Giorgio Ceriani, capo della ricchissima ditta G. Ceriani e C.º, era in gondola scoperta, insieme con due amici forestieri ch’egli conduceva a desinare al Lido, sulla terrazza dello Stabilimento dei Bagni. Nell’ultimo tratto del Canal Grande, quello che va dal Ponte dell’Accademia fino al Molo, egli alzò gli occhi verso la finestra d’angolo d’un palazzo gotico, e salutò qualcheduno che gli rese il saluto.

— Che palazzo è? — chiese uno dei forestieri.

Giorgio Ceriani disse un nome patrizio e soggiunse: — Questi erano gli antichi proprietari. Adesso però il palazzo appartiene al cavaliere Roberto Prosperi, che fu già mio principale ed è ora mio socio accomandante.

— Ha liquidato la sua casa?

— Oh, da un pezzo.

— Era vecchio?

— Tutt’altro…. Ma non aveva figliuoli…. E poi…. la condizione di sua moglie…. Sarebbe una storia lunga….

Gli amici insistettero perch’egli la raccontasse.

— Più tardi, — egli rispose. — Dopo pranzo se non avremo di meglio.

Indi ripigliò: — La persona che ho salutata era appunto la signora Prosperi, la bella Agnese Prosperi…. Povera donna! Ogni giorno, e quasi a tutte le ore del giorno, si è certi di vederla a quel posto.

— Non si può muovere?

— Peggio. Non si vuol muovere…. Dice di non trovare un po’ di pace che lì, in quello che lei chiama il suo salottino giapponese.

— È veramente un salotto alla giapponese?

— Avrebbe dovuto essere…. Invece non ne ha che il nome.

— Eh, si capisce che quella signora non ha il cervello a segno.

— Pur troppo…. Senza esser pazza…. ha un’idea fissa, un’impressione, un ricordo incancellabile.

La curiosità dei due amici era stuzzicata. Ma Giorgio Ceriani tenne fermo a non volerla appagare sin dopo il pranzo. Allora avvicinando la sedia al parapetto della terrazza verso il mare, ove gli ultimi raggi del sole coloravano le vele delle barche peschereccie, principiò il suo racconto che noi riproduciamo qui quasi testualmente.

 

I.

Non sono che dieci anni. Ero nel banco Prosperi da qualche tempo, addetto alla corrispondenza in lingue straniere.

Quantunque il più giovine e l’ultimo arrivato dei commessi, ero trattato con distinzione speciale; forse conferiva al mio credito la conoscenza delle lingue, forse s’era scoperta in me qualche attitudine per gli affari, forse il mio carattere inspirava fiducia. Fatto si è che non mi si nascondeva nulla, e che nelle operazioni importanti il principale chiedeva spesso il mio parere. Ero stato anche due o tre volte a pranzo su in casa, e la signora Agnese s’era mostrata gentilissima meco. Ma la sua era una gentilezza fredda, un po’ altera, ben diversa da quella del marito. I miei colleghi non l’amavano; dicevano ch’ella non era donna adatta pel signor Roberto, ch’ella aveva gusti troppo raffinati, troppo aristocratici, e che a lui sarebbe convenuto di prender per moglie una figliuola di negozianti con mezzo milione di dote, invece di questa che gli aveva portato pochissimo e che senza esser nobile aveva tutti i fumi della nobiltà. Però quelli che si ricordavano del matrimonio (e non ci voleva molto a ricordarsene perchè il matrimonio datava solo da sei anni) dovevano riconoscere che il signor Roberto e la signora Agnese s’erano sposati per inclinazione e che difficilmente si poteva vedere una coppia più bella e più innamorata. Adesso l’amore durava in uno solo dei coniugi, nel signor Roberto, ed era un amore ardente, appassionato, un amore a cui non sarebbe parso grave alcun sacrifizio pur di riconquistare quel cuore che gli sfuggiva. Del resto, nessun’altra accusa seria, tranne quella di ricambiare con un riserbo gelato tanta tenerezza, si faceva alla signora Agnese. Non era nè vana, nè civetta, nè esigente; se non trovava la felicità nella sua casa non la cercava di fuori. — Ah se avesse avuto figliuoli! — esclamava qualcheduno. E l’esclamazione coglieva nel segno.

Ho detto che non era esigente. Guai se fosse stata! Ogni desiderio di lei era una legge pel marito; e non soltanto i desideri espressi palesemente, ma anche quelli appena adombrati, ma anche quelli supposti. Uomo savio com’era, il signor Roberto, per compiacerla, avrebbe dato fondo al suo patrimonio.

Fu appunto per soddisfare uno di questi desideri sfuggitole dal labbro ch’egli mi consegnò una mattina una lunga nota tutta di suo pugno pregandomi di tradurla in inglese e d’inserirla nella lettera ch’io dovevo scrivere il giorno stesso ai nostri corrispondenti di Hiogo nel Giappone, i signori James Holiday e C.º. Noi avevamo in corso coi signori Holiday un grossissimo affare; un’importazione di 60 mila sacchi di riso da loro acquistati per nostro conto e ch’essi dovevano caricare appena arrivasse a Hiogo il vapore inglese King Arthur, capitano George Atkinson, che in quel momento si trovava a Venezia e che avevamo noleggiato apposta. Ma la nota consegnatami dal principale si riferiva a cosa affatto diversa. Essa conteneva la preghiera, rivolta in particolare a M.r James Holiday, che i Prosperi avevano conosciuto due anni addietro in un suo viaggio in Europa, di comperare e spedire per mezzo del King Arthur tutto l’occorrente per arredare alla giapponese un salottino di cui s’indicavano le dimensioni e si univa la pianta. Si fidava nel buon gusto di M.r Holiday lasciandogli mano libera per la scelta degli oggetti, e dandogli per la spesa il limite approssimativo di mille a milleduecento sterline. Questo importo doveva essere aggiunto a quello del riso e compreso nelle tratte con cui i signori Holiday si sarebbero rimborsati del loro avere sui banchieri di Londra Eliot, Green e Cº.

Naturalmente, io dissi che mi sarei accinto subito al lavoro.

— Procuri di aver spicciato la posta per le due — ripigliò il signor Roberto. — Vorrei che mi accompagnasse a bordo del King Arthur. Devo parlare col capitano, ed ella sa che l’inglese non è il mio forte e che mi è sempre utile di avere un interprete…. A proposito, — egli soggiunse dopo una breve pausa, — verrà con noi anche mia moglie che non ha mai visitato un gran vapore mercantile.

Alle due in punto la signora Agnese era in banco in cappellino e mantiglia, col ventaglio appeso alla cintura e con un ombrellino di seta rossa in mano.

Il principale mi chiamò: — Ha scritto quella lettera a Hiogo?

Io feci col capo un segno affermativo.

— Abbia la cortesia di portarla qui — seguitò Prosperi — e di leggere a mia moglie la parte che concerne il salottino giapponese.

Andai a prendere il foglio e cominciai la mia lettura traducendo dall’inglese in italiano.

La signora Agnese sorrise. — Legga pure nell’originale. Capisco abbastanza.

Dovetti compiacerla, benchè mi seccasse questa specie di esame di pronuncia. Ella mi porse un’attenzione benevola, e quand’ebbi finito mi indirizzò qualche frase gentile circa alla mia facilità di scrivere e parlare le lingue straniere. Però (e si rivolse a suo marito) aveva delle obbiezioni di massima. È vero, ell’aveva detto, che rimettendo a nuovo alcune stanze del palazzo si sarebbe potuto fornire di ninnoli giapponesi il salottino d’angolo, ma l’aveva detto così di volo, non sognandosi nemmeno che si trattasse d’una spesa grave. Venticinquemila lire e più per un salottino!… Era una pazzia…. No, no, ella ne avrebbe rimorso per tutta la vita.

Il signor Roberto che s’era levato da sedere le mise una mano sulla bocca pregandola di non insistere. La pazzia, s’era tale, la faceva lui; ella non aveva fatto che dar forma a un’idea ch’egli ruminava già da due anni, da quando M.r Holiday era stato a Venezia. Non si sgomentasse della spesa; l’ultimo bilancio s’era chiuso con un utile di oltre mezzo milione, e permetteva di levarsi qualche capriccio.

Come conclusione di questo discorso il signor Roberto mi tolse di mano la lettera, la firmò, e mi ordinò di portarla nella stanza vicina perchè la copiassero e la mandassero immediatamente alla posta. — Cosa fatta, capo ha, — egli disse. — E adesso non perdiamo tempo. Ceriani, è pronto?

Di lì a poco scendevamo tutti e tre la scaletta che dal banco metteva nell’entratura, una lunga entratura di palazzo veneziano, con la riva da una parte e un ampio cortile dall’altra.

Io guardavo con maggior attenzione dell’usato la giovine coppia che mi stava dinanzi; due belle persone, ma due tipi affatto diversi. Egli alto, largo di spalle e di torace, ben piantato sulle gambe nervose, bruno d’occhi, di capelli e di barba, di carnagione rosea che si coloriva forse un po’ troppo intensamente dopo il pasto, dopo una passeggiata, nel calore d’una discussione; insomma un temperamento sanguigno esuberante di forza e di vitalità. Ella, pallida, bionda, magra: un profilo di cammeo sopra un corpo di silfide; capelli lisci e finissimi spartiti regolarmente sulle tempie e avvolti in treccia dietro alla nuca, grandi occhi azzurri dalla guardatura un po’ incerta e fantastica, piedi e mani che uno scultore avrebbe preso volentieri a modello; nel complesso un impasto di correttezza classica e d’idealità romantica.

Si montò in gondola. Quantunque non fossimo che alla metà di marzo era una temperatura da primavera inoltrata, e la gondola aveva, anzichè il felze nero e opprimente, una elegante tenda di raso a frangie. Arrivammo in dieci minuti nel Canale della Giudecca, forse meno gaio, meno artistico di quello di San Marco, senza lo sfondo superbo del Palazzo dei Dogi e della Piazzetta; non meno bello però nè meno pittoresco nella doppia linea delle Zattere e della Giudecca, quelle rivolte al mezzogiorno, questa un po’ in ombra, un po’ severa, un po’ triste, se non fossero i rii che la traversano e che lasciano vedere da lontano sotto gli archi dei ponti i muricciuoli degli orti incoronati d’allegra verdura, e di là dall’Isola un altro e più ampio tratto di laguna anch’esso riscintillante ai raggi del sole. E in questo Canale, più assai che nel bacino di San Marco, s’agita e ferve, piccolo o grande che sia, il commercio marittimo di Venezia, e a tutte l’ore si vedono bastimenti a vela e piroscafi andare, venire, o cullarsi indolentemente sull’onda come se posassero dalle fatiche del viaggio.

Il giorno della nostra visita al King Arthur c’era un insolito movimento. Mi ricordo che passò a poca distanza da noi, mandando un urlo rauco e prolungato come un gemito di belva ferita, un vapore inglese, vuoto, enorme e mostruoso, con quasi tutto lo scafo fuori dell’acqua; intorno a un altro della Navigazione italiana arrivato appena s’affollava uno sciame di barche e battelli; da un terzo, ancorato in mezzo al Canale, si scaricava il carbone facendolo scendere nelle peate per un piano inclinato e sollevando un nembo di polvere scura o densa; uno dei grossi navigli della Peninsulare, di quelli che si spingono direttamente a Bombay e Calcutta, pronto a salpare prima di notte, levava già le ancore e fumava dalla caminiera. E quanto più ci avvicinavamo alla Giudecca, ov’era ormeggiato il King Arthur, tanto più spesseggiavano i legni e tanto più cauta doveva proceder la gondola per non urtar nelle catene e nei gavitelli.

Durante il tragitto il signor Roberto parlò quasi solo. Parlò di quest’importazione di riso giapponese, la prima che si facesse in Italia, e del profitto e dell’onore ch’egli sperava trarne. Disse dei gran passi che s’eran fatti a Venezia, dopo il 1866, a dispetto dei pessimisti e dei denigratori di professione, e rammentò i tempi quando, per ogni prodotto di regioni lontane, si doveva ricorrere al mercato di Londra. Se ci fossero altri dieci negozianti che avessero il suo spirito d’iniziativa, — egli soggiunse con legittimo orgoglio, — Venezia sarebbe la prima piazza d’Italia.

Nelle pause del suo discorso lo sguardo del signor Roberto cercava quello di sua moglie, e più d’una volta la sua mano si posò sulla mano di lei. Io notai a due riprese ch’ella, quand’era possibile, sfuggiva il contatto, e questa mal celata ripugnanza per un uomo di cui ell’era l’idolo offendeva in me il sentimento della giustizia e dell’equità. Andavo persuadendomi che la scarsa simpatia dei miei colleghi per la signora Agnese non era infondata.

La scala si fermò ai piedi della scaletta del King Arthur, in cima alla quale il capitano Atkinson stava ad aspettarci. Era un uomo di mezza età, di tinta olivastra, di statura giusta e lineamenti regolari, con un’espressione di malinconia nei grandi occhi grigi. Tutto sommato, un bell’uomo, dall’aria distinta e signorile, ma uno di quelli che a guardarli non mettono di buon umore. Del rimanente, la sua tristezza si spiegava col fatto che gli era morta alcuni mesi addietro a Londra, mentr’egli viaggiava nei mari dell’India, una moglie giovine e adorata. Egli ne portava il lutto e ne’ suoi abiti neri pareva un policeman, o un impiegato delle pompe funebri.

Taciturno per indole e ancor più taciturno dopo la disgrazia che l’aveva colpito, quel giorno però il capitano Atkinson si sforzava di esser loquace e faceva con perfetta cortesia gli onori del suo bastimento, conducendoci a visitarne tutte le parti, dal ponte del comando alla stiva, dalla cucina alle macchine, prendendo per mano la signora Agnese nei punti difficili e rispondendo con molta chiarezza alle sue domande sul meccanismo dell’elica, sull’orario di bordo, sui segnali, sul carico e lo scarico delle merci. M’accorsi ben presto che la signora Prosperi non solo capiva l’inglese, ma lo parlava speditamente, con un fraseggiare elegante, con una pronuncia corretta. Ell’avrebbe potuto quanto me e meglio di me servire d’interprete a suo marito. Compiuto il giro del naviglio, il capitano Atkinson ci fece entrare in un salottino addobbato con molto decoro ch’era attiguo alla sua cabina e ove erano preparati abbondanti rinfreschi. Io approfittai di questo momento per comunicare al capitano certi desideri del mio principale circa a qualche piccola modificazione da introdursi nei ventilatori, e stavo scrivendo una noterella in proposito da lasciare a bordo, quando s’intese un lieve rumore nella cabina. Master Atkinson si alzò, aperse adagio l’uscio e diede un’occhiata attraverso lo spiraglio. Poi tornò indietro con un sorriso sul labbro, un sorriso che faceva uno strano effetto in quel viso triste, e disse: — C’è la mia bimba di là…. Dorme come un angelo e Tom la veglia…. il mio cane di Terranuova. Era lui che aveva urtato un mobile…. Quando c’è lui è come se ci fossi io.

— Ha una bimba con sè? — esclamò la signora Agnese. E nel far questa semplice interrogazione un vivo incarnato le si diffuse sulle guancie.

Egli chinò il capo affermativamente. — La mia unica figliuola…. L’ho presa a bordo poche settimane fa, quando partii da Londra…. È orfana di madre…. Con chi starebbe?… Di qui a qualche tempo forse la metterò in un collegio…. Adesso è troppo piccina…. Ha cinque anni.

Il capitano Atkinson, commosso, levò gli occhi verso la parete da cui pendevano due fotografie; quella del King Artur, e un’altra più piccola, difesa da un vetro e inquadrata in una cornice di legno, d’una donna giovine, bionda, dall’aria gracile, una di quelle fisonomie dolci che si raccomandano.

— Oh me la faccia conoscere la sua bambina, — supplicò la signora Agnese.

— Anche subito, se si contenta di vederla addormentata.

— Si figuri…. Pur di non svegliarla.

— Oh per questo non si dia pensiero…. Finchè non abbia dormito le sue due ore di fila, non la sveglierebbero le cannonate.

— In tal caso…. — replicò la signora.

— E se invece pregassimo il capitano di condurcela domattina, quando deve venire in banco alle undici? — propose il signor Roberto. — Farebbe colazione con noi.

— Magari! — soggiunse la signora Agnese. E non si quetò fin che Master Atkinson non ebbe accettato l’invito. Ma questa non le parve una buona ragione per non veder subito la piccina…. Le bastava vederla di lontano…. per un momento.

Il capitano volle compiacerla. — Mi lasci passare avanti allora, — egli disse. — Tom non le permetterebbe neppure di affacciarsi alla soglia se non ci fossi io.

In fatti, quando il capitano aperse l’uscio della cabina, la prima cosa che si vide fu il cane di Terranuova che seduto sulle due zampe posteriori custodiva l’ingresso. A un cenno imperioso del padrone egli si tirò in un angolo manifestando con un lieve brontolìo la sua disapprovazione.

Per una curiosità forse indiscreta m’ero avvicinato anch’io e stavo dietro alla signora Agnese. Il signor Roberto era rimasto seduto e sfogliava un atlante.

La bimba dormiva profondamente nella sua cuccetta, posata su un fianco, con la faccia rivolta verso l’uscio, tantochè la si vedeva benissimo senza entrare nella cabina. Somigliava alla fotografia appesa al salotto, ma era molto più bella, un vero angioletto dalla capigliatura bionda che formava una specie d’aureola intorno al visino di latte e di rosa.

— Oh che amore! — disse la signora Agnese smorzando la voce e giungendo le palme in atto di adorazione. — E che nome ha?

— Ofelia, — rispose Master Atkinson.

— Strano nome! — pensai, evocando la dolce figura della infelicissima innamorata di Amleto.

— Venga, venga avanti, — riprese il capitano lusingato nel suo orgoglio di padre.

La signora Agnese non se lo fece dire due volte, e accostatasi in punta di piedi alla cuccetta si chinò sulla bimba e le sfiorò con un bacio la bocca.

Tom inquieto si mosse dal suo angolo, interrogando con gli occhi il capitano. — Che novità sono queste? Perchè la disturbate?

No, non la disturbavano, ed ella seguitava a dormire sorridendo nel sonno.

Resistendo alla tentazione di baciarla una seconda volta, la signora Agnese s’avviò per uscire. Il cane, ormai rassicurato, le si fregò amorevolmente intorno alle vesti; ella gli fece una carezza e rientrò nel salottino ove suo marito l’aspettava. A me disse passando: — Com’è bella, non è vero? — E subito dopo si rivolse al signor Roberto con un mite rimprovero: — Perchè non hai voluto vederla?

Egli chiuse l’atlante. — La vedrò domani.

— È così bella! — ella ripetè.

Il signor Roberto abbozzò un triste sorriso; uno di quei sorrisi che sono tanto vicini alle lacrime.

Ricordata al capitano Atkinson la promessa di venir a colazione la mattina dopo con l’Ofelia, lasciammo il bastimento. Nel ritorno le parti erano invertite. Prosperi taceva, la signora Agnese, trasfigurata d’aspetto, spiegava un’insolita facondia. Ma non parlava che d’una cosa, la sola che le fosse rimasta impressa tra le molte vedute; parlava di quell’orfanella vegliata amorosamente da quel cane di Terranuova.

Nello smontar dalla gondola ella mi disse: — Badi che aspetto anche lei domattina a colazione.

 

II.

L’indomani il capitano Atkinson portò a casa Prosperi un commensale non invitato, il cane Tom, dal quale l’Ofelia non s’era voluto staccare a nessun costo. Il capitano riconosceva francamente di non aver preveduto questa difficoltà; all’ultimo momento, piuttosto di lasciar la figliuola a bordo o di trascinarsela dietro per forza tutta ingrugnata o piagnucolosa, egli s’era preso la licenza di accompagnare l’animale della cui condotta osava farsi mallevadore. Infatti Tom si conduceva assai meglio della sua padroncina che sulle prime rifiutava il cibo e si nascondeva ostinatamente il viso fra le mani dichiarando di voler andar via. Tom invece, seduto come il solito sulle gambe posteriori, assisteva alla scena con la gravità d’un filosofo nemico d’ogni escandescenza, ma disposto a perdonar molto all’infanzia.

Questi capriccetti dell’Ofelia empivano di confusione Master Atkinson che si sentiva impotente di fronte alla sua piccola tiranna. Ah, se avesse supposto una cosa simile non avrebbe certo accettato l’invito.

La signora Agnese, gaia, serena come non l’avevo mai vista, gli ripeteva per confortarlo: — Lasci fare a me.

E con lo moine, con le carezze, con le rampogne scherzevoli, con tutte quelle arti gentili di cui effettivamente gli uomini non hanno neppure l’idea, ella riuscì a poco a poco a quetar la bambina. A colazione finita, l’Ofelia era già divenuta amica della bella signora che le parlava così bene nella sua lingua, con una voce così dolce, con modi così persuasivi. Tantochè, quando la signora Agnese le domandò se voleva andar con lei sola nel giardino, ella rispose tosto di sì…: facendo però una riserva mentale relativamente a Tom. Di questa riserva la signora Agnese s’accorse per un certo sguardo che la fanciulla rivolse all’animale, e disse pronta: — Ah, Tom può venire…. Voi altri ci raggiungerete più tardi, — ella soggiunse, indirizzandosi a noi.

— Che buona mamma sarebbe stata l’Agnese! — sospirò il signor Roberto appena sua moglie fu uscita dal salotto. Poi cambiò argomento e ci offerse dei sigari e del cognac.

Parlammo di viaggi. In Giappone il capitano Atkinson non c’era mai stato; era stato un paio di volte a Singapore e credeva di dovervi tornare nell’autunno a farvi un carico di pepe per l’Inghilterra. Già egli calcolava di esser a Venezia col riso entro il mese d’agosto, onde nella prima metà di settembre avrebbe potuto rimettersi in cammino. Il King Arthur era uno dei vapori più rapidi della marina mercantile inglese.

Ripensandoci molto tempo dopo, notai che Master Atkinson discorreva volentieri del periodo più recente della sua carriera, ma schivava ogni allusione ad un passato lontano.

Di lì a mezz’ora, scendemmo anche noi in giardino. Il nome era pomposo: in realtà, non si trattava che d’un piccolo appezzamento di terra chiuso per tre parti da muri, con una pergola che in quella stagione dell’anno era senza foglie e con qualche aiuola ch’era senza fiori. Comunque sia, quel po’ d’aria libera aveva servito a dissipar l’ultime nubi dalla fronte dell’Ofelia, e prima ancora di vederla noi fummo gradevolmente sorpresi dal suono delle sue risate argentine. Tenuta a mano dalla signora Agnese, ella sedeva sul dorso di Tom e battendo i piedini sul fianco del paziente quadrupede e gridando hop, hop, si faceva condurre in giro per i sentieri che serpeggiavano intorno alle aiuole. A ogni svolta ella rischiava di perder l’equilibrio e s’aggrappava più forte alla sua guida e abbandonava la sua testina bionda sul testone nero del cane fedele. Quelli erano i momenti della massima ilarità. I riccioli d’oro le svolazzavano sulle tempie, un bel colore di rosa le tingeva le guancie, e balenava ne’ suoi occhi sereni e vibrava da tutte le sue tenere membra la voluttà della vita. Hop, hop! Ell’avrebbe continuato la sua cavalcata chi sa fino a quando, tanto più che Tom non si stancava di portarla, nè la signora Agnese si stancava di reggerla. Cosicchè suo padre che veniva a troncare il suo divertimento non ebbe a rallegrarsi di troppo lusinghiere accoglienze. Se prima aveva voluto andarsene, adesso voleva restare…. voleva restare con Tom e con aunt Agnes. La chiamava aunt, zia. La zia Agnese (per darle il titolo che le dava la bimba) intercedette anch’ella in suo favore. Perchè l’Ofelia non poteva rimaner fino a sera? Già il capitano aveva le sue faccende; che gusto ci trovava a condur la figliuola in giro dai negozianti o dai sensali di noleggio? Venisse a prenderla sul tardi, seppur non preferiva che la gli si riaccompagnasse a bordo. O che non si fidava?

Durante quest’ultima parte della discussione l’Ofelia s’era ammutolita. Seduta ai piedi della signora Agnese, ell’aveva posato il capo sulle ginocchia di lei e vinta dalla stanchezza aveva chiusi gli occhi.

— Vede, — disse Master Atkinson, — a quest’ora mia figlia dovrebbe già fare il suo sonnellino d’ogni giorno…. Sta per addormentarsi.

— Ma è bell’e addormentata, — esclamò con qualche maraviglia la signora Agnese chinandosi sulla piccina. — Come si fa presto a quell’età!… Non son due minuti che rideva, scherzava…. e adesso è con gli angeli…. Adesso poi non gliela do neanche per idea, — ella ripigliò in tono deciso. — Si figuri…. romperle il sonno…. costringerla a tenersi ritta, a camminare…. No, no, la metterò a letto io stessa.

E nel dir questo se la prese in collo delicatamente senza svegliarla.

Il capitano era titubante. Gli dispiaceva recare un così gran disturbo; inoltre non sapeva che impressione potesse fare all’Ofelia, nell’aprir gli occhi, il trovarsi fuori della sua cabina, il non vedere il suo babbo….

— Forse Master Atkinson ha ragione, — notò il signor Roberto che fino allora non aveva pronunziato una parola sull’argomento. — I fanciulli sono nervosi….

— E gli uomini non intendono nulla di certe cose, — replicò la signora Agnese con una vivacità un po’ acre. — M’impegno io a calmar l’Ofelia allorchè si desti…. Tutt’al più, per maggior precauzione, potrebbe restare anche Tom.

A forza d’insistenza la signora Agnese ebbe causa vinta, e uscì trionfante portandosi in camera sua la bambina che dormiva d’un sonno tranquillo e profondo. Tom era rimasto alquanto perplesso, malcontento di queste novità, desideroso di tornare sul suo bastimento, ma poco disposto a tornarvi senza la sua inseparabile compagna. Alla fine ubbidì agli ordini perentori del capitano, e col muso basso e la coda fra le gambe seguì la sua padroncina.

Tutta questa scena aveva visibilmente conturbato il signor Roberto, ed egli non me ne fece mistero. Non avrebbe condotta sua moglie a visitare il King Arthur, mi disse, se avesse supposto di trovare a bordo l’interessante orfanella. In fatto di bimbi, l’Agnese, che aveva pure un sano criterio, andava soggetta a degl’impeti irriflessivi. Ora li sfuggiva con affettazione, ora se ne appassionava fuor di misura. E il peggio era appunto quando se ne appassionava. Se si fosse limitata ad accoglierli con piacere, a voler averne spesso qualcheduno intorno a sè, poichè il ciclo, fino allora almeno, gliene aveva negati de’ suoi, sarebbe stata una vera fortuna. Ed egli l’avrebbe assecondata di tutto cuore. Era tanto lieto di vederla lieta. Ma le esagerazioni lo sgomentavano. È sempre fatale il dimenticare la realtà delle cose. È inutile; dei figli altrui non si poteva disporre come se fossero propri; poteva accadere che dovessero allontanarsi temporaneamente, che dovessero cambiar domicilio, ed egli sapeva per esperienza quante lacrime e quanti singhiozzi costasse a sua moglie il rinunziare a ognuno di questi sogni di maternità. Adesso quell’infatuazione per l’inglesina sarebbe finita con una delle solite crisi. Di lì a un paio di settimane, alla partenza del King Arthur, l’Agnese avrebbe sentito più che mai il vuoto della casa, sarebbe ripiombata nella tristezza e nello scoraggiamento.

In mezzo a queste savie riflessioni si capiva però che al signor Roberto non bastava l’animo di opporsi in modo risoluto alle fantasie della donna ch’egli adorava. E io che in principio lo tacciavo di debolezza non tardai a spiegarmi la sua condotta. Ho anzi un rimorso; di non aver contribuito a renderlo più pieghevole in un momento decisivo e solenne.

Senza volerlo e senz’avvedermene io entravo nell’intimità della famiglia. Nei dì successivi a quello in cui il principale m’aveva rivelato le sue apprensioni, ebbi a trovarmi parecchie volte con la signora Agnese che aveva persuaso il capitano Atkinson a lasciarle ogni giorno per qualche ora l’Ofelia e che affidava a me l’incarico di ricondurla a bordo quando non poteva accompagnarla lei stessa o quando il padre non poteva venirla a prendere.

Qual cambiamento nella signora Agnese! Non serbava la minima traccia di quell’alterigia che i miei colleghi le rimproveravano ad una voce; non aveva più quell’aria tra uggita e sprezzante che io pure avevo notata in lei; era affabile, espansiva, sempre dolce di modi, spesso col sorriso sul labbro. Ed ella era la prima a riconoscere questa sua trasformazione, e ne dava il merito all’Ofelia. — È così buona, — diceva, — che si diventa buoni a starle insieme. Già i bambini sono una gran benedizione del cielo…. È incomprensibile che ci sia della gente che non li può soffrire, o che tutt’al più li tollera come una molestia necessaria…. Ah se non ci fossero, sarebbe pur triste il mondo!

Non duravo fatica a darle ragione.

Ed ella seguitava: — Anche a lei, Ceriani, piacciono i bambini…. Si vede subito…. E non è mai sprecato l’affetto che si ha per loro…. Li dicono interessati, egoisti…. Non è vero…. Son meglio di noi grandi…. Noi altri invece ripaghiamo spesso l’amore con l’indifferenza, l’indifferenza con l’amore…. A loro ciò non accade…. Essi amano chi li ama…. L’Ofelia le vuol bene, sa?

Di tratto in tratto la signora Agnese sospirava: — Se avessi avuto figliuoli…!

Un giorno mi arrischiai a dirle! — Ne avrà…. È tanto giovine.

Ella tentennò tristamente il capo e i suoi occhi s’inumidirono.

Io assistevo a un dramma domestico, a un dramma semplice e toccante, quantunque non vi fosse in gioco nessuna di quelle che si ha l’abitudine di chiamar forti passioni. Non l’adulterio con le sue febbri, non la gelosia co’ suoi furori, non l’ambizione con le sue inquietudini. Due persone nel fiore degli anni, certo con diversità notevoli d’aspetto e di carattere, ma tutte e due sane di corpo, e con un gran fondo di rettitudine morale, due persone che s’erano unite sotto gli auspici più lieti a cui un capriccio della sorte avvelenava resistenza! Nella moglie un istinto esagerato della maternità che le rendeva incomportabile il non aver prole; nel marito, che pur si sarebbe rassegnato a questa sventura, un cruccio, un rodimento continuo di saper infelice una sposa per la quale egli avrebbe versato fin l’ultima goccia del proprio sangue, un’acuta mortificazione di sentirla sempre più fredda, più riluttante fra le sue braccia di mano in mano che s’affievoliva la speranza di ciò che agli occhi di lei nobilitava l’amore.

Altri particolari non ricercati, non chiesti, ma sorpresi facilmente sulle labbra di questo o di quello contribuivano a illuminarmi sullo stato delle cose. Si alludeva a consulti medici fatti sino dal secondo anno di matrimonio e ripetuti poi, a cure contradditorie qua e là, ora certi bagni, ora certe acque, ora la doccia, o il ferro, o l’arsenico. E io mi figuravo la signora Agnese, lei così poetica, così riservata nei modi, me la figuravo sottoposta a interrogatorî delicatissimi, offesa ne’ suoi pudori più intimi senza che il sacrifizio approdasse a nulla. Qual maraviglia che l’amore non fosse sopravvissuto a queste prove dolorose, o che almeno esso ne fosse uscito col germe di qualche male organico ed insanabile?

— Sicuro, — mi diceva il dottor Gandolfi, medico dei Prosperi, — sicuro, quella che i moralisti chiamano psicologia ha sempre una base fisiologica. — Ed egli soggiungeva che quest’era veramente un caso singolare. A nessuno dei due coniugi si poteva imputare la sterilità del matrimonio. C’erano novanta probabilità su cento che il marito avesse avuto figliuoli da un’altra moglie e la moglie ne avesse avuti da un altro marito. A questo punto il dottore ch’era un uomo di manica larga si divertiva a sciorinar delle teorie molto ardite e a citar dei versi d’un poeta latino sugli effetti benefici di certi strappi alla fede coniugale. — Guai però a chi osasse tener questi discorsi alla signora Agnese! — egli si affrettava a concludere.

Fatto si è che comprendendo le pene, le delusioni della signora Agnese, vedevo anch’io che era una crudeltà l’insidiarle i suoi pochi momenti di gioia.

Adesso ell’era beata nella compagnia della gentile Ofelia. A poco a poco era riuscita a tenersela seco dalla mattina alla sera, la colmava di regali, la conduceva in gondola, a passeggio, tirandosi dietro, che già s’intende, l’inseparabile cane di Terranuova. Se il capitano Atkinson faceva qualche osservazione, ella gli dava sulla voce. — Non sia cattivo, si tratta di pochi giorni. — E intanto lo invitava spessissimo a colazione e a pranzo.

— Curioso tipo quella Prosperi, — dicevano i pettegoli di caffè. — Sempre con quella bambina cascata dalle nuvole! E co’ suoi gusti aristocratici, col suo fare schizzinoso, ha per unici commensali un capitano mercantile e un semplice commesso.

Il commesso ero io. Quando c’era l’Ofelia, la signora Agnese mi tratteneva sovente a desinare.

Una mattina ella mi pregò di fissarle un’ora dal fotografo. Voleva far fare un gruppo dell’Ofelia e di Tom. Ma badassi di non parlare della cosa nè con suo marito, nè con Master Atkinson, nè con altri. Doveva essere un’improvvisata.

Poche sere dopo, a tavola, il capitano trovò sotto il tovagliuolo una copia della bellissima fotografia, e fu una gradita sorpresa. La signora Agnese magnificò la discrezione dell’Ofelia. Una bimba di quell’età, non essersi lasciata scappare una parola! Era un prodigio.

E in un impeto di tenerezza si alzò dalla seggiola e andò ad abbracciar la fanciulla. Nel tornar al suo posto aveva le lacrime agli occhi; Prosperi, inquieto, non sapeva staccar lo sguardo da lei.

Gli è che l’idillio s’avvicinava alla fine. Eravamo al mercoledì e la partenza del King Arthur era stabilita per sabato.

Ora la sera di quello stesso mercoledì, mentre il capitano Atkinson stava per accommiatarsi, la signora Agnese, stringendogli forte la mano, gli disse con una certa esaltazione: — Quanto durerà il suo viaggio, fra andata e ritorno?

— Non più di cinque mesi, spero.

— Ebbene, vuol fare una bella cosa?… Affidi a noi l’Ofelia per questi cinque mesi….

— Ma, Agnese…. — interruppe il signor Roberto. — come puoi domandare a Master George di privarsi della sua figliuola?

— Oh lo sa anche lui che non potrà condurla sempre in giro pel mondo….

— Appunto per questo la vorrà seco adesso, — replicò Prosperi, — evidentemente infastidito dal ghiribizzo saltato in capo a sua moglie.

La signora Agnese insistette. — Non lo si sforza mica. Sentiamo quel che ne pensa lui…. lui e l’Ofelia.

S’era chinata sulla bimba per agganciarle i bottoni del soprabitino e le susurrava in tono carezzevole: — Non è vero, Ofelia, che resteresti volentieri con la zia Agnese?

Per l’Ofelia il restar con la zia Agnese significava andar a spasso ogni giorno, far baldoria con Tom in giardino, aver sempre nuovi balocchi da ammirare e da rompere, tutte cose piene di attrattive per lei. Ma l’idea di separarsi per un pezzo dal padre non entrava nella sua testolina, ed ella espresse ingenuamente il suo pensiero: — Con la zia Agnese, col babbo e con Tom.

Il capitano Atkinson frattanto ringraziava la signora Prosperi dell’ospitalità ch’ella offriva all’Ofelia…. L’avrebbe affidata a lei come a una seconda mamma…. e avrebbe viaggiato sicuro, tranquillo, anche per qualche anno di seguito…. In quel momento però temeva che quella compagnia gli fosse necessaria…. Non s’era rimesso ancora dal dolore per la perdita della moglie, e la sua unica consolazione era quella di aver presso di sè la soave creaturina che nella voce, nei lineamenti gli ricordava la sua povera morta.

Parlava commosso, agitato, cercando con gli occhi l’Ofelia di cui la signora Agnese era sempre occupata ad agganciare i bottoni con mano incerta e febbrile.

Forse la bimba sentì quello sguardo appassionato che l’avvolgeva; fatto si è ch’ella si staccò dolcemente dalla zia, dicendo: — Lascia finire al babbo: ha più pratica….

La signora Agnese vedeva svanire il suo sogno.

— Capisco, — ella balbettò in risposta a Master Atkinson, — capisco…. Ma non mi dia subito una negativa assoluta…. Rifletta fino a domani…. La notte porta consiglio.

Ella diceva così, ma in fondo non sperava più nulla.

E quando il capitano e l’Ofelia furono usciti ella si abbandonò sulla poltrona, con la faccia rivolta verso la spalliera e si mise a piangere dirottamente.

A me parve delicato di lasciar soli marito e moglie e mi dileguai in silenzio.

 

III.

Era destino però ch’io non potessi, neppur volendo, tenermi estraneo alle faccende intime di casa Prosperi. Il giovedì mattina il principale non venne in banco che tardi e mi chiamò subito nel suo gabinetto. Era pallido, stravolto. — Ha fatto male ad andarsene iersera, — egli mi disse. — Forse la sua presenza avrebbe evitato una scena penosa.

Mi raccontò poi che sua moglie lo aveva investito fieramente perchè con le sue parole aveva incoraggiato la risposta sfavorevole del capitano Atkinson, il quale non poteva tener un altro linguaggio dal momento che le prime difficoltà venivano da una delle persone che avrebbero dovuto ospitar la sua figliuola.

— In verità, — soggiunse il signor Roberto, — a me sembrava di avere il diritto di far ben maggiori lagnanze dell’Agnese. Ell’aveva tirato in campo, senza essersi intesa meco, un argomento gravissimo, aveva tentato di forzarmi la mano, di vincere per sorpresa. Pur non le mossi rimprovero di sorta. Mi limitai a spiegarle le ragioni per le quali io giudicavo assolutamente inopportuna la sua proposta. È sempre un’immensa responsabilità l’incaricarsi dei fanciulli che non ci appartengono, ma la cosa può passare quando se ne conoscono a fondo l’indole, le abitudini, le disposizioni fisiche; e sopratutto quando se ne conosce a fondo la famiglia. Ora l’Ofelia si conosceva da pochi giorni, suo padre si conosceva ancora meno di lei, e in quanto ad altri parenti, fuori della madre ch’era morta, s’ignorava perfino s’esistessero. E se la bimba s’ammalava in questi cinque mesi che, nella più favorevole ipotesi, sarebbe durato il viaggio del capitano Atkinson? Se, con la volubilità dell’età sua, domandava di tornar col suo babbo mentr’egli era lontano migliaia di miglia?… Ma supposto invece che tutto andasse pel meglio, come mai l’Agnese non aveva considerato che il separarsi dall’Ofelia dopo cinque mesi di convivenza le sarebbe riuscito più grave che il separarsene adesso? Poichè non si poteva supporre che il capitano rinunziasse addirittura a sua figlia; e quand’egli vi avesse rinunziato si sarebbe dovuto pensarci su molto da parte nostra prima di risolverci a tenerla per un tempo indefinito….

Devo aver fatto un movimento inconsciente che il signor Roberto prese per l’atto di chi si accinge a sollevare un’obbiezione. E s’interruppe per dirmi: — Parli pure liberamente, Ceriani. Se ha un’opinione diversa dalla mia, non abbia riguardo a manifestarmela…. Le assicuro; quasi quasi vorrei aver torto.

Lo disingannai. I suoi argomenti mi parevano inappuntabili. — E la signora? — chiesi.

— Ah, giovinotto mio, — egli rispose — le donne non discutono con le ragioni, ma con le lacrime, ma con gli attacchi di nervi…. E questa è la loro forza…. le ragioni di mia moglie erano deboli, ma il suo pianto mi spezzava il cuore…. E al sentirla, in mezzo ai singhiozzi, chiamar Dio in testimonio ch’ella non desiderava, nè aveva mai desiderato nulla che non fosse onesto, a sentirla invidiar la sorte della donnicciuola del popolo che tornando dal lavoro trova un bimbo che le sorride e le stende le braccia e balbetta l’ineffabile parola mamma, io provavo una gran tentazione di gettarmele ai piedi e di domandarle perdono o di prometterle tutto quello che ella voleva. Non lo feci per orgoglio, per puntiglio…. Ella stette male tutta la notte cosicchè stamattina feci venire Gandolfi, il nostro dottore, e prima e dopo la visita medica parlai con lui delle cause che avevano provocato questa crisi, la quale, del rimanente, non ha nessuna gravità. Ebbene, caro Ceriani, Gandolfi non è alieno dal credere che la vicematernità, com’egli la chiama col suo frasario originale, sarebbe forse il rimedio più efficace allo squilibrio nervoso della mia Agnese. Anzi, nello stato presente delle cose, egli la ritiene preferibile alla maternità vera che in un organismo già scosso porta sempre gravi pericoli. Insomma, secondo lui, sarebbe stato miglior consiglio non contraddire ai desideri di mia moglie e veder di persuadere il capitano Atkinson a lasciar qui la bambina o durante questo, o durante un suo prossimo viaggio…. Eccomi in un bell’impiccio, perchè, lo confesso, le parole del dottore non mi hanno convertito che a mezzo e i miei dubbi restano intatti…. Ma d’altra parte se c’è un modo di ridar all’Agnese la serenità, la pace dell’animo, mi è lecito ostinarmi nella mia negativa?… Chi sa?… La soluzione intermedia accennata da Gandolfi, quella cioè di aver qui l’Ofelia durante un prossimo viaggio, potrebb’esser la buona. Se l’Agnese si acquetasse a una promessa formale del capitano in questo senso?… Perchè già è chiaro che, subito, egli non ci confiderebbe l’Ofelia quando pur gliela ridomandassimo…. Ah, Ceriani, — conchiuse il signor Roberto con un sorriso triste — prevedo che avrò bisogno dell’opera sua.

— Disponga — risposi. — Ma come?

— Per tasteggiare il capitano meglio che non possa farlo io col mio sciagurato inglese…. e anche per dir qualche parolina all’Agnese ove se ne presenti l’opportunità…. L’Agnese ha molta stima di lei…. E tutti e due, sa, mia moglie ed io, la consideriamo ormai come uno di famiglia….

Chinai il capo ringraziando.

Alle corte, non seppi esimermi da quest’ufficio di negoziatore che mi piombava sulle spalle. E riuscii oltre all’aspettativa. Così parve allora agli altri, così pareva a me stesso…. Più tardi, di fronte ad avvenimenti imprevisti, si levarono in me degli scrupoli, dei rimorsi…. Usando una maggiore insistenza con Master Atkinson avrei forse potuto ottenere…. quest’idea non mi vuole uscir dalla mente…. ch’egli aderisse alla primitiva richiesta della signora Agnese, nel qual caso si sarebbero evitati dei grossi guai…. Basta; si rimase d’accordo col capitano che se al suo ritorno dal Giappone i signori Prosperi fossero  stati ancora disposti a tenersi per qualche tempo l’Ofelia egli l’avrebbe affidata a loro durante il nuovo viaggio da Venezia a Singapore e da Singapore a Liverpool che secondo l’ultima lettera de’ suoi armatori era definitivamente stabilito. I signori Prosperi s’impegnavano poi, a viaggio compiuto, di riaccompagnare o far riaccompagnare la bimba a Liverpool.

Quella clausola dubitativa se i signori Prosperi fossero stati ancora disposti, destò l’ammirazione del signor Roberto. — È un tratto di diplomazia sopraffina — egli esclamò. — In cinque mesi possono succedere tante cose…. e va bene non aver legate le mani.

Non era presumibile che la signora Agnese facesse un’accoglienza ugualmente festosa a questa specie di compromesso. Ciò ch’ella desiderava era di non separarsi dall’Ofelia, le cui grazie ingenue avevano conquistato il suo cuore. Invece le toccava separarsene tosto per non riaverla che di lì ad alcuni mesi, e per alcuni mesi soltanto, col patto espresso di restituirla al padre in un termine non breve ma certo non lunghissimo. A ogni modo, sia ch’ella si fosse convinta dell’impossibilità di ottener maggiori concessioni, sia che sperasse di convertir l’atto della restituzione in una semplice visita della figliuola al babbo, ella fu più ragionevole ch’io non avrei creduto. Mi ringraziò della parte presa in questa faccenda e si mostrò riconoscente anche al marito di ciò ch’egli aveva fatto per compiacerla.

Giunse così il sabato, giorno della partenza. S’era convenuto di recarci a bordo, i coniugi Prosperi ed io, la mattina per tempo, e di trattenerci non solo finchè il King Arthur avesse levato le áncore, ma finch’esso fosse arrivato a Malamocco. Là si sarebbe scesi per tornare a Venezia col vapore che viene da Chioggia.

Il programma fu eseguito appuntino. Eravamo sul bastimento poco dopo le otto antimeridiane, e mi par sempre di veder l’Ofelia correrci incontro sul ponte co’ suoi bei capelli biondi che le ondeggiavano sulle spalle e con Tom che le galoppava a fianco. Ell’aveva un vestito di mussola bianca stretta alla vita da una cintura di seta nera e con due nastri pur neri svolazzanti sugli omeri. Erano nere anche le scarpine e le calze. Ella saltò al collo della signora Agnese baciandola e ribaciandola, ma non perdendo d’occhio un grossissimo involto che uno dei marinai aveva ricevuto da Beppi, il gondoliere, e portava su per la scaletta. Quando poi l’involto fu aperto e ne uscirono sei o sette scatole e scatolini, e quando il prezioso contenuto delle scatole fu messo in mostra sulla coperta, l’entusiasmo della bimba non ebbe confine. Erano balocchi d’ogni specie che la signora Agnese regalava alla sua piccola amica, e fra questi primeggiavano una magnifica bambola che chiamava mamma e papà, e un can barbone che moveva la testa, apriva la bocca e alzava le zampe anteriori, con grande ira di Tom, non ben sicuro se avesse dinanzi a sè un fantoccio o un rivale in carne ed ossa.

Si fece colazione prima che il King Arthur si movesse dal Canale della Giudecca, perchè il capitano voleva essere sul ponte del comando al momento della partenza. Alle frutta Master Atkinson bevette alla salute del signor Roberto e della signora Agnese ringraziandoli dell’infinite cortesie usate a lui  e all’Ofelia e pregandoli di accettare un esemplare, uno dei due che gli restavano (l’altro era quello che avevamo visto appeso nell’anticamera della sua cabina), della fotografia del King Arthur fatta fare a Liverpool alla vigilia del suo ultimo viaggio. Per lui quella fotografia aveva un pregio singolarissimo. In un gruppo di figurine appena percettibili che si vedevano raccolte sul castello di poppa c’era anche sua moglie. Naturalmente egli solo sarebbe riuscito a distinguerla, ma forse appunto per questo la fotografia gli era più cara. Pregava i signori Prosperi di serbarla per ricordo suo. Rispose il signor Roberto nel miglior inglese che gli fu possibile, accettando il dono con animo riconoscente e augurando prosperi l’andata e il ritorno al King Arthur. — Siamo al 5 di aprile, — egli disse. — Speriamo di trovarci qui uniti di nuovo il 5 di settembre.

Durante questo scambio di brindisi la signora Agnese s’era presa sulle ginocchia l’Ofelia e tenendosela stretta al cuore le susurrava dolci parole e le discorreva di ciò che avrebbero fatto insieme nell’autunno, a viaggio finito.

Risalimmo sopra coperta, e di lì a pochi minuti il King Arthur lasciò la banchina e si diresse alla volta di Malamocco. Dietro di noi Venezia s’impiccoliva e sfumava come un quadro dissolvente.

In vicinanza del porto il vapore rallentò la sua corsa, e una barca s’avvicinò alla scaletta. Bisognava separarsi.

Ancora una volta l’Ofelia si aggrappò al collo della signora Agnese. — Vieni con noi — le diceva — vieni con noi…. Noi dobbiamo tornare…. Tornerai anche tu.

E poichè il signor Roberto si era accostato alla moglie per sollecitarla — Va via tu solo — gridò la fanciulla. — Cattivo, che vorresti la zia Agnese tutta per te.

Vi furono di nuovo baci, lacrime e strette di mano in quantità. Alla fine noi prendemmo posto nella barca che ci attendeva, il vapore ripigliò la sua rotta.

S’agitarono i fazzoletti; l’Ofelia, sollevata sulle braccia dal padre, mandava baci alla zia; Tom girava su e giù pel ponte abbaiando. Il King Arthur oltrepassò presto la diga e scomparve; per qualche minuto si vide ancora una striscia di fumo nel cielo azzurro; si udì, o si credette udire, il vocione di Tom; poi non si udì e non si vide più nulla.

  • ···············

IV.

Se il signor Roberto sperava che con la partenza del King Arthur sbollissero gli ardori di sua moglie per la figliuola del capitano Atkinson, la sua era proprio una speranza campata in aria. L’Ofelia non c’era, ma la signora Agnese ne parlava come d’un’assente che non si sarebbe fatta aspettare troppo e a cui bisognava apparecchiare gli alloggi. Ne aveva sempre sotto gli occhi la fotografia, divisava seco medesima mille cose da effettuarsi al ritorno della fanciulla, le modificazioni che avrebbe introdotte nella distribuzione della giornata, la cameretta che le avrebbe assegnata, la bambinaia che le avrebbe presa, le lezioni d’italiano che le avrebbe date lei stessa. Non voleva più dubitare di nulla; nè dell’assenso del capitano a rinunciare per sempre all’Ofelia, nè di quello di suo marito a tenerla definitivamente presso di sè, nè della buona riuscita ch’ella avrebbe fatto nelle sue mani. L’antico sogno, il sogno dolcissimo di diventar madre davvero cedeva il posto alla singolare fantasia di questa maternità fittizia.

Il signor Roberto tentennava il capo e si rimproverava la sua debolezza. Quest’è il modo di disfar la famiglia — lo intesi dire un giorno al dottor Gandolfi. — È già male che una donna trascuri il marito per non pensare che ai propri figliuoli: peggio ancora che lo trascuri pei figliuoli degli altri.

— In massima avete ragione — replicò quello scettico del dottore; — ma in casa l’essenziale è di aver la pace…. Se vostra moglie ve la dà a queste condizioni, accettatela con gratitudine; e tutt’al più…. cercatevi qualche svago…. Gli svaghi sono le valvole di sicurezza del matrimonio….

Dal suo punto di vista medico, Gandolfi era contentissimo che la sua cliente si fosse scossa dal torpore doloroso in cui era immersa da un pezzo. Ed egli levava a cielo la combinazione da lui suggerita e in virtù della quale la signora Agnese aveva cinque mesi da pregustar la sua gioia. — E i beni che si sperano — notava il dottore filosofo — ci danno sempre maggior voluttà dei beni che si hanno. Se quella bimba fosse qui adesso, la signora Agnese comincierebbe già a crucciarsi pensando al momento di perderla; invece ella è felice pensando a quello di trovarla.

È innegabile che la signora Agnese, appunto facendo assegnamento sul non lontano ritorno dell’Ofelia, s’era rimessa prestissimo dalla commozione provata alla partenza del King Arthur. Era sempre in moto, sempre vispa e gioviale. Cosa insolita, la vedevamo spessissimo in banco. Ci veniva con mille pretesti, ma in fondo non le stava a cuore che una cosa sola; saper s’erano giunte notizie del capitano Atkinson, il quale aveva promesso di scrivere anche prima del suo arrivo a Hiogo.

E scrisse in fatti da Suez parlando a lungo dell’Ofelia che aveva continuamente in bocca la zia Agnese e dichiarava con grande solennità di voler mandarle una lettera. A tal fine prendeva un pezzo di carta, vi tracciava col lapis alcuni geroglifici, lo piegava in due e lo consegnava al padre con l’incarico di spedirlo a Venezia. L’Ofelia, seguitava il capitano, era buona e savia e consacrava ogni giorno un’oretta a combinar le parole coi caratteri mobili, sperando di ricevere e decifrare da sè qualche riga della zia Agnese. Alla quale la bimba faceva sapere che Tom era in castigo perchè in un impeto di gelosia aveva spezzato in due il cane barbone, credendolo vivo. Infine, sempre per incarico della figliuola, il capitano assicurava la signora che la puppatola era benissimo conservata; solo che la sua voce cominciava a indebolirsi e diceva mamma e papà con meno enfasi di prima…. forse, osservava l’Ofelia, per effetto del mal di mare.

Si diede immediatamente comunicazione alla signora Agnese di questa lettera che interessava più lei che la ditta Prosperi e si può immaginarsi s’ella le facesse festosa accoglienza. Il giorno stesso ella mi chiamò per consegnarmi un biglietto in nitido stampatello destinato a

Miss Ophelia Atkinson

to the care of Master George Atkinson

of the english Steamer King Arthur.

Il biglietto venne inchiuso in una lettera nostra al capitano, impostata la sera stessa per Hiogo.

Ora bisognava rassegnarsi a un lungo silenzio, perchè il King Arthur proseguiva direttamente pel Giappone senza poggiare a nessun punto intermedio.

Noi intanto avevamo sollecitato il nostro banchiere di Londra ad assumere qualche informazione precisa sul conto del capitano Atkinson, sul suo carattere, sulla sua famiglia, sulla malattia da cui era morta sua moglie, eccetera, eccetera. La risposta non si fece attender molto e le informazioni furono, nel complesso, assai favorevoli. Il capitano Atkinson, nativo di Glasgow, era da otto anni al servizio degli armatori del King Arthur, i quali non avevano che da lodarsene. Era uomo probo, intelligente, marinaio arditissimo, più colto di quello che non sogliono essere le persone della sua classe. Non aveva parenti prossimi; la moglie gli era morta pochi mesi addietro di tubercolosi acuta lasciandogli un’unica figliuola in tenera età che adesso viaggiava con lui.

Il punto nero era questo: la moglie morta di tubercolosi. La possibilità che la figliuola avesse ereditato i germi della malattia che aveva ucciso la madre impensieriva il signor Roberto e lo raffermava nella risoluzione di non permettere che l’Ofelia prendesse stabile dimora nella sua casa.

Ma di tutto ciò alla signora Agnese non fu tenuta parola. Era inutile affliggerla fuori di tempo.

In mezzo alle preoccupazioni di vario genere che l’amabile bambina del capitano Atkinson destava nei coniugi Prosperi era sfumata via la grande curiosità di saper eseguita dai signori Holiday la commissione del salottino giapponese. Però, in attesa dei gingilli che dovevano adornarlo, il salotto d’angolo aveva, per la servitù e pei padroni, preso già questo nome. Si era ormai avvezzi, domandando ove fosse la signora, a sentirsi rispondere: — Nel salottino giapponese. — Ella aveva sempre avuto una predilezione per questa stanza; adesso vi passava anche più ore del solito, perchè il resto del palazzo era sossopra a cagione dei ristauri. Invece il salotto d’angolo pel momento non si toccava, e l’unica novità che vi fosse era quella delle due fotografie dell’Ofelia e del King Arthur che la signora Agnese aveva provvisoriamente collocate sopra un tavolino.

Povera signora Agnese! Me la ricordo seduta presso la finestra, intenta a ricamare od a leggere. M’aveva incaricato di comperarle qualche libro che trattasse del Giappone, e le avevo portato tre o quattro volumi ch’ella sfogliava con avidità.

— Capisco che questo non diventerà mai un salottino giapponese autentico — ella mi disse un giorno. — Prima di tutto è troppo grande, e poi vedo qui che veri e propri mobili i giapponesi non ne usano. Hanno un’infinità di gingilli e ninnoli graziosissimi e stuoie, e paraventi, e carte colorate, e specchi dipinti, e vasi, e tappeti, ma non hanno nè sedie,  nè tavole, nè armadi, nè letti…. Basta; oggi le do il tè alla nostra maniera — ella soggiunse sorridendo; — nell’inverno prossimo le metterò davanti le tazzine e quel fornelletto di bronzo che i Giapponesi chiamano tribacì e che serve per tenervi in caldo l’acqua, e lei, accoccolato per terra che ben s’intende, si leverà d’impiccio come potrà.

Di lì a poco cambiò argomento e mi chiese: — Dove sarà la nostra piccola viaggiatrice?

— Ma! — risposi. — Non saprei…. A due terzi di cammino…. Nei mari della China….

— Non vedo l’ora di ricevere l’annunzio telegrafico dell’arrivo a Hiogo. Perchè il capitano telegraferà subito, non c’è dubbio…. L’ho tanto pregato….

Io notai che in ogni caso avrebbero telegrafato i signori Holiday.

— Lo so, lo so — ella disse. — Ma non è la stessa cosa. I signori Holiday non inseriranno nel dispaccio neanche una parola che si riferisca all’Ofelia…. Questo non c’entra col vostro carico di riso.

Infatti, non c’entrava.

Dopo una breve pausa, la signora Agnese confessò che il suo trasporto per quella fanciulla meravigliava lei stessa e che suo marito aveva mille ragioni di rimproverarla di mancar di misura; ma certe cose non si discutono…. L’Ofelia l’aveva ammaliata.

— E forse — ella continuava — anche Roberto finirà col subirne il fascino, col desiderare ch’ella non vada più via. Si ha un bel dire: “L’Ofelia è un’incognita.„ Ma tutti i bambini sono altrettante incognite, persino i nostri quando ne abbiamo…. E se ci si decide a dare ospitalità a quelli che non son nostri, il meglio si è che i genitori o non ci siano, o siano lontani…. L’ho fatto l’esperimento dei figliuoli dei parenti, degli amici; l’ho fatto nel terzo e quart’anno del mio matrimonio…. C’era specialmente una bimbetta d’una mia cugina che si lasciava da noi per due, tre mesi di fila…. Però la madre veniva ogni tanto a vedersela e allora erano osservazioni su questo, su quello…. La mia cugina andò a stabilirsi in Francia col marito e con la figlia, e in quell’occasione io avevo giurato di non voler più saperne nè di quella bimba, nè di nessun’altra…. Giuramenti da marinaio…. Son nata mamma!

La signora Agnese si alzò e tendendomi la mano mi disse: — Sarà mio alleato, non è vero? Patrocinerà la mia causa con mio marito e col capitano Atkinson?

Balbettai qualche parola ch’ella interpretò nel senso più favorevole, e m’allontanai col presentimento di essermi messo per una via irta di triboli.

Questo colloquio era stato tenuto il lunedì o il martedì; la domenica, almeno una settimana prima di quello che si sarebbe creduto, giunsero due telegrammi da Hiogo, uno del capitano Atkinson che avvisava del suo felice arrivo, l’altro dei signori James Holiday e C., in cifra, che davano anch’essi la stessa notizia, assicuravano che si sarebbe posto mano al più presto alla caricazione del riso, e confermavano una lettera spedita per la posta circa al salottino giapponese. Non occorre dire che il capitano aveva introdotta nel dispaccio la frase voluta dalla signora Agnese.

Era il 20 di maggio. Il King Arthur aveva compiuto il suo tragitto in quarantacinque giorni. Se il ritorno si compiva con una celerità uguale, accordato anche un mese per la caricazione, il bastimento si sarebbe rivisto a Venezia ai primi di agosto.

Queste notizie e queste previsioni empirono d’allegria il banco e la casa. Per la ditta Prosperi l’operazione non poteva presentarsi sotto migliori auspici e c’era ormai la certezza di vendere tutta la partita con un larghissimo margine sul prezzo di costo. Era inoltre una vera compiacenza d’amor proprio l’aver iniziato un nuovo commercio con quei lontani paesi. Gl’imitatori non sarebbero mancati, e già si sapeva che i nostri rivali, i fratelli Gelardi, stavano trattando l’acquisto d’un carico simile al nostro. Poco importava. Per presto ch’essi facessero non avrebbero ricevuto la merce che un paio di mesi dopo di noi, e a noi sarebbe sempre rimasto il merito di averli preceduti.

La signora Agnese si curava mediocremente di tutto ciò; quello che la colmava di gioia era l’avvicinarsi del momento che la piccola Ofelia sarebbe stata a Venezia, sua certo per qualche mese, sua forse per sempre. Per creanza, ella mostrava talvolta di prendere interesse anche all’affare in sè e indirizzava al signor Roberto mille domande a cui egli rispondeva evasivamente, con un sorrisetto scettico. — Via via, — egli le diceva — vorresti negarmi che se il King Arthur, invece di contenere nella capace sua stiva una sessantina di mille sacchi di riso, contenesse soltanto una bionda fanciulla di cinque anni chiamata Ofelia, per te sarebbe precisamente lo stesso?

Ella protestava. — No, no, lo stesso, no….

— Quasi lo stesso allora — replicava il marito. — Sei contenta così?

Tre settimane dopo i dispacci annunzianti l’arrivo del bastimento ne giunse un altro importantissimo dei signori Holiday. La caricazione del riso era terminata; il salottino giapponese era stato incassato e non mancava che di portarlo a bordo; il capitano si proponeva di partire al più presto.

Quello fu un giorno di gran lavoro pel banco Prosperi. Si fece una colossale rimessa di cambiali su Londra ai nostri banchieri Eliot Green e C., per coprirli delle tratte che i signori Holiday avevano certo spiccato sopra di loro, e si provvide senza ulteriori indugi alla sicurtà che fu assunta da più Compagnie per la somma cumulativa d’un milione di lire in cui era compreso anche l’utile probabile. Il salottino giapponese venne assicurato a parte per 25 mila lire.

Infine il lunedì 18 giugno 1878 alle cinque pomeridiane (ricordo il giorno e l’ora) capitò un nuovo e ultimo telegramma, brevissimo, dei signori Holiday, avvisandoci che il King Arthur era uscito quella mattina dal porto di Hiogo.

— Non sarebbe da stupirsi — disse qualcuno — se il carico fosse qui prima delle polizze.

Intanto la posta, ora per la via di Hong-Kong, Singapore e il Mar Rosso, ora per quella di San Francisco, Nuova York e l’Atlantico, recò una serie di lettere che i fulminei telegrammi avevano preceduto. Lettere dei signori Holiday, lettere del capitano Atkinson, e persino un foglietto per la signora Agnese con tre parole dell’Ofelia, della quale evidentemente s’era condotta la mano: Many kisses-Ophelia. E il capitano Atkinson nell’inviar questo prezioso autografo dava minuti ragguagli sulla sua figliuoletta che non aveva sofferto nemmeno un’ora di mal di mare e non aveva avuto nemmeno un capriccio; o a meglio dire ne aveva avuto uno solo, quello di tener qualche volta il broncio al suo babbo perchè non faceva venir la zia Agnese. Del resto la zia l’avrebbe trovata cresciuta di statura e florida d’aspetto. Anche Tom, dopo quella sua birichinata in principio del viaggio, s’era condotto benissimo. Non solo aveva adempiuto scrupolosamente ai suoi due uffici di custodir l’Ofelia e di dar la caccia ai topi, ma s’era altresì reso meritevole di una decorazione salvando, con lo slanciarsi spontaneamente nell’acqua, un mozzo che stava per affogare. Figuriamoci, scriveva il capitano, ciò che farebbe quella buona bestia se, Dio guardi, l’Ofelia avesse a correre un pericolo analogo!

Una delle lettere dei nostri corrispondenti di Hiogo conteneva un lungo poscritto relativo al salottino giapponese, poscritto vergato tutto quanto dalla mano di M. James Holiday in persona, il quale si dichiarava lietissimo di rendere un piccolo servigio all’egregio signor Prosperi e alla sua most gracious lady, da lui rammentata con rispettosa ammirazione. Il detto signore confidava di poter raccogliere in brevissimi giorni tutti gli oggetti necessari per l’arredo del salottino, pagandone una somma inferiore a quello che i suoi amici eran disposti a spendere. Egli si riprometteva eziandio, in un suo futuro viaggio in Europa, di visitare questo salotto alla cui formazione egli avrebbe contribuito e di prendervi una tazza di tè, preparata dalle mani della più gentile signora ch’egli avesse avuto la fortuna di conoscere ne’ suoi viaggi.

Queste galanterie dettele in faccia sarebbero parse alla signora Agnese sciocche e dozzinali; avrebbero provocato sulle sue labbra uno di quei motti freddi ed alteri con cui ella scoraggiava i corteggiatori, e riusciva, lei, bella, ricca, elegante, a tenerne lontano lo sciame importuno. Venute invece dal Giappone attraverso migliaia e migliaia di miglia, esse lusingavano il suo amor proprio, la empivano di gratitudine, la facevano arrossire di compiacenza.

Seguirono altre lettere di minor conto, finchè nella prima settimana d’agosto ne capitò una portante la data dell’ultimo telegramma, 18 giugno. Essa confermava la partenza del King Arthur, conteneva le polizze di carico, le fatture del riso, e la nota delle tratte emesse da Hiogo sui banchieri Eliot, Collins e C. Nell’importo di queste tratte era compreso anche il valore del salottino giapponese che ammontava, se non mi falla la memoria, a qualcosa meno di 800 lire sterline. I signori Holiday avvertivano di aver consegnato al capitano la distinta particolare degli oggetti e dei prezzi.

Inchiuso nel foglio dei signori Holiday c’era pure un bigliettino di Master Atkinson coi saluti e i baci dell’Ofelia per la zia Agnese.

La previsione che il bastimento arrivasse prima delle polizze di carico, non s’era avverata. Ma in ciò non v’era nulla di straordinario, tanto più che l’ultima posta aveva preso la via di San Francisco, la quale, se si trovano le coincidenze esatte, porta sempre qualche risparmio di tempo. Bisognava aspettare. E aspettammo.

 

V.

Aspettammo per alcuni giorni con la massima calma e serenità. La signora Agnese era di buonissimo umore e dava l’ultima mano alla cameretta ch’ella aveva preparata per la piccina. Era tormentata, pareva almeno, da un unico dubbio. Si doveva tenersi anche Tom? E, in ogni caso, era probabile che il capitano volesse privarsene? E, se non voleva, che dispiacere non sarebbe stato quello per l’Ofelia?

— Quando non ci fosse che questo, — replicava il signor Roberto che aveva preoccupazioni d’altra natura, — le procureremo un cane di Terranuova identico a Tom. I fanciulli si consolano presto.

I più impazienti erano i sensali a cui premeva di veder meglio che sui campioni la qualità di questo riso, sconosciuto fino allora a Venezia. Avevano già in serbo gli ordini dei loro clienti e anelavano d’eseguirli. D’altra parte appunto per l’incertezza della qualità, nè essi si credevano autorizzati, nè noi desideravamo di vender la merce viaggiante. Si contentavano di prender, come si direbbe, una specie di prenotazione. Taluno ci susurrava all’orecchio che non dovevamo tener troppo alte le nostre pretese, che i fratelli Gelardi stavano facendo anch’essi un carico a Hiogo e che questo solo annunzio bastava a raffreddare il mercato. Spauracchi vani. A ora che il carico dei Gelardi arrivasse, la nostra operazione sarebbe liquidata da un pezzo.

Però, alla metà d’agosto il King Arthur non era ancora giunto. Telegrafammo a Suez per sapere se esso fosse passato di là; ci si rispose di no. Evidentemente la sollecitudine eccezionale del viaggio di andata ci faceva troppo esigenti pel viaggio di ritorno.

E continuammo ad aspettare. Ma non più con la stessa tranquillità di spirito.

Si capiva che la sorte del bastimento cominciava ad impensierir tutti.

Non potevamo andar alla Borsa senza che ci si domandasse: — E questo King Arthur?

E si trovava stranissimo, non tanto il ritardo, quanto la mancanza d’ogni notizia. Come mai il capitano, seppur costretto a ripararsi in qualche porto per cagion d’avaria, non aveva spedito un dispaccio?

La signora Agnese aveva per un pezzo usato violenza a sè stessa, s’era stordita proponendosi di dar la baia a Master Giorgio pel suo ritardo e facendo mille castelli in aria sulla villeggiatura autunnale con l’Ofelia; poi questa commedia era divenuta superiore alle sue forze ed ella non dissimulava più la sua inquietudine. Scendeva, saliva dalla casa al banco, dal banco alla casa; fissava addosso certi occhi scrutatori; non aveva pace un minuto.

Prosperi invitava ogni giorno due o tre persone a desinare. — Quando siamo soli a tavola, mia moglie ed io — egli diceva — o il discorso cade fatalmente sul King Arthur, o si tace…. E se si tace, è ancora peggio…. Quello sciagurato legno, è lì, in mezzo a noi.

Pur troppo esso era sempre lì, per quanti fossero i commensali, per quanto svariati gli argomenti che si mettevano sul tappeto. Si vedeva subito che non c’era rispondenza fra la parola e il pensiero, come non c’è mai allorchè lo spirito è occupato da una cura più grave.

Dopo uno di questi lugubri pranzi al quale avevo partecipato anch’io, la signora Agnese mi chiamò in disparte con un pretesto, e mi disse a voce bassa ma vibrata: — Mi si nasconde qualche cosa. È impossibile che non sia successa una disgrazia al King Arthur.

Le diedi la mia parola d’onore che non le si nascondeva nulla perchè realmente non si sapeva nulla. Tentai quindi alla meglio di dissipare le sue apprensioni. Certo il viaggio aveva una durata maggiore della prevista, ma le combinazioni son tante: contrarietà di venti, deficienza di combustibile, guasto alla macchina….

— Naufragi — soggiunse la signora Agnese guardandomi bene in faccia.

— Sì, anche naufragi — risposi. — Ma questi si vengono a sapere.

— Sempre? — ella insistè.

— Quasi sempre — diss’io.

— Ah, quasi — ella ripetè cupamente. — Ci son dunque esempi di navigli perduti senza che rimanga alcuna traccia di loro, senza che si salvi un uomo dell’equipaggio, senza che una tavola galleggiante sul mare dia un indizio della catastrofe?

Non potei negarle che di questi casi ce ne fossero, ma erano così rari, così eccezionali da non doverci fermare il pensiero.

— Perchè vede, Ceriani — ella ripigliò — non so come sopporterei l’annunzio positivo d’una sciagura; so che l’incertezza mi ucciderebbe…. Ma, in nome del cielo — seguitò la povera signora attorcigliando nervosamente il fazzoletto alle dita — si è poi fatto tutto quello che si doveva per chiarire questo mistero?… Mio marito lo afferma; io non lo credo.

Le enumerai le lettere, i telegrammi che si erano spediti; l’assicurai che si sarebbe tornato a scrivere, a telegrafare.

Ella si strinse nelle spalle. — Scrivere? Telegrafare?… Ah se fossi un uomo!

Qualcuno s’avvicinava, ed ella mi lasciò con queste parole, slanciandomi uno sguardo metà di preghiera, metà di rimprovero.

Che pretendeva mai la signora Agnese? Ch’io andassi alla ricerca del King Arthur come Stanley era andato alla ricerca di Livingstone?… Ohimè, l’impresa dello Stanley era stata una follia sublime; la mia non sarebbe stata che una follia ridicola.

Nè la signora Agnese me ne riparlò nei giorni seguenti. La sua agitazione febbrile aveva ceduto il posto a una calma apparente che ci impensieriva ancora di più. Ella stava per lunghe ore sdraiata sulla sua poltrona nel salottino giapponese, senza un libro, senza un lavoro, immersa in un cupo silenzio. A colazione, a pranzo, toccava appena il cibo, pronunziava appena qualche monosillabo, si faceva una legge di non menzionar mai nè il King Arthur, nè il capitano Atkinson, nè la piccola Ofelia. Solo una volta ella scattò dalla seggiola quando il dottor Gandolfi le suggerì un viaggetto di un mese. — Quest’anno non mi muovo da Venezia — ella risposo in tuono secco, reciso.

Passavano i giorni, passavano le settimane. Eravamo venuti a sapere d’un tifone che aveva infuriato nei mari della China fra il 25 e il 28 di giugno ed era penetrato nei nostri animi il convincimento che in quella occasione appunto il King Arthur si fosse perduto con tutto l’equipaggio. Ma mentre si conoscevano i nomi d’altri legni ch’erano scampati miracolosamente al pericolo, e sbattuti, malconci avevano dovuto ripararsi in qualcheduno di quei porti, del King Arthur nessuno poteva dir nulla. Nessuno lo aveva visto dopo la sua partenza da Hiogo.

Anche i danni materiali d’un simile stato di cose erano gravissimi. Le rimesse fatte a Londra per rimborsare il nostro banchiere importavano circa ottocentomila lire, somma della quale c’era forza rimaner scoperti finchè fosse spirato il termine necessario per acquistare il diritto d’abbandono verso le compagnie assicuratrici, e non c’è casa di commercio, per potente che sia, a cui non dia degl’impicci l’immobilizzare un capitale di quasi un milione.

Inoltre tutti i vantaggi sperati da un’iniziativa che doveva riaffermare la superiorità della nostra ditta andavano in fumo per esser raccolti in gran parte dai nostri rivali, i Gelardi, che avevano commesso a Hiogo un carico di riso dopo di noi e che lo aspettavano entro l’ottobre col vapore inglese The Iron Duke. Noi l’odiavamo questa Iron Duke che seguiva la via tenuta dal King Arthur, che probabilmente sarebbe passato sul punto ove il King Arthur era stato inghiottito dalle onde. Non credo che nessuno di noi gli augurasse un disastro, ma è certo che a sentirlo nominare ci si rimescolava il sangue. E lo si sentiva nominare così spesso. I sensali, che in attesa del King Arthur avevano imbastito degli affari con noi, adesso, con la compunzione di chi fa una visita di condoglianza, venivano a sciogliersi da ogni impegno e a dirci della dolorosa necessità in cui si trovavano di trattare coi Gelardi per l’acquisto della merce di prossimo arrivo con l’Iron Duke. E poi gli stessi Gelardi, alquanto vanitosi per loro natura, stimavano opportuno di comunicare ai giornali cittadini le varie tappe del loro bastimento. Era partito il tal giorno da Hiogo; aveva nel tal altro toccato Point-de-Galle; era passato per Aden, era a Suez…. Il comandante dell’Iron Duke non faceva economia di telegrammi.

Finalmente, ai primi di novembre, una mattina, il bastimento entrò in porto e andò ad ancorarsi alla Giudecca, proprio dove, in aprile, era ancorato il King Arthur. Ed io procurai nella giornata medesima di vedere il capitano per chiedergli se gli fosse venuta all’orecchio nessuna voce circa al vapore che due mesi prima di lui aveva lasciato il Giappone alla volta di Venezia. Ma egli non ne sapeva più di quello che ne sapevamo noi.

Quando tornai in banco dopo questa mia pratica vana, il principale mi disse: — Mia moglie ha ragione. L’incertezza è il peggiore dei mali, e una speranza voluta conservare a ogni costo è una fonte perenne d’inquietudine…. Ma che speranza? — egli corresse con un gesto d’impazienza. — Noi non ne abbiamo più; noi non dubitiamo che il King Arthur sia perduto…. Ci manca però la forza di rassegnarvisi finchè non abbiamo in mano un documento, una prova…. Ah, questa prova, questa prova chi ce la darà?

Mi guardò in un modo singolare e soggiunse: — Senta, Ceriani. Il viaggio d’esplorazione che l’Agnese parve consigliarle tempo addietro è, anche a’ miei occhi, una cosa assurda. Nondimeno qualche passo si potrebbe fare. Una corsa in Inghilterra per esempio, tanto da vedere gli armatori, da consultarsi con persone esperimentate, da recarsi agli uffici del Lloyd ove ci son notizie di tutto il mondo?… Andrei io, se non avessi scrupolo di piantar quella disgraziata…. Lei, Ceriani, lei ch’è giovine, ch’è libero, avrebbe difficoltà di partire per Londra al più presto, domani sera, per esempio?…

Sollevai alcuni dubbi sull’utilità di questa gita, ma difficoltà ad abbandonar Venezia per un quindici o venti giorni non ne avevo affatto. In fondo, lo confesso, l’offerta mi tornava gradita, perchè ormai il King Arthur pesava sul banco come un incubo. Ora, quest’incubo io l’avrei subìto anche durante le mie peregrinazioni che avevano per iscopo preciso di far nuove indagini sulla sorte del naviglio: ma mi sorrideva l’idea di cambiar aria, di sostituire una ricerca attiva (fosse pure infruttuosa) a una preoccupazione inerte e opprimente.

 

VI.

Partii dunque, munito d’una quantità di commendatizie, partii senza congedarmi dalla signora Agnese ch’era indisposta, e nel cui animo, del resto, era inutile far sorgere aspettazioni che non si sarebbero adempiute.

Che dirò del mio viaggio? Fui a Londra, fui a Glascow, fui a Liverpool; parlai con gli armatori del King Arthur, mi rivolsi a quel meraviglioso centro d’informazioni ch’è il Lloyd, conobbi il comandante d’un vapore ch’era stato investito dal tifone dal 25 al 28 giugno, e non per questo riuscii a dissipare l’oscurità che avvolgeva il nostro vascello fantasma. M’accorsi bensì che del King Arthur si discorreva universalmente come di chi sia morto e sepolto da un pezzo. O, per esser più esatto, m’accorsi che si cominciava a discorrerne meno, come d’un fatto ormai vecchio.

Gli armatori, ricchi a milioni, proprietari d’una dozzina di piroscafi sparsi per tutti gli Oceani, erano più che addolorati, inaspriti contro il capitano Atkinson. Lo accusavano d’imprudenza; già un’altra volta, parecchi anni addietro, egli aveva, per la sua temerità, tratto a perdizione un naviglio. Ma allora almeno s’era salvata la gente.

Questa circostanza che noi ignoravamo non era però ignorata dal Lloyd. Mi mostrarono colà il Captain’s Register, specie di dizionario biografico dei capitani mercantili inglesi, ove nella forma più succinta possibile si contengono importanti notizie relative a ciascuno di loro. E sotto il nome del capitano Giorgio Atkinson, dopo la data e il luogo della nascita, dopo altre indicazioni varie, si leggevano queste brevi parole: Lady Hamilton, st. 1863-65 — lost on the 10th May 1865, off the Isle of Majorca; ciò che significava che il capitano Atkinson avea dal 1801 al 1865 comandato il vapore Lady Hamilton, e che questo vapore s’era perduto in vicinanza dell’isola di Majorca il 10 maggio 1865.

— Una disgrazia può succedere al più provetto, — notò la mia guida chiudendo il volume accusatore; — è però sempre una cattiva raccomandazione.

Del resto, anche pel Lloyd, il King Arthur era un legno a cui si poteva recitare il de profundis. Quei preposti, con molta cortesia, mi lasciarono vedere la corrispondenza, quasi esclusivamente telegrafica, scambiata coi loro agenti del Giappone, della China, dell’India su questo argomento. Con parole diverse si arrivava sempre alla identica conclusione: testimonianze oculari non ce n’erano, avanzi del bastimento non se ne trovavano, ma il King Arthur doveva esser naufragato tra il 25 e il 28 giugno. La miglior prova era la mancanza di qualunque notizia da pressochè cinque mesi. Nello stato presente delle comunicazioni postali e telegrafiche, in una navigazione per mari frequentatissimi, ciò non si spiegava che con un disastro.

E poichè io stentavo a capacitarmi di questa scomparsa assoluta d’un bastimento, fui condotto in un’altra camera e invitato a dare un’occhiata alla lista dei missing vessels, cioè dei vascelli mancanti, su cui pesava lo stesso mistero che sul King Arthur, ma di cui non si poteva mettere dubbio che fossero stati inghiottiti dal mare con tutti i loro attrezzi, con tutti i loro uomini. La lista non si riferiva che a pochi anni, eppure era così lunga. Vi figuravano legni grandi o piccoli, a vapore ed a vela, col loro nome, col nome del loro capitano, con l’indicazione del porto dal quale erano partiti e di quello al quale erano diretti, con la data dell’ultime notizie…. Poi, più nulla.

— E il King Arthur? — chiesi all’impiegato che mi accompagnava.

— Non c’è ancora, — egli mi rispose. — Lo registreremo presto…. Bisogna che passi un certo numero di mesi.

Io non sapevo staccar lo sguardo da quella pagina. Pensavo a tante tragedie di cui l’Oceano chiude il secreto, a tante esistenze troncate, a tanti gemiti, a tante imprecazioni, a tante preghiere soffocate dal fragore del vento e dei flutti. E pensavo alla piccola Ofelia. La rivedevo nella sala del palazzo Prosperi, ilare e vispa, co’ suoi riccioli biondi che le svolazzavano sulla fronte; la rivedevo tra il cane Tom e la signora Agnese. Povera, povera bambina! S’era accorta dell’imminente catastrofe? O aveva cambiato il sonno con la morte?… Ma più ancora che ai naufraghi pensavo a quelli che aspettano…. Madri che l’inutile attesa precipita nella decrepitezza e nell’imbecillità, spose che avvizziscono nella forzata vedovanza e che dopo aver pianto tutte le loro lacrime dimandano invano la libertà di aprir il cuore a nuovi affetti, di farsi una nuova famiglia….

L’impiegato del Lloyd indovinò in parte ciò che mi si agitava nella mente e disse: — Tristi cose. Ma che sono i legni mancanti, che sono i legni perduti in confronto di quelli che corrono i mari e tengono alta la bandiera britannica? La lista dei missing vessels, il loss-book, sono come il nostro necrologio, e qual’è la famiglia ove non muoia qualcuno? Che famiglia numerosa sia la nostra lo si rileva dal nostro registro nautico, il libro dei vivi. Erano l’anno scorso più di dodici mila navigli…. nè il registro comprende tutti i legni della marina mercantile inglese…. Sicuro, di quando in quando ci capita un dispaccio annunziante un disastro, ma novanta volte su cento i telegrammi che riceviamo a ogni ora del giorno ci parlano di bastimenti arrivati, di bastimenti partiti, di bastimenti apparsi in qualche punto remoto del globo e che mandano un saluto alla patria lontana…. Eh, non ci resta mica tempo d’indugiarci troppo a pianger sui morti.

Orgoglioso della grandezza della sua patria, della grandezza dell’istituzione alla quale egli apparteneva, il mio interlocutore, uomo dall’aria positiva quanto mai, diventava poeta. E io subivo, mio malgrado, il fascino della sua eloquenza e nelle linee maestose del quadro ch’egli mi tracciava vedevo ridursi alle proporzioni d’un dramma domestico il pietoso episodio del King Arthur. Ripetevo a me stesso quella frase crudele: Non ci resta tempo d’indugiarci troppo a pianger sui morti — e mi pareva che, pronunziata in quella sala ove fa capo il commercio marittimo del mondo, ella perdesse alquanto della sua brutalità. Non ceder mai nè all’accidia, nè allo scoraggiamento, nè al sentimentalismo, ecco il segreto della forza e della potenza.

Comunque sia, io ero già al termine della mia missione senz’aver raggiunto il fine sperato. Indizi in quantità, certezza morale fin che si vuole; ma prove materiali, palpabili, nessuna. Da Venezia Prosperi mi scriveva lasciando in mia facoltà di spingermi magari all’India, alla China, al Giappone se credevo al risultato pratico di questo viaggio…. Io però non ci credevo, nè ci credeva alcuno di quelli a cui ne parlai. — Dove andreste? — mi si diceva. — È un’ipotesi ragionevole che il King Arthur si sia perduto nel tifone dal 25 al 28 giugno. Ma è sempre un’ipotesi. E in ogni modo, pur riuscendo a precisare il raggio di quel tifone, come scoprirete il punto ove il bastimento si è sommerso? Che esercito di palombari prenderete con voi? E vi par possibile ch’essi discendano a una profondità di migliaia e migliaia di metri?

Quest’era vero, ma io obbiettai che forse qualche uomo dell’equipaggio s’era salvato, rifugiato in un’isola, in una spiaggia deserta, che forse si poteva trovarlo….

I miei ascoltatori sorrisero. — Non è più il tempo di Robinson Crusoè.

Un po’ perchè queste riflessioni non facevano che crescere la mia sfiducia, un po’ perchè m’impregnavo anch’io della maschia filosofia anglo-sassone che ci stimola a guardare dinanzi e non dietro a noi, io abbandonai l’impresa e feci ritorno in Italia. Era inutile ostinarsi, io dissi al mio principale, era inutile sprecar l’energia, l’ingegno, il danaro in ricerche fantastiche. Dovevamo mettere il nostro cuore in pace, dimenticare il King Arthur, lavorar con lena raddoppiata, mantenere alla nostra casa il posto che le spettava pe’ suoi capitali, per la sua riputazione, per l’abilità riconosciuta di chi la dirigeva. Nel fervore del discorso mi sfuggì un’allusione alla frase udita negli uffici del Lloyd circa alla necessità di non indugiarsi troppo a piangere i morti.

Il principale m’interruppe. — Non si tratta di morti, caro Ceriani…. almeno per me…. Per me si tratta d’una persona viva che amo e che avrei voluto render felice a costo del mio sangue, mentre invece un fatale concorso di circostanze volge ad effetto contrario tutti i miei sforzi…. Ah è facile dire: quella persona è un’esaltata, ingigantisce i suoi dolori, non apprezza convenientemente i beni che possede, va in traccia dello strano, del singolare…. È facile rimproverarle il suo cieco trasporto per una bambina appena conosciuta, la sua mancanza di rassegnazione ai decreti della Provvidenza. È facile infine citarle tante donne che hanno la saviezza di contentarsi di ciò che hanno, di non accasciarsi sotto il peso di sventure molto più grandi di quella che l’ha colpita…. Ragioni belle, buone, sacrosante, ma che non concludono nulla…. Le cose non sono quelle che dovrebbero essere, ma quelle che sono…. Il fatto si è che le condizioni di mia moglie sono tali da destar le più legittime apprensioni…. Quel pensiero assiduo che la tormenta, logora la sua salute e pur troppo ha un’azione funesta anche sulla sua intelligenza. La vedrà, Ceriani, la vedrà…. Non è già che ella parli di continuo del King Arthur o dell’Ofelia; sarebbe meglio che ne parlasse…. ma si capisce che la sua mente è sempre lì, e la sua fissazione di voler passar quasi l’intera giornata in quello ch’ella chiama il suo salottino giapponese basta a dimostrarlo…. Via, siamo giusti, data una natura nervosa come quella dell’Agnese, non poteva accader di peggio…. Se lo sciagurato King Arthur si fosse perduto come si perdono centinaia di navi non saremmo a questo punto…. È per ciò ch’io insistevo per aver una prova…. Non la si è potuta avere, pazienza…. Non ne ha colpa nessuno…. Intendo benissimo che sarebbe una follia il girare il mondo in cerca di un bastimento…. Ma bisogna convenire ch’è un destino iniquo. E vi sarà della gente che c’invidia perchè siamo ricchi!

Il signor Roberto non esagerava accennando alle tristi condizioni di sua moglie. La vidi nella giornata e mi fece una pena immensa. Aveva dato un crollo in poche settimane. Era ridotta a pelle ed ossa, aveva gli occhi infossati e più d’un filo bianco si mesceva a’ suoi bei capelli biondi…. E quello sguardo, quello sguardo!

Mi accolse con una cortesia fredda, ben diversa dall’espansione ch’ella m’aveva dimostrata negli ultimi tempi. Circa al mio viaggio, mi disse soltanto: — Non ha saputo nulla…. Già era da immaginarselo.

Lieto ch’ell’avesse rotto il ghiaccio, mi credetti incoraggiato a riferirle le indagini che avevo fatte, i nuovi indizi che avevo raccolti, i discorsi che avevo sentiti, la dolorosa convinzione che avevo acquistata dell’inutilità di ulteriori pratiche per accertare un avvenimento su cui pur troppo non v’era più dubbio. M’aspettavo ch’ella protestasse contro le mie parole, che, in un modo o nell’altro, ella sfogasse il suo dolore…. Niente di tutto ciò…. Teneva la testa chinata sul petto, le mani incrociate sulle ginocchia, non dava segno di approvazione o dissenso.

Nell’uscire dalla stanza il signor Roberto sospirò: — È uno strazio. Così non può durare….

Tale era anche la mia opinione. Ma c’ingannavamo tutti e due. Anzi, in quanto a salute, la signora Agnese migliorò, riprese un po’ di polpa e di colore. Non migliorò invece il suo stato morale, non ci fu verso di scuotere il letargo nel quale ell’era piombata. Ella non trovava qualche lampo d’energia che per respinger qualunque proposta suo marito le facesse di viaggi o di distrazioni d’altra natura.

Compiuto l’anno, gli assicuratori pagarono il risarcimento che ci spettava, e nella pagina del nostro registro mercanzie intestata al Riso giapponese col “King Arthur„ noi potemmo inscrivere nella colonna dell’avere ch’era ancora in bianco la cifra rotonda di un milione di lire, chiudendo con un utile ragguardevole questo conto, nonostante le spese impreviste, nonostante la perdita degl’interessi.

Furono pagate contemporaneamente anche le 25 mila lire del salottino giapponese ch’era stato assicurato a parte.

— Sia ringraziato il cielo, — esclamò quel giorno il ragioniere della ditta. — Quelle due partite aperte gettavano un’ombra sinistra sull’intera azienda…. Adesso che ci si è messa su una bella pietra sepolcrale, si potrà respirar meglio e muoversi con più libertà.

Ebbene, quel giorno stesso il signor Roberto mi esternava per la prima volta la sua intenzione di liquidare la casa. Non aveva più amore al lavoro, non aveva più ambizione, non aveva più elasticità di fibra e di spirito. Sentiva di non esser l’uomo d’un tempo, d’infastidirsi a ogni contrarietà, di smarrirsi a ogni dubbiezza; quei lunghi mesi d’ambascia l’avevano spossato, affranto. E poi con che sugo avrebbe seguitato a logorare il cervello nelle intricate combinazioni del commercio moderno?… Non aveva figliuoli e non isperava d’averne; sua moglie non abbisognava di maggiori ricchezze per vegetar come faceva; le occorrevano soltanto delle cure sollecite, attente, e queste cure toccava a lui di prestargliele. Con la coscienza delicata dei buoni egli si caricava di colpe immaginarie. — Dovevo entrar subito nell’idea dell’Agnese, — egli ripeteva, — e far sì che il capitano ci lasciasse la bambina addirittura, chè già con un po’ d’insistenza la si sarebbe spuntata…. Oppure dovevo  tagliar corto, dichiarar che non volevo l’Ofelia in casa nè prima nè dopo, impedire a quella funesta tenerezza di nascere, di crescere. Il mezzo termine adottato fu la cagion vera di tante disgrazie.

Ohimè, la vera cagione era da cercarsi nella mente non equilibrata della signora Agnese, ma questo il signor Roberto non intendeva ammetterlo. Fermo nel tenersi responsabile di tutto, egli diceva che il far l’infermiere era per lui, oltre che un debito d’affetto, una giusta espiazione.

E persisteva nel proposito di ritirarsi dai traffici. Solo studiava il modo di provvedere all’avvenire de’ suoi commessi, di volgere a loro vantaggio il credito e le relazioni della sua ditta.

Di qui l’accomandita della quale io sono il gerente e che mi permise di conservare intimità di rapporti con l’ottimo uomo. Però tra noi non si discorre d’affari che quando io gli presento il bilancio, e anche allora se ne discorre poco perchè egli ha in me una fiducia che credo di non avere demeritata. Anzi talvolta egli mi rimprovera scherzosamente di aumentar troppo il suo patrimonio.

Per lo più egli mi parla di sua moglie ch’egli ama con l’antico trasporto e ch’è sempre nel medesimo stato, sospesa tra la sanità e la malattia, tra la saviezza e la demenza. Quand’io vado a visitarla, e ci vado ogni tre o quattro settimane, ella mi riconosce, mi porge la mano, mi ringrazia d’essermi ricordato di lei, mette insieme poche frasi insignificanti, e quindi ricade in un silenzio penoso. Ma se mi alzo per accommiatarmi si scuote, e non manca di dire: — Torni: Già mi trova al solito posto, nel mio salottino giapponese.

E nel salottino che conserva per ironia questo nome si vedono ancora le fotografie dell’Ofelia e del King Arthur. Ma i mille ninnoli, ma le lacche colorate, ma gli specchi dipinti, ma le mensole, i vasi che dovevano adornare il salottino giapponese, dove sono? Dov’è il King Arthur, dov’è la gentile Ofelia, dov’è il capitano Atkinson, dov’è il cane Tom? Su quali alghe riposano, quanto mare li copre, chi saprà mai nulla di loro?

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