I.

Il professore Corrado Bertalia, senatore del Regno, celebre per la sua opera Il Comune italiano e l’Ansa germanica, stava dando l’ultima pulitura al discorso, in francese, ch’egli doveva tener fra pochi giorni al Congresso storico internazionale di Stoccolma, quale delegato d’una delle nostre maggiori Università. Una delle finestre dello studio, volta a levante, aveva le persiane abbassate; l’altra, che si apriva a settentrione, era spalancata, e lasciava entrar nella stanza la fulgida luce della bella giornata di giugno. Da un giardino sottoposto salivano fragranze di fiori e canti d’uccelli; di là dal giardino che, pur non appartenendo alla casa, lo cingeva per due lati, veniva, smorzato alquanto, il rumore della strada percorsa da carrozze e da carri.

Un vispo fanciullo di circa dieci anni irruppe nello studio senza cerimonie.

— Buon giorno, babbo..

Il professore alzò il viso dalle sue carte, si tolse dagli occhi le lenti e con un sorriso incoraggiante chiamò a sè il figliuolo e gli stampò due baci sulle gote.

— Oh, Gino. Vai a scuola? Non è più presto del solito?

— Sì, ma aspetto la mamma che si metteva il cappello.

— Esce la mamma?

— Deve far qualche spesa.

Gino, secondo il solito, cominciò a toccare i libri sparsi sulla tavola e a guardar curiosamente i frontispizi.

— Quieto, bimbo, quieto.

— Sai, papà, voglio che tu mi porti da Stoccolma una bell’opera illustrata.

— Ma! — rispose il senatore. — Vedremo quel che ci sarà…. Perchè se non ci fossero che opere svedesi…. Lo capisci tu lo svedese?

Il fanciullo si mise a ridere. — Io no…. E tu?

— Io? Pochino, pochino.

— Oh, — ripigliò con aria d’importanza lo studente di prima ginnasiale, — se fosse il francese!… Me lo insegna così bene la mamma…. E anche il latino intendo….

— Diamine! — esclamò il padre. — Rosa, rosæ.

— Nossignore, — protestò Gino offeso nel suo amor proprio. — Traduco Cornelio Nipote.

— Nientemeno?… E dimmi, — soggiunse Bertalia in tuono carezzevole, — saremo poi esonerati dagli esami?

— Non c’è dubbio. Ho le medie di tutti i bimestri superiori all’otto.

— Bravo il mio bimbo! — disse il professore accostando la sua guancia a quella del ragazzo.

A veder quelle due teste che si toccavano s’era colpiti dalla rassomiglianza ch’esisteva fra loro. Avevano tutti e due, padre e figliuolo, fronte spaziosa, occhi bruni, incavati, profondi, naso aquilino, tinta olivastra, bocca un po’ grande, mento largo e massiccio. Persino i capelli si rassomigliavano, benchè quelli di Corrado Bertalia fossero radi e bianchi e quelli di Gino folti e castani; si somigliavano nella lucentezza metallica, nella piega leggermente ondulata. Certo a pochi genitori accade di stampar nella prole una così vigorosa impronta della loro paternità com’era accaduto al professore Bertalia con quell’unico rampollo, natogli quand’egli scendeva già la parabola della vita.

L’uscio si aperse e una donna comparve sulla soglia. Indossava una toilette da mattina, semplice ed elegante, abito di mussola bianca punteggiato di rosso, cappello di paglia di Firenze guarnito di rose e mughetti; teneva in mano un piccolo ombrellino di seta celeste chiara con frangie e pizzi. Le larghe maniche lasciavano veder il polso sottile e il principio del braccio nudo, d’un candore latteo; la bionda capigliatura opulenta era raccolta in treccie dietro la nuca; solo qualche ricciolo indocile ombreggiava la fronte. Sotto il lungo arco delle sopracciglia splendevano due pupille azzurre ora spiranti un’infinita dolcezza, ora solcate da lampi d’orgoglio e da fremiti di rivolta. Alta, snella, flessuosa, quella donna era veramente un fiore di giovinezza e di leggiadria; si stentava già a persuadersi (poich’ella non mostrava i suoi trent’anni) che fosse madre di Gino; tanto più difficile era crederla moglie d’un uomo che rasentava i sessanta.

— Buon giorno, Corrado, — ella disse avanzandosi di alcuni passi.

Come avveniva sempre quando sua moglie gli si presentava in un abbigliamento troppo giovanile, una nube velò per un istante la fisonomia severa ma aperta del senatore; pure egli non fece alcuna osservazione e ricambiò il saluto con l’usata cordialità.

— Buon giorno, Lucilla. Sei mattiniera, oggi.

— Vado dalla mia sarta. Voglio che cambi una guarnizione al mio vestito di stasera.

— Il gran da fare che danno le toilettes a voialtre donne!

— Le toilettes hanno un’importanza che gli uomini non capiscono…. Per noi sono il campo ove si esercita il nostro gusto artistico.

— Oh, non discuto. Credo però che alla festa di stasera non ci sarà lusso.

— Perchè?

— Perchè la stagione non è propizia alle feste e molte signore sono in campagna.

— Vedrai che ne mancheranno pochissime…. Alcune ritornano apposta…. non foss’altro che per la curiosità di conoscere questa sposina americana che il contino Filiberti porta in famiglia.

— Per me ci rinunzierei volentieri.

— Anch’io. Ma come si fa?… I Filiberti sono stati sempre tanto cortesi con noi.

— Sì, sì…. Ormai sono rassegnato.

— E persisti a voler partire domattina alle dieci e mezza?

— È necessario.

— Avrai ben poco tempo da dormire.

— A me basta poco…. Per le quattro saremo a casa; e cinqu’ore buone di letto le avrò.

— Mamma, — disse Gino, — se non ti spicci….

— Andate, andate, figliuoli, — soggiunse Bertalia, — e che il Signore vi accompagni.

In quella si picchiò all’uscio. Era la cameriera che portava su un vassoio la posta della mattina.

— Nulla per me? — chiese la signora, mentre la cameriera consegnava lettere e giornali al padrone.

— Nulla.

— Arrivederci, dunque…. Eccomi, Gino.

— Un momento, — gridò Bertalia. — C è una partecipazione mortuaria diretta al Senatore Prof. Corrado Bertalia e consorte…. Di chi sarà?

Il silenzio che seguì a queste parole fece balzar d’inquietudine il cuore di Lucilla.

— Ebbene? — ella domandò avvicinandosi vivamente a suo marito e guardando il foglio listato di nero ch’egli teneva aperto fra le mani.

Il foglio non conteneva che poche righe:

La madre Caterina Frangipane vedova Bagnasco annunzia con l’animo straziato la morte, ieri avvenuta, del suo unico figlio