I.
L’Università di X è da qualche tempo un po’ scaduta di credito; ma dieci anni or sono essa era certo tra le più riputate del Regno, e vi si contavano a dozzine i professori aventi un nome celebre nella scienza. Nella facoltà giuridica il Bertioli, il Soreni, il Mereghini, nella fisico-matematica il de Ziani e il Luserta, nella medico-chirurgica l’Astigiano e il Barelli, in quella di filosofia e lettere il Meravigli, il Dalla Volpe, il Frusti, il Teofoli, il Canavese, il Pontevecchi, ch’era anche rettore. È verissimo che molti di questi uomini insigni appartenevano alla classe dei professori che chiameremmo decorativi, perchè le loro relazioni con l’Università si limitavano a qualche lettera scritta al segretario economo per farsi mandar lo stipendio. Il Bertioli, per esempio, era senatore e i suoi doveri di cittadino lo costringevano a frequentare le sedute della Camera vitalizia; il Sereni e il Mereghini erano tutti e due deputati e avevano obblighi uguali verso la Camera elettiva; anzi il Mereghini, nel cui cranio capace alloggiavano comodamente le legislazioni di tutti i paesi del mondo, poteva considerarsi un’appendice del Ministero di grazia o giustizia, ove i successivi titolari dei portafogli si servivano di lui per l’eterno rimaneggiamento dei codici. Ciò non gl’impediva del resto di fare all’Università una lezione ogni dicembre annunziando la materia che avrebbe trattato e che naturalmente non trattava nel corso dell’anno. Il de Ziani e il Luserta, onore della facoltà matematica, ambidue senatori in pectore, erano anch’essi pieni di cariche, membri dell’Accademia dei Lincei, membri del Consiglio superiore dell’istruzione pubblica, ecc., ecc., autori di relazioni e di programmi di studi in perfetta contraddizione fra loro. Dell’Astigiano e del Barelli non si parla. Erano medici di fama europea e non potevano rifiutare l’opera loro a chi li chiamasse a consulto in Italia e fuori d’Italia. Spesso li si chiamava tutti e due in una volta, giacchè essendo l’Astigiano profondo nella diagnosi e il Barelli nella terapeutica poteva accadere che il primo, infallibile nel determinare la natura del morbo, sbagliasse nel suggerire la cura, e il secondo, senza rivali nella cura, prendesse in iscambio un male per l’altro.
Del rimanente questo stato di cose conciliava le vedute delle famiglie degli scolari con quelle degli scolari medesimi. Le famiglie si riempivano la bocca coi gran nomi dei professori dei loro figliuoli; i figliuoli esultavano delle continue assenze dei professori e mancavano regolarmente alle lezioni dei sostituti.
Il rettore Pontevecchi, celebre orientalista ma non energico uomo, si consolava pensando che nella facoltà di filosofia e lettere, ch’era proprio la sua, le cose procedevano alquanto diversamente. In tanti professori non c’era che un unico deputato, il Meravigli, e anche quello andava di rado alla Camera perchè l’aria di Roma non gli era propizia. Gli altri erano puramente uomini di studio e non volevano saperne della vita pubblica.
Primeggiava tra questi il Teofoli, professore di filosofia, spirito largo ed acuto, parlatore limpido ed efficacissimo, ammirato dalla scolaresca, stimato e rispettato da tutti i colleghi. Due di essi, il Dalla Volpe e il Frusti, lo seguivano come la sua ombra, e la gente, a forza di vedere quei tre sempre insieme, aveva preso a chiamarli per celia i tre anabattisti. Il Dalla Volpe aveva moglie, una moglie terribile fino a trentacinqu’anni per la sua galanteria, da trentacinqu’anni in poi per la sua devozione: il Frusti era vedovo e grande odiatore delle donne; il Teofoli pareva deliberato a rimaner scapolo, e sebbene non partecipasse ai pregiudizi del suo amico Frusti contro il bel sesso, preferiva tenersene alla larga e frequentava soltanto il salotto della contessa Ermansi, ch’era una signora matura.
Ben provveduto di mezzi di fortuna, il professore Clemente Teofoli aveva un bel quartierino, una magnifica biblioteca e un’ottima tavola a cui egli invitava spesso qualche collega, e, nelle grandi occasioni, anche qualche discepolo preferito. Pegli altri due anabattisti, non c’è bisogno di dirlo, c’era sempre un posto e una posata disponibile. Il Dalla Volpe in particolare si rifugiava dall’amico il venerdì e le altre vigilie, per evitare la cucina di magro che la sua degna consorte gli avrebbe inflitta inevitabilmente.
Quei pranzetti, che la signora Pasqua, governante del professore Teofoli, una virago baffuta e contro le tentazioni, sapeva ammannire con arte sopraffina, erano rallegrati da discussioni dottissime fra i tre inseparabili. Il Teofoli parlava volentieri dell’opera ch’egli stava maturando da più anni sul tema già trattato alla fine del secolo scorso dal Dupuis, L’origine delle religioni; il Frusti e il Dalla Volpe facevano il possibile per tirare il discorso l’uno sulla storia antica e l’altro sulla moderna o a meglio dire su quel periodo di storia antica e moderna ch’essi prediligevano. Poichè, a voler essere sinceri, i due amici brillavano piuttosto per la profondità che per la varietà delle ricerche. Il Frusti non si occupava volentieri, nella storia moderna, che della rivalità tra Carlo V e Francesco I, e il Dalla Volpe, nella storia antica, non aveva occhi che per le gesta della 19ª dinastia tebana le cui glorie cominciano con Setti I, soprannominato Merenaphtha o Menaphtha (caro a Phtah), le cui imprese però, come sanno anche gli studenti di ginnasio, furono confuse con quelle di Ramesse II, suo figlio. Una volta preso l’aire, il dotto uomo non si fermava più, salvo che qualcheduno non trovasse il modo di richiamarlo alla memoria delle sue tribolazioni coniugali. Allora egli dimenticava Menaphtha e Ramesse e sfoggiava una facondia mordace che agli spiriti frivoli poteva parer preferibile alla grave e ponderata eloquenza con la quale egli esponeva le vicende memorabili dell’Egitto.
— Ero un bel somaro a pigliarmi tanti fastidi in gioventù per le scappatelle della mia signora consorte, — egli diceva sovente. — Quelli eran tempi beati in confronto d’adesso. C’erano, sì, delle chiacchiere in paese; c’erano spesso tra i piedi dei seccatori; ma almeno la Luisa era d’un umore gaio, piacevole, ed era bellina, ciò che non guasta. Le vere calamità, son principiate dopo quel fatale vaiuolo che la lasciò tutta butterata. Non vedendosi più un cane intorno, le son spuntati i rimorsi, l’è venuto il bisogno imperioso di espiare le sue colpe e di rimettersi in grazia di Domeneddio. E vigilie, e digiuni, e ogni momento in chiesa, alla messa, ai vesperi, alla benedizione, al confessionale, e preti, e frati e monache in casa…. e, s’io arrischio una parola, mi sento a rispondere: — Se ho commesso dei falli non puoi dire ch’io non ne faccia penitenza. — Così ho il gusto di aver la confessione esplicita di mia moglie, e quello di far penitenza insieme con lei…. Ah le donne!
Il nostro Teofoli notava che quando si ha avuto la sfortuna d’incappar male non è lecito giudicar tutte le donne alla stregua di quelle che ci hanno fatto soffrire.
Ma questa ragionevole osservazione dava sui nervi al terzo commensale, il professore Frusti. — È falso. Anzi è precisamente l’opposto. I soli che possono esser indulgenti con le femmine sono quelli che incapparono male. A loro almeno è permesso di credere che ce ne siano d’una pasta diversa dalle poco di buono che conoscono. Chi ha conosciuto le migliori non ha più illusioni possibili. E la mia era una delle migliori. Tutti lo dicevano, tutti continuavano a dirlo…. anche quando non c’era più un dubbio al mondo ch’ella mi menasse pel naso. E io sono intimamente convinto che avessero ragione…. Ma era donna e faceva la sua parte di animale nocivo.
Dopo queste dichiarazioni ripetute ogni tanto su per giù con le stesse parole e la cui amarezza lasciava sospettare una ferita ancora sanguinante, il professor Frusti aveva l’abitudine di tracannare un bicchiere di vino. Qualche volta, se la signora Pasqua era presente (ed ella usava dar di quando in quando una capatina in salotto da pranzo per sentir lodare i suoi manicaretti), egli si appellava al giudizio di lei ch’era uno spirito assennato e non aveva mai voluto esser confusa con le persone del suo sesso.
E la signora Pasqua approvava energicamente. — Parole d’oro — ella diceva con la sua voce grossa. — Son tutte tagliate sul medesimo stampo.
Le dispute fra i tre amici si prolungavano sovente durante la passeggiata e s’inacerbivano nelle sere in cui Teofoli, invece di andare in birreria coi colleghi, si recava dalla contessa Ermansi.
Poichè Frusti e Dalla Volpe non gli potevano perdonare questa sua debolezza. Com’essi non avevano mai accettato gl’inviti di quel bas bleu ch’era la Ermansi, così avrebbero preteso che non li accettasse lui e che non si prestasse gentilmente a far la parte di bestia rara nel serraglio della contessa.
II.
La conoscenza di Teofoli con la contessa Susanna Ermansi datava dal giorno ch’egli aveva tenuto all’Università una prolusione a cui assisteva il fiore della cittadinanza e nella quale erano adombrate le idee fondamentali dell’opera sull’origine delle religioni. Non si ricordava all’Università un trionfo simile. Che il Teofoli avesse ingegno e dottrina all’altezza del tema lo sapevano tutti, ma non tutti presumevano che insieme col filosofo non rifuggente da nessuna audacia dell’intelletto ci fosse in lui un poeta atto ad intendere ogni aspirazione dell’anima, ogni inquietudine della coscienza. Nulla nel suo discorso che ricordasse la critica superficiale, beffarda del secolo XVIII, ma una larga tolleranza, ma una simpatia schietta per tutti gli sforzi con cui l’umanità tenta di penetrare il mistero che ne avvolge, per tutte le ipotesi pie che il sentimento tramuta volentieri in certezze. Così, mentre gli uni applaudivano l’erudito, gli altri battevano le mani all’artista, che vestiva di forme elettissime gli astrusi concetti, e l’eleganti donnine, alle quali tra la messa, il magro e il confessionale non dispiace qualche spruzzo di libero pensiero, erano le più entusiaste ammiratrici del facondo professore che si faceva perdonare l’ardito razionalismo con un caldo soffio d’idealità.
In quel dì memorabile Teofoli non potè esimersi dall’esser presentato a una ventina di contesse, marchese, baronesse, eccetera eccetera, che andarono a gara per colmarlo d’elogi e per sollecitarlo a tener presto una serie di conferenze a cui esse si sarebbero fatte una festa d’intervenire.
Non c’è dubbio che la vanità dell’uomo era lusingata da questo incenso; tuttavia, egli non perdette il suo sangue freddo e non si lasciò prendere negli ingranaggi fatali del cosidetto bel mondo. Si schermì molto cortesemente dagl’inviti che gli piovevano da ogni parte, si schermì dal tener le conferenze che gli si domandavano, e di tante nuove relazioni che avrebbe potuto iniziare non ne accettò che una sola, quella della Ermansi, il cui salotto era frequentato anche da parecchi colleghi dell’Università e della quale egli conosceva da un pezzo il marito. Superba di questa preferenza, la contessa colmava il professore d’attenzioni e di regalucci; lo sapeva appassionato dei fiori e gli mandava le più belle rose del suo giardino; lo sapeva ghiotto delle frutta e gli mandava le primizie del suo orto; e quando il conte marito tornava dalla caccia il professor Teofoli era sicuro di ricevere dal palazzo Ermansi o un invito a desinare o il dono d’un capo di selvaggina, che, dopo esser stato oggetto delle cure più amorose da parte della signora Pasqua, era servito in tavola a uno dei soliti pranzetti con l’intervento di Dalla Volpe e di Frusti. In queste occasioni Teofoli diceva scherzosamente ai suoi due commensali: — Dovete pur convenire che la mia amicizia con la Ermansi ha il suo lato buono.
— Sì, sì, — borbottavano gli altri; — se tutto si limitasse a ricever dei regali di frutta e di selvaggina. Ma presto o tardi la Ermansi ti farà qualche brutto tiro.
— O che tiro volete che mi faccia? — esclamava Teofoli. — Farsi sposare no sicuramente. È maritata.
— Le donne maritate possono restar vedove.
— Il conte Antonio gode una salute di ferro. E in ogni caso la contessa è fuori di combattimento.
— Non si sa mai…. Del resto in casa sua ci vanno anche delle signore giovani.
— Oh che uccelli di malaugurio! — replicava Teofoli infastidito. — Per le giovani son vecchio io…. E sul serio, avete paura ch’io mi metta a fare il galante?
I due amici tentennavano la testa con aria lugubre, e Frusti sentenziava con la sua voce cavernosa: — Tutto è possibile.
In verità non era facile rappresentarsi il nostro Teofoli sotto l’aspetto d’uomo galante. In primo luogo gli mancava quello che i francesi chiamano le physique de l’emploi. Tozzo della persona, con una fisonomia espressiva ma irregolare, con certi movimenti bruschi e nervosi, egli non era mai stato l’Apollo del Belvedere. Nell’età critica in cui noi l’incontriamo, cioè a cinquant’anni sonati, egli aveva già la vista indebolita dalle lunghe veglie sui libri, aveva sull’ampia fronte i segni dell’intensa applicazione mentale, e i capelli radi e grigi non lasciavano nemmeno sospettare la chioma folta e ricciuta ch’era stata forse l’unica bellezza della sua infanzia. Vestiva con proprietà ma senza la minima ricerca d’eleganza; soprabito nero di taglio professorale, cravatta pur nera, calzoni e guanti scuri, cappello a tuba, occhiali fissi, mazza d’ebano col pomo d’avorio. Certo che a sentirlo discorrere si dimenticava la sua apparenza infelice. Non lo si poteva confondere coi Dalla Volpe, i Frusti e similia, che portavano la cattedra dovunque andassero. Egli era piacevole, arguto, alieno da qualunque pedanteria, e aveva uno spirito così largo e una cultura così varia che nessun argomento grave o leggero lo coglieva alla sprovveduta. E anche con le signore era amabile e disinvolto più che non si sarebbe supposto in un uomo tanto dedito agli studi. Non che di tratto in tratto non gli accadesse di commettere qualche goffaggine, di toccare qualche tasto falso, di dir qualche madrigale che sentiva di rancido e di stantìo, ma eran peccatucci veniali che gli si perdonavano volentieri, in grazia delle molte sue qualità.
Anzi alla contessa Susanna non bastava averlo frequentatore assiduo del suo salotto; ell’avrebbe voluto accaparrarselo per la sua villeggiatura. — Venga a passare un mesetto con noi…. due settimane almeno…. nel nostro romitorio di Sant’Eufemia, a tre ore dalla città, in luogo tranquillo, con aria salubre e vista incantevole…. Venga, venga. Farà un vero piacere a me e a mio marito…. E sarà in libertà piena…. Potrà portarsi i suoi libri, le sue carte, potrà studiare…. Da noi non ci sono cerimonie, non ci sono etichette…. Ospiti, o nessuno, o pochissimi, e gente alla buona…. Venga, venga.
Il conte Antonio faceva eco alla moglie. E pigliando a parte il professore, soggiungeva in segreto: — Se ci onora della sua visita le mostrerò la mia collezione di edizioni rare del 1600. La tengo in campagna per godermela nelle giornate di brutto tempo…. Qui ho altre occupazioni…. Ma in campagna quando non posso andare alla caccia non trovo divertimento maggiore che quello di starmene fra i miei vecchi libri.
Notiamo fra parentesi che chi avesse argomentato da ciò che il conte Antonio Ermansi fosse una persona colta avrebbe pigliato un bel granchio. Il conte Ermansi era un bibliomane; nulla più e nulla meno. Egli non amava i libri per sè, ma per le loro curiosità tipografiche. E anche le sue ricerche in proposito si limitavano al secolo XVII. La più preziosa opera stampata nell’anno 1599 non valeva per lui quanto la più stupida stampata nel 1601. D’altra parte, nello stesso secolo XVII egli non si curava affatto degli autori celebri, noti, i cui scritti erano stati pubblicati e ripubblicati; a’ suoi occhi non avevano pregio che gli oscuri, quelli che nessuno conosceva, quelli che forse in tutta la loro vita non avevano dato alla luce che un misero opuscolo di venti pagine. Già il conte Ermansi non leggeva nè i volumi grandi, nè i piccoli; una volta sicuro che del libercolo da lui scovato fuori su un muricciuolo non c’erano che cinque o sei esemplari in Europa, egli era contento come una Pasqua. Del resto, non era più noioso degli altri della sua specie.
Comunque sia, è probabile che la collezione del conte Ermansi esercitasse una scarsa attrattiva sul professore Teofoli e contribuisse a fargli rimandar da un autunno all’altro l’accettazione dell’invito. Egli si scusava adducendo la sua antica abitudine d’intraprender nelle vacanze un lungo viaggio fuori d’Italia, a Parigi, a Vienna, a Berlino, a Londra, a Edimburgo, allo scopo di rovistar biblioteche, di annodare o di rinfrescar conoscenze coi confratelli di studio sparsi pel mondo. Guai per lui se cedeva alla tentazione d’impigrirsi negli ozi campestri.
Ma gli Ermansi non si davano per vinti. No, no, badasse a loro. Un po’ di quiete è indispensabile sopratutto agli uomini che affaticano molto il cervello. Avrebbe lavorato meglio dopo. In ogni modo, non si pretendeva ch’egli rinunziasso al suo viaggio. Avrebbe fatto un viaggio più breve, ecco tutto…. Anzi, se si fosse trovato male, sarebbe ripartito il giorno dopo il suo arrivo, senza che nè lei nè suo marito se ne adontassero…. Ma s’immagini. Con un vecchio amico!…
Alla lunga Teofoli si lasciò carpire una mezza promessa per l’autunno 187…. Non voleva impegnarsi, ma insomma, se gli era possibile, al ritorno dalla Germania sarebbe passato a fare una visitina a Sant’Eufemia.
E avvenne proprio così.
III.
Dalla Volpe e Frusti non seppero nulla di questa visita. Nelle vacanze i tre indivisibili si dividevano. Quell’originale di Dalla Volpe, appena finiti gli esami, partiva per ignota destinazione, guardandosi bene di dare a chicchessia il suo indirizzo. Non voleva che la moglie potesse raggiungerlo nè con la persona nè con le lettere. — Il mio matrimonio — egli diceva — non mi accorda ormai altro benefizio che questo; di poter viver tre mesi lontano dalla mia dolce metà, di starmene pacificamente in qualche angolo remoto del mondo cullandomi nella beata illusione d’esser scapolo o vedovo, o pensando almeno che la cara Luisa urla, strepita, sbuffa ed espia i suoi vecchi peccati senza di me.
Fedele al suo programma, durante le sue assenze non scriveva a nessuno. Un anno lo si era visto in una dello stazioni alpine più romite e solitarie; l’anno dopo si seppe ch’egli era in Egitto alle rovine di Tebe dove corso il rischio di morire da un colpo di sole pigliato nel decifrar geroglifici…. Ma neanche la paura dei colpi di sole l’avrebbe indotto a rinunziare a quello ch’egli chiamava il suo bagno nel celibato.
In quanto a Frusti, egli rimaneva sepolto dal luglio all’ottobre d’ogni anno in qualche biblioteca d’Europa a ricercar documenti relativi a Francesco I e a Carlo V. E ogni nuova scoperta era per lui una grandissima gioia; non però una gioia senza mistura d’amaro, accadendogli spesso di trovare un documento favorevole a Francesco I quand’egli stava per mostrar le sue simpatie a Carlo V e uno favorevole a Carlo V quand’era sul punto di giungere a una conclusione opposta.
Per solito Frusti e Dalla Volpe erano di ritorno dalle loro peregrinazioni soltanto dopo l’amico Teofoli, il quale nel suo zelo per l’Università non voleva mancare nemmeno alla prima seduta del Consiglio accademico. Si pensi quindi che maraviglia fosse la loro quando, arrivati a X la mattina stessa dell’apertura dei corsi, seppero che Teofoli non sarebbe giunto che fra due o tre giorni. Peggio poi quando udirono il resto dalla signora Pasqua scandalizzata. Il professore era stato in Germania sino alla metà di ottobre; poi s’era fermato un paio di giorni nella villa dei conti Ermansi; di là era venuto a casa per poche ore, tanto da comperarsi alla sartoria della Ville de Rome un vestito completo e da far qualche altra spesuccia; e la sera stessa, senza dire nè ai nè bai, senza voler dare una spiegazione soddisfacente a lei, la signora Pasqua, che pur ne aveva diritto, aveva ripreso il treno per Sant’Eufemia. Ah c’era del buio, molto buio. Un uomo come il professore Teofoli, un uomo ch’era stato sempre così savio, così costumato!…
Frusti e Dalla Volpe si guardarono tentennando il capo. L’avevano sempre detto che la relazione degli Ermansi doveva esser fatale al loro amico.
La condotta del nostro Teofoli al suo ritorno non tardò a giustificare le maggiori apprensioni. Già bastava vederlo per capire che non era più quello di prima. C’era nella sua toilette, nella sua andatura, nell’espressione della sua fisonomia qualcosa di civettuolo che lo rendeva irriconoscibile. Dal rettore al bidello, dai professori agli studenti tutta l’Università era commossa da questa trasformazione. Ogni giorno se ne sentiva una di nuova. Teofoli s’era abbuonato dal parrucchiere, e aveva il fazzoletto impregnato d’acqua di Colonia! Teofoli aveva ordinato al confettiere Grandi di spedire a Sant’Eufemia (ove gli Ermansi si trovavano ancora) una colossale scatola di dolci! Teofoli s’era comperato due cravatte di raso color crema e un paio di lenti da sostituirsi in certi casi agli occhiali, troppo solenni e cattedratici! Teofoli, invece della sua mazza d’ebano col pomo d’avorio, aveva un leggero bastoncello di canna d’India! Teofoli aveva minacciato di licenziare la signora Pasqua s’ella si permetteva di seccarlo con le sue querimonie!
Nè le osservazioni dei due indivisibili erano accolte meglio. Egli si meravigliava delle loro meraviglie. S’era forse impegnato a vestir sempre ad un modo? O che un professore non potrà mettersi una cravatta di raso chiaro e farsi ravviare dal parrucchiere i pochi capelli che gli restano? Credevano di giovare alla scienza con simili pedanterie? No, no, egli era persuaso che quell’abisso voluto scavare fra gli studiosi ed i semplici mortali era un ostacolo alla diffusione del sapere. In quanto a lui era risoluto a esser un uomo come tutti gli altri, e non trovava necessario di andar a pescare dei motivi misteriosi a una determinazione così naturale.
— Teofoli, non ce la dai ad intendere — dicevano sarcasticamente Frusti e Dalla Volpe. — Tu non ti profumi d’acqua di Colonia per agevolar la diffusione del sapere. Qui sotto c’è una femmina.
Il professore alzava le spalle in atto stizzoso. — Che femmina, che femmina?
Ma ogni volta che gli toccavano questo tasto, diveniva rosso come un papavero.
Che la femmina ci fosse non c’era dubbio. Restava a sapere chi fosse.
Era evidente che Teofoli doveva averla incontrata in villeggiatura dagli Ermansi ove quell’autunno c’era stata più gente del solito, e ove con una magnanimità degna di lode la contessa Susanna, riconoscendo la propria insufficienza fisica, aveva invitato anche cinque o sei signore giovani e belle. La più bella, la più giovine era la contessa Giorgina Serlati, sposa da due anni di un lontano parente degli Ermansi, vissuta fino allora tra Roma e Parigi e rassegnata adesso, per riguardi di economia, al soggiorno meno costoso di X…. Questa Giorgina non s’era vista a X che di passaggio subito dopo il suo matrimonio, e aveva prodotto una notevole impressione per la singolare avvenenza dell’aspetto e per la festività un po’ rumorosa e bizzarra del carattere. La dicevano adesso ancora più seducente, ancora più originale; insomma una di quelle che paiono nate apposta per corbellare gli uomini. Aggiungasi un marito melenso, insignificante, persuaso da un pezzo della vanità d’ogni suo tentativo d’invigilar la moglie, e disposto a chiuder un occhio pur di esser libero d’occuparsi de’ suoi cavalli e delle sue galanterie di bassa lega.
Che fosse mai questa la donna che faceva girar la testa al professore Teofoli? È ben vero ch’egli poteva esser suo padre; ma non importa. In amore, le bestialità più grosse sono le più probabili, e non c’era da stupirsi se Teofoli a cinquant’anni sonati aveva preso una cotta per una donna di ventidue o ventitrè. In ogni caso, la faccenda si sarebbe chiarita appena gli Ermansi avessero abbandonato la villeggiatura, tirandosi dietro gli ospiti che rimanevano ancora presso di loro. E i Serlati erano appunto tra questi.
Ora il 25 novembre di quell’anno il professor Teofoli finì la sua lezione dieci minuti prima che il bidello suonasse la campana, e, congedandosi nell’atrio da tre o quattro studenti che avevano l’abitudine di accompagnarlo a casa, entrò in un fiacre appostato presso il portone dell’Università.
— O dove andrà il professore? — chiesero due di quei bravi giovinotti.
— Ve lo saprò dire più tardi — soggiunse un terzo che non aveva fretta di far colazione. E senza por tempo in mezzo montò in un altro fiacre che passava di là ed era vuoto.
Teofoli non si recava in nessun luogo illecito e misterioso. I due fiacre si fermarono alla stazione. Il professore discese dal suo e lo studente fece lo stesso; il professore si mise a passeggiare su e giù in atto d’uomo che aspetta, lo studente andò a sedere al caffè.
Circa dieci minuti dopo giunse una corsa, e Teofoli ch’era riuscito a spingersi fin sotto la tettoia ricomparve in mezzo a una folla di persone tra le quali lo studente riconobbe i coniugi Ermansi. Ma più dei coniugi Ermansi lo colpì una signora giovine, alta, bellissima, dai grandi occhi bruni che lampeggiavano sotto la veletta, dal corpo svelto e flessuoso, dalla voce argentina, squillante. La seguiva a pochi passi di distanza un uomo pur giovine, in soprabito grigio, dall’aria annoiata, certo il marito. Al fianco di lei c’era Teofoli e le parlava animatamente, e teneva sul braccio un suo impermeabile, e si tirava dietro col cordino una cagnetta pinch alla quale la bella signora slanciava degli sguardi teneri chiamandola a nome: Darling, Darling. Facevano parte della brigata altri tre o quattro signori, senza tener conto d’un codazzo di servi d’ambo i sessi, carichi di valigie, di sacchi da viaggio, di panieri, d’ombrelli e perfino di gabbie di canarini.
Fuori c’erano le carrozze, e la comitiva si divise con gran dimostrazioni di cordialità. Gli Ermansi salirono in un landau chiuso, l’altra coppia prese posto in un legno scoperto insieme con la cagnetta. Però nel momento che il cocchiere stava per allentar le redini sul collo dei cavalli la signora disse una parolina a Teofoli, e questi ch’era ancora ritto davanti allo sportello mise il piede sul montatoio e con una prestezza di movimenti di cui non lo si sarebbe creduto capace fu in un attimo nella carrozza seduto accanto alla bella persona che lo aveva invitato.
Rinvenuto appena dalla meraviglia di veder il suo professore dileguarsi in quell’equipaggio signorile e al fianco di quella splendida fata, lo studente colse a volo alcune frasi d’un colloquio fra due zerbinotti ch’erano arrivati anch’essi in compagnia degli Ermansi e che s’avviavano in città a piedi seguiti da un fattorino a cui avevano consegnato il loro piccolo bagaglio.
Uno di questi zerbinotti che lo studente conosceva di nome, il marchese di Montalto, diceva dispettosamente all’amico: — Alla lunga quel balordo di Teofoli dà sui nervi.
— Non crederai mica che la Serlati lo prenda sul serio?
— Lo so anch’io che non lo prende sul serio. È però una gran noia l’averlo sempre tra i piedi.
— Speriamo che quando ella lo avrà reso completamente ridicolo lo getterà da parte.
— Sì, sì…. intanto si rende ridicola anche lei.
— Oh — notò l’interlocutore che prendeva le cose con maggior calma — una donna bella come la contessa non si rende mai ridicola.
Lo studente non intese più di così, ma quello che aveva inteso, unito con quello che aveva visto, gli bastò per riferire ai suoi condiscepoli che la donna alla quale il professore Teofoli prestava i suoi omaggi era la contessa Serlati, una creatura deliziosa, nel primo fiore degli anni, un bocconcino insomma più adattato agli scolari che ai professori. E quei bravi ragazzi che pur volevano un gran bene a Teofoli, che lo consideravano un luminare della scienza, che l’avrebbero difeso accanitamente contro i suoi detrattori, provavano in quell’occasione una specie d’animosità contro di lui e si sentivano disposti a far eco a quel mezzo cretino del marchese di Montalto che con tanta disinvoltura gli aveva dato del balordo. Gli è che se non capita mai il momento in cui il balordo paia un uomo di spirito, ci sono anche troppi momenti nella vita in cui l’uomo di spirito pare, ed è davvero, un balordo.
IV.
Dunque non c’era più dubbio: il professore Teofoli era innamorato (spiritualmente, platonicamente) della contessa Giorgina Serlati. Questa malattia (non si poteva chiamarla con altro nome) l’aveva côlto in villa Ermansi e la contessa Susanna n’era dolente ed indispettita. Può darsi che nel suo dolore e nel suo dispetto entrasse un po’ di gelosia, poichè la Ermansi, senza essersi mai sognata che la sua relazione con Teofoli uscisse dai confini d’un’onesta intimità, s’era avvezza a considerare il buon professore come cosa sua e non desiderava ch’egli stringesse dimestichezza con altre famiglie. Ma sarebbe ingiusto il negare che i suoi sentimenti fossero dettati da una sincera amicizia. Le spiaceva veder incamminarsi per una via senza uscita un brav’uomo a cui ell’era affezionata, e avrebbe voluto salvarlo finch’era in tempo. Bisogna convenire però che l’impresa non era facile. Mettere in guardia un innamorato contro la sirena che lo affascina è probabilmente un aggiunger esca al fuoco ed è poi quasi sempre un farselo nemico. D’altra parte il dire a una donna galante che non lusinghi un suo corteggiatore pel male che potrebbe derivarne a lui è come parlare a un sordo. La donna galante non consentirà mai, senza una suprema necessità, ad assottigliare la schiera dei suoi cicisbei. Se ce ne sono di quelli che soffrono, di quelli che muoiono, tanto peggio per loro. Così le pratiche della contessa Ermansi non riuscirono che a render più freddi i suoi rapporti con Teofoli e con la Serlati. Il professore continuava a frequentar casa Ermansi, ma era sulle spine quando non ci trovava la Serlati, e quando ce la trovava non aveva pace finchè non l’era seduto vicino. La Serlati, dal canto suo, si godeva a mettere in burletta la Ermansi, e ne imitava i modi, i gesti, la voce, e la chiamava dottoressa e maestra di buoni costumi.
Ma insomma, si domanderà, che cos’era questa Serlati? E a quale scopo faceva ammattire quel povero Teofoli che non era giovine, che non era bello, che non apparteneva alla società ov’ella brillava come uno degli astri più fulgidi?
La contessa Giorgina Serlati era una civetta; e questa parolina di sette lettere è grave di significato. Essa è nel medesimo tempo un’accusa e un’attenuante. Perchè le civette di prima qualità, le civette di razza (e la Serlati era una di queste) hanno, voglia o non voglia, qualche cosa di spontaneo e d’irresponsabile che disarma le collere e tempera i rancori. Gli avvocati della forza irresistibile non potrebbero trovar campo più propizio alle loro eloquenti perorazioni. Quand’una è nata civetta, ella è tale senz’accorgersene, senza volerlo; vicina ad un uomo qualunque sia, sfoggerà le sue arti di seduzione, non perchè quell’uomo le piaccia, ma perchè non può a meno di far così. E se gli uomini saranno parecchi, avrà per ciascuno una preferenza, un’attenzione particolare. In un salotto, in un ballo, confiderà a questo il ventaglio mentre accorda un valzer a quello, permetterà che uno raccolga un suo guanto e che un altro raccolga un suo fiore, s’appoggerà voluttuosamente sul cavaliere che le dà il braccio, e lascerà cader uno sguardo pieno di simpatia sullo spasimante timido e sconosciuto che s’è messo sul suo cammino per vederla passare, per toccar un lembo della sua veste, per essere avvolto dal suo respiro. Susciterà desideri a cui non partecipa, speranze ch’ella non si sogna di appagare, rivalità che non si cura di estinguere, inconsapevole del male che fa, pronta a mostrare uno stupore ingenuo e sincero se vi sia chi osi rinfacciarglielo, perch’ella è convinta di far piuttosto del bene come fa il sole quando risplende sui forti e sugli umili. E il peggio si è che s’ella tenta correggersi e per un momento accenna a riuscirvi, ella perde le sue maggiori attrattive, onde quelli stessi i quali le rimproveravano la sua civetteria, le rimproverano il suo sussiego e la sua mancanza di naturalezza, e a lei non resta altro partito da prendere che di tornare ciò ch’era prima.
Quest’era il caso della contessa Serlati. Per civetta era una civetta adorabile; se si fosse forzata a divenire una donna savia, assestata, casalinga, sarebbe parsa una creatura insignificante e melensa. Certo che non erano da invidiare coloro che si abbruciavano a’ suoi raggi, e il professore Clemente Teofoli era da invidiare meno di tutti. L’incontro della Serlati era stato per lui un colpo di sole ben più grave di quello che aveva minacciato l’esistenza del suo collega Dalla Volpe. Ella lo aveva sin dal primo istante domato con la sua bellezza e con la sua grazia, ell’aveva fatto vibrare in lui delle corde che non avevano vibrato mai, gli aveva aperto lo spiraglio d’un mondo ignoto al paragone del quale impallidivano anche le visioni luminose del vero in cui soltanto s’era fino allora appuntata la sua pupilla. Se si fosse chiesto a Teofoli che cosa desiderava, a che cosa credeva potesse approdare questa sua passione, egli non avrebbe saputo rispondere. O forse avrebbe risposto che non pretendeva nulla, che gli bastava viver presso a quella donna incantevole, pendere dalle sue labbra, inebbriarsi allo splendore de’ suoi occhi. E probabilmente, nell’entusiasmo che scalda i primordi dell’amore, avrebbe soggiunto che da quando la conosceva si sentiva la fantasia più feconda, l’intelligenza più alacre, e che l’opera da lui meditata nelle lunghe vigilie sarebbe giunta meglio a maturità ora che un dolce sorriso gli era in pari tempo inspirazione e compenso. Gl’innamorati cominciano col creder sempre così.
In quanto alla Serlati non c’era punto da maravigliarsi ch’ella accettasse gli omaggi di Teofoli come accettava quelli di tutti gli altri. E non era neanche così strano ch’ella mostrasse di aggradirli in modo speciale. La sua vanità era stata singolarmente lusingata dall’impressione fulminea ch’ella aveva prodotto sopra un uomo d’età matura, di costumi austeri, dedito interamente agli studi e celebre in Italia e fuori. Poichè le donne possono essere indifferenti alla dottrina e all’ingegno; non sono mai indifferenti alla celebrità. La contessa Giorgina pensava con ragione che di spasimanti della risma di Montalto ella ne avrebbe trovati a dozzine, ma che i Teofoli erano pochi e che non era piccola soddisfazione per lei l’averne uno aggiogato al proprio carro. Aggiungasi un’ultima particolarità della nostra bella contessa. Ell’aveva uno spirito leggero, superficiale; pur non si poteva negarle una certa prontezza e versatilità, una certa curiosità di sapere e d’apprendere. È poi naturale che queste doti non accoppiate a nessuna perseveranza, a nessuna fermezza riuscissero all’unico risultato di alloggiare nella sua povera testolina una serie di nozioni confuse e mal digerite.
Ecco, per esempio, a Parigi l’era venuto il ghiribizzo di studiar scienze fisiche e aveva preso alcune lezioni da uno scienziato che la corteggiava. Ma le prime difficoltà l’avevano sbigottita; se l’era presa col maestro che non sapeva insegnare, e gli aveva dato il ben servito e come professore e come galante. Più tardi, a Roma, era stata assalita da un nuovo capriccio. Avrebbe voluto imparare la pittura, ma avrebbe voluto impararla presto, non in modo da far dei quadri originali ma in modo da poter far delle copie. Non doveva esser così difficile il copiare. Un artista famoso che le bazzicava per casa ebbe l’insigne onore di dirigere quella mano gentile. Dopo qualche settimana la contessa perdette la pazienza. — Di questo passo, — ella esclamò infastidita, — ci vorranno cinquant’anni perchè io arrivi a dipingere passabilmente una testa.
L’artista, vedute le disposizioni della sua allieva, pensava che anzichè cinquanta gliene sarebbero voluti cento, e glielo fece intendere. Ma siccome aveva più spirito dello scienziato francese, glielo fece intender con garbo, offrendosi di avviarla in uno studio diverso, quello dell’archeologia.
La contessa accettò con trasporto. L’archeologia studiata a Roma, sotto una guida esperta e simpatica! Ma era una di quelle fortune da non lasciarsi scappare. E poi il dedicarsi all’archeologia era un prender due piccioni a una fava; era uno studiare, con la storia dei monumenti, la storia di Roma, senza noia di libri, nelle condizioni più propizie possibili, parte in carrozza, parte a piedi, quasi sempre all’aria aperta. In conseguenza di ciò la bella contessa fu vista tra i ruderi della città eterna, insieme col celebre artista, intenta a prender note sul suo taccuino, ora al Campidoglio, ora al Foro Romano, ora al Palazzo dei Cesari, o al Colosseo, o alle Catacombe, o alle Terme di Caracalla. Per i primi due giorni l’accompagnò il marito. Diavolo! Non era mica conveniente che una signora della sua età girasse sola per Roma con un estraneo. Ma que’ due giorni misero a troppo dura prova le forze del conte Serlati. Alzarsi presto la mattina, trascurare i suoi cavalli e il suo club per veder quattro sassi e sentir degli sproloqui sui primi abitatori del Lazio e sulla fusione dell’arte greca con l’arte romana? Ah, non era affare per lui. Ed egli tentò di persuader sua moglie che non sarebbe stato nemmeno affare per lei. Ma ella tenne fermo. Non era così volubile, sebbene la dicessero tale; non intendeva troncare uno studio così bene incominciato. In quanto a lui, chi lo costringeva a seguirla? Non credeva ch’ella sapesse custodirsi da sola? Riluttante sul principio, il conte finì col lasciarsi persuadere. E la eccentrica signora continuò le passeggiate archeologiche col suo cicerone. Continuò per un paio di settimane, miracolo di perseveranza, chi consideri il suo carattere. È vero che badando alle chiacchiere dei maligni, la bella contessa e il celebre artista non si occupavano soltanto di archeologia. A ogni modo, passate le due settimane, la contessa Giorgina dovette riconoscere che anche l’archeologia ha i suoi inconvenienti. O le bisognava trascurare i suoi alti doveri sociali, o rinunciare ad aver mai un momento di quiete. Arrivava dalle sue conoscenti ansante, trafelata; i suoi adoratori non la trovavano mai in casa; la sera, nei salotti, le accadeva di esser côlta da un’invincibile sonnolenza. Le amiche la canzonavano. Sei matta? Vuoi diventar socia dell’accademia dei Lincei? Non ti accorgi che per poco che la duri sarai la favola del paese? E non capisci che ti comprometti? Che ti si crede più invaghita dell’archeologo che dell’archeologia? Se vedessi poi come ti sciupi la pelle! Perdi ogni freschezza, finirai col farti la carnagione di quelli che stanno esposti all’aria ed al sole.
Questo pronostico recò il colpo di grazia alla vocazione della contessa per lo ricerche archeologiche.
Pareva anzi che si fossero acquetate in lei definitivamente le curiosità intellettuali e ch’ella fosse rassegnata a esercitar le sue forze soltanto nel campo della galanteria ove non c’era chi potesse contrastarle la palma. Ma l’incontro con Teofoli a Sant’Eufemia riaccese uno de’ suoi fuochi di paglia. Alcune parole ch’egli disse una sera intorno a Spinoza la invogliarono della filosofia. Quello doveva essere uno studio attraente, quando si potesse avere un professore come Teofoli, un uomo che rendeva chiari i soggetti più astrusi. O se Teofoli avesse voluto! Figuriamoci se non voleva! Sarebbe stato per lui un onore, una felicità. Egli si metteva a sua disposizione e adesso in campagna e più tardi in città, alle ore che lei desiderava, anche tutti i giorni…. anche tutto il giorno se a lei fosse piaciuto — egli concluse con enfasi e infiammandosi in volto.
Troppe grazie!… a lei bastava una infarinatura, quella che può occorrere a una donna, specialmente sulle dottrine di Spinoza.
Perchè a una donna dovesse occorrere specialmente la conoscenza, sia pure superficiale, delle dottrine di Spinoza è piuttosto difficile a intendere. Ma Teofoli non volle contraddire alla sua bella discepola e si accinse con molto fervore a spiegarle i principii cardinali su cui si appoggiano l’Etica e il Trattato teologico politico del sommo Olandese. Questi dotti colloqui succedevano per solito nel giardino degli Ermansi, nell’ora in cui gli altri usavano ritirarsi nelle proprie camere, e vi partecipava la cagnetta Darling, la quale aveva un debole per le gambe del professore, e non avrebbe rinunziato per tutto l’oro del mondo a mordergli almeno i calzoni. Onde accadeva sovente che i discorsi sull’Ente assoluto e sulla legge di causalità fossero interrotti dalle sommesse e quasi carezzevoli proteste del filosofo minacciato nella sua integrità personale e dalle rampogne più severe della contessa contro il poco rispettoso quadrupede. Talvolta c’erano altri motivi di distrazione. La Serlati aveva qualche suggerimento da dare al professore Teofoli circa alla sua toilette. Quella cravatta col fiocco fisso non era di buon gusto; quei polsini staccati dalla camicia non si usavano più; quei colletti troppo alti erano da notaio, eccetera, eccetera. L’ottimo professore pendeva dalle labbra della sua scolara e s’impegnava a seguirne in tutto e per tutto i consigli. — Chi non imparerebbe con una tal maestra? — egli diceva entusiasta. Ed ella replicava compiacente e lusinghiera: — È cosa reciproca, caro Teofoli, è cosa reciproca…. Mutuo insegnamento.
Quelle erano ore deliziose per Teofoli. C’era però il rovescio della medaglia. Quando la contessa era insieme col marchese di Montalto e con altri giovinastri della stessa risma, ospiti come lei degli Ermansi, ella dimenticava interamente la filosofia ed il filosofo. O se ne ricordava soltanto per scherzarne…. scherzi senza dubbio argutissimi, ma che il nostro egregio amico gustava limitatamente, quantunque egli si affrettasse a dichiarare che tutto stava bene su quella bocca di rosa.
Già, per disinvolto che volesse parere, alcune cose gli mettevano addosso un’inquietudine, un cruccio grandissimo. Si rodeva di non poter seguirla nelle sue cavalcate con quei capiscarichi, ma più di tutto si rodeva se nel dopo pranzo, allorchè l’intera compagnia era raccolta sul terrazzo, la bella donnina si allontanava in silenzio e scendeva in giardino con Montalto o con altri perdendosi in quei viali, in quei boschetti ove poche ore prima egli l’aveva intrattenuta in dotti ragionamenti frammezzati di silenzi, di sospiri, di discrete allusioni che dovevano farle capire la sua passione rispettosa e profonda. Chi sa se Montalto sarebbe stato così riservato? Il professore Teofoli se la prendeva col conte Ercole, il marito, il quale fumava tranquillamente discorrendo di cani e di cavalli con Ermansi senza neppur badare alla moglie. Ah mariti, mariti! Paion fatti apposta per tirarsi addosso le disgrazie. Però Teofoli non poteva a meno di fare in cuor suo qualche rimprovero anche alla contessa Giorgina. Che gusto doveva trovarci una donna come lei a prestare orecchio a dei libertini che non avevano nè ingegno, nè spirito, nè coltura? Oh, su questo punto Teofoli non s’ingannava. Egli aveva buon naso. Di Montalto, per esempio, egli parlava ex informata conscientia; avendolo avuto anni addietro per scolaro all’Università. Uno scolaro che non assisteva mai alle lezioni, che doveva ripeter tre o quattro volte gli esami e a cui si finiva coll’accordare il passaggio per non vederselo più davanti agli occhi. Ecco, la contessa Giorgina faceva male, proprio male a perdere il suo tempo con quel balordo…. Ah se Teofoli avesse potuto immaginarsi che Montalto dava del balordo a lui, e che, in quel momento, un giudice imparziale sarebbe stato in un bell’impiccio a dire chi dei due avesse ragione!
V.
Sarebbe un’offesa alla verità l’affermare che, dopo la villeggiatura, i colloqui filosofici della Serlati con Teofoli procedessero molto regolarmente. Le occupazioni della bella contessa non lo permettevano. Quantunque la sua dimora a X fosse piuttosto un esperimento che altro, ed ella si fosse accomodata provvisoriamente in un quartierino ammobigliato, ella non intendeva vivervi nell’ombra e aveva quindi da far visite e da riceverne, da conferire con la sarta, con la modista, col gioielliere, da prepararsi insomma a passar bene il prossimo carnevale. Inoltre, con tutto il rispetto per Spinoza, ella era forzata a confessare che lo trovava più noioso del bisogno. Non si sarebbe potuto, a tempo opportuno, occuparsi di Darwin, di Spencer?… Ma sicuro; il professore non desiderava di meglio. Egli ammirava que’ due illustri pensatori; anzi con Darwin era stato e con Spencer era in corrispondenza; figuriamoci se non si sarebbe volentieri fatto interprete del loro pensiero con la contessa Giorgina! — Va bene, va bene, — ella disse — sarà per la quaresima.
Se, per le gravi ragioni che sappiamo, la Serlati non si dedicava con fervore agli studi, è innegabile però ch’ella seguitava a mostrarsi singolarmente benevola al nostro professore. Gli aveva regalato una sua fotografia ch’egli custodiva come una reliquia dentro un cassetto per non esporla a sguardi profani; lo invitava a desinare da lei un paio di volte per settimana, lo riceveva anche di giorno, a qualunque ora, quand’era in casa, lo avvertiva delle sere ch’ella andava a teatro, lo eccitava a lasciarsi presentare a due o tre famiglie che avrebbero aperto i loro salotti in carnevale. Queste sollecitazioni trovavano in principio il Teofoli renitente; egli pensava alle sue care abitudini, alle sue serate tranquille, al suo studio, a’ suoi fidi compagni; ma d’altra parte se quello era l’unico modo di veder spesso la contessa Giorgina, se, rifiutando, si correva il pericolo di disgustarla? Ond’egli fece violenza alla sua indole e comparve qualche volta a teatro e consentì a frequentare qualche nuovo salotto. Non che vi si divertisse; ah questo no. A teatro egli badava poco alla scena; dal suo posto di platea guardava al palchetto della Serlati ch’era sfolgorante di bellezza e di grazia e intorno alla quale c’era un nugolo di adoratori. Per andare a salutarla egli avrebbe voluto cogliere un momento in cui non ci fosse nessuno, ma questo momento non capitava mai e gli conveniva pur risolversi a entrare nel palchetto pieno. E dopo esser riuscito con fatica a darle la mano sedeva in un angolo, assordato dal cinguettìo di tutta quella gioventù frivola ed elegante che discorreva di balli, di toilettes, di sposalizi, d’intrighi amorosi. Tuttavia la contessa Giorgina non lo dimenticava, e rivolgendosi a lui con la sua voce flautata gli chiedeva il suo parere sullo spettacolo. E siccome per poco ch’egli fosse stato attento era stato certo più attento di lei, egli si accingeva ad esprimere coscienziosamente i propri giudizi, ma gli era forza smetter subito, o perchè la sua interlocutrice passava ad altro argomento, o perchè la porta del palchetto s’apriva a nuovi visitatori. Naturalmente i primi arrivati dovevano cedere il posto, e così, a mano a mano, quelli giunti dopo si avanzavano dal fondo alla fronte del palco e si avvicinavano al posto d’onore. Ma non ci rimanevano un pezzo, cacciati com’erano dai sopravvenienti. Teofoli attendeva anch’egli il suo turno, sedeva per un istante a fianco o dirimpetto alla contessa, e poi se ne tornava alla sua poltroncina, o più sovente abbandonava addirittura il teatro, riportandone un misto d’impressioni dolci ed amare. Egli aveva un bel dire a sè stesso che una donnina come la Serlati non poteva a meno di aver una folla di relazioni, e ch’era da aspettarsi di vederla cinta da uno stuolo di spasimanti; aveva un bel dire che tutte lo signore giovani, avvenenti, ricche, spiritose sono quasi costrette a menar l’identica vita; ciò non bastava a calmar l’inquietudine de’ suoi nervi. La Giorgina (tra sè e sè egli la chiamava così) a ventidue o ventitrè anni appena avrebbe avuto necessità di una guida, non avrebbe dovuto esser lasciata esposta a tutte le tentazioni. Quel suo marito era d’una leggerezza! Non si curava nemmeno d’assumere informazioni sul conto di quelli ch’eran presentati a sua moglie! E ce n’erano d’ogni specie; ufficiali e forestieri per la massima parte, gente che di punto in bianco avrebbe preso il volo per lidi ignoti e che dalla instabilità del domicilio era resa pressochè irresponsabile.
In società Teofoli faceva le medesime riflessioni, aveva le medesime angustie che in teatro. Non era possibile giungere fino alla contessa che oltrepassando una barriera di galanti cosmopoliti. Con la sua innata affabilità che diceva: — Buona sera, Teofoli, — lo eccitava ad accostare una sedia, e a mettersi anch’egli nel suo circolo. Ma quand’egli cedeva alla tentazione non tardava a trovarsi a disagio, egli uomo più che maturo fra tanti giovani, egli uomo grave fra tanti scapati. Si vedeva squadrato dalla testa ai piedi, notava un fondo d’ironia perfino nella deferenza che gli si mostrava. Involontariamente correva col pensiero alla sua cameretta raccolta, alla sua solitudine pensosa, alla sua biblioteca, a’ suoi quaderni, alla sua grande opera storico-filosofica a cui le mutate abitudini gl’impedivano di attendere come avrebbe dovuto. E suo malgrado lo assaliva un rimpianto di quei tempi tranquilli, di quelle laboriose giornate che gli costavano tanto minor fatica delle distrazioni presenti. Allora le sue distrazioni si limitavano alle passeggiate con Dalla Volpe e con Frusti, che ormai gli tenevano il broncio, alle due sere per settimana passate dalla Ermansi, che diveniva sempre più fredda verso di lui, che non gli mandava neanche più le sue rose dopo che aveva saputo ch’esse andavano a finire dalla bella contessa Giorgina. Tutta, tutta la vita di Teofoli era cambiata. E per causa di chi? Per causa della Serlati.
A mente fredda egli formava mille propositi eroici. Avrebbe diradato le sue visite, avrebbe cercato di esonerarsi dagl’inviti a pranzo, non sarebbe andato nè a teatro, nè in società, luoghi che non erano fatti per lui. Oh sì. Proprio negl’istanti in cui la sua risoluzione pareva più salda, qualche incidente imprevisto lo costringeva a mutar consiglio. È più facile a un gran generale di perdere una battaglia che a una civetta sopraffina di perdere un adoratore. Un istinto infallibile l’avverte del pericolo e le suggerisce il rimedio. La contessa Giorgina non intendeva rinunziare agli omaggi di Teofoli, ch’era certo il più vecchio, il meno chic de’ suoi vagheggini, ma ch’era anche il più illustre, quello che forse le voleva più bene di tutti, quello a ogni modo che non badava ad altre donne che a lei. E allorchè le sembrava ch’egli mirasse a emanciparsi, ella lo legava a sè con uno sguardo, con un sorriso, con una parola, con una preferenza spiccata. Le preferenze femminili, già si sa, sono servigi richiesti a ciascuno secondo le sue attitudini. Un giorno ella gli mandò un bigliettino così concepito:
“Caro Teofoli. Potreste stasera accompagnarmi a teatro? Non si tratta che di accompagnarmi e di restare al massimo una mezz’oretta in palco con me fin che capiti qualcheduno. In ogni caso, sul tardi verrà mio marito che ha non so quale impegno subito dopo pranzo, ma sarà libero prima delle undici. Se non mi manderete a dir nulla in contrario, vi aspetterò per le otto e mezza a casa mia. Scusate e prendete la mia indiscrezione come una prova della mia amicizia.„
VI.
Il professore era a casa Serlati alle otto e un quarto. Sulle scale egli trovò il conte Ercole che lo salutò cordialmente. — Bravo, professore. Lo ringrazio anch’io della sua gentilezza. Alla Giorgina non sarebbero mancati i cavalieri, ma noi abbiamo preferito lei.
— È un onore, un onore grandissimo, — biascicava Teofoli.
Il conte Ercole sorrise. — Basterà che rimanga finchè principia il turno delle visite. Non avrà tanto da aspettare. Mia moglie conosce ormai mezza città.
— Pur troppo, — avrebbe voluto rispondere il professore. Ma si contentò di protestare ch’egli era ben lieto di consacrar l’intera serata alla sua ottima amica.
Su in casa lo s’introdusse in un salottino bene riscaldato, bene illuminato, pieno di ninnoli altrettanto inutili quanto eleganti, e lo si pregò di attendere. La contessa finiva di vestirsi.
Di lì a pochi minuti ella comparve abbottonandosi i guanti e seguita dalla cameriera che teneva spiegata una mantellina di stoffa bianca con guarnizione di cigno.
— Lo sapevo bene che su voi si può fare assegnamento, — ella gli disse stendendogli la mano. — Avete anticipato.
— Oh…. di qualche minuto.
Ella si affacciò allo specchio. — Ecco, per non lasciarvi solo son venuta a compier qui la mia toilette.
Si rivolse alla cameriera. — Maria, infilami la mantellina.
La contessa Serlati quella sera era proprio un amore, con le sue belle braccia nude, con l’abito di raso nero aperto sul davanti, con un monile di perle intorno al collo di neve, e senz’altro ornamento in testa che una camelia d’un color roseo pallido che faceva spiccare il castano scuro de’ suoi capelli.
— Mi par di leggervi in cuore, — ella disse mentre dava un’ultima occhiata allo specchio. — Queste ]donne non finiscono mai di lisciarsi, di contemplarsi…. Tutte un impasto di vanità….
— Oh contessa….
— No, no, in fondo avete ragione…. Ma se siamo fatte così? Se la cura della nostra persona e del nostro abbigliamento è parte del nostro decoro, della nostra dignità?
— Ed è naturale, — rispose con galanteria il professore. — Quando la persona è un’opera d’arte merita bene il conto di occuparsene.
— Sempre gentile, — ella soggiunse avvicinandosi…. — Io però credo d’esser delle più spiccie a vestirmi…. Me ne appello alla Maria.
La cameriera chinò il capo assentendo.
— La carrozza? — domandò la contessa.
— È pronta.
— Andiamo allora.
Il professore Teofoli era stato più volte in carrozza con la contessa, ma solo con lei, di sera, in un legno chiuso, non c’era stato mai. Si sentiva al tempo stesso orgoglioso e turbato di quella vicinanza, di quel tepore, di quel profumo che l’avvolgeva. Dai lampioni della strada entravano ogni tanto dei fasci di luce nel landau, ed egli vedeva quella testina adorabile voltata dalla sua parte, quei grandi occhi scintillanti, quelle labbra rosee fatte per sorridere e per baciare…. Oh com’egli capiva che per un bacio di quelle labbra rosee si desse la vita!… Se avesse osato?… Ma l’età dell’audacia era passata da un pezzo…. E poi egli non era stato giovine nemmeno a trenta, nemmeno a venti anni…. come poteva esser tale a cinquanta?
— Non avete niente da raccontarmi? — disse a un certo punto la Serlati. — A che pensate stasera?
— Penso, — replicò il professore, — al dottor Fausto che dopo esser invecchiato sui libri assimilandosi quasi tutto lo scibile umano, vendette l’anima al diavolo per tornar giovine e farsi amare da Margherita.
— E che c’entrano Fausto e Margherita in questo momento?
— Oh più di quello che non creda, contessa.
— Lasciamo stare Margherita. Sareste voi Fausto?
— Sono di quella famiglia…. Meno sapiente, s’intende.
— Meno vecchio piuttosto.
— Uno è vecchio appena ha cessato d’esser giovine.
— E vendereste l’anima al diavolo?
— Forse sarebbe inutile offrirgliela. Il diavolo è diventato più positivo e s’è accorto che le anime non valgono quello che costano.
— Però voi non credete al diavolo, — soggiunse maliziosamente la contessa.
— Credevo di non credervi.
— E avete mutato opinione?
— Sono problemi gravi.
— Ah Teofoli, — disse la Serlati con uno di quei bruschi passaggi di cui le donne hanno il segreto, — che ce n’è delle nostre conferenze di filosofia, del nostro Spinoza, del nostro Darwin, del nostro Spencer?
— Cara contessa, — ribattè il professore, — sa bene che dal canto mio….
— Lo so, lo so, non è colpa vostra…. Ma vedete voi pure se ho un momento di quiete…. V’avevo anche promesso di venir a vedere le fotografie di quegli omenoni nel vostro studio.
— Magari venisse! — proruppe Teofoli. — Non ardisco sperarlo.
— Avete torto…. Forse sarei venuta se non temessi di esser morsicata dal vostro Cerbero.
— Che Cerbero?
— La vostra governante, la vostra cuoca, quello che è insomma.
— La Pasqua?
— Si chiama Pasqua? Un nome stagionato, da persona matura…. Ebbene, scommetterei che quella donna lì non mi può soffrire….
— Che idee!
— Ma sì; è naturale…. dev’essere uno spirito metodico la vostra signora Pasqua. Deve averla con me per la rivoluzione che ho portato nelle vostre abitudini.
Il professore seguitava a negare, ma in cuor suo riconosceva che la contessa Giorgina aveva colto nel segno. Che donna perspicace!
— In ogni modo, — egli insinuò timidamente, — dal tocco alle tre la Pasqua non c’è mai.
— Davvero?
— Sono le sue ore di libertà…. Non ci rinunzierebbe a nessun patto.
— Eh, allora…. chi sa che un bel giorno quando meno ve l’aspettate….
— Contessa, cara contessa, — esclamò Teofoli ingalluzzito. — Parla sul serio?
— Sicuro.
— E quando verrà?
— Oh questo poi…. Non ha da essere una sorpresa?
— No…. riflettendoci bene…. potrei aver gente…. potrei esser fuori.
— È giusto…. Allora vi avvertirò un giorno prima…. È inutile far chiacchiere intanto….
— Si figuri….
E il professore strinse con entusiasmo la mano che la Giorgina gli porse quasi a conferma della sua promessa.
La carrozza si fermò sotto la loggia coperta del teatro.
Teofoli aiutò la sua dama a scendere, e dandole il braccio attraversò pomposamente il vestibolo. Camminava con la testa alta, con passo leggero ed elastico; gli pareva di aver vent’anni.
Ma l’apparizione del giovine marchese di Montalto sul primo pianerottolo dello scalone gli fece l’effetto d’una doccia fredda. Il marchese si mise subito al fianco della contessa, ed entrò in palco con lei e col professore. Egli rivolse alla Giorgina mille complimenti sulla sua bellezza, sul buon gusto della sua toilette, e passando in rassegna col cannocchiale le varie signore che c’erano in teatro sentenziò che nessuna, proprio nessuna, poteva reggere al confronto di lei. Nella quale opinione Teofoli consentiva interamente; gli seccava però che la cosa fosse detta da Montalto, e più ancora che la Serlati mostrasse di gradirla tanto e scherzasse con quella testa di legno e gli concedesse una strana familiarità.
A poco a poco sopraggiunsero i soliti visitatori, i soliti cicisbei sguaiati, svenevoli con cui la Giorgina aveva il torto di ridere e di divertirsi.
— Ormai, — ella disse a Teofoli, — sono ben custodita, e non voglio tenervi prigioniero. Grazie della vostra cortesia.
Fatto si è che nel palco non ci si stava più e che il professore non poteva insistere per rimanere.
Al garbato congedo della contessa egli rispose:
— Scendo in platea…. Ripasserò sul tardi per sentire se le occorre nulla.
— Ma no, non vi disturbate, — ella insistè con un principio d’impazienza. — Che cosa deve occorrermi?
— Però…. se non venisse suo marito…. per riaccompagnarla in carrozza….
— Mio marito verrà certamente.
— In ogni caso ci siamo noi, — gridarono all’unissono i presenti.
— Vedete che i cavalieri non mi mancano, — soggiunse la Giorgina. — Buona notte, Teofoli, e grazie di nuovo.
E nel palco fu un coro di — Buona notte, professore, buona notte, — con certe inflessioni di voce che davano alla frase innocente il significato di: — Se ne vada, si spicci, non secchi più.
— Già, i cavalieri non le mancano, — borbottava l’ottimo professore scendendo le scale. — Voglio sperare ch’ella li stimi per quello che valgono. Con l’ingegno che ha non dovrebbe prender lucciole per lanterne…. Quel marito però è un gran minchione.
Giunto nell’atrio, Teofoli non seppe resistere alla tentazione di fermarsi alquanto in platea, ove, non avendo sedia chiusa, stette ritto in mezzo alla folla con gli occhi fissi al palco 24 di prima fila ch’era quello della Serlati.
Era un gran cicaleccio in quel palco, e di tratto in tratto dal basso salivano dei tss, tss prolungati all’indirizzo dei disturbatori. Due vicini del professore si sfogavano a sparlare di quelle dame in generale e della Serlati in particolare che soggiornava da pochissimo tempo a X e quantunque fosse sposa da soli due anni faceva già discorrer sul conto suo come le veterane. Il nostro amico sudava freddo a sentir questi orrori, e avrebbe voluto ricacciar lo parole in gola a quei bifolchi. Ma come promuovere uno scandalo alla sua età, nella sua posizione sociale?… E poi non era peggio anche per la contessa Giorgina? Non era un dare il nome di lei in pascolo al pettegolezzo cittadino? No, no, era più savio consiglio l’andarsene.
Mentre Teofoli agitava in mente questi pensieri, al parapetto del palco N. 24 di prima fila s’affacciava il conte Serlati e con la sua presenza rimoveva gli ultimi scrupoli dall’animo del professore. Ormai c’era il marito, e di lui non si aveva più bisogno.
Egli uscì dunque dal teatro. Ne uscì con la testa confusa, col cuore in tumulto, con quello strano miscuglio d’impressioni e di sensazioni contrarie ch’egli provava sempre dopo esser stato con la Giorgina. Mai, mai una volta da poter dire senz’ambagi: — Oggi sono contento. — Ma fors’è così nella vita; ove c’è intensità di gioia c’è intensità di dolore.
Però, nel rifare la strada di casa e di mano in mano che l’aria fresca metteva un po’ d’ordine nelle sue idee, Teofoli diceva a sè stesso che quella sera egli aveva un gran torto di pensare ad altro che alla promessa dolcissima fattagli ripetutamente dall’amabile contessa; quella di venirlo a visitare nel suo studio. È vero che di quest’argomento s’era già discorso in passato, ma se n’era discorso per incidenza, nè egli stesso vi si era trattenuto più che tanto, nè vi aveva attribuito un grande significato. Adesso era tutt’altro, adesso la Giorgina s’era impegnata in modo solenne, e con una cert’aria di mistero che aggiungev importanza alla cosa. Non c’è dubbio, la Serlati non veniva da lui come ci sarebbe venuta, per esempio, la Ermansi…. Ma come, come ci veniva? Con quali idee, con quali aspettazioni? Qui la mente del povero professore si smarriva in un pelago di congetture, ed egli sentiva alternarsi nell’anima audacie di leone e pusillanimità di coniglio, e avrebbe dati volentieri dieci degli anni che gli restavano a vivere per aver chiara e limpida davanti a sè la via da seguire. Ah, in fin dei conti, un po’ di pratica non è mai una disgrazia.
Insomma non è punto da far le maraviglie se dopo una serata così ricca di commozioni, il professore Clemente Teofoli non potè chiuder occhio per tutta la notte.
VII.
È una caratteristica delle civette quella di dare agli atti, alle parole più semplici un’apparenza che ne accresce la portata agli occhi degli ingenui. Ogni donna dice buona sera, buon giorno, arrivederci, ogni donna, se è stanca, accetta il braccio d’un cavaliere; se ha sete, lo prega di procurarle un bicchiere d’acqua; se le casca un guanto, lascia ch’egli lo raccolga; ma la civetta farà tutto ciò in un suo modo particolare. Nel buon giorno, nella buona sera ci sarà un languore sentimentale; nell’arrivederci ci sarà una promessa; nell’appoggiarsi ci sarà un molle abbandono; nel ringraziare d’un bicchier d’acqua portato, d’un guanto raccolto, ci sarà un’espressione tenera di riconoscenza piena di sottintesi.
Così, in via ordinaria, non v’è motivo di scandalo e di meraviglia nel fatto che una signora (e sia pur giovine e bella) vada una o più volte nello studio d’uno scienziato d’età matura e di reputazione illibata. E, in vero, abbiamo già detto che sulle prime il professore Teofoli non aveva messo malizia alcuna nella visita sperata della contessa Giorgina. Sarebbe stato certo un gran piacere per lui, ma la sua innocente galanteria non mirava più in là. Era stata la contessa con lo sue reticenze, col suo ordine di non dir nulla a nessuno che gli aveva messo il sangue in fermento. E come non aveva dormito la notte, così non seppe mettersi a lavorar di lena nei dì successivi. Dopo la sua lezione all’Università non riusciva a far altro. Nel suo insegnamento non si poteva scoprire il minimo sintomo di decadenza; la sua memoria, la sua dialettica erano sempre ammirabili, la sua parola era sempre limpida e colorita; anzi c’erano momenti ch’essa aveva un fascino maggiore dell’usato come di strumento a cui si sia aggiunta una nuova corda. Ma se il professore si manteneva all’altezza d’un tempo per ciò che riguardava le sue lezioni, lo scienziato non era più quello per l’assiduità nelle ricerche, per l’instancabile operosità del pensiero. E non era nemmeno più quello per la sollecitudine verso gli scolari dei quali una volta egli amava attorniarsi e che ora egli teneva sempre a una certa distanza. Peggio poi da quando aspettava la visita della Serlati. Bisognava assolutamente sviar quei ragazzi dal venirlo a cercare a casa. E se uno di loro gli diceva che sarebbe passato a disturbarlo per avereun libro in prestito, o per manifestargli alcuni suoi dubbi su qualche questiono un po’ controversa, egli aveva una sequela di ma, di se, di forse che scoraggiavano il sollecitatore. Ecco, in quanto al libro, gliene indicasse pure il titolo; glielo avrebbe fatto avere per mezzo del bidello. E circa ai dubbi che lo studente desiderava esporgli, s’eran tali da potersi risolvere lì per lì, valeva meglio spicciarsi subito; se no il giovine li mettesse in carta, ed egli avrebbe risposto nello stesso modo. Coi colleghi teneva un sistema analogo. S’isolava quanto più era possibile, insisteva sul suo gran da fare; suggeriva loro, se avevano da parlargli e non si sgomentavano dell’idea di aver fatto la strada inutilmente, di venir di sera, dalle sette allo otto…. Per solito, a quell’ora era in casa.
— Par d’essere nel deserto — borbottava la signora Pasqua. Ed ella che aveva in altri tempi molto brontolato pel continuo viavai della ragazzaglia, adesso brontolava perchè, a eccezione del postino, non c’era quasi nessuno che suonasse il campanello. E poi tutto andava alla peggio. Talvolta a metà della giornata, il professore annunziava che sarebbe stato a pranzo fuori, talvolta non si curava nemmeno di annunziar nulla, e all’ora del desinare non si faceva vedere. E non tollerava mica osservazioni. Oh sì. Era diventato un basilisco. — Se non v’accomoda, quella è la porta — ecco il suo ritornello.
Ah se la signora Pasqua non gli fosse stata affezionata, se non avesse trovato il suo tornaconto a stare al servizio d’un uomo solo! Non le restava altro conforto che quello di sfogarsi con le vicine e coi professori Frusti e Della Volpe, quando, venuti a cercar l’amico e non trovatolo avevano anch’essi la loro dose di fiele da versar nell’animo di qualcheduno. Già la signora Pasqua si conciliava subito la loro benevolenza col dir male delle donne. — Avevano ragione, avevano ragione da vendere. Le donne erano sempre la prima causa di tutti i mali. Non poteva rimaner dov’era, quel serpente, quella contessa che aveva reso irriconoscibile un uomo come il professore Teofoli?
Diceva ciò quasi a dipingerlo come la vittima di un incanto, di una malìa. Però i suoi interlocutori non ammettevano circostanze attenuanti. Se avesse avuto vent’anni, trent’anni, passi. Ma alla sua età? Non si è vittime quando non si vuol esser tali. Si fosse provata a civettar con loro, la signora contessa! Gli è che Teofoli aveva avuto sempre le sue debolezze per il bel sesso. Non aveva badato a chi gli presagiva che il salotto Ermansi sarebbe stato la sua rovina, aveva voluto girare intorno al fuoco e s’era bruciato le ali. Tanto peggio per lui!
Il più arrabbiato era il Della Volpe che non perdonava al collega di avergli fatto mangiare di magro a casa un venerdì inviandogli all’ultimo momento un biglietto per contrammandare il solito invito settimanale. Un’azionaccia, una vera azionaccia che lo aveva esposto ai sarcasmi della moglie e l’aveva costretto il giorno dopo a prendere il bicarbonato di soda per accomodarsi lo stomaco!
Del rimanente, anche quando i tre amici desinavano insieme, i loro ritrovi non avevano niente a che fare con quelli d’una volta. Le querimonie di Della Volpe contro la consorte viva e quelle di Frusti contro la defunta non sollevavano nessuna ilarità; alle galanterie di Teofoli non era lecito di fare il minimo accenno; i fatti della 19ª dinastia tebana e la rivalità di Carlo V e di Francesco I non riuscivano ad animare la conversazione; le virtù culinarie della signora Pasqua, per quanto apprezzate dai commensali, non ricevevano il debito tributo di lodi in causa dell’inappetenza dell’anfitrione. La signora Pasqua avvilita dal veder che il professore toccava appena le vivande, gettava sdegnosamente gli avanzi al gatto Tocci, dicendo che per poco che durasse così ell’avrebbe fatto la cucina soltanto per lui. — Ma già — ella proseguiva con aria sprezzante — tu non sei migliore del tuo padrone. Se ti salta qualche grillo, se la micia soriana dei nostri vicini ti fa qualche smorfia, pianti il cibo e la casa e corri dietro a quella poco di buono pegli orti e pei tetti. Bada però di non portartela qui dentro…. Se vi colgo state freschi…. Scandali non ne voglio.
La signora Pasqua, nel pronunciar queste gravi parole, non s’immaginava che il professore meditava appunto lo scandalo ch’ella non avrebbe perdonato a Tocci.
Erano trascorse due settimane dalla serata del teatro, nè la contessa Giorgina aveva più soggiunto una sillaba sul delicato argomento della sua visita. Dal canto suo il professore non osava interrogarla; cercava bensì che ne’ suoi occhi ci fosse la domanda che non osava salirgli alle labbra, ma non avrebbe potuto dire s’ella lo capiva o se voleva capirlo. Già, eravamo alle solite; ch’aveva sempre intorno a sè uno sciame d’oziosi, e, per quella sua benedetta fissazione d’esser cortese con tutti quanti, i vecchi amici si trovavano allo stesso livello dei nuovi arrivati. Teofoli non andava da lei senza dover subirsi una o due presentazioni. Il conte tale, il marchese tal altro. Bravissimi giovani piovuti dalle nuvole che a sentir il suo nome borghese chinavano appena la testa e a cui non passava neppure in mente che quel nome potess’essere più rispettabile e più conosciuto del loro. Che tirocinio d’umiltà deve fare un uomo d’ingegno allorchè si mette a corteggiare una donna galante!
Nondimeno, Teofoli era rassegnato a questo genere di mortificazioni. Ne avrebbe subìto in pace anche di maggiori se avesse potuto acquistar la certezza che la Serlati gli voleva un po’ di bene. Ma perchè quel contegno enigmatico? Perchè quel silenzio ostinato circa alla sua visita? Gliel’aveva o non gliel’aveva promessa? E come si può dimenticar così una promessa?
Ebbene, una sera nel venir via dalla conversazione dei Roncagli e proprio nel momento che il professore inghiottiva tanto veleno pensando alle paroline, ai sorrisi, alle occhiate che la contessa aveva scambiato fino allora con Montalto e con due o tre giovani ufficiali, ella colse un pretesto qualunque per avvicinarglisi e gli susurrò all’orecchio: — Aspettatemi domani, al tocco e mezzo.
Si pose il dito sulla bocca per intimargli silenzio, e senz’attender risposta diede il braccio a Montalto che l’accompagnò giù della scala fino alla carrozza.
Neppur volendo, Teofoli non avrebbe potuto rispondere. Era sbalordito, ammutolito, con la testa in combustione; sarebbe stato incapace di esprimere quel che provava. O fors’era simile al soldato che, dopo aver mostrato una grande impazienza di battersi, sente raddoppiar le pulsazioni del cuore nel vedere il nemico, e non è ben sicuro che quelle pulsazioni sian figlie tutte d’uno schietto entusiasmo.
VIII.
Il professore passò un’altra notte senza dormire (ormai la cosa gli accadeva spessissimo) e la mattina fu in piedi per tempo chiedendo a sè stesso se veramente fosse spuntato il giorno più memorabile della sua vita. In veste da camera entrò nello studio, quello studio ove al tocco e mezzo avrebbe ricevuto lei, ne aperse le imposte non badando al freddo, e quantunque il sole non fosse ancora visibile s’assicurò che il cielo era tutto sereno. Da questo lato dunque non c’era pericolo che sorgessero ostacoli alla visita della contessa. Naturalmente, se fosse piovuto, ella sarebbe rimasta a casa sua. Il buon Teofoli s’arrabbiò seco medesimo sorprendendo nel fondo del suo cuore una segreta e timida benevolenza verso la pioggia, la quale, in fin dei conti, gli avrebbe permesso di prepararsi meglio a questa specie d’esame…. Possibile ch’egli fosse un vigliacco?… S’armò d’un granatino e si diede a spolverar leggermente i mobili, i libri, e alcune fotografie appese a una delle pareti. Erano per lo più ritratti d’illustri contemporanei, italiani e stranieri, regalati in gran parte e portanti la firma autografa del donatore. Vi figuravano i principali cultori della storia, della filosofia e delle scienze in Italia; dei Tedeschi, il Mommsen, il Gregorovius, il Ranke, lo Strauss, il Virchow; dei Francesi, il Renan, il Littré, il Taine; degli Inglesi, il Darwin, lo Spencer, l’Huxley — i campioni insomma del pensiero moderno, dalle fronti ampie e severe ove la meditazione aveva segnato i suoi solchi, dagli occhi profondi che s’erano stancati nelle assidue ricerche. Teofoli che conosceva tanta parte delle loro opere avrebbe voluto in quel momento penetrar bene addentro nelle loro anime, sapere i loro segreti più intimi, chieder loro se si fossero mai trovati in condizioni simili a quella in cui egli si trovava, implorare il soccorso della loro esperienza. Ahimè, nè da loro nè dai libri allineati negli scaffali gli veniva lume a’ suoi dubbi. Ed egli era tentato di domandarsi a che servono le biblioteche se non danno una guida, un conforto nei casi difficili.
Frattanto macchinalmente, inconsciamente riordinava le carte e gli opuscoli che ingombravano il suo tavolino, apriva sul leggìo un magnifico atlante di Stieler, avvicinava alquanto alla finestra un bel mappamondo che aveva comperato l’anno addietro a Lipsia, metteva in mostra un volume di Spencer arrivatogli una settimana addietro con la dedica dell’autore. Molto di più avrebbe fatto, se non fosse stato il timore d’insospettire la signora Pasqua con le novità.
Ma la signora Pasqua venendo, come usava ogni giorno, alle nove a portare il caffè e ad accender la stufa non s’accorse di null’altro che della brutta cera del padrone il quale dovrebbe almeno, ella disse, rimanere in letto un’ora di più la mattina dopo che aveva preso l’abitudine di passare una parte della notte fuori di casa. — Se crede che le faccia bene, — ella soggiunse.
— Son fantasie vostre, cara Pasqua, — rispose il professore. — Io sto benissimo….
— Sarà…. Ma l’altr’anno stava molto meglio.
— Nemmeno per sogno, — replicò Teofoli, rimettendo la chicchera sul vassoio. — I miei vestiti sono pronti?
— Sissignore. E oggi è a casa tanto a colazione che a pranzo?
— Sì, sono a casa. Lasciatemi adesso, chè devo far qualche cosa prima d’andare all’Università.
Mezz’ora dopo, il professore Teofoli saliva in cattedra ed esponeva a’ suoi studenti con parola fluida e precisa il sistema di Augusto Comte, ciò che prova, a chi ne dubitasse, che molte funzioni anche intellettuali diventano con l’abitudine semplici funzioni meccaniche e che basta toccar certe corde per averne certe sonate. In realtà quella mattina il nostro professore non si curava nè di Augusto Comte nè della filosofia positiva e la sola impressione destata in lui dalla presenza della colta gioventù era quella che il più asino della classe avrebbe affrontato con maggior serenità e baldanza di spirito le vicende di un convegno galante.
A colazione egli fu altrettanto taciturno quanto la mattina, e la signora Pasqua non riuscì a cavargli di bocca che qualche monosillabo.
Questa taciturnità crescente del suo padrone non era l’ultima delle ragioni che spingevano la signora Pasqua ad approfittar delle sue due ore di libertà per andare a sfogarsi con le sue amiche. E anche quel giorno, alle dodici e cinquantacinque minuti, ella infilò la porta, liberando il professore dalla paura che per uno o un altro motivo ella s’indugiasse più dell’usato. Uscita lei, fu facile al nostro Teofoli di sbarazzarsi del ragazzo Fedele, un galoppino che stava sempre a sua disposizione e che una volta fuori del nido metteva un secolo a tornarci. È vero che ordinariamente Fedele si tratteneva in casa durante le assenze della signora Pasqua, ma egli non era uomo da far obbiezioni ad andarsene, e accettò con entusiasmo due o tre incarichi che gli fornivano un ottimo pretesto per stare in giro mezza giornata.
E così, all’una e pochi minuti il professore Clemente Teofoli fu solo…. aspettando. Non già nella camera da studio ch’era piuttosto appartata, ma nel salottino da pranzo che dava sulla strada. Ne aperse l’uscio per sentir meglio il campanello, sollevò alquanto il lembo d’una tendina e si mise in vedetta. Da che parte sarebbe venuta? Se veniva direttamente dalla sua abitazione sarebbe venuta dalla destra; ma era probabile che avesse fatto una diversione, che venisse dal lato opposto. Non importa; egli l’avrebbe vista a ogni modo. Ma come sarebbe venuta? A piedi o in carrozza? Certo non nella sua carrozza. Se no, come mantenere il segreto? Forse il meglio era ch’ell’avesse preso un fiacre a nolo. E vero che anche il fiacre lì fermo ad attenderla dinanzi alla porta aveva i suoi inconvenienti. Pazienza; gl’inconvenienti non si potevano evitare nè in carrozza nè a piedi…. Qui poi lo assaliva un dubbio più fiero…. S’ella non fosse venuta? S’egli l’avesse fraintesa? S’ell’avesse voluto fargli una burla? Ma perchè? Ma perchè?
Era l’una e un quarto. Anche s’ella fosse stata puntuale non avrebbe potuto esser da lui che tra un quarto d’ora; che ragione c’era ch’egli stesse con gli usci aperti a pigliarsi il fresco prima del tempo? Rientrò in camera da studio, non già per rimanervi, ma per dare un’occhiata alla stufa, per rifondervi della nuova legna. Subito dopo si rimise al suo osservatorio.
La strada era delle meno frequentate. Pochi pedoni; a lunghi intervalli una vettura. Ah, come il cuore gli balzava a ogni scalpitìo di zampe ferrate, a ogni romore di ruote, a ogni apparire in fondo alla via d’un cappellino e d’un vestito femminile! Ma non era lei, non poteva esser lei; mancavano dieci, mancavano cinque minuti all’ora prefissa.
Finalmente suonò la mezza, e da quell’istante le ansie dell’attesa raddoppiarono. Ogni secondo pareva un minuto, ogni minuto pareva un’ora. A un certo punto Teofoli ebbe una strana allucinazione. Vide da lontano un suo studente con una donna, e quella donna, nella sua fantasia riscaldata, pigliò l’aspetto della contessa Giorgina. Era possibile? L’incanto fu subito rotto. Quello era bensì uno studente, ed era in compagnia d’una ragazza, ma la ragazza, quantunque abbigliata con una certa eleganza, aveva l’aria di non esser altro che una crestaia. Ed egli aveva commesso il sacrilegio di scambiarla con la Serlati! La giovine coppia passò sotto le finestre di Teofoli senza nemmeno alzar la testa; lo scolaro ch’era venuto ripetutamente dal suo professore per ragioni di studio aveva adesso ben altro che il suo professore pel capo. Ah, come sembravano felici quei due! Come camminavano svelti, spediti, come ridevano e ciarlavano e si divoravano con gli occhi! Succedono pure di grandi trasformazioni in noi stessi. Alcuni mesi addietro, Teofoli avrebbe certo biasimato in cuor suo l’incauto discepolo che si lasciava adescare da una sguaiata, avrebbe fatto eco alle filippiche di Dalla Volpe e di Frusti contro le femmine; ora invece era pieno d’indulgenza pel sedotto e per la seduttrice e quasi quasi avrebbe voluto essere al loro posto.
— Ma! Gioventù! — egli sospirò quando la coppia si fu dileguata.
E con un secondo sospiro guardò l’orologio. La lancetta segnava l’una e tre quarti. Ah cattiva contessa; si sarebbe dunque presa gioco di lui?
In quel momento gli occhi del professore Teofoli caddero sopra una persona la cui presenza gli recò una noia infinita. Dall’altra parte della strada, poco men che dirimpetto alle sue finestre, il conte Antonio Ermansi, spuntato non si sa di dove e fermo dinanzi alla mostra di un rigattiere, esaminava in tutti i sensi alcuni vecchi libri, mentre il padrone del negozio che stava sulla soglia in atto ossequioso cercava d’indovinare dall’espressione e dai gesti del bibliomane il valore della propria merce, da lui pagata a peso di carta.
— Cretino d’un Ermansi! — borbottava rabbiosamente il professore stringendo i pugni. — Aveva da venir qui giusto oggi…. E non si risolve mica ad andar via…. Oh sì…. Meno male che entra nella bottega…. E poi dev’esser miope…. Ah!…
Ah, dice il dizionario, è una interiezione che si usa per esprimere diversi affetti. Certo che adesso, in bocca del professore Clemente Teofoli, essa ne esprimeva moltissimi. Chè di là ond’erano venuti lo studente e la crestaia egli aveva visto sorgere (a lui era parso davvero che sorgesse dal suolo) una bella, agile figura di donna, avviluppata in una lunga pelliccia, con un cappellino di velluto color marrone con nastri azzurri, la veletta calata sul volto e le mani nascoste in un piccolo manicotto. Era lei, era lei. La cagnetta che l’accompagnava e che aveva tutti i connotati di Darling bastava a rimuover gli ultimi dubbi.
IX.
L’andatura della contessa (poichè Teofoli non s’era ingannato) non tradiva la minima esitanza, il minimo imbarazzo; s’ella aveva il velo abbassato, s’ella studiava il passo, era pel freddo e non per la paura di esser sorpresa. Giunta all’abitazione del professore, di cui ella conosceva benissimo la facciata, ella infilò il portone che di giorno era sempre aperto, salì la prima branca della scala e si fermò sul pianerottolo. Ma non ebbe bisogno di suonare il campanello accanto al quale era inciso su una piastra d’ottone il nome Teofoli, chè l’uscio girò lentamente sui cardini e una voce soffocata disse dal di dentro: — Contessa, o contessa Giorgina.
— Buon giorno, Teofoli, — ella rispose entrando con molta calma e tranquillità.
— Com’è stata buona, com’è stata gentile! — esclamava il professore porgendole la destra mentre con l’altra mano andava quietando Darling che gli saltava alle gambe. — Non osavo sperare.
La contessa fece una risatina che mise allo scoperto una doppia fila di denti bianchissimi, e domandò: — Cerbero non c’è?
— Nè Cerbero, nè nessuno, — replicò il professore con un accento che a lei parve fin troppo tenero.
— Bah! — ella soggiunse. — In fondo sarebbe stato lo stesso.
Teofoli che precedeva di qualche passo la bella visitatrice e aveva già aperto l’uscio della sua camera da studio non ebbe tempo di rilevare il senso di questa frase poco appassionata, essendo avvenuto in quel momento un singolare incidente.
Il gatto Tocci, avvertito dal suo fine odorato o dal tintinnio dei sonagli di Darling della presenza di un quadrupede estraneo sotto il tetto domestico, si precipitò come un fulmine dal focolare della cucina ove faceva il suo chilo e piombò minaccioso sulla cagnetta, la quale, pusillanime per sua natura, evitò la pugna e inseguita dall’avversario corse a ripararsi nello studio del professore, sotto uno scaffale. Tocci, da animale che temperava l’audacia con la prudenza, non volle impegnare battaglia in condizioni sfavorevoli, ma col pelo arruffato, con la coda ingrossata si piantò dinanzi agli accampamenti dell’intruso esprimendo i suoi fieri propositi con certi rauchi e lunghi miagolii di non dubbio significato per chi conosce il linguaggio felino. Alle grida della contessa atterrita dal pericolo di Darling, Teofoli affrontò coraggiosamente il gatto belligero e dopo inutili sforzi per impadronirsene riuscì infine a cacciarlo dallo studio nell’andito e dall’andito nella camera della signora Pasqua di cui chiuse l’uscio con un colpo secco. Compiuta questa lodevole impresa, il filosofo tornò dalla Giorgina ch’egli trovò accovacciata sul tappeto e intenta a tirar fuori Darling dal suo rifugio.
— Che bestie feroci tenete presso di voi? — ella gli disse in tuono di rimprovero.
— Oh per carità, contessa, mi perdoni, — balbettò il professore tutto confuso. — Se avessi potuto credere, se avessi potuto immaginare…. Darling, povera Darling, quell’animalaccio non ti ha mica fatto nulla?
— Paura le ha fatto…. Vedetela come trema…. Pur che non si ricominci da capo al momento di uscire.
— Nemmen per idea. Ho preso le mie precauzioni.
— Dovevate prenderle prima, — rimboccò la Serlati che s’era messa a sedere con la cagnetta in grembo e l’accarezzava come un bambino.
Il professore, umile e mortificato, non tentava nemmeno di difendersi. Ahimè, l’abboccamento galante principiava male.
A poco a poco la contessa si rabbonì, depose Darling in terra, e rivolgendosi a Teofoli disse: — Capisco, non ne avete colpa. — Indi soggiunse gettando via la pelliccia e il manicotto con un movimento rapido: — Fa un bel caldo qui.
— Se volesse levarsi anche il cappello? — egli propose timidamente.
— Non è affare…. Ci vuol troppo a rimetterlo.
— I guanti almeno….
— No, no…. Riallacciar tutti questi bottoni!…
Ella balzò in piedi nella grazia incantevole della elegante persona, e disse con un sorriso: — Orsù, Teofoli, fate gli onori di casa…. È pieno di luce il vostro studio…. Dove guarda?
— Su un giardino…. Oh non ci son finestre di fronte…. Può affacciarsi liberamente.
— E perchè no?… Ah capisco, — ella ripigliò in tuono leggero; — sono una donna che si compromette.
Quindi, dando un’occhiata intorno, — Quest’è, per voi altri dotti, quello ch’è il salotto per noi donne…. Invece di ninnoli inutili, di vasi, di stoffe, di tappeti appesi ai muri o gettati alla rinfusa sui mobili, libri, libri, e poi libri…. Mi piace…. Se fossi un uomo, vorrei anch’io…. Ah mio marito, poverino, non ha di questi gusti…. E scommetto neppur Montalto…. Lo studio di Montalto deve avere un aspetto affatto diverso del vostro. Sarei curioso di vederlo…. Che viso fate, Teofoli! — ella esclamò ridendo. — Non vi spaventate. Nello studio di Montalto non andrò…. Mi comprometterei di più.
Teofoli, così eloquente dalla sua cattedra, così piacevole anche nella conversazione ordinaria, non trovava parole. Ce n’erano due che gli bruciavano le labbra e ch’egli non ardiva pronunziare, due paroline piccole piccole — Vi amo — che un pudore, un terrore invincibile non gli aveva in tanto tempo permesso di dire alla Giorgina. E sì che delle dichiarazioni gliene aveva fatte; delle dichiarazioni contorte, poetiche, arcadiche; ma quelle due paroline che hanno il merito di esser tanto chiare egli non gliele aveva dette mai. A dirgliele, chi sa, egli si sarebbe attirato da lei un rabbuffo, avrebbe per lo meno richiamato sulla sua bocca una di quelle risate rumorose che gli facevan male; non era meglio lasciar ch’ella le indovinasse da sè?… E poichè certo ella le aveva già indovinate e pur sentendo ch’egli l’amava era venuta nel suo studio, nel suo santuario, non si poteva dire che il metodo da lui seguito fino allora fosse interamente sbagliato. Adesso però, adesso in qual modo doveva regolarsi? Non era giunto l’istante di parlar chiaro?
Ebbene, non c’era caso, il coraggio gli mancava sul più bello…. Egli a cinquant’anni, ella a poco più di venti, egli uomo grave, dedito a una vita di pensiero, ella, donnina alla moda, avvenente, corteggiata, assetata di divertimenti e di svaghi!… Oh quanto meglio gli sarebbe stata la parte di padre che quella di damerino!… Ecco, pur dianzi, quando la Serlati accennava celiando allo studio di Montalto, Teofoli aveva provato una stretta al cuore, e sarebbe ingiusto il credere ch’egli non sentisse che il morso acuto della gelosia. La gelosia c’era senza dubbio, ma c’era anche un altro impulso più delicato e più casto; come una gentile pietà di quella giovinetta che nessuno guidava, che si lasciava esposta a tutte le tentazioni, che sarebbe stata capacissima di cedere, se non oggi, domani alla curiosità di visitar lo studio d’un libertino. Egli sentiva che avrebbe dovuto dirle: — Badi, Giorgina, è su una strada falsa. Lei scherza col fuoco e il fuoco la brucierà. Abbia giudizio per quelli che non ne hanno. Dia uno scopo serio alla vita. Se sarà madre, s’occupi de’ suoi figliuoli…. Le gioie della maternità la risarciranno di ciò che le è mancato come moglie…. Che se pure è destino che neanche a lei possa bastar la famiglia, aspetti almeno di ubbidire a una voce imperiosa del cuore. La passione attenua sempre e talora scusa e ]nobilita la colpa…. Ma sopratutto non sia una civetta volgare….
Ahi, poteva il professor Teofoli tener questo linguaggio alla contessa Serlati, egli che non badando alla differenza d’età le faceva il cascamorto, egli che s’era preparato a riceverla misteriosamente come usa un giovinotto quando ha una di quelle che si chiamano buone fortune?
Tutto ciò, si capisce, cresceva il suo impiccio che già non sarebbe stato piccolo in nessun modo. Non osava essere un amante, non sapeva essere un padre, non sapeva più nemmeno essere un amico. Le girava intorno inquieto, seguitando a ripeterle: — Cara contessa, Giorgina, s’accomodi.
E le additava un divano a molle ch’era in mezzo alla stanza.
— No, no, — replicava la contessa, — perchè volete farmi sedere? Sto benissimo così.
Pareva un uccellino che salta di frasca in frasca. Ferma un istante davanti agli scaffali, s’alzava in punta di piedi come se avesse l’intenzione di decifrare i titoli dei volumi addensati nei palchetti, ma appena il professore si accingeva a farle da cicerone, ella sguizzava da un’altra parte, ed eccola curva sul mappamondo quasi cercasse un punto importantissimo dell’orbe terracqueo.
Il professore le si accostava pieno di sollecitudine. — Che cerca?
— Niente, — rispondeva lei, alzando con un sorriso la sua bella testina.
E rivolgeva per pochi secondi la sua attenzione all’atlante che Teofoli aveva spiegato sul leggìo.
— Quest’atlante, — cominciava il professore, — è il più completo di quanti ci siano. Non si sa se più lodarne la nitidezza tipografica, oppure….
La contessa assentiva. — Bello. Sembra un messale…. Perù preferisco veder davvicino questi ritratti…. Di qualcheduno c’è il nome sotto…. Autografi preziosi…. Quello è Renan. Ne vidi la fotografia un’altra volta…. Che tipo singolare!… Come si vede ch’è stato prete…. C’è una frase latina…. semel…. semel…. ah finitela voi….
— Semel abbas, semper abbas.
— Bravo…. E questi chi sono?
Teofoli glieli nominò ad uno ad uno.
— Tutti quanti illustri, — ella disse con aria convinta. — Non sarebbe male che fossero più giovani.
— Eh, cara Giorgina, in certi studi non si arriva così presto a farsi una celebrità.
— Ma nella poesia, nella musica, sì?
— Qualche volta.
— Ho visto i ritratti di Byron, di Mozart, di Bellini…. Non li avete mica?
— No…. Ma d’un altro ritratto non mi domanda conto? — egli soggiunse a mezza voce.
— Quale ritratto?
— Il suo.
— È vero…. Quello che vi diedi in campagna…. Dov’è?
Il professore aperse misteriosamente un cassetto.
— È qui.
— Lo custodite come una reliquia?
— Per me, è una reliquia….
— Dio, come siete sentimentale! Però è bene che non mi mettiate in mostra…. Prima di tutto non converrebbe…. E poi la fotografia non mi piace…. Spero che l’ultima di cui non ho ancora visto la prova sia riuscita meglio. Faremo il cambio.
— Se mi permette le terrò tutt’e due, — disse Teofoli.
Ella si strinse nelle spalle. — Accomodatevi pure.
Indi sedette dinanzi alla tavola del professore, sulla sua poltrona, e si diede a scartabellare i suoi fogli. — È qui che scrivete la vostra grande opera sulle religioni?
— È qui che dovrei scriverla, — egli rispose. — Ma chi sa quando ne verrò a capo.
Teofoli non osava confessare che dacchè l’aveva conosciuta non aveva lavorato un giorno solo di lena.
— Male! — sentenziò con gravità la contessa. — Bisogna venirne a capo presto. Siete già un uomo celebre, ma quel libro assoderà in modo definitivo la vostra riputazione.
Il professore ch’era ritto dietro a lei si chinò adagio adagio fino quasi a sfiorarle con le labbra una ciocca di capelli che le svolazzava sulla nuca, e susurrò: — Le preme dunque la mia riputazione?
Ella si voltò bruscamente. — Mi avete fatto paura. Sì che mi preme….. Ma perchè me lo domandate con quell’aria lugubre, sepolcrale, come d’uomo che mediti un delitto?
Anche questa volta i modi della Giorgina lo sconcertarono. Era lì lì per aver coraggio e non l’ebbe.
— Ebbene, Teofoli, — ella disse alzandosi in piedi; — non vi lagnerete di me…. Ho mantenuto la mia promessa, son venuta a trovarvi a rischio di far nascere chi sa quanti pettegolezzi…. e adesso vado via…. Ma dov’è Darling?
— Va via…. così! — esclamò il povero professore.
— Come volete che vada?… Se sapeste quante cose ho da fare…. Ma dove diamine è Darling?… Darling, o Darling.
La cagnetta, che s’era rifugiata di nuovo sotto lo scaffale, cacciò fuori il muso dal suo nascondiglio e volse in giro gli occhi spauriti.
— Ha ancora la tremarella alle gambe, — notò la Giorgina. — L’eroismo non è il suo forte…. Andiamo, Darling…. Non ci son più pericoli…. Qua, qua.
Darling, a passini piccoli e cauti e quasi strisciando col ventre per terra, s’avvicinò alla padrona che le disse minacciandola dolcemente col dito: — Non conviene esser così vigliacchi. Dovevi mostrare i denti, e chi sa che quell’altra bestiaccia non avrebbe fatto rodomontate…. Orsù, Teofoli, aiutatemi a infilar la pelliccia.
— Non sia cattiva, Giorgina, non abbia questa fretta, — insisteva il professore.
— Abbiate pazienza, amico mio…. Non posso aspettare un minuto di più…. Ho lasciato detto a casa che per le due e mezzo circa sarò di ritorno, e sono già le 2,35…. Poi debbo vestirmi per uscir alle tre in carrozza… Ho da far quattro visite… pur troppo…. Oh avete ragione, è una vita impossibile…. Ma non c’è rimedio…. Sfido per esempio a non andar oggi stesso da Mistress Gilbert…. A proposito…. riceverete dai Gilbert l’invito per un ballo in costume che daranno l’ultimo sabato di carnevale.
— Quei signori americani?… Se li conosco appena?
— Non importa…. Siete un luminare della scienza, e vi vogliono…. Così va bene…. grazie.
Quantunque a malincuore, Teofoli s’era rassegnato a metter la pelliccia sulle spalle della contessa.
— Sono grato ai signori Gilbert — egli rispose. — Ma andare a un ballo, e a un ballo in costume per giunta…. si figuri….
— Gran che! Temete di compromettere la vostra dignità?
— Non dico questo…. A ogni modo non è affare per me….
— Via via, vi lascierete persuadere…. Ne riparleremo. Intanto, vi prego, datemi anche il manicotto…. È lì sul divano…. Grazie…. E addio, Teofoli…. Badate che domani e doman l’altro non sono in casa nè di giorno nè di sera. Posdomani sera ci troveremo dai Roncagli.
Prima che il professore potesse far un ultimo tentativo di trattenerla, prima ch’egli potesse almeno carpirle la promessa di ritornare, ella era già nell’andito vicino alla porta della scala. Bisognò pur che Teofoli si decidesse ad aprirle.
— Buon giorno, — ella disse scendendo rapidamente gli scalini seguita da Darling i cui sonagli mettevano un tintinnio argentino.
Teofoli tornò nel salotto da pranzo e si riaffacciò alla finestra da dove l’aveva vista venire. E dalla stessa finestra la vide allontanarsi e l’accompagnò con lo sguardo sinch’ell’ebbe svoltato il canto della via. Allora liberò il gatto Tocci che miagolava e graffiava l’uscio della sua prigione, e ricondottosi nello studio s’abbandonò sul divano, stanco, sfinito come dopo una giornata campale.
X.
La brillante avventura del professore Teofoli non rimase a lungo celata.
Già sul far della sera la signora Pasqua venendo a portare il lume e a chiuder le imposte si fermò sui due piedi arricciando il naso e disse: — Che odore di muschio!
Il professore non rispose.
— Badi che si buscherà un’emicrania — ripigliò la governante, mentre perlustrava lo studio in tutti i suoi sensi. — A un tratto ella pronunziò queste gravi parole: — C’è stato un cane.
— Da quando in qua i cani hanno odore di muschio? — replicò Teofoli in tuono ironico.
La signora Pasqua insisteva dando un’occhiata di sbieco sotto uno degli scaffali: — Non parlo a caso. C’è stato un cane.
— Che cani, che cani? — riprese infastidito il padrone. — Dite piuttosto un gatto. Ho dovuto cacciar via il vostro dilettissimo Tocci che s’era introdotto nella stanza.
— Sarà, — ripigliò impassibile la signora Pasqua, — ma c’è stato anche un cane…. E un cane maleducato — ella continuò accalorandosi nel discorso.
Teofoli perdette la pazienza. — Insomma cani o gatti, che cosa v’importa?
— Molto m’importa. Io non sono disposta a tenerle pulita la stanza perchè poi…. Ma come non sente il bisogno di spalancar le finestre?
— Io non sento niente…. Mettete giù il lume e lasciatemi in pace.
La signora Pasqua slanciò il cosidetto strale del Parto. — Non saranno mica i suoi studenti che verranno a trovarlo coi cani dietro e col muschio addosso. Ha ricevuto signore.
Al professore salirono le fiamme al viso. — Io ricevo chi mi pare e piace e non ho conti da rendervi.
A questa rude intimazione l’austera donna fece due passi verso l’uscio; poi voltandosi indietro e portando il grembiule agli occhi, disse: — Capisco bene che lei non ha più fiducia in me…. La prego di cercarsi prima della fine del mese chi prenda il mio posto.
Teofoli alzò la testa dalle sue carte. — Vi licenziate?
— Sissignore…. Io non sono una cameriera adattata per una casa dove vengono le contesse….
— Tacete, sciocca che non siete altro — gridò il professore. — E guardatevi bene dal ripetere queste fanfaluche…. In quanto al licenziamento, da oggi alla fine del mese avete tempo da riflettere…. Adesso andate a preparare il desinare.
L’illustre professore aveva mostrato una grande padronanza di sè, ma in fondo era più agitato della signora Pasqua e per tutta la notte non fece che voltarsi e rivoltarsi nelle coperte.
Dopo gli splendidi risultati della giornata non ci mancava altro che uno scandalo! E quella balorda era capacissima di farlo nascere se spargeva fra le sue conoscenti la notizia di ciò che aveva creduto indovinare. È vero ch’ella non aveva pronunziato alcun nome, ma evidentemente ella alludeva alla contessa Giorgina, e non era probabile che parlando con le sue amiche usasse la stessa discrezione che per prudenza aveva usato parlando con lui. Così, di bocca in bocca, la cosa sarebbe giunta senza dubbio fino agli orecchi del conte Serlati, il quale era un marito frivolo che della moglie non si curava punto; ma anche i mariti frivoli e noncuranti qualche volta s’accendono come fiammiferi…. Se fosse venuto a fargli una scena, a provocarlo?… Teofoli non era pusillanime; tuttavia alla sua età, nella sua posizione, con la sua inesperienza assoluta del maneggio d’ogni arma, non gli sorrideva punto l’idea d’un duello. Certo ch’egli poteva dare al conte le assicurazioni più tranquillanti…. pur troppo…. poteva giurargli sul proprio onore che la visita della Giorgina era stata innocentissima; sta a vedere però se colui ne sarebbe rimasto persuaso; se nella migliore ipotesi non avrebbe detto: — Caro professore, faccia di meno di venire a casa mia…? E d’altra parte, Santo Iddio, come regolarsi con la Pasqua? Rinnovarle più chiaramente l’intimazione di tacere? Oh sì era lo stesso che farla parlare di più. Prenderla con le buone, metterla nelle proprie confidenze, cercar insomma di avere in lei una complice così pel passato come per l’avvenire? Peggio che peggio. Questo sì sarebbe stato mutar una pulce in un elefante. In fin dei conti quelle della Pasqua si riducevano a semplici ipotesi, a congetture ch’era sempre lecito di smentir formalmente; col ricorrere alle moine o alle minaccie per ottenere il suo silenzio si dava corpo a’ suoi sospetti, si ammetteva di aver qualche magagna da nascondere. La conclusione si fu che il professore deliberò di non fare pel momento alcun passo con la sua donna di governo e di fingere che la disputa di poche ore prima non fosse nemmeno avvenuta. Senonchè, mentr’egli gustava per questo lato la calma relativa di chi ha preso un partito, buono o cattivo che sia, lo ripigliava un’altra inquietudine. Quell’imbecille del conte Ermansi aveva o non aveva vista la contessa Giorgina? È vero che all’ultimo momento egli era entrato nella bottega del rigattiere, ma anche dall’interno della bottega si poteva veder benissimo il portone della casa dirimpetto…. Basta; bisognava sperare che Ermansi non avesse visto nulla; se no quello lì chiacchierava sicuramente.
Teofoli, molto timido e peritoso, andò dai Roncagli la sera prossima, e con suo immenso terrore concepì subito il sospetto che la scappatella della contessa Giorgina fosse già conosciuta. Gli lodavano misteriosamente il suo studio, accennavano anche più misteriosamente alle visite di studenti e non studenti ch’egli vi riceveva, accompagnando i discorsi con risatine sardoniche e con significanti tentennatine di testa.
Spaventato, egli colse un istante propizio per mettere sull’avviso la contessa, che non aveva affatto l’aria di una persona sull’orlo d’un precipizio.
La risposta ch’ella gli diede lo fece rimanere intontito. — Sì — ella disse stringendosi nelle spalle — è il segreto di Pulcinella…. Chi poi sarà stato il pettegolo?… Voi no…?
— Io? — esclamò Teofoli portandosi una mano al cuore.
— Vi credo, vi credo…. Ma non vale la spesa di affannarsi alla ricerca del reo…. Alle prime avvisaglie ho subito parato il colpo. Ero andata a fare un’improvvisata a un buon amico, a un vecchio amico, a un amico rispettabile. Che cosa vi poteva esser di male?
— Niente — masticò fra i denti il professore, poco lusingato da tutti questi epiteti onorifici. — E il conte?
— Mio marito prese la cosa come doveva prenderla, come una delle mie tante eccentricità. Da quell’uomo savio ch’egli è — e la frase fu pronunziata con manifesta ironia — mi fece una piccola predica e poi si quetò…. Alla gente egli dice ch’era informatissimo della visita che dovevo farvi, che mi avrebbe accompagnata volentieri, ma che non potendolo mi lasciò andar sola…. Forse dirà lo stesso anche a voi…. Tout est bien qui finit bien — ella concluse con un sorrisetto troncando un colloquio che durava già da un mezzo minuto.
Sul tardi il conte Serlati tenne a Teofoli su per giù il discorso che la Giorgina gli aveva pronunziato. E gli promise di capitar quando meno se l’aspettava a sorprenderlo nel suo studio, o solo, o con la moglie…. Sapeva ch’era uno studio così bello, così gaio….
A trovar la bonaccia assoluta dopo essersi preparato alla tempesta, Teofoli, anzichè esser contento, provò un senso di mortificazione e di rabbia. Ma dunque s’erano presi gioco di lui? Dunque nessuno pensava che una donna potesse compromettersi a venir sola a casa sua? E quell’imbecille di Serlati faceva lo spiritoso alle sue spalle? E quell’altro peregrino intelletto di Montalto sogghignava anche lui sotto i baffi? In verità non dovrebb’esser permesso ai cretini di pigliare un’aria di superiorità verso gli uomini d’ingegno.
Ah uomini d’ingegno, uomini d’ingegno! Per modesti che siano o fingano d’essere, l’orgoglio ch’è in loro fa capolino quando più converrebbe ch’esso restasse celato. Ogni volta ch’essi si mettono in una posizione falsa dando agli sciocchi il diritto di canzonarli, si lagnano se gli sciocchi ne approfittano e li canzonano.
Tuttavia il maggior cruccio del disgraziato Teofoli derivava dal sospetto che la contessa Giorgina fosse stata realmente d’accordo col marito e coi galanti per fargli il brutto tiro e per rider poscia di lui. Qui proprio egli si sbagliava. Seppur la Serlati avesse avuto l’idea di burlarsi per conto proprio della passione senile ch’ell’aveva destata, non avrebbe certo avuto quella di chiamar nessuno a partecipar della burla. Ma non si trattava nemmeno per lei d’una burla. Era andata da Teofoli un po’ per compiacenza, un po’ per curiosità, con quella meditata spensieratezza (ci si passi buona la frase contraddittoria) che si riscontra così sovente in qualche bizzarro cervellino di donna. Aveva novanta su cento probabilità di non rischiar nulla nella sua visita; in quanto alle dieci probabilità sfavorevoli si affidava al caso, il regolatore supremo di gran parte dei fatti umani. Nè c’è dubbio che non avendo da guadagnarci a propalare il segreto, per conto suo avrebbe taciuto; ma poichè, senza sua colpa, la faccenda era trapelata, ella si levava d’impaccio con molta disinvoltura, persuasa in buonissima fede di render un servizio al suo amico.
Teofoli invece, a pensarci su, si riscaldava il sangue da solo, e sarebbe stato un bel trionfo per la signora Pasqua il vederlo tornare a casa in un parossismo di collera; per disgrazia la signora Pasqua era a letto e non potè goder lo spettacolo del suo padrone inferocito contro il proprio idolo. La celeste Giorgina, la creatura ideale, l’angiolo di paradiso era divenuta un demonio, un mostro di nequizia. Strani effetti dell’amore attraverso il quale noi non vediamo mai le cose nelle loro proporzioni naturali, ma ora più grandi ora più piccole del vero, come attraverso un canocchiale che si tenga a vicenda diritto o rovescio!
Quantunque fossero quasi le due del mattino, il professore rimase alzato nel suo studio e s’accinse a scrivere. Non scriveva già un capitolo del suo libro, una monografia per qualche giornale, una serie di note per le sue lezioni; scriveva una lettera, a lei. A parlarle non avrebbe mai avuto il coraggio di dire quello che voleva. Con la penna in mano, chi sa! E scrisse, e scrisse senza mai riuscire a trovar la nota giusta. Non uno de’ suoi lavori scientifici gli aveva costato tanta fatica. Cominciò con l’intonazione secca, ricisa, d’un uomo che brucia i suoi vascelli. Non intendeva esser lo zimbello di nessuno; chi non apprezzava i suoi sentimenti mostrava di non esserne degno. In quanto a lui, ormai aveva aperto gli occhi e doveva tutelare la sua dignità. Ma a questo punto la lettera gli fece l’effetto d’esser troppo brutale e stracciò il foglio e lo gettò nel cestino. E dopo il primo un secondo, e dopo il secondo un terzo, e un quarto, e via via. Intanto i suoi ardori sbollivano, e al quarto o quinto rimaneggiamento la sua epistola divenne così melensa e insignificante che nulla più. Ma nel rileggerla gli saltò la stizza di nuovo, s’accusò di debolezza, di pusillanimità, si picchiò rabbiosamente la fronte coi pugni, e preso un altro foglio ritentò l’ardua prova. Ed era sempre la medesima cosa. Ora diceva troppo, ora troppo poco. Verso l’alba non ne poteva più e andò a coricarsi senz’aver concluso nulla. Appena alzato si mise all’opera e finì col vergare una trentina di righe che non erano nè carne nè pesce, ma delle quali si contentò nella sfiducia assoluta di poter far meglio. Ripiegò il foglio, lo chiuse nella busta, e rompendo gli indugi lo consegnò al ragazzo Fedele perchè lo portasse subito subito alla sua destinazione. Mezz’ora dopo uscì per recarsi all’Università. Camminava torvo, stralunato, parlando fra sè, onde un collega, incontrandolo, credette ch’egli declamasse dei versi di Virgilio o di Dante. Non erano versi che Teofoli recitava; erano frasi della sua lettera, e adesso, nel ripeterle a sè medesimo, stentava a trarne un senso chiaro e preciso. Quella sua prosa arruffata, dissimile tanto dalla sua prosa ordinaria, rifletteva lo stato della sua anima, combattuta tra diversi affetti. Da un periodo traspariva in lui il fermo proposito d’infrangere la sua catena; dal periodo seguente si sarebbe potuto arguire ch’egli desiderasse di legarsi di più. Che avrebbe detto, che avrebbe pensato la contessa Giorgina? E se non avesse detto nulla? Se avesse inflitto al suo adoratore la massima delle umiliazioni, non curandosi neanche di ciò ch’egli le scriveva, lasciandolo libero di venire o non venire, di troncare o no ogni rapporto con lei?
L’ora della lezione fu, come sempre, un’ora di tregua, di pace pel nostro Teofoli. In quell’Università ch’era il suo regno, in quelle aule rese domestiche dalla lunga consuetudine, davanti alle faccie allegre di quegli studenti che, pur cambiando ogni anno, conservavano un’aria di famiglia, egli non dimenticava già le sue pene, ma gli pareva che il carico ne fosse men grave.
L’agitazione ricominciò appena egli fu di nuovo all’aperto, e andò crescendo di mano in mano ch’egli si avvicinava a casa. Era già presso al portone quando sentì qualcheduno che lo rincorreva e una voce che non gli era ignota lo chiamò replicatamente: — Professore, professore.
Era il cameriere della contessa Serlati.
— Ho questo biglietto per lei, — egli disse. — Non c’è risposta.
Fece un inchino e tirò innanzi.
Bianco come un cadavere, con le gambe che gli traballavano, Teofoli s’appoggiò allo stipite della porta, e aperse con mano tremante il biglietto sulla cui soprascritta aveva riconosciuto la calligrafia della contessa.
Poche parole. “Ieri avete certo pranzato male e digerito peggio. Una ragione di più perchè veniate oggi a desinare con noi alle sette. Non si accettano scuse di nessuna specie e il mio servo ha l’ordine di non star nemmeno ad aspettar la risposta. Arrivederci. Giorgina.„
In fondo, con queste poche righe la contessa Serlati non solo schivava ogni spiegazione immediata, ma non lasciava intravedere nessuna probabilità di spiegazioni future. Alle sfuriate di Teofoli ella dava incirca quel peso che suol darsi alle bizzarrie d’un bambino che si rabbonisce coi trastulli e coi dolci. Se il professore fosse stato davvero sollecito della propria dignità come pretendeva di essere, non avrebbe accettato l’invito. Ma egli era un innamorato e gli innamorati trovano sempre argomenti efficacissimi per giustificare la loro vigliaccheria. Prima ancora di fare i quindici o venti scalini che mettevano al suo quartierino, egli aveva vinti tutti i suoi dubbi, ribattute tutte le sue obbiezioni. Non andar dai Serlati sarebbe stata una sconvenienza senza nome, sarebbe stato anche un imperdonabile errore. Era precisamente coll’andarvi che si poteva presentar l’opportunità d’un colloquio intimo con la Giorgina, la quale del resto faceva prova d’una grande equanimità non prendendo in mala parte le parole risentite del professore, e continuando a trattarlo come un amico.
XI.
Fu una serata deliziosa, ma poco propizia ai colloqui intimi. A pranzo non erano che in quattro persone, i due padroni di casa, il professore Teofoli e un erudito francese, membro dell’Istituto, un Monsieur de la Rue Blanche, che la Giorgina aveva conosciuto a Parigi. La contessa fu amabilissima; presentò Teofoli all’accademico francese come uno dei pensatori più illustri d’Italia e nello stesso tempo come un intimo suo, accennò alla grande opera ch’egli aveva in lavoro, dolendosi solo che l’operosità del suo amico non fosse pari al suo ingegno e alla sua dottrina, e pronosticando a quell’opera, quando fosse compiuta, un successo colossale. Ne parlava con un calore scevro di affettazione, quasi d’una cosa in cui ella avesse parte, quasi d’una gloria che dovesse gettare un riflesso sopra di lei. E aveva realmente l’aria di persona appassionata pegli studi; non si sarebbe mai detto ch’ella era la medesima donna che rideva agli scherzi scipiti di Montalto e d’altri balordi simili. Teofoli e Monsieur de la Rue Blanche erano in estasi; soltanto Seriati frenava a stento gli sbadigli. Quando non si discorreva di cavalli e di cocottes egli sbadigliava sempre.
Monsieur de la Rue Blanche era un uomo di mezza età e di buon aspetto, e quantunque fosse un erudito era un uomo di spirito. Fu lui che portò pel primo nella conversazione una nota mondana chiedendo so fosse vero che Mister e Mistress Gilbert pei quali egli aveva una lettera di raccomandazione dovessero dare una gran festa da ballo.
— Sicuro! — rispose la Serlati. — Consegnerà la lettera e andrà alla festa anche lei.
— Parbleu! — esclamò Monsieur de la Rue Blanche confessando che andava pazzo per le feste da ballo, ciò che parve alquanto strano al nostro Teofoli.
— Però…. una festa in costume…. — notò timidamente il professore.
Ma prima che il francese potesse dire se questa clausola creasse per lui un ostacolo insuperabile, la contessa Giorgina intervenne con vivacità. — Il costume non è più obbligatorio. I Gilbert hanno risoluto…. un po’ per mio suggerimento, — ella soggiunse rivolgendosi con un sorriso a Teofoli, — di ammettere in semplice abito nero gli uomini di più di quarant’anni…. Tutto sta confessare i quarant’anni…. Il professore li confessa?
— Sfido io…. A ogni modo….
La Serlati non badò a quell’ogni modo gravido di restrizioni, e con uno sguardo interrogativo all’altro commensale: — E Monsieur de la Rue Bianche…?
Monsieur de la Rue Bianche trovava che questa degli anni è una faccenda delicata per tutt’e due i sessi; ma già, seppur avesse giurato sul suo onore di non aver compiuto i quaranta, nessuno gli avrebbe creduto…. Comunque sia, anche riconoscendo i suoi quarantacinqu’anni sonati, se fosse stato a Parigi egli non avrebbe avuto una difficoltà al mondo di cercarsi un costume; fuori di paese era cosa diversa, ed egli accettava di buon grado la concessione dei signori Gilbert. Sarebbe andato in abito nero. Non dubitava che il suo cher confrère avrebbe fatto altrettanto.
Ma il cher confrère era molto perplesso. Non aveva frequentate le feste nemmen da giovine; o che doveva cominciare alla sua età?
— Che età? Che età? — saltò su il francese. — Per lui non c’erano uomini vecchi; c’erano tutt’al più uomini malati. E il cher confrère stava bene; dunque…? Monsieur de la Rue Bianche, riscaldato un poco dall’eccellente vino dei Serlati, si accinse a magnificare le splendide veglie parigine a cui assistono senza vergognarsi personaggi gravi e maturi, trovandovi, in mancanza di meglio, un spectacle pour les yeux…. Et quel spectacle!… Ci vorrebbe altro che si dovesse far penitenza appena cominciano a brizzolarsi i capelli.
Il buon umore di Monsieur de la Rue scosse dal suo intorpidimento anche il conte Ercole che di Parigi si ricordava molte bellissime cose e ne discorse con grande competenza abbassando la voce nei punti scabrosi ed espandendosi col dotto forestiero.
Intanto la contessa Giorgina catechizzava Teofoli. Quella sua ripugnanza ad andar dai Serlati era veramente incomprensibile. Valeva la spesa ch’ella si sbracciasse a ottener dai Gilbert una modificazione al loro programma! E l’aveva ottenuta pensando a lui, proprio a lui, per togliergli la sola scusa che gli fosse lecito addurre con qualche apparenza di ragione…. La bella figura ch’egli le avrebbe fatto far coi Gilbert se si ostinava nel suo rifiuto!
Teofoli era sulle spine. Avrebbe voluto compiacer la contessa alla quale era riconoscente dal fondo dell’anima della nuova prova di benevolenza ch’ella gli dava. Ma, Dio buono! Che parte poteva essergli riserbata in una festa? Se avesse ballato, se fosse stato in grado di chiedere una quadriglia, un lancier alla persona che sapeva lui…. allora sì. Invece quella persona egli l’avrebbe appena vista, avrebbe appena potuto dirle una parola….
La contessa si mise a ridere. — Via, via…. Quella persona, che forse io conosco, non vi offre una quadriglia, un lancier, dal momento che non ballate…. Ma si farà accompagnare da voi al buffet…. un privilegio che molti v’invidieranno.
Era una sirena, una vera sirena quella Giorgina. Come resisterle? Teofoli sollevava ancora qualche lieve obbiezione, tanto per la forma, ma si capiva bene che ormai si dava per vinto. Se almeno la sua mansuetudine gli avesse valso dalla contessa una franca spiegazione sull’argomento che più gli stava a cuore! Sembrava però ch’ella neanche si ricordasse d’aver ricevuto da lui una lettera meno docile, meno sommessa del consueto. A un cenno ch’egli gliene fece con infinita circospezione, ella gli chiuse la bocca con una risata e una scrollatina di spalle. — Siete un visionario, — ella disse. E fu tutto.
Alle nove ella si accommiatò da’ suoi ospiti, dovendo vestirsi pel teatro, e Monsieur de la Rue Bianche uscì insieme col professore Teofoli al quale egli mostrava una simpatia straordinaria. E presolo a braccetto si fece accompagnare da lui per le vie della città parlandogli poco di studi e molto di femmine e chiedendogli una serie di notizie che il candido professore non era in grado di fornirgli. Anzi il linguaggio cinico assunto dall’accademico francese circa al bel sesso frenò sulle labbra del buon Teofoli le espansioni e le confidenze a cui forse, come ogni innamorato, egli sarebbe stato disposto. No, non avrebbe tradito il suo sentimento con un uomo che nell’amore non vedeva altro che un passatempo e riassumeva in qualche frase brutale le sue massime sulla linea di condotta da tenersi con le donne. — De l’audace, de l’audace, et toujours de l’audace, — egli diceva battendo forte sulla spalla del suo interlocutore. — C’est le mot de Danton.
Quel benedetto Monsieur de la Rue Bianche non si decideva più a tornare all’albergo. E dopo non so quanti giri e rigiri, attratto dall’illuminazione d’una birreria posta sulla piazza maggiore della città, egli insistè per entrarvi. Ora quella era appunto la birreria ove una volta il professore soleva recarsi tre o quattro sere per settimana, e proprio di fronte alla porta d’ingresso Teofoli si trovò faccia a faccia con Frusti e Dalla Volpe che sedevano soli soletti ad un tavolino. Non potè a meno di salutarli e di presentar loro Monsieur de la Rue Bianche, che Dalla Volpe specialmente avrebbe dovuto conoscer di nome perchè s’occupava di studi analoghi ai suoi. Ma tra i due professori e il dotto confrère c’era troppa diversità d’indole perchè il colloquio riuscisse animato, e Frusti e Dalla Volpe, limitandosi a scambiar poche parole col forestiero, preferirono di vuotare il sacco degli epigrammi contro il collega. Il più esacerbato era Dalla Volpe che aveva sullo stomaco una quantità di pranzi di magro ammannitigli dalla consorte. E tirò in campo la festa dei Gilbert alla quale aveva sentito dire che Teofoli fosse invitato. Era vero?
Verissimo.
E ci sarebbe andato?
Probabile.
— E in che costume? — seguitò Dalla Volpe.
Teofoli avrebbe potuto rispondere che sarebbe andato in abito nero, ma non volle abbassarsi a troppe spiegazioni. — Si vedrà, — egli disse seccamente.
— Allora, — ripigliò Dalla Volpe, — scommetto ch’è vero anche questo: che comparirai da Zefiro….
— E che ballerai un passo di grazia con la contessa Serlati — soggiunse Frusti.
Il professore replicò con mal garbo, e chi sa che battibecco sarebbe successo se la presenza d’un estraneo non avesse servito di freno.
Però Teofoli e Monsieur de la Rue Blanche non istettero molto ad accommiatarsi. Il francese esternò subito la sua antipatia pei due istrici che l’altro gli aveva fatto conoscere e svolse le sue idee sulla necessaria inferiorità di quelli che sfuggono le donne. Beninteso qu’il ne faut pas nager dans l’azur; bisogna andar subito al concreto; se no, guai.
Fra i sarcasmi di Dalla Volpe e di Frusti e le dottrine radicali di Monsieur de la Rue Bianche, il professore tornò a casa che aveva la testa come un cestone. E tutta la notte sognò le mot de Danton: de l’audace, de l’audace, et toujours de l’audace. E, sempre in sogno, fu audacissimo; tanto audace che la mattina, a ricordarsene, sentì drizzarsi i capelli sulla fronte e salirsi le fiamme al viso.
XII.
Comunque sia, in quei giorni, con la migliore volontà del mondo, il professore Teofoli non avrebbe potuto essere audace altro che in sogno. I preparativi pel ballo mascherato dei Gilbert assorbivano tutte le facoltà e tutto il tempo delle signore eleganti di X; le virtuose non badavano più alla loro famiglia, le peccatrici non badavano più ai loro amanti, e quelle che, senza essere ancora cadute, avevano voglia di gustare il frutto proibito, si riserbavano a stendervi la mano in quaresima. Per ora conveniva pensare alla gran serata. Ed erano abboccamenti misteriosi e misteriose corrispondenze con sarti e vestiaristi del paese e di fuori, erano colloqui diplomatici in cui le rivali si tasteggiavano a vicenda cercando strapparsi il geloso segreto di un’acconciatura, del taglio d’un abito, del colore d’un nastro. Si consultavano gli artisti, si sfogliavano le opere più riputate sul costume antico e moderno dei vari popoli, si esaminavano disegni e modelli, si applicava la celebre formola dell’Accademia del Cimento: provando e riprovando…. ogni sorta di foggie. C’era poi da combinare le coppie per le quadriglie, e anche questo grave argomento era oggetto di lunghi e delicatissimi negoziati.
Le intenzioni della contessa rimasero per un pezzo avvolte in un mistero impenetrabile. Finalmente si seppe ch’essa sarebbe comparsa da Madama di Pompadour e che il suo cavaliere nella quadriglia sarebbe stato il marchese Montalto in uniforme di gentiluomo della Corte di Luigi XV.
Teofoli accolse la notizia con mediocre entusiasmo. La marchesa di Pompadour, una favorita! Non c’era proprio di meglio da scegliere?
E con molte reticenze il professore fece intendere alla sua amica che avrebbe preferito qualche cos’altro, qualche tipo immortalato dalla poesia, reso sacro dalla sventura….
— Mio caro, — interruppe la Serlati, — la poesia e la sventura son bellissime cose, ma in un ballo si bada a ben altro che a ciò…. Sarò una marchesa di Pompadour adorabile, ve ne dò la mia parola d’onore… senza esser per questo la favorita di nessun principe….
— O contessa cattiva, può attribuirmi un pensiero simile? Gli è ch’io l’avrei vista così volentieri come Beatrice, come Laura, come Vittoria Colonna….
— Per carità, Teofoli, lasciamole in pace queste illustri signore. Beatrice una maestra di catechismo, Laura una smorfiosa, Vittoria Colonna una pedante…. La mia marchesa di Pompadour almeno è una donna, viziosa fin che vi piace, ma donna, piena di buon gusto, d’eleganza, di spirito…. E poi ella vestiva bene, e quest’è l’essenziale…. domandate l’opinione delle sarte sulle toilettes delle vostre tre dame.
In complesso Teofoli non osava dirlo, ma più che la scelta del costume lo infastidiva la scelta del cavaliere. Montalto? Sempre Montalto? Perchè la Giorgina aveva accordato un tanto favore a quello tra i suoi adoratori che gli dava più ombra?
Questa, pel professore, avrebbe dovuto essere un’ottima ragione per riconfermarsi nella sua prima e savissima idea di non andare dai Gilbert; ma in amore non vi sono ottime ragioni; vi sono degli istinti; vi sono, come direbbero gli avvocati, delle forze irresistibili che ci trascinano a fare precisamente il contrario di quello che sarebbe richiesto dalla nostra quiete e dal nostro decoro.
Nè ormai c’era alcuno che avesse presa sull’animo del buon Teofoli, che potesse trattenerlo sul pendìo sdrucciolevole nel quale egli era avviato. Non aveva altra persona di famiglia che una sorella maritata a Roma e con cui egli scambiava due lettere all’anno; sfuggiva gli amici e in particolar modo gli Ermansi, Frusti, Dalla Volpe, e quando non era all’Università, o nel suo studio, o dai Serlati, vedeva con qualche frequenza il solo Monsieur de la Rue Bianche, che, senza parlargli della contessa Giorgina, coltivava coi discorsi procaci le sue recenti disposizioni erotiche e gl’intronava la testa col mot de Danton: de l’audace, de l’audace et toujours de l’audace.
Si avvicinava intanto la sera del ballo e alla vigilia del memorabile avvenimento la signora Pasqua vide giungere a casa due paia di guanti gris perle, due paia di cravatte bianche e un abito nero completo. Quest’abito nero fu quello che l’impressionò di più, perchè il professore ne aveva uno, fatto da un anno in occasione d’una cerimonia scolastica, e tuttora in buonissime condizioni, tantochè egli se n’era servito anche nel corso dell’inverno per andare nelle sue società.
Dopo la scena che il lettore ricorda, le relazioni tra la signora Pasqua e il padrone erano quelle di due potenze che hanno richiamato gli ambasciatori senza venire a una aperta rottura. Del licenziamento non si parlava nè da una parte nè dall’altra; si dicevano soltanto le cose indispensabili, e si dicevano col minor numero di parole possibile.
Questa volta però la signora Pasqua non potè tacere.
— Scusi, — ella disse, — s’è dimenticato che ha un frac quasi nuovo?
— Non ho dimenticato nulla, — rispose il professore, — ma quel frac non va bene.
— Come? Non è più di moda?
— Già…. Non è più di moda, — replicò Teofoli per troncare il discorso.
Ma la signora Pasqua insistette. — Un uomo come lei curarsi della moda! — ella brontolò. E soggiunse: — Io poi le giuro che il vestito vecchio è dell’identico taglio di questo che il sarto le ha fatto adesso per mangiarle dei quattrini…. Anzi vado a prenderlo…. Vedrà co’ suoi occhi.
— No, no, — ripigliò il professore ordinandole di fermarsi. — Volete saperla la ragione di quel frac nuovo? L’altro era diventato troppo largo e non c’era modo di stringerlo convenientemente….
Vi sono parole che illuminano…. La signora Pasqua guardò il professore e riconobbe subito che il vecchio frac doveva realmente essergli diventato assai largo. In fatti gli eran diventati larghi tutti i vestiti dell’anno scorso.
— È vero, — ella disse a mezza voce. — È dimagrato.
— Meglio così.
La signora Pasqua tentennò la testa. — Mi permetta di non esser del suo parere. Creda a me, questa vita non le conferisce. Benedetti quei tempi che aveva i suoi metodi, i suoi sistemi fissi, e stava solamente co’ suoi amici, e non pensava ad arricciarsi, a profumarsi….
— Oh, ci siamo con le prediche….
— Le chiami prediche fin che vuole, i fatti son fatti…. Una volta aveva appetito e c’era una soddisfazione d’amor proprio a prepararle qualche cosa di buono; adesso non bada neanche a quel boccone che mangia…. seppur lo mangia; una volta era sempre di umore gaio, adesso ha mille pensieri pel capo….
— Insomma, basta….
— Basterà, basterà…. Ma creda pure che non parlo per interesse…. gli è che vorrei il suo bene…. perchè meriterebbe d’esser contento…. e mi fa una pena vedere invece….
— Via, via, — interruppe Teofoli, — vi ringrazio della vostra premura, ma siate pur certa che non ho niente e che piuttosto d’ingrassare son contento di divenir sottile come uno stecco…. In ogni caso il carnevale è agli sgoccioli, e presto finiranno anche questi grandi strapazzi.
— E, — domandò la signora Pasqua con una certa esitazione, — a quel ballo ci va proprio?
— Sì che ci vado…. O credete che andare a un ballo sia come andare alla guerra?
La signora Pasqua avrebbe aggiunto volentieri parecchie altre considerazioni, ma desiderava di non far terminare con un diverbio il primo colloquio amichevole che dopo un così lungo intervallo di musoneria ell’aveva col suo padrone, e uscì lentamente, borbottando: — Non son cose per lei…. Abbia pazienza, non son cose per lei.
Quantunque un po’ maravigliato della singolare tolleranza da lui usata in quell’occasione verso la sua donna di governo, il nostro amico era costretto a riconoscere che la signora Pasqua era animata dalle migliori intenzioni del mondo e ch’egli avrebbe trovato il suo tornaconto a seguire i consigli di lei piuttosto che quelli di chi si ostinava a distrarlo dai suoi studi e dalle sue abitudini. Ed era anche persuaso che la sua salute non fosse quella d’una volta, nè si guardava nello specchio senza riportarne un’impressione penosa. Il dimagrimento era il meno; aveva le guancie terree e fioscie, le labbra scolorite, gli occhi smorti; quell’aspetto insomma che rivela l’amore, ma non dice se si tratti d’un amore troppo felice, o troppo disgraziato. E poi non si sentiva bene; pativa di emicranie, di vertigini, di palpitazioni di cuore, di spossatezza; non si sarebbe più sognato, come un anno addietro, di camminare tre ore di fila. Messo sull’avviso dalle parole della signora Pasqua, egli avvertì, il giorno stesso della sua conversazione con lei, un’oppressione di respiro, un insolito abbassamento di voce, un uggioso tintinnio negli orecchi. Pur non volle consultare il medico nè correre il rischio di esser sottoposto a una cura, obbligato al riposo, impedito d’intervenire al ballo dei Gilbert. E l’intervenire a quel ballo era per lui un punto d’onore, il mancarvi gli sarebbe parso una diserzione, una pusillanimità; un darla vinta agli Ermansi, al Frusti, al Dalla Volpe, alla signora Pasqua, un offrirsi per bersaglio ai loro epigrammi. Ma questo non era il peggio. Il peggio era che gli sarebbe stato forza di rinunziare ad accompagnare la Serlati al buffet, di rinunziare a vederla in tutto lo splendore della sua bellezza e della sua eleganza. L’avrebbe vista invece con la fantasia, cinta dai suoi vagheggini, a braccio del suo Montalto, trascinata nel vortice delle danze, e la visione tormentatrice l’avrebbe fatto ammalar davvero. No, no, sin dopo la festa dei Gilbert egli non aveva il diritto di badare a’ suoi piccoli acciacchi.
XIII.
Quel sabato sera, l’ultimo sabato di carnovale, quantunque nevicasse fitto e tirasse un vento impetuoso che spegneva i lampioni alle cantonate, una folla tenuta indietro a fatica da due guardie municipali s’accalcava dinanzi al palazzo dei Gilbert. Quella gente venuta per curiosità non vedeva null’altro che le finestre illuminate del primo piano, e le carrozze che a una a una infilavano il portone e andavano a deporre il proprio carico a’ piedi della scala, nell’ampio cortile coperto di vetri e adorno di piante e di fiori. Ma gli sguardi profani non arrivavano fino all’ampio cortile, non penetravano nelle chiuse carrozze, e solo di tratto in tratto qualcheduno che conosceva il cocchiere, o i cavalli, o lo stemma, o il monogramma, susurrava al vicino un nome che correva poi per tutte le bocche. E ogni nome sonoro e ogni equipaggio di lusso provocava un bisbiglio lunghissimo, mentre i pochi fiacres che portavano alla festa gl’invitati di minor conto erano accolti da mormorii dispregiativi e da sghignazzate. Tanto fascino conservano, in quest’epoca di vantata democrazia, il blasone e la ricchezza! A quei poveri diavoli che irrigiditi e fradici fino all’ossa stavano lì esposti all’intemperie a godersi lo spettacolo del lusso altrui parevano degni di scherno i modesti borghesi che si recavano al signorile ritrovo senza carrozza propria e livrea.
Anche l’umile vettura che conduceva il nostro Teofoli destò l’ilarità petulante di alcuni monelli, uno dei quali, gran frequentatore della Corte d’Assise, gridò con voce stentorea: — Entra la Corte. — Non si sa se offeso o lusingato dal paragone, il magro ronzino mise un piede in fallo e fu a un pelo per cadere; le risate aumentarono, il fiaccheraio tirò tre o quattro moccoli, e il professore, abbassando il vetro della portiera e cacciando fuori la testa, domandò a due riprese: — Che c’è? Che c’è?
Il cocchiere non si curò di rispondergli, ma fatto far giudizio al cavallo con un paio di frustate entrò solennemente nell’atrio del palazzo.
Abbarbagliato dal fulgor dei lumi e dalla varietà dei colori, e intontito dal brulichìo della gente che saliva lo scalone insieme con lui, il celebre professore Teofoli si trovò, quasi senz’accorgersene, prima nel guardaroba ove un servo gli levò di dosso la pelliccia e gli consegnò una tessera, poi su nell’appartamento di fronte ai coniugi Gilbert che nel severo costume dei contemporanei di Washington, fondatori della libertà americana, ricevevano gli ospiti.
Ed essi ebbero anche per Teofoli una stretta di mano espansiva e una parola gentile, ma non poterono prestare ascolto alla sua risposta, costretti com’erano a badare ai sopravvenienti. Allora il professore girando gli occhi intorno notò con rammarico che in quella sala su trenta o quaranta uomini ce n’erano appena due o tre che vestissero la prosaica marsina, nè una rapida corsa attraverso le altre sale gli offrì argomento di conforto. Dappertutto l’abito nero figurava come un’isola, e una brutta isola in mezzo all’Oceano e quelli che lo indossavano avevano l’aria di vergognarsene. Persino Monsieur de la Rue Blanche, all’ultimo momento, s’era deciso a camuffarsi da dottore della Sorbona, in toga e parrucca, e Teofoli se lo vide comparir dinanzi in questa foggia a braccio d’una dama del primo impero, non giovine, non bella, ma d’un’opulenza di forme che rispondeva ai gusti dell’erudito francese. Era una contessa Aginulfo che Monsieur de la Rue Blanche aveva conosciuto tre sere addietro dal console francese e con la quale egli sembrava disposto a esperimentare il suo sistema de laudace, toujours de l’audace. In fatti egli passò accanto al suo recente amico con piglio di conquistatore e con un sorriso fatuo sul labbro che Teofoli interpretò così: Tu languisci da mesi per una femmina che ti canzona; io in pochi giorni farò capitolar la fortezza.
— Ah, una femmina che mi canzona, — pensava Teofoli. — Riderà bene chi riderà ultimo. Se mi casca un’altra volta sotto le unghie, non sarò mica tanto ingenuo….
Due compagni di sventura del professore, vale a dire due persone che come lui erano in frac, gli vennero incontro sorridenti ed espansivi. L’uno d’essi, il vecchio dottor Lumi, medico dei Gilbert, pieno di decorazioni. — Anche lei, — gli disse, — anche lei ha ottenuto la dispensa…. Sfido io…. noi uomini seri, noi uomini maturi, metterci la maschera, via….
— Ci si trova però alquanto a disagio, — soggiunse l’altro signore, il cavalier Forlier, consigliere di prefettura. — Siamo una minoranza impercettibile.
— Per me, — riprese il dottor Luini, — me ne vado di qui a un’oretta…. E lei, professore?
— Ma…. Non so…. Credo che mi tratterrò un poco di più…. Arrivederci. Voglio fare un giretto per le sale.
Era il secondo giretto che Teofoli faceva al solo ed unico scopo di cercar la Serlati.
Ma la Serlati aveva sempre l’abitudine di arrivare fra le ultime. Del resto, mancavano ancora parecchie fra le stelle della high life cittadina.
Ciò non toglie che l’appartamento fosse ormai affollato e presentasse uno spettacolo incantevole pel lusso degli addobbi, per lo splendore dell’illuminazione, per lo scintillìo dei brillanti, per la bellezza delle signore, pel largo contributo portato alla festa dai costumi di tutti i luoghi e di tutti i tempi, dai capricci della fantasia, dalle geniali evocazioni della letteratura e dell’arte. Qua un giovane e colossale higlander scozzese che pareva uscito da uno dei romanzi di Walter Scott dava il braccio a una fanciulla idealmente bella, miss Gilbert, nipote dei padroni di casa, che nell’aspetto e nel vestire riproduceva alla perfezione il tipo della soave Evangelina di Longfellow,
. . . . . . . in cerula gonnella,
E adorna il crin della normanna cuffia,
E le orecchie dei tremuli pendenti
Che, recati di Francia ai vecchi giorni,
Furon trasmessi poi di madre in figlia….
Più in là una Margherita biondissima, dimentica in quel momento di Fausto, s’appoggiava con un certo abbandono a un mandarino chinese, precedendo di pochi passi una Maria Antonietta, che improvvida dell’avvenire, discorreva animatamente con un Enrico IV. Nel vano di una finestra, un’altra tragica regina, Maria Stuarda, civettava in lingua tedesca con un arabo dall’ampio e pittoresco turbante, e un maresciallo Turenna, ritto davanti a una figlia di Madama Angot, stava aspettando ch’ella avesse bevuto una limonata per riprender dalle sue mani il bicchiere. E trovatori e castellane del Medio Evo, e donne e cavalieri d’ogni età e d’ogni paese, e bizzarre personificazioni di fiori e di piante, e albe rosee, e notti stellate passavano e ripassavano, mentre dall’alto una musica invisibile dava il segnale delle danze. Non si ballava però, o appena cominciato a ballare si smetteva, tant’era la ressa della gente, tanta la curiosità che tutti avevano di esaminarsi a vicenda.
Sulla mezzanotte, quasi contemporaneamente, arrivarono tre gruppi, ciascuno di otto persone che furono ricevuti con grandi applausi. L’uno di mugnai e mugnaie, era tutto composto di ragazze o di giovinetti la cui avvenenza fresca e vivace poteva sfidare quel costume semplicissimo e primitivo. Il secondo ed il terzo ci trasportavano in pieno secolo decimottavo, all’epoca di Luigi XV. Otto fra pastori e pastorelle scesi dai quadri del Watteau, e otto fra gentildonne e gentiluomini della Corte frivola, arguta, elegante. In quest’ultimo gruppo era la Serlati, da marchesa di Pompadour, e al fianco di lei, lindo, attillato, con la mano sinistra sull’elsa dello spadino, il suo Montalto. Che fascino c’era nella Serlati! E come i suoi occhi sfavillavano sotto la parrucca incipriata! Ecco, ell’era appena giunta che già tutti quanti gli sguardi si rivolgevano a lei e i travestimenti meglio riusciti impallidivano al confronto del suo, e le più superbe bellezze si vedevano per sua cagione disertate da una parte dei loro adoratori! Ell’attraversava le sale senza imbarazzo e senza spavalderia, non turbata, non esaltata dal fremito d’ammirazione e di desideri che sollevava intorno a sè, ma con la sicurezza calma e serena, ma con la facile indulgenza di chi non teme rivali.
Quale ella paresse a Teofoli non c’è bisogno di dirlo. Tutti i superlativi del vocabolario gli salivano al labbro ed egli susurrava fra sè: — Stupenda, celeste, divina! — Però, quanto maggiore era il suo entusiasmo, tanto più egli sentiva la follia della sua passione, tanto più si maravigliava seco medesimo delle parole temerarie che aveva poco innanzi masticato fra i denti, quasi per rispondere alla tacita canzonatura di Monsieur de la Rue Blanche. Egli esser l’amante della contessa Giorgina Serlati! Era possibile? Non era un segno d’aberrazione il solo averlo supposto? Eppure…. eppure egli l’amava, su questo punto non c’era dubbio, e l’amore, nato in lui così tardi, aveva tutta la violenza degli amori giovanili…. Sarebbe stato tanto felice di morire per lei. Anzi, poichè questa, ragionevolmente, era la sola felicità a cui egli potesse aspirare, il suo pensiero vi si riposava con una specie di voluttà dolorosa…. Morire…. morire….
Intanto egli era combattuto fra il desiderio di salutar la Giorgina e quello di dileguarsi inavvertito, di fuggir mille miglia lontano da un luogo ov’egli appariva assurdo, ridicolo agli occhi propri.
Ma ella che lo aveva scorto in mezzo alla gente e che non voleva perdere i suoi omaggi (a lei premeva di raccogliere persino le briciole) gli si avvicinò con quella affabilità che le accattivava gli animi. — O Teofoli, bisogna dunque che vi venga incontro io…. E avete voluto far a modo vostro…. venire in frac. V’era così facile indossare una toga di professore…. Avete visto il vostro amico de la Rue Blanche?…. Quei quindici o venti frac (non saranno mica di più) sono i punti neri della festa e son quasi pentita d’aver interceduto io per ottenere questa concessione dai padroni di casa…. Non importa, mi accompagnerete ugualmente al buffet…. quando sarà l’ora della cena…. Speravate forse di esimervi dal vostro impegno? Vi leggo in viso io il vostro tradimento….
— Oh contessa….
— Sì, sì, mi negherete che avevate una mezza intenzione d’andarvene?
— Ma…. — balbettò Teofoli, come uno scolaro côlto in fallo.
— Eh, — interpose con un sorrisetto il marchese di Montalto che faceva da cavaliere alla contessa, — il signor professore non ha l’abitudine di far così tardi….
— In quanto a questo, — replicò l’altro punto sul vivo, — non si dia pensiero…. All’ora della cena sarò al mio posto.
— Bravo Teofoli, — esclamò la Serlati. — Ogni promessa è debito…. verrete a cercarmi nella sala da ballo…. Arrivederci.
E si confuse nella folla.
Era destino. Qualunque atto d’indipendenza egli volesse fare, ella era pronta ad accorgersene, pronta a risaldar la catena che lo avvinceva a lei.
S’era finalmente incominciato a ballare, e per quella selezione naturale che avviene in queste occasioni gli uomini gravi e maturi si trovavan separati dalla parte più giovine e vivace della società.
Il dottor Luini si riaccostò a Teofoli e lo prese pel braccio. — Venga con me, professore, venga a bevere una tazza di tè; chè questo è il vero momento di trovar la sala del buffet quasi vuota.
Teofoli si lasciò condurre, più che per la tazza di tè di cui non gli premeva punto, per riconoscere la situazione. Non era qui infatti ch’egli doveva accompagnare la contessa Giorgina?
Senza esser quasi vuota, come il dottor Luini aveva previsto, la sala del buffet non era nemmeno affollata. La divideva nel senso della sua larghezza una gran tavola ad arco dietro la parte rientrante della quale stavano dodici camerieri in livrea; sulla tovaglia bianca di neve erano disposti in bell’ordine vasi di fiori, trionfi di dolci, piramidi di frutta, vassoi con ogni sorta di pasticceria, servizi di tè e di caffè, ciotole da guazzi, gruppi di bottiglie, calici da sciampagna, bicchieri e bicchierini di tutte le forme e misure. E pensare che il meglio sarebbe venuto poi, quando dopo una mezz’oretta di preparazione, il buffet dolce si sarebbe trasformato in buffet solido e i conoscitori sarebbero stati chiamati a giudicar l’opera collettiva di tre cuochi rivali pacificatisi per poco dinanzi alle medesime casseruole!
Nell’attesa del buffet solido, il professore Arnaldi, maestro d’italiano di Miss Gilbert, faceva onore al buffet dolce, ed egli s’affrettò ad illuminare il dottor Luini e il professor Teofoli sui meriti rispettivi delle varie paste, delle frutta, dei vini ch’egli aveva assaggiati. Già aveva assaggiato di tutto e poteva parlare con cognizione di causa. — Tutto è eccellente, ma provino di questo, ma provino di quello. — E li incoraggiava con l’esempio.
I camerieri sorridevano.
— Per mia moglie e per i miei figliuoli, — diceva il buon professore, prendendo a manate le confetture e riempiendosene le tasche. — È vero che si rischia di rimetterci il frac…. un frac…. quasi nuovo…. ma come si fa?… la famiglia porta degli obblighi.
— Adesso poi per me.
E accennava a uno dei servi di mescergli ancora un bicchiere di champagne frappé, un nettare. Era il decimo ch’egli beveva.
Luini e Teofoli, per sottrarsi a questa pericolosa vicinanza, si tirarono al capo opposto della tavola, ove cinque o sei persone posate dei due sessi sorseggiavano tranquillamente la loro tazza di tè e discorrevano della festa. In fondo, in un angolo, un paggio toscano del quattrocento sbucciava un mandarino per una walkiria pallida, bionda, fantastica.
— Ecco l’età buona per questi divertimenti, — disse a voce bassa il dottor Luini alludendo a quei due che parevano mangiarsi cogli occhi. E soggiunse deponendo la chicchera sulla credenza: — Per me ne ho d’avanzo…. Capisco che lei rimane, Teofoli…. È diventato un discolo lei…. Buona notte.
— Vengo di là anch’io a dare una capatina nella sala da ballo.
— Non vuol perderne una, non vuole….
Il professore Arnaldi, un po’ allegro per lo sciampagna, gridò dietro a Luini e a Teofoli: — Torneranno pel buffet solido, spero…. Ho saputo delle cose, delle cose…. Ci sarà del salmone fresco…. E dei tartufi…. E del pasticcio di Strasburgo…. proprio genuino…. arrivato da Strasburgo direttamente.
— Ma! — notò il dottore mentre usciva dalla sala in compagnia del nostro Teofoli. — Quell’uomo lì, un galantuomo, un brav’uomo, ha trovato un mezzo infallibile per farsi ridicolo.
Teofoli non rispose. Egli aveva il vago presentimento che ci fossero altri mezzi non meno sicuri per raggiungere il medesimo fine.
XIV.
La sala da ballo, assai ampia e di forma regolare, pressochè quadrata, era per tre delle sue pareti rivestita di grandi specchi che moltiplicavano all’infinito le immagini, onde l’occhio si smarriva in quello scintillìo di fiammelle, in quell’intrecciarsi turbinoso di coppie che apparivano, si dileguavano, ricomparivano subitamente, ora di qua ora di là, ora in forma concreta, e palpabile, ora come visioni lontane e fantastiche. Del resto, con tanta folla, non si ballava che dai più pertinaci, urtandosi di continuo coi gomiti, pestandosi i piedi ad ogni momento, fra scuse e risatine brevi, e agitarsi di ventagli, ed esclamazioni involontarie, e fruscìo di vesti, tutte cose che unite insieme davano un rumore simile a quello dell’api che sciamano. Si sarebbe detto che gli specchi rimandassero, oltre che le immagini, il suono.
Il professore Teofoli aveva finito coll’appoggiarsi allo stipite d’un uscio, adattandosi a ricever spintoni da quelli che s’ammontavano dietro a lui per vedere, da quelli che uscivano, da quelli ch’entravano e perfino dai servitori che portavano in giro i rinfreschi. Anzi uno d’essi, dopo esser stato in procinto di rovesciare un vassoio per colpa sua, brontolò con mala grazia: — Vogliamo star lì duri, impalati. — Era singolare come quella sera tutti gli mancassero di riguardo. Teofoli non aveva vanità, non aveva superbia, ma Dio buono, egli aveva pure il convincimento di valer meglio di quattro quinti della gente ch’era raccolta da Gilbert, era avvezzo a esser trattato con rispetto, con deferenza. Quella sera invece non c’era un bellimbusto che non lo squadrasse d’alto in basso con piglio di superiorità. Anche i suoi conoscenti, gli stessi che usavano largheggiar seco in dimostrazioni di stima, appena gli rivolgevano la parola. Passi per la Ermansi che aveva ragioni plausibili di tenergli il broncio e che aveva risposto con estremo sussiego al suo saluto. Ma c’era alla festa una ventina di studenti universitari camuffati in varie foggie, giovinotti che a scuola pendevano dalle sue labbra, volevano essere illuminati da’ suoi consigli e dei quali non uno si degnava adesso di fermarsi a fare un po’ di conversazione con lui. Il meno villano, un paggio Fernando della Partita a scacchi, aveva buttato lì distrattamente un — buona sera, professore, come sta? — E detto ciò per incarico di coscienza l’aveva piantato in asso per correr dietro a un’Ofelia con la quale aveva impegnato la seconda quadriglia.
Il modo di barattar quattro chiacchiere il nostro professore l’avrebbe trovato sicuramente nella stanza da fumare, rifugio ordinario dei vecchi scapoli che hanno rinunziato alla galanteria, e dei mariti filosofi rassegnati ai decreti della Provvidenza; senonchè, egli era inchiodato a quel posto di dove gli era concesso di veder ogni tanto la bella Serlati. La vedeva ora a braccio dell’uno, ora a braccio dell’altro, ballando un giro con questo e con quello, ma nei balli figurati avendo sempre per cavaliere quell’antipatico di Montalto. Poi, fra un ballo e l’altro ella usciva per una delle quattro porte della sala, passava talvolta rasente a lui, accompagnata, ben s’intende, da qualche spasimante, lo salutava con un cenno, con un sorriso, e si perdeva via nella folla che invadeva le stanze vicine. Egli esprimeva la tentazione di seguirla, rattenuto dal timore di farsi scorgere, di recarle noia, e soprattutto dalla certezza di non coglierla mai sola, di non poter mai discorrerle con libertà. E quand’ella rientrava alle prime battute dell’orchestra, e con essa entrava un’onda di gente, una vampata di caldo, egli era ancora appoggiato a quello stipite di marmo, immobile come una cariatide, solo rasciugandosi macchinalmente il sudore col fazzoletto.
Seduta presso di lui a un capo del divano che girava intorno alla sala, e ansante e sbuffante al pari di lui, una signora forestiera di mezza età, molto grassa, lo guardava di tratto in tratto con un’espressione mite e benevola di donna altrettanto disposta a raccontare i propri dolori quanto a intendere e a compatire i dolori altrui. Ella non conosceva Teofoli che non l’era stato presentato, ma parendole ch’egli fosse lì suo malgrado, vittima di qualche dovere domestico, cedette a un bisogno irresistibile di sfogarsi, e lasciando da parte le cerimonie gli disse con una cattiva pronunzia francese: — Ah si ce n’était pour nos enfants!
— Plait-il, Madame? — domandò il professore che non aveva capito.
Allora ella gli spiegò ch’era venuta a quella festa unicamente per accompagnarvi le sue due ragazze e che supponeva vi fosse anche lui per un motivo simile…. Sans cela, mon Dieu!…
Teofoli divenne rosso e balbettò una frase evasiva. Per fortuna la degna signora era alquanto sorda e non voleva esser creduta tale, ciò che la induceva ad appagarsi di qualunque risposta.
— Ah, oui, naturellement, — ella soggiunse. E saltando ad altro argomento fece notare al suo vicino che in quella temperatura tropicale sudavano persino i muri e ch’egli s’era bagnata la manica del vestito a forza di stare appoggiato allo stipite…. Se si contentava del po’ di posto che c’era vicino a lei…. E lealmente, coscienziosamente, ella si ristrinse più che potè, mentr’egli per non commettere una troppo grossa villania approfittava del non ambito favore.
Egli sedette così per alcuni minuti, rattrappito sul divano, soffocando peggio di prima e non abbracciando più come prima con lo sguardo l’insieme della sala. Anzi, davanti a sè, non vedeva che un gran turbinio di veli, uno svolgersi serpentino di code, un ondeggiar di capigliature nei ritmici movimenti del ballo. Vedeva invece alla sua destra sullo stesso divano una serie di faccie sonnolenti e ingrugnate: mamme sospiranti il letto e combattute fra la speranza che le loro figliuole potessero trovare un marito e il timore ch’esse tornassero a casa con nuovi grilli in capo; vecchie zitelle furibonde d’esser lasciate in disparte; vecchie eleganti schiacciate dall’umiliazione dell’insolito abbandono; fanciulle anche non goffe, non brutte, ma smarrite in una società ove non conoscevano quasi nessuno e aventi l’aria di naufraghi in cerca di una tavola di salvezza. Quante, quante delusioni! E per pochi trionfi quante disfatte!
La facoltà di assurgere dalla considerazione dei fatti particolari alle idee generali offre, per quel che dicono, qualche conforto. Essa offre almeno un modo di distrarsi, e il nostro professore, nello studiare il dietro scena d’una festa, sviava per un istante il pensiero dalle sue tribolazioni e non s’accorgeva, non foss’altro che dal movimento vertiginoso dell’orchestra, che i secondi lanciers toccavano al loro termine e che si avvicinava per lui il gran momento di porgere il braccio alla contessa Giorgina Serlati. Poichè si sapeva che dopo i secondi lanciers si sarebbe aperto il buffet.
L’improvviso cessar della musica e la confusione, che ne seguì richiamarono Teofoli al senso della realtà. Egli si alzò di scatto, dominando con uno sforzo della volontà un inesplicabile malessere, stupito di non provare nessun entusiasmo, di sentirsi piuttosto simile a chi ubbidisce a una consegna che a chi è posseduto dal fuoco sacro delle battaglie. Durante il tempo che era stato seduto aveva perso di vista la contessa; la scorse adesso in fondo alla sala, appoggiata tuttavia al braccio di Montalto e cinta dalle altre coppie che avevano ballato nel medesimo carré e che parevano, uomini e donne, inchinarla come regina. Era una dedizione universale; bella, dicevano con entusiasmo gli sguardi accesi degli uomini; bella, dicevano con manifesto dispetto i sorrisi forzati delle signore.
Il professore esitò. L’idea d’appressarsi al crocchio dove si trovava la Giorgina lo atterriva addirittura. Ah se avesse potuto sguisciar via inosservato! Probabilmente ella non lo aspettava, non si ricordava nemmeno di lui, della promessa che gli aveva fatta; e quando pur se ne fosse ricordata, gli sarebbe stata riconoscente di dimenticarsene in vece sua…. E in ogni modo, non avrebb’egli sempre potuto addurre la scusa d’un’indisposizione subitanea?
Ma non gli rimase agio di pesare il pro e il contro di questa fuga. La contessa aveva notato la sua presenza, e rispondendo con una scrollatina di spalle alle rimostranze e alle preghiere di Montalto lo aveva chiamato a sè con un cenno.
Non c’era più via di scampo e Teofoli fendette la folla per avvicinarsi alla sua tiranna.
— Ebbene, — ella gli disse staccandosi bruscamente dal suo cavaliere e passando sotto il braccio di lui il suo braccio nudo fino all’ascella, — perchè non eravate pronto?…
Ella si voltò a Montalto che non si risolveva ad allontanarsi, e gli tese la mano con un — A più tardi.
Una signora in costume da Direttorio susurrò dietro il ventaglio al suo cavaliere: — Pagherei sapere che gusto ci trovi la Serlati a mettere alla berlina quel povero professore Teofoli.
— Eh, — replicò l’interrogato; — il gusto che le donne ci trovano sempre a far disperare gli uomini.
— La più bella della festa in compagnia del più brutto, — sghignazzò qualcheduno.
— Sì, — soggiunse un altro, — ma la figura ridicola la fa lui.
— Montalto inghiotte tanto veleno, — notò con compiacenza una Caterina de’ Medici che non poteva soffrire il marchesino.
— Non credere, — disse un’amica. — Se non ha rivali più formidabili di così….
Tutta questa gente usciva in processione dalla sala da ballo, attraversava altre quattro stanze fra cui la stanza da giuoco, e si dirigeva al buffet ch’era rimasto chiuso per una mezz’ora e adesso si riapriva trasformato interamente d’aspetto con una ventina di tavolini da quattro posti per ciascheduno, apparecchiati di qua dal banco ove gl’intenditori avrebbero potuto ammirare una vera esposizione gastronomica. Quello però non era il momento di contemplazioni platoniche.
Come accade sempre, il buffet fu preso d’assalto. S’era bensì fatta correr la parola d’ordine che i posti a sedere, anche per le sole signore, eran pochi, che la stanza era d’una capacità limitata e che sarebbe stato opportuno di non venirci tutti quanti in una volta. La grande maggioranza non s’era arresa a queste ragioni. In un attimo i tavolini furono occupati, e dinanzi al banco si vide la scena edificante d’una massa d’uomini urlanti, dimenantisi a guisa d’ossessi, intenti a soverchiarsi a vicenda, quali per saziar presto le loro dame, quali per saziar sè medesimi.
— Qua, Giorgina…. Qua, contessa, — gridarono ad una voce tre signore chiamando alla loro tavola la bella Serlati. — C’è un posto…. Ed è Teofoli che ti serve?
— Ma sì.
— Come vuoi che faccia? È proprio roba per lui….
— Vedremo…. Da bravo, Teofoli, procuratemi intanto una tazza di consommé.
XV.
Col dire che non era roba per lui, quella signora che Teofoli conosceva superficialmente aveva detto una gran verità, e il povero professore nell’ubbidire all’ordine della contessa somigliava a chi si getta a capofitto nell’acqua senza saper nuotare. Più basso di statura, meno largo di spalle, meno forte di gomiti, meno robusto di polmoni della maggior parte di quelli che s’addensavano intorno al banco, egli non riesciva nè a cacciarsi innanzi nè a far sentire il suo disperato appello. — Un consommé! Un consommé! — Nè s’avvedeva intanto che Montalto il quale s’era impuntato a servir lui la contessa, stendendo le suo lunghe braccia al disopra delle spalle d’un amico indulgente, otteneva la desiderata tazza di brodo e la portava come trofeo alla donna del suo cuore.
Sulle prime la Giorgina lo rimproverò. — Che insistenza è la vostra, Montalto? Sapete che ho dato l’incarico al professore.
Le sue compagne si misero a ridere. — Sei matta ad aver questi scrupoli?… Chi primo arriva primo alloggia…. E poi stai fresca se aspetti il tuo professore….
— Voi altre però, — riprese la contessa, — avete più pazienza coi vostri cavalieri.
— Eh…. se indugiassero troppo ricorreremmo anche noi a Montalto…. Non è vero, Montalto, che servirebbe anche noi…. s’intende dopo la contessa Serlati?
— Si figurino…. Con tutto il piacere.
Queste eccellenti ragioni vinsero la perplessità della contessa. Montalto, raggiante, le susurrò una parola di tenero ringraziamento e si slanciò di nuovo nel fitto della mischia.
Uno a uno gli eleganti giovinotti si presentavano alle loro dame chi con un piatto, chi con una bottiglia, ultimo comparve il professore con la sua tazza di consommé.
— Tardi, tardi, Teofoli — disse l’adorabile marchesa di Pompadour con accento di sincero rammarico. — Avevo proprio bisogno d’una goccia di brodo, me l’hanno offerto e l’ho preso.
— Ha fatto bene, — rispose il professore a denti stretti. — A ogni modo potrebbe prendere anche questa tazza….
— Ah no, grazie…. Mi basta…. Piuttosto cercate d’aver qualcos’altro…. della lingua, del salmone, del pasticcio di Strasburgo…. quello che vi si dà insomma.
— Sì, sì, professore, — gridò la Del Viale, una leggiadra brunetta in costume di maga che sedeva a sinistra della Serlati, — ci porti del pasticcio di Strasburgo.
— E del salmone in abbondanza, — soggiunse la Binasco, una madama Recamier che pareva in camicia.
— Badi a me sola, — ripigliò la Serlati, — se no, non ne viene più a capo.
E quando Teofoli si fu allontanato per ritentar la difficile impresa, ella si rivolse alle amiche: — Non ci mancavate che voi per fargli perdere la bussola.
— Vorresti aver tu questo privilegio? — dissero le altre. — Li accaparri tutti gli uomini, di tutte le specie, di tutte l’età…. nobili e borghesi, dotti e ignoranti, giovani e vecchi;… non ti vergogni?… Ecco, noi ti ruberemo il tuo professore.
Era chiaro che in quei cervelli leggeri era entrata l’idea di burlarsi del disgraziato Teofoli. La Serlati resisteva ancora, ma resisteva fiaccamente. Non poteva permettere che le si attribuisse una inclinazione seria pel professore. E poi il caldo ed il vino cominciavano a salirle alla testa.
Al banco crescevano la confusione e lo strepito, e i camerieri non sapevano più da che parte voltarsi, sconcertati dallo spettacolo di quelle cento braccia che s’agitavano in aria, quali per consegnare, quali per ricevere un piatto, storditi dal frastuono di quei cento ordini che si accavallavano, per così dire, l’uno sull’altro, nelle diverse lingue europee, con le diverse inflessioni di voci, imperiose, persuasive, supplichevoli.
— Del salmone….
— Prego, del pasticcio di Strasburgo.
— E questo prosciutto viene o non viene?
— Fate il piacere, del fagiano, per due signore….
— Una bottiglia di Bordeaux, presto.
I vari postulanti si guardavano in cagnesco, frenando a stento la voglia di scambiarsi dei vituperi, di cacciarsi a calci fuori della sala. Bastava sentire in che modo secco, rabbioso fossero pronunciati quei pardon, pardon, che per un resto d’educazione accompagnavano gli spintoni e le gomitate. Ma i più irritanti erano quattro o cinque signori in frac che giunti alla prima fila vi si mantenevano imperterriti riempiendosi l’epa di tutti i cibi e di tutti i vini, e opponendo una resistenza passiva alle preghiere, alle sollecitazioni, ai sarcasmi, agli urti.
Quando il professore Teofoli, dopo immani fatiche, arrivò presso al banco per riconsegnarvi la tazza di brodo che la contessa Serlati non aveva voluto, e per farsi dare del salmone, o della lingua, o del pasticcio di Strasburgo, egli trovò dinanzi a sè, ultimo ma non facilmente superabile ostacolo, uno di questi pilastri mangianti e beventi. Ed egli aveva un bel dire, nella lingua internazionale dei salotti: — Pardon, monsieur — permettez, monsieur, un petit moment. — Monsieur, che era rimasto sordo a tante esortazioni, sarebbe rimasto sordo anche a questa, se non avesse riconosciuto, a malgrado dell’idioma straniero, la voce dell’illustre Teofoli. Ciò lo indusse a fare un quarto di giro e a presentare a Teofoli il suo profilo. Era il professore Arnaldi.
— Caro collega, — esclamò costui reso tenero ed espansivo dal vino, — dica a me, io la faccio servir subito…. Ma ha una tazza di brodo ancora piena…. Perchè non la beve?… Vuol riconsegnarla?… Poteva darla a un servo qualunque o metterla su una mensola…. A ogni modo dia qui…. Ecco…. E adesso parli, che cosa desidera?… Io la consiglierei a provar di tutto…. Non c’è niente da buttar via, l’assicuro…. Cominci dalla lingua affumicata.
— Ma no, — interruppe Teofoli, — non si tratta di me…. si tratta di alcune signore….
— Alcune signore?… Corbezzoli…. Si piglia di questi impicci, caro collega?… Non la invidio davvero…. Però vada pure per le signore…. Che cosa devo procurare per le signore?
La qualità dell’alleato non piaceva troppo a Teofoli, nè gli piaceva, nella sua aristocrazia di professore universitario, quel titolo di collega datogli così da un maestrucolo; tuttavia egli non si sentiva forte abbastanza da rispinger la mano pietosa che veniva in suo soccorso, e disse: — Poichè è tanto gentile, cerchi d’aver del salmone…. E del pasticcio…. in due piatti…. Già più di due piatti non si possono mica portare.
In quel momento, come per dargli una solenne smentita, il marchese Montalto gli passava accanto portando a ignota destinazione, con la disinvoltura d’un cameriere di trattoria, non due piatti ma quattro. Per fortuna Teofoli non se ne accorse.
— Del salmone! Del pasticcio! — gridava Arnaldi. E sentiva il bisogno di soggiungere a sua giustificazione: — Non per me, per delle signore.
I camerieri ubbidivano in silenzio. Solo nel guardarsi sorridevano a fior di labbro, di quel sorriso fine, diplomatico, che riavvicina un credenziere a un ministro plenipotenziario.
Fra i presenti corse un fremito d’indignazione.
— È un’enormità.
— Non s’è mai visto una cosa simile.
— Quelli non son uomini, son lupi, pesci cani….
— Questa volta agisce per procura, — bisbigliò qualcuno che aveva côlto una parte del dialogo tra i due professori.
— Sarà un pretesto, — rimbeccò uno scettico.
Ma convenne arrendersi all’evidenza. Allora un bello spirito slanciò un epigramma. — Società di mutuo soccorso fra i docenti.
Troppo occupato a tener in equilibrio i suoi due piatti, Teofoli non badò ai sarcasmi. Se arrivava sano e salvo era un miracolo.
Egli attraversò senza peripezie la barricata umana che divideva il banco dal resto della sala, navigò felicemente tra gli scogli dei tavolini, delle sedie smosse, dei lunghi strascichi di velluto e di seta, e pervenne al termine del suo viaggio, cioè al tavolino della Serlati. Ivi però lo aspettava una dolorosa sorpresa.
Intorno a quel tavolino s’addensava un nugolo di galanti. Ne avevano, com’è giusto, anche le tre compagne della Giorgina, ma i più erano per lei. E, ciò ch’è peggio, fra questi c’era Montalto che appoggiato alla spalliera della seggiola della contessa le susurrava chi sa quali freddure, mentr’ella alzando gli occhi dal piatto e volgendo alquanto la testa lo ascoltava con deferenza e gli offriva un frutto con la sua bianca manina. Insomma un idillio commovente. Il tavolino, si può immaginarsi, era pieno d’ogni ben di Dio, da sfamare non quattro delicate signore ma una dozzina d’uomini digiuni da una settimana; poichè tutti quei giovinotti, confidando di giungere al cuore delle loro belle per la via del palato e dello stomaco, erano andati a gara per recar loro le proprie offerte.
Era naturale quindi che la comparsa del professore fosse accolta con uno scoppiettìo di frizzi mordaci.
— È il soccorso di Pisa.
— La vettura del Negri.
— Il leggendario burchiello di Padova.
— Caro amico, — disse la Giorgina, — è una fatalità, ma siete sempre in ritardo…. Vedete quanta roba hanno già portato questi signori.
Teofoli, pallidissimo, si morse il labbro. — Però…. Io ho fatto quanto più presto m’era possibile…. e speravo….
— Che avessi pazienza, non è vero?… Dio buono…. non conviene poi prender le cose sulla punta della spada…. Son sere eccezionali…. Mi dispiace che abbiate avuto tante seccature per nulla.
Ritto in mezzo a quella gioventù canzonatrice co’ suoi due piatti in mano che non sapeva dove posare, il professore faceva una ben grama figura.
— Mangi lei, — gli suggerì la Binasco.
— Guardi, — soggiunse la Fiorenzi, una bionda slavata che fino allora aveva parlato pochissimo; — laggiù è rimasta libera una sedia…. La pigli e s’accomodi vicino a me.
— O come vuoi che pigli la sedia se ha tutte le due mani impegnate? — le chiese piano la Del Viale.
— Zitto, — rispose la Fiorenzi nello stesso tuono di voce. — Ho detto apposta…. per confonderlo peggio…. Non vedi com’è grottesco? Giurerei che fa qualche malanno.
La Fiorenzi aveva una reputazione bene assodata d’istinti profetici. Ella aveva appena finito di confidare le sue previsioni alla Del Viale che il professore con un movimento falso urtava una contessa Marziani la quale s’era alzata allora da una tavola vicina e stava raccogliendo la coda prolissa del suo vestito da gentildonna veneziana del secolo scorso. Nell’urto uno dei due piatti si piegò alquanto da un lato, e parte della gelatina che guarniva il pasticcio andò a cader sopra l’abito della dama. Ella ebbe un ruggito da leonessa ferita e il suo cavaliere, un alcade spagnuolo, slanciò a Teofoli insieme con uno sguardo fulmineo un monsieur che per sè non voleva dir nulla, ma che, pel modo in cui era pronunciato, appariva gravido di minaccie e poteva contenere anche un cartello di sfida. Guai se il professore avesse reagito! Egli però riconosceva il suo torto e biascicò alcune parole di scusa. Il cavaliere interrogò con gli occhi la sua dama, pronto, non se ne dubita neanche, a lavar col sangue dell’offensore la macchia fatta dalla gelatina al vestito di lei. Per fortuna la dama gli accennò di smettere e la cosa terminò lì. La gentildonna veneziana e il suo belligero campione si allontanarono maestosamente; il professore Teofoli consegnò il suo carico malaugurato al primo domestico che gli si parò innanzi, e si lasciò cader sfinito sopra una sedia.
Alla tavola della Serlati questa scenetta destò un’ilarità irrefrenabile. Era quel riso che somiglia a una convulsione, che s’alimenta da sè stesso, che fa dire a chi ne ignora la causa: — O che son diventati matti?
Ma Teofoli non ne ignorava la causa. Egli capiva perfettamente che quelle donnine frivole e quei zerbinotti melensi ridevano di lui. E degli altri non gli sarebbe importato. Era il riso della Giorgina che lo feriva al cuore, era il veder che la Giorgina si faceva mescer lo sciampagna da Montalto, e accostava il suo calice a quello dell’elegante marchese e gli permetteva di chinarsele addosso sguajatamente fino quasi a sfiorarle con la bocca le spalle nude. A un certo punto non ne potè più; ebbe uno scatto d’energia, si rizzò in piedi d’un colpo e si mosse per andarsene da un luogo ove non raccoglieva che umiliazioni.
— Professore, professore, — gridarono dal crocchio della contessa Serlati. — Ma dove va? Ma venga qui…. Vogliamo fare un brindisi alla sua salute.
— Teofoli…. via…. che furia avete? Bevete un bicchiere di sciampagna con noi.
Era la voce della Giorgina. Ma anche quella voce rimase inascoltata. Essa gli pareva rauca, aspra, stridula come se lo stromento si fosse guasto, come se qualche corda se ne fosse infranta.
Uno di quei giovani gli corse dietro. In nome della contessa Serlati e dell’altro signore, in nome di tutti lo si pregava di trattenersi ancora un pochino, di sedere alla loro tavola.
Il professore fece un segno negativo col capo e affrettò il passo. Non era più una partenza, era una fuga.
XVI.
Ormai tutti quelli che non avevano intenzione di assistere al cotillon lasciavano la festa.
Ai nomi sonori slanciati nella strada a voce alta dal guardaportone, le carrozze signorili entravano a una a una nell’atrio, si fermavano ai piedi della scala, accoglievano fra i morbidi guanciali e le soffici coperte di lana i padroni imbacuccati nelle loro pelliccie, e da quell’ambiente di luce e di tepore uscivano fuori nella burrasca invernale.
Quando toccò il turno del professore, il guardaportone gli chiese il suo nome.
— Chiamate il numero del fiacre, 174. È più sicuro, — disse il professore.
Il maestoso personaggio aggrottò alquanto le ciglia, e come se lo sue labbra si rifiutassero a così umile ufficio confidò quel miserabile numero a un suo dipendente che andò a gridarlo di malavoglia. — Il fiacre numero 174.
A compenso delle orecchie delicate offese da questo suono, il guardaportone in persona fece, subito dopo, echeggiar l’aria di alcune note superbe: — La carrozza del duca Ferrando della Torre Merlata.
Lo stuolo dei lacchè tirò un sospiro di soddisfazione. Questi son nomi!
Sebbene il fiacre numero 174 dovesse aver la precedenza sulla carrozza del duca Ferrando della Torre Merlata, accadde tutto l’opposto, essendo troppo giusto che il signor duca e la signora duchessa non pigliassero freddo nemmeno per un minuto secondo. Il fiaccheraio, vedendosi passato in seconda linea, si permise due o tre frasi poco parlamentari che scandalizzarono il nobile servidorame. — È gente che non ha educazione — notò con gravità uno della marmaglia.
— In queste case bisognerebbe venire per lo meno con legni di rimessa, — soggiunse un altro.
E un terzo, più aristocratico, sentenziò: — Il meglio sarebbe non invitare chi non ha equipaggio proprio.
Checchè ne sia, il professor Teofoli fu alla fine, bene o male, insaccato nella sua vettura.
— Avanti, — disse uno dei domestici dei Gilbert chiudendo rumorosamente lo sportello.
Avanti nella neve, avanti nel freddo e nel buio. Nella neve che picchiava con un suono metallico sui vetri dei finestrini, nel freddo che penetrava attraverso tutte le commessure, nel buio rotto appena dal raggio fioco e tremolante dei due lampioni del fiacre. La città dormiva avvolta nel suo lenzuolo bianco; non un’imposta, non un negozio aperto, non un pedone nella via o sotto i portici; solo di tratto in tratto qualche carrozza a due cavalli, proveniente anch’essa dal palazzo Gilbert, oltrepassava in silenzio il modesto veicolo del professore.
Il valentuomo era in preda a una sonnolenza affannosa che gli faceva appoggiar la testa ora da un lato ora dall’altro della vettura senza quietarsi mai interamente, ma che aveva il vantaggio inestimabile di smorzar in lui le impressioni di quella notte sciagurata. Delle cose viste ed udite gli restava come una fantasmagoria confusa, come una risonanza lontana; gli restava un vago ricordo, non troppo acerbo però, di qualche torto patito, di qualche pena sofferta. E provava insieme una gran maraviglia d’essersi trovato in mezzo a quel frastuono, a quel chiasso, un desiderio intenso di solitudine e di raccoglimento, un’impazienza vivissima d’esser di nuovo nel suo studio, in mezzo a’ suoi manoscritti e a’ suoi libri.
Allorchè il fiacre si fermò dinanzi alla porta della sua casa il professore uscì bruscamente da quello stato di dormiveglia e sentì per un momento ridestarsi nell’animo la rabbia, la mortificazione, l’angoscia che lo avevano straziato a gara durante la festa. Ma non fu che un momento. Una sofferenza fisica acuta distrasse la sua attenzione dalle sofferenze morali. Appena sceso di carrozza s’accorse che durava fatica a tenersi ritto; una puntura assidua alla parte sinistra del petto gli toglieva il respiro; aveva un cerchio alla testa, un’arsura alla gola, una gravezza fastidiosa a tutte le membra. Nondimeno, senza chiamare la signora Pasqua che non lo aspettava mai alzata la notte, egli potè accendere il lume, salir il breve tratto di scala che conduceva al suo quartierino, entrar nella sua camera e mettersi a letto. Ma invece di averne sollievo si sentì peggio. Gli cresceva l’ambascia, il dolor di capo, la sete inappagata, rabbiosa. La coltrice gli pareva irta di spine, le coperte gli pesavano come se avesse addosso una montagna: aveva negli occhi, anche dopo spenta la candela, un barbaglio molesto, aveva negli orecchi un ronzìo come di qualche insetto che vi fosse prigioniero.
Era giunto a casa verso le quattro; alle sei non ne potè più e suonò il campanello.
Al vederlo col petto ansante, col volto acceso, con le pupille stralunate, la signora Pasqua congiunse le mani ed esclamò: — Vergine santissima, che cos’ha?
— Sto poco bene; credo d’aver la febbre, — rispose il professore con voce fioca.
La signora Pasqua che pretendeva d’intendersene gli tastò il polso. — Altro che febbre! Un febbrone.
Poi, pentita della sua franchezza brutale, soggiunse: — Non sarà nulla…. Sarà un’effimera…. Avrà preso del freddo uscendo da quella festa…. Là, figuriamoci, sarà stata una fornace. E quando non si è usi a certi strapazzi…. Se avesse dato retta a me….
— Sì, sì, avrei fatto molto meglio…. Non mi ci vedono mai più in quei posti…. mai più.
La docilità insolita del professore sconcertò la signora Pasqua. — O pover’uomo! — ella pensò. — Dev’essere proprio a mal partito se mi dà ragione così….
E poichè era preparata a discutere rimase per qualche istante senza parola, accomodando i guanciali sotto il capo dell’ammalato.
— Perchè non suonar subito? — ella disse finalmente.
— Speravo d’addormentarmi…. Ma non c’è stato verso…. Fatemi aver del ghiaccio…. E appena vien Fedele mandatelo dal professore Astigiano, il mio medico…. Dev’essere in città…. E se non c’è lui, da Barelli, l’altro mio collega, che sta in piazza Vittorio Emanuele a fianco del Caffè d’Italia.
Teofoli parlava a stento, interrotto da frequenti colpi di tosse.
— È un raffreddore, un gran raffreddore, — ripigliò la signora Pasqua. — Non si sforzi a discorrere. Cerchi di sudare piuttosto. Dal professore Astigiano andrò io in persona. Fedele non sarà qui che dopo le otto…. Ma non si dia pensiero, non lo lascerò mica solo. Pregherò la portinaia di salire per una mezz’ora. E se le occorre qualcosa, tiri il campanello….
— Va bene…. Ma del ghiaccio, mi raccomando.
— Prenderò anche del ghiaccio…. quantunque, secondo me, un sudorifero farebbe più al caso…. Basta, verrà il medico.
Di medici, anzichè uno, ne vennero due, prima il Barelli e poi l’Astigiano che non era a casa quando la signora Pasqua andò a chiamarlo, ma che tornò nella mattina stessa da un consulto in provincia e corse subito dall’amico e cliente. I due luminari della diagnosi e della terapeutica furono d’accordo nel riconoscere la gravità della malattia ch’era una pleuropneumonite con complicazione cardiaca, la qual cosa dava maggior pensiero del resto e portava seco il pericolo di soffocazione improvvisa, per sincope. E siccome la clinica universitaria vantava nel professore Ravanetti uno specialista per le affezioni di cuore, anche il Ravanetti fu pregato di esaminare l’infermo, ciò ch’egli fece nella sera stessa, pronunciando un responso identico a quello dei due onorandi colleghi.
Intanto la notizia del male violento che aveva colpito l’insigne professore Teofoli s’era diffusa nella città e vi aveva destato una dolorosa maraviglia. — Come? — si diceva: — Se poche ore fa era alla festa dei Gilbert?
Allora qualcheduno notava che il professore da un pezzo non era più lui, ch’era pallido, ch’era magro, ch’era di cattivo umore. E altri accennavano in aria di mistero a quella sua disgraziata passione per la Serlati, la prima origine di tutti quanti i suoi guai.
— Sarà un travaso di bile per chi sa che brutto tiro di quella civetta, — borbottavano Frusti e Dalla Volpe.
E nel loro scetticismo non vollero, il primo giorno, nemmeno passare a casa Teofoli ad assumervi informazioni precise.
La seconda mattina però, dopo un colloquio con l’Astigiano e col Barelli, i due arcigni e ringhiosi personaggi si piegarono a più miti consigli e si recarono in persona da colui che pochi mesi addietro essi seguivano come due cani fedeli.
Teofoli mostrò di vederli con piacere, discorse loro, per quanto glielo consentiva il respiro corto e affannoso, delle faccende dell’Università, li invitò a tornar presto, ed espresse l’intenzione, appena ristabilito, di riprender la vita d’un tempo, i suoi pranzetti nell’intimità, le sue passeggiate, le sedutine in birreria.
In complesso i due professori non furono scontenti della loro visita.
— Il diavolo non sarà così brutto come si voleva farci credere, — essi dissero alla signora Pasqua che li riaccompagnava. — E sembra almeno che d’una delle sue malattie, della peggiore, egli sia guarito…. Quella femmina….
— Quella femmina, — proruppe con impeto la signora Pasqua, — lo ha assassinato…. Guarito di quella malattia?… È vero, sembrerebbe che fosse guarito. Ma non c’è da fidarsene…. E scommetterei che uscendo di casa egli correrebbe subito dalla signora contessa…. Pur troppo, — ella soggiunse rasciugandosi gli occhi col lembo del grembiale, — non esce di casa, no, per adesso…. E voglia il cielo….
— Eh via….
— E pensare che se non ci fosse stata quella femmina….! — ripigliò la signora Pasqua sfogando la sua acrimonia contro la Serlati. — Brutta pettegola!… Lusingare un uomo come il professor Teofoli e poi prendersi gioco di lui…. Perchè è andata così, giurerei ch’è andata così.
— Donne, cara signora Pasqua, donne! — esclamò Frusti.
— Per questo è vero, — ella rispose. — Donne, e s’è detto molto…. Ma che non ci sian proprio eccezioni?… Io, per poco donna che mi senta, se avessi dato delle speranze a un uomo….
La signora Pasqua capì ch’era in procinto di dir qualche cosa di contrario alla pudicizia e lasciò che i suoi interlocutori tirassero la conclusione delle sue premesse.
— Già, signora Pasqua, già, — biascicarono i due professori, alquanto stupiti che la fiera virago venisse ad ammettere implicitamente di avere un sesso. E con questo innocuo monosillabo si accomiatarono.
Cammin facendo, l’ombroso Frusti manifestò al compagno il sospetto che la signora Pasqua mirasse ad offrirsi al padrone come succedaneo della contessa Serlati.
Dalla Volpe si strinse nelle spalle. — Sei pazzo? Un mostro simile? Credi che Teofoli se ne contenterebbe?
— Eh, quando a uno si caccia nell’ossa il prurito amoroso, — replicò Frusti, — non c’è mostro che tenga. Si comincia col cercar la bellezza, si finisce coll’adattarsi a quel che si trova…. Beati quegli organismi che son maschio e femmina a un tempo…. Per loro almeno la questione è risolta.
— Sì, — rimbeccò Dalla Volpe, — sarebbe come s’io avessi mia moglie sempre attaccata. Non ci mancherebbe altro.
XVII.
E in quel giorno e nei giorni successivi ci fu a tutte l’ore un gran viavai a casa Teofoli. Venivano i colleghi e i discepoli; venivano gli amici e i semplici conoscenti; venivano, o mandavano, anche gli estranei che tenevano in pregio l’ingegno e la dottrina del professore. Alcuni privilegiati, o intimi realmente, o creduti tali dalla signora Pasqua, erano lasciati salir le scale e fatti passar nella camera da studio ch’era attigua alla camera da letto, e di dove potevano, essendo aperto dì e notte l’uscio di comunicazione tra le due stanze, scambiare con l’infermo uno sguardo, un gesto, una parola. Così, nonostante il divieto dei dottori, egli vedeva spesso qualcheduno, o colleghi, o studenti, o il rettore dell’Università, o il conservatore dell’Archivio, o il prefetto della Biblioteca, ecc., ecc. E quand’essi s’affacciavano alla soglia, egli, senz’alzar la testa dai guanciali, chiamava a sè ora questo, ora quello, mormorava un ringraziamento, chiedeva un’informazione. Una sera notò la presenza del conte Ermansi, gli fece segno di avvicinarsi, lo pregò di salutar la contessa e di assicurarla che la sua prima visita, quando uscisse di casa, sarebbe per lei. Era manifesto che o non credeva o simulava di non credere alla gravità del suo stato. Si sarebbe detto piuttosto ch’egli riteneva di attraversare una crisi benefica dopo la quale il vecchio uomo sarebbe risorto. E ch’egli aiutasse questa risurrezione con uno sforzo della volontà si capiva anche dallo studio con cui schivava di alludere ai casi e alle persone che avevano avuto una parte prominente negli ultimi mesi della sua esistenza. Un’unica volta domandò alla signora Pasqua se i Serlati si fossero fatti vivi.
— Sì, sì, mandano il servitore, — borbottò la donna con mala grazia. — Avrebbero dovuto venir loro, mi sembra.
E la signora Pasqua si mostrava disposta a continuare su questo tuono, ma Teofoli si voltò sul fianco per tentar di dormire, ciò che non gli riusciva da quando s’era messo a letto, tormentato com’era da un’ambascia ribelle a tutte le cure.
A ogni modo chi non badava che alle apparenze, chi lo vedeva conservar la sua mente lucidissima, chi lo sentiva far mille disegni per l’avvenire non sapeva capacitarsi ch’egli fosse in gran burrasca.
I medici invece tentennavano il capo sfiduciati. E alla fine della settimana uno di loro, il professore Astigiano, accennò all’opportunità di avvertir la sola parente stretta che Teofoli avesse, la sorella maritata a Roma.
La signora Pasqua che, nonostante le sue molte singolarità, era uno spirito equanime, propendeva pel sì; Frusti e Dalla Volpe, i due amici più assidui al letto dell’ammalato, propendevano pel no. — Una donna?…. — essi brontolavano. — Che cosa può far di bene una donna?… Una sorella della quale Teofoli non parla mai?… Se l’avesse desiderata l’avrebbe chiesta.
— E perchè non interrogare in proposito lui stesso?… — notò giudiziosamente qualcuno.
Qui sorsero in gran copia i ma, i se, i forse…. Ma era poi savio consiglio l’interrogarlo?… Se il toccar questo tasto lo mettesse in apprensione?… Forse si faceva peggio.
Mentre si discuteva, il maggior foglio locale, La Specula, annunziava nella sua cronaca con accento contrito che da circa una settimana l’illustre professore Clemente Teofoli, decoro della Università cittadina, decoro degli studi italiani, guardava il letto per non lieve malore. Naturalmente al triste annunzio tenevano dietro i più fervidi auguri di sollecita guarigione. L’articoletto di cronaca aveva un poscritto del seguente tenore: — “Al momento di porre in macchina veniamo assicurati esservi un sensibile miglioramento nelle condizioni dell’insigne uomo. Aumenta quindi la speranza di salvare una vita preziosa agli studi e alla patria.„
In seguito a questo articolo, riprodotto subito dai giornali più diffusi della penisola, capitarono il domani a casa Teofoli parecchi dispacci da varie parti d’Italia, e uno fra gli altri da Roma, della sorella, che domandava pronte e particolareggiate notizie.
Il telegramma arrivò appunto quando i due medici, Astigiani e Barelli, uscivano insieme dalla camera del paziente, e la risposta da inviarsi a Roma fu combinata da Frusti e Dalla Volpe d’accordo con loro. Essa era tale da lasciar ben poche illusioni a chi sapesse legger fra le righe.
In fatti il sensibile miglioramento indicato dalla Specula non esisteva che nella fantasia del cronista. Anzichè migliorare, le cose precipitavano al peggio. La paralisi polmonare accennava ad estendersi dal lato sinistro al destro, gli attacchi al cuore divenivano più frequenti, le forze scemavano, s’offuscava l’intelligenza. C’erano momenti in cui l’ammalato non riusciva nè a connetter le idee, nè a riconoscere le persone.
Nella notte successiva la febbre si esacerbò e cominciò il delirio. Teofoli parlava della sua opera sulla origine delle religioni, dei materiali che aveva raccolti e che gli permettevano di consegnare all’editore il primo volume entro un mese e il secondo entro l’anno. Poi, come se il libro fosse già stampato, passava in rassegna i probabili giudizi dei critici, discuteva con dialettica maravigliosa le obbiezioni di un avversario ipotetico. Sulle sue labbra si avvicendavano date, nomi d’autori, citazioni in lingue diverse; pareva di assistere allo scoppio d’un magazzino di fuochi d’artifizio. Ma di tratto in tratto la sua fisonomia si contraeva spasmodicamente; un pensiero che non si riferiva a’ suoi studi gli attraversava lo spirito, un nome che non aveva nulla da far co’ suoi libri e co’ suoi autori gli saliva alla bocca: — Giorgina, Giorgina. — Non l’aveva dunque dimenticata? E quando, dopo uno sforzo per alzar la testa dai guanciali, ricadeva esausto, e le sue pupille vitree, sbarrate si volgevano ostinatamente verso l’uscio aperto della sua camera da studio, guardava forse soltanto alla sua biblioteca di cui non avrebbe più toccato i volumi, alla sua tavola da lavoro di cui non avrebbe più mosso le carte? O non c’era ne’ suoi occhi l’ansietà dolorosa di chi aspetta qualcheduno che non verrà?
No, la Giorgina, s’è lei ch’egli aspetta, non verrà. Forse il suo primo impulso sarebbe stato di venire, perchè di cuore non è cattiva, perchè nutre una certa amicizia per Teofoli, quantunque gli abbia fatto tanto male (cosa ch’ella non sospetta nemmeno), ma in risposta a una sua allusione in proposito il conte Ercole le disse: — Non conviene che tu vada sola, specialmente dopo quella tua bambinata che diede da discorrere oltre al bisogno. T’accompagnerò io al primo momento di libertà. — Ed ella replicò con inusata mansuetudine: — Come vuoi. — Per disgrazia il conte era occupatissimo a cercare una nuova pariglia pel suo landau e non aveva in quei giorni un minuto disponibile. Anche la contessa era tanto tanto occupata…. a riposarsi dalle fatiche del carnovale e a prepararsi alle penitenze della quaresima…. Però ell’aveva dato ordine espresso a uno dei servi di passare ogni mattina dal professore, e, quel che più importa, quando il servo tornava dalla sua spedizione, ell’aveva l’abitudine non troppo comune di star a sentire ciò ch’egli le riferiva. Anzi un paio di volte ella esclamò: — Povero Teofoli! Quanto mi dispiace!
Il bello si è che pel solo dubbio d’incontrar la Serlati non si recava da Teofoli nemmeno la Ermansi, la quale avrebbe pur voluto portare il suo perdono in extremis all’amico che l’aveva offesa, ferita nel suo amor proprio, posposta ad una civetta. Le due donne erano ormai nemiche mortali, e la Ermansi parlando della Giorgina, diceva: — In società devo subirla; se la trovassi in casa del professore temo che mi dimenticherei d’essere una dama. — Ora, a essere una dama la contessa ci teneva troppo per non sfuggir tutte le occasioni che potevano farla discendere al grado di pedina. Rinunciò quindi al suo magnanimo proposito affidando al conte marito l’ufficio di sostituirla.
In luogo della Serlati e della Ermansi, all’ultimo momento e quando l’infermo aveva già perduto i sensi e non ravvisava nessuno, giunse la sorella Teofoli da Roma. Era una signora magra, stecchita, dalla fisonomia impassibile, d’un’età che non si sarebbe potuta determinare a prima vista. In realtà aveva dieci o dodici anni meno del fratello che studiava all’estero mentr’ella era fanciulla, che, per le necessità della sua carriera, era rimasto lontano anche dopo, e col quale ella non aveva nè analogia di gusti, nè consuetudine di vita, nè frequenza di relazioni epistolari. L’imminente catastrofe la lasciava fredda; mostrava appena quel tanto di dolore ch’era voluto dalle convenienze; aveva piuttosto l’aria dell’erede che volgendo in giro lo sguardo valuta, così a un dipresso, gli oggetti destinati a divenire in breve sua proprietà. In fondo, di tutte le persone che in quell’ora suprema s’affollavano nella casa, ell’era la meno afflitta, la meno commossa; e verso quelle persone ella provava un sentimento difficile a definirsi, un misto di stizza e di soggezione; le parevano intrusi, e nel medesimo tempo una voce le diceva che l’intrusa era lei, lei che del fratello non aveva curato la gloria, lei che ne ignorava i trionfi e le debolezze. Pure, intrusa o no, poichè la parentela le dava una larva di padronanza, ella si affrettò a far prevalere la sua volontà in un soggetto delicatissimo. Tepida credente, ma ligia alle forme, ma convinta della santità d’una massima che il suo consorte, impiegato superiore al Demanio, amava spesso ripetere: bisogna far sempre quello che fa la maggioranza; ella si scandalizzò altamente che Teofoli si fosse ridotto a quel punto senz’adempiere alle pratiche di buon cattolico. Che poi egli fosse vissuto sempre fuori d’ogni religione positiva, che avesse ne’ suoi scritti e ne’ suoi discorsi sostenuto dottrine razionaliste erano piccolezze che alla brava signora non importavano affatto; le importava soltanto ch’egli uscisse dal mondo, per dir così, con le sue carte in regola. Mandò quindi lì per lì a chiamare un prete. Costui, un po’ per sincero zelo religioso, un po’ per il vanto di ricondurre in grembo alla Chiesa l’illustre professore Teofoli, accorse subito, e non fu colpa sua se mentr’egli saliva le scale l’illustre professore Teofoli esalava l’estremo sospiro. Però la Curia fu di manica larga, tenne conto al morto del buon volere manifestato da chi rappresentava la famiglia e si mostrò ben lieta di accompagnarlo con le sue preghiere e di avvolgerlo nello sue pompe. Alcuni arricciavano il naso, protestavano contro questa specie di violenza postuma usata ad un uomo di cui erano notissime le opinioni, e Dalla Volpe in particolare schizzava veleno pensando che la cosa avrebbe fatto piacere a sua moglie. Ma già conveniva piegare il capo, perchè in mancanza di qualsiasi disposizione del defunto non c’era chi avesse diritto di opporsi all’autorità della sorella. Del resto, anche molti indifferenti, molti scettici davano ragione a lei; dicevano ch’ell’aveva fatto benissimo, che non c’è il prezzo dell’opera a singolarizzarsi per questioni di forma, e che i funerali religiosi sono più belli dei funerali civili.
XVIII.
Un pallido sole d’inverno illumina lo studio del professore Teofoli, ove s’affollano, in quella fredda mattina di febbraio, i colleghi, gli amici, i discepoli, tutti vestiti a bruno, tutti tristi e compunti, alcuni con le lacrime agli occhi. Gl’intimissimi, quelli che si sentono abbastanza sicuri de’ propri nervi, entrano un istante nella camera attigua, danno un silenzioso saluto al defunto, composto nella bara non ancora chiusa, irrigidito, non sformato però dalla morte, anzi con un’espressione calma, serena, tranquillamente meditativa che la sua fisonomia aveva perduto già da gran tempo. Forse egli aveva finito col vincere la sua battaglia, con lo scacciar da sè le immagini lusinghiere, le illusioni fallaci, forse, com’egli voleva, il vecchio uomo era risorto…. Ma non c’era risorto che per morire.
Nello studio regna il disordine pieno di vita delle stanze abitate fino a ieri; libri dappertutto; negli scaffali, sulla tavola, sulle sedie; giornali sparsi qua e là alla rinfusa; quaderni ammonticchiati; fogli manoscritti interrotti a metà di una linea, a metà di una parola come per una chiamata urgente, improvvisa. E il tagliacarte d’avorio fra una pagina e l’altra d’un nuovo volume, e il calamaio aperto con gli orli ancora gocciolanti d’inchiostro, e la penna gettata negligentemente sul calamaio e aspettante d’esser ripresa dalla mano che l’ha deposta. Pendono dalla parete le solite fotografie di celebri italiani e stranieri. Pendono e guardano. Videro per anni e anni, dall’alba a notte inoltrata, il professore Teofoli intento nei suoi lavori, ora esaltato dalla febbre della creazione, ora assorto nelle minuzie dell’indagine, ora lieto, ora mesto, di quella gioia vereconda, di quella mestizia pacata ch’è propria di chi ha un unico amore, la scienza. E per anni e anni videro, soltanto in nome della scienza, aprirsi le porte del santuario, e udirono suonar solo di dispute scientifiche il luogo quieto e raccolto. Ma videro anche più tardi sulla fronte pensosa del filosofo scender l’ombra di una cura nuova e diversa, lo videro meno assiduo all’opera, meno paziente nella ricerca, meno sollecito verso coloro che venivano ad attingere alla ricca fonte della sua dottrina. Sin che un giorno, in quel fido asilo di studi, irruppe un gaio folletto in cappellino color marrone, pelliccia e manicotto, scompigliò i libri e le carte, spargendo intorno a sè profumi acuti e sorrisi inebbrianti e promesse inadempiute di arcane dolcezze. Sorrisero forse anch’essi gli illustri uomini pendenti in effigie dalla parete, ma il professore Teofoli non sorrise più, non trovò più conforto, non ebbe più pace. E adesso gl’illustri uomini guardano s’egli esca dalla sua camera ov’entrò una mattina livido e sfatto, se riprenda con animo sereno le sue occupazioni.
Sì certo ch’egli escirà dalla sua camera. N’esce chiuso fra quattr’assi, sulle spalle di otto giovani della facoltà di lettere che non vollero cedere a mani mercenarie l’onore di portare almeno fino alla chiesa il loro diletto maestro. Attraversa un’ultima volta lo studio, attraversa l’andito ove la signora Pasqua si ]stempera in pianto, fa una breve sosta giù nel vestibolo terreno per lasciare che si formi il corteo. A un dato segnale, la musica cittadina apre la marcia intuonando funebri salmodie; subito dopo, la scolaresca coi bidelli in gran tenuta e il gonfalone dell’Università velato a bruno, e varie Associazioni con le rispettive bandiere. Poi viene il clero della parrocchia, poi il feretro ch’è coperto di ghirlande e i cui cordoni sono tenuti dal rettore dell’Università, dal sindaco, dal consigliere delegato di Prefettura, dal presidente dell’Istituto di scienze e da quattro professori tra i quali Frusti e Dalla Volpe. Seguono in massa gli altri colleghi del corpo insegnante, compresi quelli che non costumano di far lezione, e dietro a loro rappresentanze d’ogni specie e cittadini d’ogni ordine, senza contare i semplici curiosi, senza contare lo stuolo delle vanità che assistono ai funerali nella speranza di veder citati i loro nomi dai fogli. Il corteggio passa in mezzo a una doppia fila di popolo rispettoso; si parla del morto, se ne ricordano le abitudini semplici, se ne lodano i modi gentili. — Un così brav’uomo, e così privo di boria, — dice qualcuno. Indi corre per le bocche la leggenda della contessa. — Era vero che una donna, una contessa gli aveva fatto girar la testa? Era vero che per seguirla di qua e di là egli s’era rovinato la salute? — Ma sì, ma sì, era vero, verissimo. E la contessa era quella Serlati ch’era venuta ad abitar la città nell’inverno, e che si vedeva dappertutto. — Una bellezza! — Questo sì…. Ma che civetta! — E poi così giovine!… Come mai il professore Teofoli non ha capito che quello non era pane per i suoi denti?
In chiesa c’è già una cinquantina di persone, nomini e signore, che aspettano. Fra gli uomini il marchese di Montalto, mister Gilbert che s’è fatto male a un piede e cammina a fatica, Monsieur de la Rue Blanche ch’è appena tornato da una gita a Firenze; fra le signore, oltre a parecchie mogli di professori, la Ermansi, la Roncagli, le due Gilbert, zia e nipote, la tanto nominata Serlati. La Ermansi, sinceramente afflitta per la perdita dell’antico frequentatore del suo salotto, slancia occhiate velenose alla Serlati alla quale ella attribuisce la colpa della catastrofe; dal canto suo, la bella Giorgina, le mille miglia lontana dal sentirsi rea del delitto di cui la si accusa, rimane impassibile sotto i fulmini della matura contessa ed esamina attentamente miss Gilbert, la sola donna che potrebbe rivaleggiare con lei. Ella conchiude però di non aver nulla da temere nemmeno da miss Gilbert, ch’è troppo magra e non sa vestirsi, mentr’ella, la Serlati, ha anche oggi una toilette da lutto che le sta a pennello.
Queste considerazioni sono interrotte dall’arrivo del funerale. E durante tutta la cerimonia il contegno della Serlati è ammirabile. Ella non sbadiglia, non chiacchiera con le vicine, non consulta troppo spesso l’orologio; bensì, a un certo punto, non potendone più dal caldo prodotto dalla gente e dai lumi, alza il velo che le nascondeva la faccia. Nessuno ha l’obbligo di morir soffocato. Allora, non c’è che dire, quegli uomini, giovani e vecchi, si turbano, si distraggono; una fiamma passa nei loro occhi, un fremito agita le loro membra, una parola si forma loro sulle labbra, una parola non pronunziata ma che la Giorgina sente lo stesso: — Bella, bella! — Soltanto Frusti e Volpe conservano un atteggiamento di fiera protesta. E quando il feretro è portato fuori di chiesa, issato sul carro funebre che lo condurrà al cimitero, passando per l’Università ove si pronunzieranno i discorsi, Frusti arringa con piglio iracondo un gruppo di scolari intenti a guardare estatici la Serlati che monta in carrozza. — Non vi curate delle femmine, disgraziati che siete. La migliore di esse, e quella lì è una delle peggio, non merita da noi il sacrifizio d’un’ora, d’un pensiero…. Ogni minuto che diamo alla donna è tolto alla nostra pace, alla nostra salute, a quelle pure e schiette gioie intellettuali che valgono più di tutti i baci d’una sirena.
Mediocremente persuasi di questa sentenza, gli studenti sorridono sotto i baffi.
Ma il Rettore, ch’è un uomo di molto buon senso, posa la mano sulla spalla del focoso collega. — Via, via, Frusti, lasciate che i giovani sian giovani…. In certe materie, credetelo, gli studenti hanno maggior competenza dei professori….
— Bravo, — replica ironico lo storico di Carlo V e Francesco I, — difendete anche voi il cosidetto sesso debole…. Mi sembra che l’esempio del povero Teofoli….
— L’esempio del povero Teofoli non calza, — interrompe il Rettore. — Teofoli ha avuto il torto, o la disgrazia, d’innamorarsi a cinquant’anni passati; e d’innamorarsi d’una persona che non gli conveniva sotto nessun rapporto. Era una cosa fatta fuori di tempo e fuori di posto, e le cose fatte fuori di tempo e fuori di posto non possono andare che male.
Forse queste semplici e savie parole riassumono tutta la filosofia del nostro racconto.