscire a travasarsi perfettamente nella forma. Allora gli rimane la sua trasparenza: noi vediamo nello stesso momento due cose diverse: il sentimento come sentimento e il tentativo della forma rimasto allo stato di tentativo: qualcosa di vaporoso, di gelatinoso, ma nulla di più. Le intenzioni morali, dommatiche o altre trapelano da ogni parte, metà astrattezza, concetto o anche sentimento, e metà forma, persona, creatura che sta tra la vita e la morte e più da questa parte che da quella. Come arte non hanno nessun valore: nell’arte e nella natura ha soltanto valore la vita anzi la piena salute; ma come soggetto di studio spesso queste forme abortite, incompiute hanno un pregio straordinario. La funzione arrestata, sviata o pervertita dell’organismo imperfetto lascia scorgere il processo dell’organismo perfetto che ordinariamente ci vien nascosta dalla gelosa avarizia della Natura. Anche la fisiologia è costretta a domandare molte volte le leggi della salute alle tristi rivelazioni del morbo.
Io non avrei parlato delle leggende ebraiche sulla Vita e la morte di Mosè che il laboriosissimo professor De Benedetti ha tradotte e commentate, se esse non si fossero prestate a considerazioni generali sull’arte e a qualche applicazione pratica di queste. Mi manca ogni competenza ed ogni autorità per discorrere del valore filologico della traduzione e del merito dell’erudizione e dei raffronti onde il libro è ricchissimo. Il professor De Benedetti ha ricevuto le meritate lodi dei dotti, anche in Francia e in Germania. Ho voluto portare sotto gli occhi dei lettori un caso letterario, per parlare il linguaggio dei medici. Ed ho citato poco fa avvedutamente il Faust perchè il paragone riesca più spiccato tra la salute e la malattia, tra l’organismo strabocchevolmente ricco di sangue, e meravigliosamente bello di forme, e l’altro anemico e rachitico, se non di straordinaria bruttezza.
È inutile cercare le circostanze che lo hanno prodotto, o per lo meno non è necessario. Sia la natura dello spirito semitico, sia l’effetto dell’influenza del concetto religioso, che in quella razza ha sopraffatto ogn’altro sentimento umano, l’organismo di queste leggende è imperfetto. La trasformazione creativa del sentimento nella forma non s’è compiuta e non ci produce l’illusione della vita. Certamente quello che il valente professor De Benedetti ci dice intorno lo speciale carattere di esse, spiega molte cose. Son nate nel medio evo, in quell’epoca «in cui la letteratura ebraica si mantenne profondamente originale e serbò intatta la sua indole natìa.» Appartengono all’Agada, che è «la parte dell’antica scienza giudaica in cui, sotto forma di glosa dei testi biblici, si svolgevano il domma e la morale e la filosofia e tutto quello che, considerati i tempi, poteva dirsi letteratura; tutto insomma l’insegnamento teorico e ideale, in contrapposto all’Alaca che racchiudeva la giurisprudenza e i riti, tutta la parte pratica e reale… La forma più spesso eletta a vestire il pensiero nell’Agada era la narrazione, come indica il vocabolo stesso, che ha per l’appunto questo significato; e la leggenda n’è la parte principale.» (pag. vi).
Infatti in questi brani dell’Agada, cuciti insieme dal De Benedetti in modo che formino un corpo solo, noi assistiamo al fenomeno del primo conato del germe leggendario e possiamo seguirne i movimenti: ma non incontriamo nemmeno un organismo rudimentale completamente svolto. Il genio sottilmente sofistico del commentatore biblico, del rabbino fanatico, interviene ad ogni passo e rompe la magìa dell’impressione quasi per avvertire di non lasciarci cogliere dalle seduzioni della forma. La leggenda così perde il pregio della spontaneità. Non è più qualcosa venuta fuori non si sa donde, nè come, nè quando, una creatura gentile, sorridente, ingenua nelle sue facili gioie, ingenua nelle sue tristezze e nelle sue paure, impressionabilissima, esaltata per la sua delicatezza di nervi. Ha una musoneria sacerdotale; vuol giustificare ogni sua parola con un testo autentico del Libro. C’importuna colla sua esattezza, c’irrita con una sciocca credulità molto diversa dall’ingenuità che non si sorprende di nulla forse perchè l’impossibile le pare, non che possibile, facile.
Non si contenta, per esempio, di narrare che quando Faraone impose agli ebrei di gettar nel Nilo i figliuoli maschi, Dio inviava a quei bambini abbandonati pei campi «i suoi angioli a lavarli, a spargerli d’unguenti, a fasciarli, a porre loro accanto due pietre levigate, dall’una delle quali egli succhiavano latte, e dall’altra nutriansi di miele» non si contenta di narrare che, cresciuti, il suolo apriva la bocca e rigettavali, che tornavano ciascuno al padre suo e alla famiglia sua. I quali facevano tuttafiata celle sotterra e ve li rimpiattavano, sì che gli Egiziani loro aravano sul dosso, ma offenderli e’ non potevano; ma ecco che aggiunge subito: secondo sta scritto: e cita il versetto terzo del salmo CXXIX; sul dosso mi hanno arato gli aratori, rivelando così da qual fonte è scaturito l’embrione leggendario e, nello stesso tempo, uccidendolo.
Un’altra volta è una difficoltà di calcolo che s’ingegna di produrlo. Li terranno servi e gli affligeranno per quattrocent’anni, dice il versetto 13 del capo XV della Genesi. Come mai la parola di Dio può contraddirsi? pensa il rabbino; la cattività presso gli egiziani non è durata che ottantasei anni!… E quando trova la sua sofistica soluzione prova la tentazione di personificarla. Hura, il patrono dell’Egitto, si lamenta con Dio e sfida Michele il patrono d’Israello: Dio è tenuto a mantenere la sua parola: quattrocento anni. Michele non sa che rispondere; il versetto decimo terzo dice: quattrocent’anni. Ma Dio interviene nel conflitto, dà la sua interpretazione, da perfetto rabbino, ed Hura il patrono rimane confuso.
Sovente il rabbino non guarda pel sottile e non si perita di dare l’astrattezza, la personificazione bella e buona quasi fosse cosa vivente. Il mar Rosso contrasta nella leggenda prima di cedere il passo agli ebrei. Io non farò secondo le tue parole, dice il mare a Mosè, perchè tu sei nato di donna; e non per questo soltanto, ma perchè io sono maggiore di te di tre giorni, però che io fui creato lo terzo die della settimana, e tu sino al sesto non fosti. La Legge querelandosi dinanzi all’Eterno perchè non la desse agli uomini, se l’aveva già creata duemila anni prima del mondo, sente rispondersi dagli angioli che essi vi pongono impedimento perocchè gli uomini sono per commettere contro di te peccato: laonde è meglio che tu stia con noi. Quando Mosè picchia nel sasso per farne spicciar l’acqua, il sasso manda fuori sangue.
Mosè. (a Dio) Lo sasso non gitta.
Dio. (al sasso) Perchè non gitti tu acqua ma sangue?
Lo sasso (a Dio) Signore del mondo! Perchè Mosè mi ha egli picchiato?
Dio. (a Mosè) Perchè lo sasso hai tu picchiato?
Mosè. Perchè e’ gittasse acqua.
Dio. Come? t’ho detto io tu il picchiassi? Non ti ho discorso io di parlare? E detto: «E parlerete allo sasso?»
Mosè. Io ho parlato, ma non gittava.
Dio. Hai tu pure comandato Israele: «Con equitate giudicherai tuo prossimo.» E perchè non hai giudicato con equitate lo sasso?
E il rabbino continua a questo modo, credendo che la personificazione sia un elemento da leggenda e introducendolo accanto ai personaggi reali o imaginarii come gli angioli protettori e gli angioli del ministerio che lavansi all’onda di fuoco del fiume Rigione.
C’è un movimento bello, anzi sublime nell’ultima parte della leggenda tratta dal Commiato di Mosè. Mosè, a cui Dio ha annunziato la prossima fine, non sa rassegnarsi alla morte prima d’aver posto il piede nella terra promessa. Il gran legislatore, il confidente del Santo tenta aggrapparsi alla vita, tenta strappare al Jehova un brevissimo tempo di sosta. Che indefinito terrore dell’ignoto scaturisce da tutti quegli argomenti, da tutti quei sotterfugi ch’egli presenta al Santo per allontanare l’esecuzione della terribile sentenza!
Mosè. Fa che io non muoia, ma viva e meni l’opera dell’Eterno!
Dio. Se tu rimanessi in vita egli errerebbe per te, ti farebbero Dio e ti adorerebbero…. Sei tu più grande di Abramo che io per dieci anni ho sperimentato?
Mosè. Da lui uscì Ismaele, i cui figliuoli condurranno i tuoi a perdizione…
Dio. Ti ho io per nulla detto di uccidere l’Egiziano?
Mosè. Signore del mondo! Dammi licenza di dirti una sola cosa.
Dio. Di’.
Mosè. E tu hai pure ucciso tutti i primogeniti di Egitto. E io per un solo egiziano i’ mi morrò.
Dio. Ma sei tu forse a me somigliante? Io fo morire e risuscito.
Ma le ore son contate. D’ora in ora una voce del cielo annunzia a Mosè: tu non hai della vita di questo mondo se non quattr’ore: tu non hai di cotesta vita mondana se non tre ore. Pure Mosè insiste: Signore del mondo! Lascia che io duri a guisa d’uccello che vola ai quattro punti della terra, e coglie in terra suo vitto e bee acqua di fiume e a sera si ritorna al suo nido. E la voce del cielo torna a ripetere: O Mosè, a che ti crucci? Tu non hai di mondana vita se non mezz’ora! Quando il momento fatale è giunto, nè Gabriele, nè Michele, nè Zangariele si sentono il coraggio di staccare dal corpo la grande anima di Mosè. Samaele, che si mostra più coraggioso di essi, è abbacinato dallo splendore degli occhi del moribondo e torna a Dio senza l’anima di Mosè.
Dio. Dov’è egli? Che rechi tu?
Samaele. Non posso.
Non c’è ancora che un mezzo minuto per l’ora fatale e conviene che venga Dio stesso in persona per strappare con un bacio al corpo del suo Giusto l’anima che pregava anch’essa: Signore! lasciami qui dentro: lasciami al mio posto.
Ma questo sentimento così sublime d’un indefinito terrore della morte e del nulla, il rabbino lo riduce quasi artifiziale a furia di distinzioni, di argomentazioni, di sottigliezze, e ne diminuisce la grandiosa solennità. Perchè? Perchè lui non ha la potente energia della forma; perchè il sentimento non è così caldo in lui che si trasformi, si condensi, si riduca cosa vivente, un organismo esistente per sè stesso, libero da impacci morali e teologici.
Da questo volume si potrebbero trarre altri esempi ed altri raffronti: mi manca lo spazio per farlo. Ma quello che ho potuto accennare è sufficiente. È una prova di più, che nell’arte, in qualunque grado di forme, la sola cosa importante, la sola cosa assolutamente necessaria, è l’organismo, è la vita. Il resto c’è naturalmente, per sottinteso, e potrebbe anche non esserci: la vita giustifica tutto.