Anni fa mi s’era fatto credere che il poetico nome di Neera nascondesse la persona d’un uomo. Anzi, una sera che questo nome comparve in un cartellone di teatro sotto il titolo, non ricordo quale, d’una commediola in un atto, uno che voleva darsi per bene informato, o che credevasi tale, mi confidò che Neera mascherava… i biondi baffi del barone de Renzis. Sapendo che parecchie scrittrici moderne hanno avuto il capriccio di ribattezzarsi con nomi mascolini, non mi parve strano che uno scrittore, per contrapposto, scegliesse quello d’una donna. Ma un bel giorno fui molto sorpreso d’incontrarmi colla Neera in carne ed ossa, una giovine signora vestita con elegante semplicità, bruna, un po’ gracile, con due occhi neri, vivacissimi, e una certa malinconica serietà nell’aspetto, rallegrata di quando in quando da un grazioso sorriso.

Oggi il vero nome dell’autrice delle Novelle gaie e del Nido non è più un mistero per molte persone; io intanto rispetterò la pudica delicatezza femminile che vuol tenerlo nascosto e non commetterò l’indiscrezione di stamparlo su queste colonne.

Un pseudonimo, rassomiglia a una clausura. Voi potete ascoltare i canti religiosi delle monache al coro, durante le sacre funzioni, potete gustare le frutta candite, le marmellate, il pan di Spagna, i torroni di zucchero e tutte le altre ghiottonerie confezionate dalle abili mani delle spose di Cristo; ma penetrare dentro le mura del loro chiostro, ma assistere, ma mescolarvi alla loro vita giornaliera è vietato dai canoni, dalla regola e dal portone sempre chiuso. Il pseudonimo di una signora, soprattutto, significa: Badate! Io voglio essere due persone: una, la donna — fanciulla, madre di famiglia, zitellona, — che vive pei parenti e pegli amici, che non isdegna nessuno dei suoi doveri domestici, previdente, massaia, infermiera, ora allegra, ora coi nervi, spesso impensierita delle troppe cure del suo piccolo regno; l’altra, la scrittrice che mette fuori ogni anno dei volumi composti non si sa quando, nei momenti rubati al sonno e alle preoccupazioni della vita giornaliera. È di questa, soltanto di questa, cioè dei suoi libri, che il pubblico e la critica debbono interessarsi, caso ne valgano il pregio. Fra quei libri e la mia persona separazione perfetta. Le mie fantasie divertono? I miei racconti commuovono? Non cercate altro. Che v’importa se al sorriso d’un mio lavoro corrisponde forse una lagrima dei miei occhi, una pena del mio cuore? Che vi importa se la scena d’amore d’un mio racconto sia nata in momenti di fastidio, di rassegnazione, anche d’odio nelle circostanze della mia vita? Son cose che mi riguardano: vieto agli altri d’occuparsene.

Oh sì! Il pubblico è indiscreto, (spesso è bene che lo sia), e il pseudonimo raddoppia la sua naturale curiosità quando il libro lo scuote. Non trova nulla che soddisfaccia la sua avidità dell’ignoto? Non importa; arzigogola, deduce, dà corpo a una fantasticheria e finisce col crederci lui stesso, come a cosa certissima. Un personaggio, una scena, quattro righe di dialogo, un’osservazione fatta dalla scrittrice per conto proprio (la filosofia, sto per dire, del suo libro), tutto viene adoperato per indovinare la persona che sta nascosta dietro la maschera d’un finto nome. E poichè, in fatto di caratteri e d’ingegni, le regole generali sono gremite di eccezioni, novanta volte su cento l’induzione tratta da tali elementi riesce il contrario della verità. Mancano i passaggi intermedii, mancano le piccole cause che trasformano spesso i risultati d’un gran principio generale. E mentre ci figuriamo d’aver afferrato il bandolo di una matassa, questa s’arruffa di più; mentre ci crediamo d’aver delineato una fisonomia rassomigliante, abbiamo invece abbozzato la caricatura, spesso la calunnia dell’originale.

La Neera lo sa per prova. Le persone difficili, i critici che fanno mestiere di scandalizzarsi di tutto, quando s’incontrarono in alcune pagine dell’Addio e delle Vecchie Catene ove la passione parlava il suo caldo ed irragionevole linguaggio, ne dedussero che l’autrice di quelle pagine doveva aver sentito qualcosa di quei colpevoli ardori. Invece esse erano il parto d’una donnina savia, di una mamma affettuosa che, prima di sedersi al tavolino e intinger la penna, aveva messo a letto amorosamente i suoi bimbi, e avea dato gli ordini più minuti pel governo della sua modesta famiglia. Nel silenzio del suo studiolo, al lume della lampada che rischiarava i fogli bianchi preparati per esser coperti d’una scrittura fine e nervosa, i personaggi del suo lavoro avevan preso solidità, avevano agito, pensato e parlato secondo la loro natura: un altro ambiente, un’altra vita, ove lei restava, in qualche modo, spettatrice spirituale; nient’altro. E bisognava esser ciechi, o sotto l’impero d’un’idea preconcetta, per non accorgersene, per non capire che lì si fosse ancora molto lontani dalla realtà, e che vi si scorgesse piuttosto una inesperienza d’osservazione diretta, che l’esperienza personale, come pretendevan quei signori.

Infatti i migliori lavori della Neera: le Novelle gaie e questo Nido recentemente pubblicato, hanno un carattere di rêverie. La realtà c’entra quel tanto che occorre perchè il sentimento prenda una forma: il resto è come una fioritura primaverile dell’anima della scrittura, una variazione musicale su temi che sorridono anche quando sono mesti.

La forma è tutta sfumature e capricci, qualche volta troppo piena di capricci, quasi con compiacenza ricercata; specialmente nelle Novelle gaie. In esse, ordinariamente, i personaggi s’intravedono più che non si vedano, circonfusi come sono ora da una luce troppo viva ed ora velati da una sottile e rosea nebbia d’umorismo. Sembra ch’ella stessa non li prenda sul serio, che li canzoni finamente, che li sballotti di qua e di là con bizzarria fanciullesca. Talvolta s’intenerisce per essi, fino a versar qualche lagrima; ma si scorge benissimo che allora il suo occhio guarda più oltre, fisso alla lontana realtà della quale la fantasticheria di quel momento è o una leggiera imagine, o un riflesso tremolante, o un’aspirazione, o un rimpianto. Quattro o cinque di queste novelle sono tra le cose più squisite che in tal genere si siano scritte fra noi. C’è un’ironia di buona lega, un’allegria che ha tutta la spensieratezza della vita studentesca. Paiono nate tra vortici di fumo di pipa, nello scompiglio d’una stanza di giovanotti. I libri sono messi a dormire, le tesi giacciono alla rinfusa sui tavolini ingombri e disordinati. A cavalcioni d’una sedia in maniche di camicia, mentre la stanza si riempie di fumo, quei capi ameni scorazzano sbrigliatamente nel mondo dell’immaginazione colla forza dei loro venti anni; credono di parlare sul serio, ma non fanno che sognare ad occhi aperti. E il lor piccolo mondo si riverbera in tutti quei sogni confusamente, grottescamente, allegramente, colle sue figure di ragazze amate o credute d’amare, di professori ridicoli, di zii tiranni, di compagni imbecilli, di ricordi di giovinezza, d’ideali sospirati, di primi disinganni, di prime sciocchezze, di storditezze del cuore costate poi dei veri dolori, e si rimescola, e scintilla, e risuona, e apparisce e sparisce con mobilità vertiginosa. Le Novelle gaie sono qualcosa di simile. E non lo dico per biasimo. C’è lì il segno evidentissimo d’una imaginazione vivace, d’un ingegno non ordinario. Qualunque ne sia la natura, questo lor mondo è vivente; illude, attrae, diletta, spesso fa battere il cuore, lo solleva sempre: giacchè una gentile impressione artistica produca certamente un’elevazione dello spirito. E il soffio dell’arte lì non manca mai, sebbene qualche volta faccia difetto la maestria esteriore dello stile.

Nel Nido la rêverie ha un diverso carattere.

«Vi è sempre nel mondo un cantuccio che si preferisce a tutti gli altri; un paese, una collina od una valle, qualche volta un dirupo scosceso o un pantano pieno di nebbie, che noi anteponiamo ai giardini più ridenti. È per solito il paese, la collina, la valle, il dirupo, il pantano che abbiamo visto a traverso il velo color di rosa dei quindici anni — è il luogo dove i nostri cuori si sprigionarono dalle fasce dell’adolescenza e videro e sentirono e amarono per la prima volta.

«Quell’istante dolce e solenne in cui il bocciolo diventa fiore, quel mattino superbo della vita in cui la nostra imaginazione travede insognati splendori, si riflette e si fissa sugli oggetti intorno per modo che noi ritornando dopo molti e molti anni vecchi e disillusi, vediamo scorgere come per incanto da ogni albero una rimembranza, da ogni sasso una memoria, e volgendoci indietro sui sentieri calcati dalle nostre ormi giovanili, ci par di rileggere una pagina dimenticata.»

L’intonazione dell’idilio che si svolge nel Nido è tutta in queste righe, e nei versi del Carducci che servono da epigrafe alla seconda parte:

O monti, o fiumi e prati,

O amori integri e sani:

O affetti esercitati

Tra una schiatta d’umani;

Alta, gentile e pura

O natura! O natura!

Un idilio non si riassume. La storia d’Editta è d’un’estrema semplicità. Editta è amata, ama, e diventa la sposa dell’uomo che ha avuto il primo palpito del suo cuore. Eppure in mezzo a questa estrema semplicità c’è tutto un piccolo dramma. Editta è una fanciulla d’istinti aristocratici….» Cresciuta in mezzo ai libri e alla poesia scritta, le era ignota la poesia suprema della natura…. Era troppo sagace per rappresentare il personaggio della fanciulla ingenua, ma non era nemmeno una donna, perchè della donna le mancava la sapiente esperienza e la bontà indulgente…. Editta non si abbandonava, ecco. Una grande stima di sè stessa (che è la base dei caratteri forti) scompagnata dalla tolleranza dei difetti altrui, le rendeva insopportabili la vanità e l’ignoranza.» È da questo suo carattere che il piccolo dramma nascerà. Il giovane che le ha destato nel cuore un sentimento affatto nuovo per lei, è un giovane ritirato nella sua campagna intento ai miglioramenti agricoli, agli allevamenti razionali dei polli e dei conigli, severo nell’amministrazione del suo patrimonio, ma benefico coi contadini e voluto bene da tutti. Editta ignora che sotto la veste di quel coltivatore si celi un’intelligenza elevata, un cuor di poeta, il quale tentato nella sua prima giovinezza il cammino della gloria, se n’era tornato addietro, preferendo la pace serena dei campi alla tempestosa vita dell’artista. Editta ignora che quel piantatore d’erba matricaria, come lo chiama in un momento di stizza, abbia tutte le delicatezze e le raffinatezze di spirito ch’ella vorrebbe trovare nell’uomo a cui dovrebbe legarsi per tutta la vita: e il giorno che Giovanni le dice: vuol esser mia moglie?, ella rifiuta alteramente, sebben commossa. «Sentiva tutto il valore d’una offerta che le assicurava l’avvenire, quella prova certa di essere amata la riempiva di una dolce ebbrezza; ma il pensiero di vincolarsi per sempre ad un uomo inferiore, di rinunciare ai suoi sogni grandiosi, alle sue poetiche speranze, di fermare ad un tratto i voli della sua imaginazione e mettersi prosaicamente a cucir camicie a fianco di un marito che allevava galline…!»

Ma, in quel Nido, in quel benedetto angolo che la Neera ha dipinto con tanto bagliore di luce e di verde, tutto è bontà, tutto è felicità, tutto è sorriso. Arriva dunque un momento in cui l’amore produce il miracolo di vincer l’orgoglio della bella fanciulla; e allora «quando un raggio di luna cadde dall’alto delle colline nella valle, il piccolo nido si aperse e si richiuse pudico all’ombra degli oleandri, e gli usignuoli, soli, origliando tra i rami, poterono udirne i sommessi sospiri.»

Non ve l’ho detto che è un rêve? Ma questa volta la forma è più solida, la maestria della scrittrice notevolmente avanzata. Dall’Un Romanzo, dall’Addio alle Novelle gaie e a questo Nido qual’enorme distanza! Anche il suo rêve comincia a prendere un poco più di solidità: il personaggio si vede, può toccarsi, quantunque non sia ancora proprio di carne e di ossa. Si capisce però che lo sarà presto. Questa notevole progressione di bene in meglio mi ha spinto a consacrare alla Neera un intiero articolo. È un ingegno delicato, con una tinta di gaiezza e d’ironia non so dire precisamente se nell’immaginazione o nel cuore; ha un notevole vigore di rappresentazione, una certa sottigliezza nell’osservare, l’istinto della convenienza, della misura, delle proporzioni, e l’abilità delle sfumature che in arte son molto quando, talvolta, non son tutto. Resta a vedere se queste belle forze, messe al contatto della realtà, resisteranno. Dopo le prove date, saggi d’ingegno, esercizii di muscolatura e di scioltezza di mano, si vorrà veder uscire la Neera del mondo un po’ artifiziale dove, s’è compiaciuta finora. Si vorrà vederle aprir la finestra perchè in quel suo studiolo entrino e la luce sfacciata delle vie, com’ella dice, e il rumore assordante della vita che pur troppo non somiglia in nulla, o assai di rado, a quello che si sente nel delizioso nido da lei fabbricato per la sua simpatica Editta.

Ma forse non è male che l’arte di tanto in tanto ci dia le illusioni dell’acqua, del verde e della frescura, prodotte dal miraggio ai viaggiatori del deserto. È innegabile che la severità quasi scientifica dell’arte moderna opprime, stanca, fa male al cuore. Ma dall’altro lato è anch’innegabile che l’arte dove non sia passato il soffio del pensiero moderno non è più un’arte vitale e che abbia valore. Il più piccolo squilibrio d’elementi, dalla parte dell’immaginazione o dalla parte della riflessione, producono un danno, una deformità nell’organismo dell’opera d’arte; ma se si riflette bene alla prevalenza ognora cresciente della riflessione e dell’osservazione positiva nell’analisi scientifica, non si tarderà a capire che, se il sentimento artistico vivrà eterno, la forma… Ma io non credevo di dover finire con queste malinconie.