Mariangela Santella non ne poteva più. S’era buttata sul pagliericcio e mordeva lo scialle stracciato, per non farsi udire. I dolori del parto l’avevano colta d’un subito, mentre raccoglieva di su al davanzale della finestra i peperoncelli rossi che avea posto a seccare al sole.
Per terra il più piccolo de’ marmocchi, nudo e steso con la pancia all’aria, brancicava attorno con le manine e rideva ai pulcini della chioccia che lo vellicavano, saltellandogli sul petto con le zampine sporche di terriccio.
L’altro, il rosso dagli occhi grandi e stupidi, sbucciava i fagioli nel tegame con una lentezza di ragazzo fannullone, rimanendo lungamente a guardar la madre che si torceva.
Bernardino Santella entrò, con la pipetta in bocca e le mani sul dosso. Di fuori qualche urlo di spasimo lo avea udito, sapeva di che si trattasse; già, un giorno o l’altro, era cosa che doveva accadere.
— Mbè, Mariangela? — fece, accostandosi alla moglie. — La chiammamo sta vammana?
E sogghignò, masticando un po’ la cannuccia della pipetta, battendo il piede a terra leggermente, con le labbra strette.
Ora che a Durazzano non si poteva più fare un passo fuori l’uscio e la gente si chiudeva in casa come se ci fosse il colèra, si poteva pure morire di parto, e poi la vammana se n’era fuggita a Bisaccia, con le figlie e il farmacista Stoppella. Nel paesello sconsolato era un silenzio dì morte; terrori improvvisi facevano raggricciare le carni, e un niente lo metteva sossopra. Mariangela non s’era messa a gridare, pensando alla paura che avrebbe fatto al vicinato, ove accosto alla stamberga sua c’erano le figlie del notaio che a momenti s’immaginavano di vedersi i briganti in casa ed erano quasi ammattite, pensando al loro onore in pericolo. Il notaio co’ due nipoti preti si fabbricava la polvere in casa e non usciva più da un mese nemmeno a sentir messa. Da Atina, da Esperia le male notizie le portava il vento. Oggi il saccheggio alla casa del sindaco, ieri Fita Vocanello che avea mandata alla mamma di Benedetto Caruso un’orecchia del figliuolo in una lettera, dicendo che pel riscatto voleva mille ducati, e poi Angelo, il mandriano del signor marchese, arrostito sulla legna come un montone, e le due belle mule di Fortunato Sacco sparite col basto e la cavezza dalla stalla: un orrore, un orrore! La gente si raccomandava l’anima per le brutte morti che sentiva, guardandosi in faccia, spaurita. Uno dietro all’altro arrivavano i telegrammi; diceva il prefetto che subito avrebbe mandati i soldati e questi non si vedevano mai. A mala pena ne vennero cinquanta nel giorno del Corpus Domini. Si abbandonarono qua e là pe’ campi arsi, per la boscaglia fitta che non conoscevano e tornarono sfiniti, dopo sette ore di fucilate, con tre compagni morti sopra le barelle.
Ma pure, fruga e rifruga, aveano presi due della banda e se li cacciavano innanzi legati, sputacchiando loro in faccia come fecero a Cristo sulla croce.
Allora Mariangela, ch’era stata a vederli passare fra la gente accorsa, per poco non si sconciò dal ribrezzo, e sempre diceva che avrebbe fatto un figlio col labbro rotto, come l’aveva uno di quelli, che le avea piantato gli occhi negli occhi mentre lei sclamava: — Dio sia lodato!
La faccenda fu subito accomodata, senza romore di giudizio, senz’avvocati e tribunali. Laggiù, dietro la chiesuola, li fucilarono sullo sterrato, e ancora si veggono i buchi neri delle palle nel muro. Quello del muso rotto si voleva a forza confessare, lagnandosi che gli perdevano l’anima col mandarlo all’altro mondo senza quel sacramento. Così il sergente Mazzarella, intenerito, gli fece la proposta che s’acconciasse con lui ch’era stato chierico tant’anni addietro. Ma come gli accostò l’orecchio alla bocca l’altro glie l’afferrò tra i denti e se lo mangiò come niente. Un orrore!
Bernardino s’era messo a sedere sulla tavola zoppa, con le gambe penzoloni, le palme strette fra i ginocchi.
Il sole di luglio irrompeva lì dentro con una vampa che ardeva la carne e toglieva il respiro; bruciacchiava sotto l’uscio le fette di melanciane che si torcevano, raggrinzendosi, sul solaio. La chioccia beccava fra i chicchi sparsi, chiamando i pulcini che si rincorrevano pigolando. Un cagnolo puntava le zampe sull’orlo dell’orciuolo e vi allungava il muso sporco, lambendo l’acqua che al sole era diventata tepida.
Fuori un silenzio pesante per tutta la spianata fin dove arrivavano l’ultime case, ove il terreno s’incurvava leggermente e apparivano le cime spogliate dei primi alberelli.
— A Battista de Limátula l’hènne missa ncuollo ‘a taglia, — disse Bernardino, di colpo, levando gli occhi sulla moglie.
Lei s’era allungata sopra un fianco, sbadigliando, sorreggendo la testa nella mano, mentre attorno le ronzavano le mosche, nell’afa.
— Mille duchète…. — soggiunse lui. — E nc’è pure l’avviso sotto a lu Municipio.
— E quante fanno? — disse Mariangela, che nel voltarsi a udire il marito mise un piccolo grido di dolore.
— Eh! — disse lui. — Fanno mille duchète, fanno, e tutto Durazzano nu li vale.
Vi fu un silenzio. Il marmocchio era arrivato sotto l’uscio, carponi, e s’afferrava al manico della vanga, tirandosela addosso. L’altro, il rosso, lo guardava fare sorridendo; poi s’alzò, gli venne ad accoccolarsi accosto, lo afferrò alle spalle e se lo rovesciò sul petto. Il bimbo nudo strillava, impazientendo, con le manine che volevano difendersi. Poi, steso bocconi sul fratello, gli rise con la bocca su la bocca, mettendogli le dita negli occhi. L’altro si schermiva, armeggiando con le mani, vellicato dalle carni fresche e sode dei fratellino.
— Sempre mille? — sospirò Mariangela, sputacchiando come se avesse bevuto fiele. — Vivo o muorto?
— Ecchè? — fece lui, sghignazzando. — Isso nun se fa pijà vivo!… Sapessero addò sta, sapessero! Siente, neh, io saccio addò sta…. Sta là nfunno, sott’a la pagliara e’ Dunat’Auricchio, va!… E siente….
Ma lei, nel sopore che succedeva agli spasimi, taceva, con la bocca schiusa, già quasi addormentata: il sudore le luceva sotto gli occhi affossati.
Bernardino scese dalla tavola e s’accostò a guardarla.
— Mbè?
Aspettò un momento che rispondesse, poi le volse le spalle, andò su e giù per la stanzuccia, con le mani che frugavano sbadatamente nelle tasche della giacchetta. Si fermò innanzi alla botte sfasciata ove alloggiava la chioccia e si chinò a prendere qualche cosa ch’era nascosta là dentro, fra la paglia.
I bambini ridevano. Il rosso mordeva leggermente un braccio all’altro e sbarrava gli occhi, e ringhiava come il cagnuolo.
Bernardino si chinò sul marmocchio e gli dette un gran bacione sul capo, tra i capelli sottili e dorati. Uscendo camminava a piccoli passi, poi tirò innanzi affrettandoli, e pel sentieruolo storto che s’inerpicava di faccia al casolare si fece il segno di croce.
In quell’ora il sole dardeggiava in un immenso bagliore accecante, nel cielo turchino ove a un punto s’allargava un’irradiazione abbagliante. Dalla finestretta si poteva vedere la via larga e deserta allungantesi di fianco al sentieruolo sino ai castagni che la sbarravano. Il terreno bruciava sotto quel bacio infocato, nell’afa insopportabile, nell’alito ardente che lo lambiva come fiato di belva. Da lontano il monotono piagnucolio d’un cuculo arrivava debolmente, mettendo in quella spianata gialla e disperata la tristezza d’una landa.
Prima dell’Avemaria, Mariangela si svegliò di soprassalto, tra le fitte orribili delle ultime doglie.
— Ah! Santa Catarina, aiuteme!
Allora il rosso le si accostò, spaventato, non sapendo che dire.
— Tata se nn’è juto, — mormorò. — S’è levète li scarpe…. se nn’è juto….
— Ah! Santa Catarina! — sclamava lei. — E cussì me lasse!
Il rosso si mise a correre su pel sentieruolo. Ma quando fu in cima il fiato gli venne meno: era tutto sudato e i piedi gli dolevano. Lassù la boscaglia cominciava. Un gran pino stendeva a terra un’ombra gigantesca; una pina caduta s’apriva al sole, già secca. Il bambino si fermò, la raccolse e la mise in saccoccia. Poi s’incamminò lentamente, voltandosi qua e là, con l’istinto curioso dei fanciulli che cercano. Allo svolto, ove la spianata ricominciava avvallandosi, adocchiò una lucertola che s’era stesa pigramente al sole, con la pancia all’aria. Strisciando, con gli occhi spalancati, le mani pronte, il rosso l’acchiappò sotto il berretto. Sedette a terra, allargando le gambe; avvolse la bestiolina in una pezzuola lacera e la cacciò in saccoccia. E rimase a baloccarsi col pezzetto di coda che s’era staccata alla lucertola e balzava torcendosi sull’erba come un serpentello. Poi s’alzò e si mise a correre daccapo.
Dopo cinquanta passi il muricciuolo che riparava la pagliaia di Donato Auricchio gli si parò innanzi. Era tutto diroccato, tra l’erbe selvagge, tra un roveto arso che lo assaliva alle spalle.
Il ragazzo s’arrampicò sino in cima, sporse fuori il capo a guardare, afferrandosi con le mani alle pietre, calde ancora. Le ultime canne della pagliaia bruciavano nella cenere nera, a terra, e se ne levava una spira di fumo sottile, e saliva nell’aria greve. Più in là, a due passi da un gigantesco faggio, un corpo si disegnava bocconi, tutto nero, sull’erba che rosseggiava co’ suoi fili nani sotto a quella testa con una gran macchia scura.
Il rosso chiamò:
— Tata! Tata!
Nessuno rispose. Ma egli aveva riconosciuto il padre, dalla giacchetta verdognola di velluto stinto, dalle scarpe, enormi, irte le suola di bullette, le punte in sotto. L’ammazzato si vedeva poco in faccia, si vedeva appena il profilo adunco del naso e una ciocca di capelli scompigliati. Le mosche gli ronzavano attorno a frotte, correndogli a una mano che spuntava di fra l’erbe, tutta pesta e sanguinosa, aperta.
Il ragazzo sedette sul muricciuolo ch’era troppo alto perchè egli avesse coraggio di saltarlo. Guardò lungamente, senza comprendere. Poi tornò a chiamare:
— Tata! Tata!
In quel momento il sole tramontava. Nel cielo azzurro salivano due nuvole macchiate nel bianco argenteo di strie brunastre, come se per entro vi fossero passati i denti d’un pettine. Nel lontano, ove lo sguardo si perdeva nella stesa immensa dei campi, dalla parte del sole una nuvola aranciata s’orlava di spruzzi sanguigni. E da’ campi, dalla boscaglia respirante a ondate il zeffiro della sera, arrivavano susurri indefinibili e incessanti, ronzii d’insetti in amore, pispigli brevi e sommessi; arrivavano gli odori acri del bosco, ancora fumigante d’arsura.
— Tata! — chiamava il piccino, — Tata, mamma chiange e ti vo’!… Oi, tata!…
S’impazientì. Si stese boccone sul muricciuolo, mise fuori la lucertola dallo straccio, le attaccò uno spago al mozzicone di coda sanguinante e la fece camminare, rattenendola con improvvise strappate, gridandole dietro:
— Ah! Ah!… Isce!…