Solitaria e silenziosa, con la facciata dipinta di grigiastro, co’ balconcelli alla romana, dalla balaustra breve e senza pancia, la piccola casa, posta ove più la stradicciuola si rinserrava, pareva di quelle che lasciano immaginare a’ lenti e pensosi peripatetici certe nascoste miserie, la cui voce davvero risponde, umile e sommessa, alle mute interrogazioni di questi osservatori meditativi. Camere scure e sprovviste, taciturni loro abitatori nel silenzio della casa e della via, strettezze patite senza lamenti, una quiete malinconica — ecco quel che lasciava intendere. Ne’ giorni del verno, quando pioveva, era una tristezza pesante. Le grondaie mormoravano, con un rauco e incessante borbottio: sullo sconnesso selciato del cortiletto l’acqua che vi si raccoglieva gorgogliava alla bocca d’una feritoia: i balconcelli restavano chiusi tutta la giornata e, dietro le vetrate che si constellavano di goccioline, tutto si sprofondava in una misteriosa oscurità. Talvolta un lume vi trascorreva, lento: e la fiammella giallognola tremolava in quelle ombre. Talvolta, quando la pioggia s’interrompeva, una giovane testa femminile si veniva a posare con la fronte a’ vetri, a un balcone del terzo piano. La donna rimaneva qualche po’ a contemplare, come assorta, i rigagnoli serpeggianti: poi levava gli occhi, guardava attorno, guardava i muri umidi e giallognoli del cortile — e quel delicato e pallido profilo si disegnava nettamente sulla vetrata.

Abbasso, al secondo piano, una volta la cortina velata d’una finestra si mosse: una mano piccola, gialla, rugosa, la sollevò. Poi la finestra si schiuse, la mano lasciò cadere nel cortile i minuti brani d’un giornale lacerato e quelli si sparsero sul selciato e vi rimasero due o tre giorni, fino a quando non tornò la pioggia e se li portò con sè e li travolse in quel vortice breve che roteava sulla feritoia. Ma per que’ due o tre giorni quelle farfalline bianche raccolsero tutta la muta e insistente contemplazione della giovane del terzo piano. Ella non riapparve più quando disparvero e il cortiletto tornò asciutto.

La stradicciuola, lontana da quelle popolate e attive della città, prossima alla campagna, erta e anfrattuosa, era poco amata da’ soliti venditori, ambulanti. Vi si arrivava per una larga scala di pietra, da’ gradini traballanti e lubrici e sparsi di tutti i rifiuti. Un cagnuolo randagio e affamato veniva lì a frugare col muso e con le zampe tra quelle lordure e s’era fatto amico del ragazzetto d’un merciaio che, una volta o due al mese, saliva fin lassù, lasciando abbasso, appiè della scala, il ragazzo e il carrettino. La vecchia del secondo piano gli comprava delle matasse di lana bianca e di filo: in un mese comprò per otto soldi tra spilli, aghi e bottoncini per la biancheria. Il merciaio s’annunziava dalla strada, con la sua distesa lenta e nasale, a cui faceva eco l’argentina voce del ragazzetto. La vecchia signora lo chiamava dal balcone, con un piccolo gesto della mano tremante, e usciva poi sul ballatoio e si traeva addietro fin sotto l’uscio, appena compariva il merciaio; e lì, sottovoce, contrattava, interrompendosi, di volta in volta, quando le pareva di udir qualcuno che salisse le scale. Accostava agli occhi le matasse di lana, le palpava, le soppesava nel cavo della mano, trovava che gli aghi erano irrugginiti e che il filo era poco ritorto. Il merciaio, buon uomo, l’ascoltava pazientemente, sorridendo. Una volta la vecchietta gli domandò:

— Conoscete qualcuno…. qualche signora…. Si vorrebbe collocare otto paia di calze di lana, ben fatte, a poco prezzo. È una signora, amica mia….

— Le avete qui?

— Venite con me, — disse la vecchietta.

Lo fece entrare nel salottino vuoto, freddo, ov’erano due divani logori, un tavolinetto sopra un tappeto assai consumato, e qualche stampa ingiallita, attaccata alla parete. Lì il merciaio si sentì stringere il cuore. La vecchietta aveva preparato le calze, avvolte in un giornale, sul tavolino. E, come il merciaio faceva per aprire quel pacchetto:

— No, no, — disse, — è inutile, sono otto paia: non mi credete?

Poi, quando furono sotto l’uscio:

— Sentite, — raccomandò, — quella che se le vende non vuol farlo sapere…. È una signora scaduta….

Nella via, l’uomo aperse il pacchetto e riconobbe la sua lana. Ma la vecchietta dava quelle calze così a buon mercato ch’egli trovò subito chi le comprasse, e, due giorni dopo, le portò il denaro, tornando apposta, senza il carrettino e senza il ragazzo. Tutta una notte aveva pensato a quella necessità che si voleva nascondere, a quell’amor proprio che così ingenuamente si credeva salvato. La vecchietta si fece trovare sul pianerottolo, e con la mano gli accennò ch’entrasse, cauto.

— Non vi fate vedere, — mormorò.

Contò il denaro e gli mise cinque soldi nella mano, serrandogliela a forza con una insistenza amichevole e battendogli un colpettino sulle dita.

— Accettate! — disse. — Compratevi i sigari.

Poi, quando tornò, al venerdì, il merciaio fu chiamato dalla giovane del terzo piano. Allo scendere, trovò la vecchietta dietro l’uscio socchiuso. Ella gli chiese che cosa avesse venduto, lassù. Aveva venduto dei merlettini e un’oncia di bambagia, forse — supponeva lui — per qualche bimbo di là da venire: la signora pareva incinta.

— Bellina, è vero?

— Bellina, sì, e poi tanto buona!

— Il marito è impiegato. Un bravo giovanotto. Ma….

E la vecchietta strinse un po’ le labbra.

— La vita è dura, — disse il merciaio.

Lei voleva dire ancora qualche cosa e infine si decise.

— Non le avrete parlato delle calze, è vero? Oh! va bene, — aggiunse subito, riprendendosi, — è una domanda stupida, perdonatemi. Ma, sapete, vi sono certe persone che sono così suscettibili…. così….

E come parlando a sè stessa, a mezza voce: — Quest’amica mia, ad esempio, — continuò, — tutto, tutto la punge, quest’amica che s’è vendute le calze. E voi quando tornate? Venerdì? Per me tornate pure di qui a una quindicina di giorni; della lana ho ancora quattro matasse e poi gli occhi non m’aiutano più come una volta…. Vi dispiace?

— Che cosa?

— Tornare di qui a quindici giorni?

— Pensate alla salute, — disse il merciaio.

Così, per due settimane, non si fece vedere, poi tornò una volta allo scorcio dell’ottobre piovoso, poi non tornò più.

Ora l’inverno cominciava a scuotere le vetrate con soffi furiosi che fischiavano nella via; cominciavano le piogge eterne e l’eterno gorgoglìo in mezzo al cortile. Un tramonto, a’ primi giorni del novembre, lasciò a quei solitarii pigionali meravigliati il suo fantastico ricordo. Tutto il cielo s’era a un momento arrossato, il riverbero di quel lume aveva empito le camere sulla strada d’un chiarore dolcissimo e in quella tenerezza rosea i mobili, le tendine, i bianchi letti, annegavano. La vecchietta schiuse il balcone e sorrise alla via in una dolce espressione di pace. La giovane donna del terzo piano rimase lungamente con gli occhi fissi in cielo, con le labbra mormoranti, come in una stupefazione. In quella fusione di colore la sua faccia pallida si irradiava della luminosità e dell’estasi delle immagini di chiesa, davanti alle quali ardono i ceri.

Seguirono delle giornate angosciose a questo tramonto. La desolazione della via era opprimente, ne’ silenzii delle fredde mattinate, ne’ silenzii del pomeriggio, ne’ silenzii delle serate lunghe, insopportabili. Oh, romore! Ella era venuta di laggiù, da San Marco ai Ferrari, una via tutta romore, una via chiassona, che si svegliava col sole e rideva tutto il giorno. Nell’orecchio le era rimasta la gaia voce d’un vecchio, uno di que’ ramai che martellava le pentole e ci cantava su le canzoni del quarantotto. Le rimaneva nell’orecchio la distesa svenevole che saliva fino alla stanza sua:

Comme chiagneno ‘e ffigliole

ch’hanno perze ‘e nnammurate!…

e il tintinnio del rame sotto a’ colpi, che pareva canzonasse, come l’antica allegria di quel vecchio. Qualche circostanza, a cui non aveva prestato che un’attenzione momentanea, ora pigliava rilievo, l’afferrava senza più lasciarla, tornandole continuamente alla memoria. Erano proprio bambinate, ma ecco, mai più avrebbe dimenticato il gran vitello squartato che il beccaio di faccia aveva appeso a’ ganci sotto l’insegna, in una gioconda domenica di agosto: un enorme pezzo di carne che sbarrava la bottega e sul quale, di tanto in tanto, si posava la mano grassoccia della moglie del beccaio, la mano tutta anelli di Grazia Jacono. Una vespa roteava attorno a quella carne, ronzando. Poi un grido: il grido lungo di un garzone di caffettiere che la mattina andava attorno con lo scaldino e le chicchere: ‘O cafettière! E la nenia di Malia, seduta all’angolo della via dietro la caldaia delle ballotte: e quel lamento così languido, così penetrante del luciano che vendeva i polipi….

Ah, sì, tutto ricordava, tutto ella rivedeva e quasi riudiva. Rivedeva suo padre, don Michele, co’ gomiti sulla balaustra del balconcello, sotto i festoni delle sorbe a mazzi e dei poponi, con la pipa lunga in bocca, con le babbucce ai piedi…. Quanto sole laggiù! Le sorbe maturavano a momenti, l’odore de’ poponi saporiti entrava nella cameretta, e don Michele, dopo pranzo, si metteva al vecchio cembalo e cantava l’aria della Sonnambula con la sua stanca voce di baritono: Ah! non credea mirarti, sì presto estinto, o fiore!…

Or ella si fermava sulle parole che pareva fossero fatte per lei. Via, era morto tutto! Sì presto estinto, o fiore!… Certe emozioni invernali, certe paure del buio, certi strani sgomenti cominciava a provarli ora. A volta le gambe le si piegavano e sentiva al cuore, col respiro che le veniva meno, come la trafittura d’uno spillo. Che silenzii, che silenzii! Addio! Tutto era morto, tutto! E moriva pur lentamente l’anima sua in questo ritiro ove non aveva eco la vita esteriore, ove il suo amore troppo casto di sposa borghese, di fanciulla destinata alla famiglia, languiva senza sfoghi, senza ribellioni, senza impetuosità. Quella casa era acconcia piuttosto a un folle amore, a una solitudine breve di amanti nevrotici, forse a uno scioglimento drammatico d’amore! Era fatta per altri. Questo suo era semplicemente un tedio in cui s’avvicendavano ore di sconforti nuovi, di terrori inesplicabili, che ricordava d’aver provati la prima volta che fu chiusa in collegio, a Sant’Eligio.

Triste sorte, era una triste sorte. Eppure, accanto all’uomo che da un anno era suo marito, ella non osava chiamarsi infelice. Ella si salvava nella immensa bontà di questo afflitto che pareva le aprisse le braccia a raccorvela piangente. Fino allora nessuna insofferenza scambievole, mai. Si volevano bene. Ma in questa casa, ove un rovescio di fortuna li aveva ridotti, ove pagavano una pigione modestissima e soffrivano scarsezze che nessuno sapeva, si sentivano troppo soli, troppo soli — da un anno.

Una sera, lei che era venuta a sedergli di rimpetto mentr’egli ricopiava, sotto alla campana verde del lume, un processo di fallita, levò la testa dal ricamo e, lentamente, col dubbio nel sorriso timidissimo, mormorò:

— Avrà fatto un anno, da quando siamo qui?

— Eh? — fece lui, levando gli occhi da una cifra.

La guardò tutto raccolto, addizionando mentalmente, stringendo gli occhi, stringendosi ii labbro inferiore tra’ denti. Poi scrisse la cifra, ripose la penna e ripetette:

— Eh?

Vi fu un silenzio. Egli rimase un momento a contemplarla, mentre lei taceva, sotto la tenera calma dello sguardo di lui. Poi allungò il braccio di sopra alla tavola, le pigliò la mano, si trasse accanto la piccola moglie, dolcemente, sorridendo.

— Siedi qui, vicino a me: chiacchieriamo.

Allora, quando ella si sentì così vicina a lui, così vicina all’anima di lui, all’amore di lui, lì nelle sue braccia, sotto il suo alito lieve che le passava sulla nuca, quando si sentì il suo bacio sulla gota, presso alla bocca, volle dir tutto, come se avesse aspettato quell’abbandono per confidarsi. No, no, non potevano rimanere in quella brutta casa, in quella casa fredda, senza vedere nessuno, senza sentir la voce di nessuno! Anche lui v’invecchiava, non se n’era accorto? Aveva fatto de’ capelli bianchi sotto alle tempia, accosto all’orecchio.

— Non è stata la casa, — disse lui, sorridendo.

No, era stata la casa. Ella non avrebbe saputo lavorare con la mente calma qui, come lui lavorava. Non sentiva niente lui? Non provava nessuna oppressione di spirito, nessuna stretta al cuore? Oh! due camerette, niente altro: due camerette col sole, coi venditori sotto le finestre, col sole sul letto!

La voce le si empiva di lacrime. Egli era rimasto a udirla, in un tenero sbigottimento, meravigliandosi della violenza dello sfogo.

— Via, — promise, — si rimedia, si rimedia. La mattina di buon’ora, prima dell’ufficio, mi metterò in giro. Troveremo un’altra casa….

— Guarda. — ella interruppe, — se vuoi, uscirò io; vuoi ch’esca io?

— Tu?

E la guardò, con una maliziosa dolcezza.

Ella arrossì tutta; volse la faccia dall’altra parte, mortificata, in un pudico sentimento di maternità.

E venne finalmente questo aspettato, venne in una mattina rigida di gennaio, all’alba opalina di una giornata minacciosa. La vecchietta del secondo piano rimase di stucco quando, all’aprire l’uscio, si vide davanti il marito della signora Carolina, l’impiegatuccio, pallido e tremante.

— Oh! mio Dio! — esclamò. — Forse la sua signora….?

— Sì!… — disse lui, rapidamente. — Fatemi la carità, non abbiamo nessuno in casa…. non posso chiamare nessuno…. non avevo preveduto…. Venite su!…

— Oh! mio Dio! — balbettava la vecchietta, con le mani giunte.

E si affaccendava, smarrita, cercando attorno una cuffia nuova, cercando un altro grembiule, sciogliendo le fettucce a quello che aveva davanti. Lui fremeva d’impazienza, porgeva orecchio, s’avviava, tornava ad avviarsi verso l’uscio, credendo ch’ella si movesse una buona volta. Ma lei s’indugiava ancora, piegava e ripiegava un fazzolettino e si passava la mano su’ capelli, ammaccandoli leggermente alle tempia….

— Non importa, se vengo così, come mi trovo?

— Ma venite! — proruppe, afferrandola pel braccio, trascinandola quasi a forza per le scale, mentre ancor ella si scusava della veste sciupata e delle babbucce vecchie.

Nella cameretta di Carolina rimase a lungo e ne uscì con la cuffia di traverso, con le ciocche grigie dei suoi capelli scomposte, tutta seria di fronte a quell’avvenimento in cui erano scomparse le sue riserve, al cospetto di costei che le ricordava le figlie.

— Un maschio…. — annunziò sottovoce, minacciando con la mano l’impiegatuccio, come se ammonisse un colpevole.

Egli, in piedi, accosto alla tavola, sorrideva nervosamente, e passava la pezzuola sulla fronte sudata. Non poteva parlare. All’improvviso la trasse bruscamente da parte, rovesciò una seggiola e si precipitò nella piccola stanza da letto.

La vecchia, rimasta sola, girò gli occhi intorno, esaminò la camera, esaminò i mobili da presso, rialzò e rimise a posto la seggiola caduta. Le tornavano le sue curiosità di vicina, alimentate sino allora, giorno per giorno, dal mistero di quei pigionali, di cui le rimanevano ancora sconosciute le abitudini. Un’occhiata all’altra camera l’aveva pur data nel primo momento di calma; era una camera piccola, pulita, col letto d’ottone a colonnine, con una grande immagine della Vergine a capo al letto. Non aveva potuto capir bene se fosse l’Assunta o l’Immacolata. Due tappetini a’ due lati, un armadio di faccia, un cassettone accosto al balcone. Senza un mobile per la toeletta; questo la meravigliava. Ma dietro la porta, uscendo, aveva visto appesi uno specchio e un tovagliuolo. Quest’altra camera, ove si trovava ora, era più sprovvista; appena un divano rosso sotto una gran carta geografica, un tavolinetto davanti al divano, con su il canestrino del lavoro, tra due pastorelle di gesso dipinto, e alla parete principale la fotografia di un quadro che rappresentava Gounod che scrive il Faust.

La vecchia si mise gli occhiali per leggere quello ch’era scritto a mano, sotto il titolo stampato. Lo scritto diceva: All’egregio maestro Michele Fioretti, l’autore. Dopo un esame accurato, ella argomentò che uno dei tre ritratti messi in fila sotto la fotografia dovesse essere quello del padre della signora: le rassomigliava assai nella linea fine della bocca, e negli occhi scuri ed espressivi. L’altro ritratto di chi era? Forse della madre. Sì, sì, la madre, si capiva. Del terzo non seppe pensar nulla. Qualche amico di casa o un fratello. Poi lo saprebbe.

Allo scendere, dopo i caldi ringraziamenti dell’impiegatuccio, parlò di tutto questo al marito, un gottoso confinato nella sua poltrona, con sulle ginocchia un eterno scialle di lana. E per mezz’ora gli rifece l’inventario, girando attorno per la camera, osservando che quella casa al terzo piano avrebbe fatto per loro e che vi si pagavano sei lire di meno al mese. Glie lo aveva detto la signora. E sarebbe stato bene se si fosse fatto amicizia con quelli di sopra; ottime persone, si vedeva. La signora era una bambina, proprio una bambina; aveva avuto vergogna di lei, poveretta, non aveva detto nemmen quattro parole, da principio. Poi a poco a poco…. Bisognava frequentarsi. Un po’ loro da quelli del terzo piano, un po’ quelli da loro. Aveva visto un ricamo a uncinetto attorno a una pezzuola, sul letto. Lo voleva imparare…. Ora cominciavano le serate lunghe d’inverno; si sarebbe rimasti in compagnia fino alle dieci…. Quanto credeva lui che potesse guadagnare al mese l’impiegatuccio?…

— Mah!… — fece il vecchio, seccato.

Leggeva il Templario di Walter Scott, con una mano spiegata sul gran fazzoletto scuro che aveva appeso a un bracciuolo della poltrona.

— Un centinaio di lire, — borbottò la vecchia. — Forse anche meno….

— Quando lo rivedrai — disse il vecchio, interrompendosi  con una piccola tosse stizzosa, — dimandagli se gioca al mercante. La sera potremmo giocare al mercante….

Allora lei il giorno dopo mandò sopra Candida, una trentenne pinzochera che le veniva a spazzar la casa tre volte alla settimana e le portava i numeri pel lotto.

— Dirai — raccomandò — che, per tutto quello che può occorrer loro, io son pronta a servirli. Mi chiamino pure….

Poi, sul pianerottolo, soggiunse:

— Tu offriti per la cucina, per la spesa…. Ti compenseranno. Senti, guarda in cucina se hanno rame. Se non ne hanno, lo presto io: faglielo capire.

Candida tornò portando i ringraziamenti dell’impiegato. Era venuto lui ad aprirle la porta e sotto la porta avevano parlato. La signora non aveva potuto vederla. Non desideravano niente, la ringraziavano, le avrebbero restituita la visita appena la signora fosse guarita.

— È malata?

— Lui crede che abbia un po’ di febbre. Ho data un’occhiata alla cucina mentre lui è andato a dire alla signora che c’ero io di fuori. Hanno tutto, e il rame luccica. Hanno pure la macchinetta pel caffè…

— Sai? — disse la vecchietta al marito, quando Candida se n’andò, — hanno tutti gli utensili in cucina, e il rame luccica.

— Vuol dire che non lo usano, — sentenziò il lettore di Walter Scott.

Passarono tre settimane. La vecchia, in tutto questo tempo, non aveva saputo più nulla. Non aveva più visto alcuno. Al sabato aspettò che tornasse Candida, pensando al mezzo con cui mandarla sopra a chieder notizie. Lei non aveva coraggio di presentarsi, le pareva che quelli di lassù non la desiderassero, che non volessero essere sorpresi, che non volessero essere nemmeno compatiti, via. Ognuno a casa sua. Una sola volta, in fine di settimana, mentre chiudeva la porta, sentì sbatacchiare quella di sopra. Era lui che scendeva, forse. Rimase a origliare dietro l’uscio. Infatti era lui. Passò davanti alla porticella del secondo piano senza fermarsi, senza guardarvi: pareva preoccupato. Lei lo vide pel finestrino a graticciata. Certo non era quella la prima volta che egli usciva dopo il parto della signora; lo aveva visto tornare una mattina di buonissima ora, con un fagottino sotto al braccio. Usciva all’alba, dunque. Che gente strana! La vecchietta non ci capì nulla. Ricominciavano le giornate piovose, ricominciava il brontolio delle grondaie, ch’era la musica di tutti i giorni. Erano passati quattro mesi. E pioveva, ora, pioveva sempre e s’era nel gennaio. In un mercoledì, dopo l’Epifania, l’aria si fece così nera ch’ella dovette accendere il lume tre ore dopo il tocco. E invano tormentò le cortine della finestra che affacciava sul cortile. Guardò lungamente in su alle finestre del terzo piano: ma nessuno vi apparve.

Improvvisamente, mentre rattoppava una manica a un soprabito del marito, la vecchietta sobbalzò sulla seggiola. Ah, finalmente! Qualcuno saliva le scale. In punta di piedi andò a guardare pel finestrino dell’uscio. Era un giovane dalla barba bruna e portava gli occhiali: alto, vestito per bene, dall’aria grave, dall’incesso grave delle persone serie. Faceva colare, camminando, l’ombrello immollato, che rigò d’acqua il pianerottolo. Andava sopra. E vi rimase tre quarti d’ora: ma ora lei, decisa, lo avrebbe aspettato sino a sera. Gli fece la posta dietro l’uscio, provando da sola i sorrisi e le gentilezze con cui doveva accostarlo. Quando lo sentì scendere tossì leggermente, fece cigolar l’uscio, e gli si trovò di faccia sul ballatoio, con una piccola riverenza.

— Ella scusi, — fece rapidamente, — ella scusi, se mi permetto…. Ma lei, certamente, è un amico di casa dei signori di sopra…. Io sono stata malata, non ho potuto visitarli com’era mio dovere…. e poi…. lei capisce, non voglio tediar nessuno. Potrebbe favorire di dirmi come va la signora?

Lui, molto riguardoso, s’era scappellato, e l’ascoltava.

— La signora sta bene, — rispose. — Ma l’emozione ancora le dura.

E come lei, un po’ sorpresa, lo interrogava con lo sguardo:

— Io non so — aggiunse — se lei…. Lei non sa?… Il bambino le è nato sordo….

— Oh, figlio mio! — esclamò la vecchietta.

— …. e forse anche muto, — finì lui, scuotendo dolorosamente la testa.

Alla vecchietta corse un brivido per tutta la persona. La sua mano tremante s’afferrò alla balaustra.

— Io…. non sapevo…. — ella balbettò, — io…. Oh, mio Dio!… Oh, poverini!… Povera signora!…

Entrò in fretta e furia nella camera del marito. Egli, al solito, leggeva. Cominciava ad annottare.

— Il bambino della signora è nato sordomuto, — balbettò la vecchietta, con uno sforzo, fermandosi in mezzo alla stanzuccia.

Il vecchio si volse, bruscamente. La guardò.

Ella guardava a terra, con le braccia penzoloni, addossata alla tavola.

Il vecchio chiuse il libro sulle ginocchia e vi fissò gli occhi astratti, rimanendo immobile, agitando lievemente le labbra. Poi, a un tratto, menò un gran pugno sul bracciuolo della poltrona.

In quel punto un lampo illuminò la camera.

— Santa Barbara! — fece la vecchietta.

Si segnò. Cominciò a mormorare un’avemaria, sottovoce. E, avendola cominciata per Santa Barbara, la terminò per quelli di sopra….