Mentre Angiolino Pezza, parrucchiere, menava le forbici nella gran zazzera d’uno studente arrivato all’alba da Montemurro, e si guardava costui nello specchio, con le mani spiegate sulle cosce, strozzato dal grembiale che Angiolino gli aveva stretto alla gola, un organino si mise a suonare innanzi alla bottega.
A quel romore si schiuse la finestra d’un’agenzia di pignoramenti, e il commesso, un giovanotto pallido, magro, che girava e rigirava tra mani una catenella d’oro, apparve dietro alla vetrata, appannandola con l’alito e ammaccando a’ vetri la punta del naso, per guardare di sotto. Apparve, sbucante dal mistero d’un cortile, la gobbetta Giovannina, figliuola del portinaio di faccia. Trascinò la seggiola sino al limitare del palazzuccio, vi s’arrampicò con una lestezza di scimmietta e, appena seduta, con in grembo il gomitolo di lana rossa, lanciò alla strada un’occhiata. Ella stava bene lì, sulla seggiola alta, riuscendo quasi a nascondere la sua deformità, volte le spalle alla penombra del cortile, la maliziosa testa bionda languidamente abbandonata. Lo sguardo seguiva i passanti, le labbra mormoranti accompagnavano, con tenerezze di parole, l’amorosa musica dell’organino. Le piccole mani di malata, esangui, giocherellavano tra il gomitolo e le bacchettine.
Parve, a un momento, che davvero si ripopolasse la viuzza solitaria. Erano frotte di studenti che tornavano dalla sala anatomica e ancora ragionavano d’ossa e di muscoli; erano affaccendati che passavano in fretta, lo sguardo innanzi a sè, tutto occupato il pensiero dalle cose loro; erano coppie di borghesi che gesticolavano e si confidavano. Passò, zoppicando, una vecchia, col libro da messa e la coroncina in mano. Passò un biondo giovanetto, dal cappello a cencio, dalle scarpe scalcagnate, recantesi tra le braccia due statuine di terracotta bronzata. E come il legatore di libri, che aveva bottega accosto a quella d’Angiolino, s’era affacciato a dare un’occhiata nella via, quello gli si piantò davanti e gli offerse le due statuine, per poco prezzo. Il legatore le guardò appena e si rifiutò, scotendo il capo, con una smorfia sprezzante. L’altro insisteva, sottovoce. Allora il legatore trovò buona l’occasione per rientrare nel suo buco, ora che l’organino aveva smesso e ancora insisteva il giovanetto delle statuine, con la sua aria sconsolata e con una dolce pronunzia veneta.
Poco dopo, lo studente venne fuori dalle mani del Pezza e dalla sua bottega, passando l’indice nel colletto, pel prurito che gli facevano sulla nuca i capelli tagliuzzati. L’organino risaliva la viuzza, trabalzando la musica con grandi scossoni su pel selciato rotto.
Allora la gobbetta, che si vide sola, scese dalla seggiola, mise insieme il gomitolo, le bacchette e il lavoro avviato, si tirò dietro la seggiola nel cortile e lì sparve. Ancora per poco il commesso dell’agenzia rimase a guardar di rimpetto. Poi scomparve anche lui.
Un’infinita malinconia pioveva dal cielo grigio sull’angustia della viuzza, ove tutto quanto si moveva tra la nera decrepitezza de’ muri pareva che agonizzasse nella mancanza del sole. Romoreggiava lontanamente la città. Ma qui non la vita chiassona e peripatetica, ma la felicità della luce e, le si invidiava, il giallo del sole su’ muri, il buon calore del sole. Cominciava marzo con una uggiosa umidità dell’aria, provocante le facili disperazioni, disseminante il fastidio. Pure, la stradicciuola, sopita nella triste sua pace, dolorosamente se ne contentava, abituata a rimaner lontana da’ desiderii, non turbata, tutta accidiosa nella sua malata tranquillità. Ma la gente, attraversandola, quasi fuggiva. Qui una muta sofferenza, da per tutto, aleggiante sui palazzi muffiti, chiusa nell’oscurità delle botteghe, impressa sulla faccia delle cose e delle persone, da per tutto.
— Tanto avete pregato Dio, voialtre, che finalmente v’ha mandato l’acqua! — disse Rocco Addosio alle figliuole di donna Maria, le quali davano il lucido a’ colletti nella bottega da stiratrici, a metà della strada.
Disse Malia, col ferro levato:
— Che piove davvero?
E mise fuori il capo, guardando il cielo attraverso l’arruffio dei capelli riarsi.
— Non gli badare, — disse Nunziata, la sorella grande, — è scemo. Piove sempre per lui.
— E che è questo? — chiese l’Addosio, mostrando la mano su cui due gocce d’acqua luccicavano.
Ma disopra, dalla finestra che affacciava sulla via, tra le camice e le lenzuola che attaccava a un ferro, donna Maria si sporse a vociargli:
— Sono le camice che scolano, va! Come se non lo sapesse!
— Bel tempo avete scelto, donna Marì! — le disse Addosio, col naso in su, con gli occhi socchiusi per la paura del gocciolìo. — Senza scherzi, fra poco me ne parlerete.
E si volse a Malia ridendo:
— Saranno asciugate all’anno venturo.
Rise pur Malia, una ragazzona, alla quale Addosio piaceva pe’ capelli crespi, per le labbra carnose che il carbone irritava. Quivi biancheggiavano i denti, come tra una ferita sanguinante. Il carbonaio rimase innanzi alla bottega, con le mani in cintola, con l’aria grulla, contemplando la bisogna delle ragazze.
I ferri battevano con tonfi sordi sulla tavola da lavoro, ammaccando umide rigonfiature di biancheria inamidata, dando lucido a’ polsini, a’ colletti, che fumigavano sotto il calore. Segnavano di taglio le righe, agli orli dei colletti, lungo i margini dei petti lisci. Urtavano in qua e in là, nel bicchiere di latta, ove uno straccetto s’imbeveva della borace che toglie le macchie, nelle scatoline degli spilli, nello scatolino del tabacco biondo per le sigarette che si faceva Nunziata. Alla grande tavola bislunga era tappeto un lenzuolo, bruciacchiato intorno da larghe chiazze d’abbronzatura, così usato dai ferri che questi vi scivolavano come su d’un marmo. Le camice arrotolate, pronte pel ferro dopo la ripassatura d’amido, le pezzuole umide, strette in un grembialino da bimba, le mutande, le cuffie, la minutaglia dei polsini e dei colletti posticci irrigiditi dall’amido, s’ammonticchiavano all’altro capo della tavola. In cima, i nastri d’una cuffia lambivano la palla bianca di un lume che pendeva dal soffitto, e si lordavano del petrolio che ingrassava la porcellana. Ancora il lume si dondolava, lievemente.
La confusa biancheria della larga tavola che si allungava fin sulla soglia della bottega, il bianco dei panni, delle camicette di Nunziata e di Malia entravan di sbieco in uno specchio ch’era in fondo, un gran vetro dozzinale e insudiciato dalle mosche, che rifletteva pur la strada e parte del muro di faccia. Qualche figura passava talvolta nello specchio, rapidamente. La ragazza Peppina, che in un cantuccio immollava le camice nella catinella dell’amido sciolto, cercava di cogliere e di riconoscere qualcuno del vicinato in quelle ombre fuggevoli. Aspettava, come in agguato, dimenticando nell’amido le mani e le camice.
Attorno alla tavola le figlie di donna Maria si davan da fare in silenzio, ma volgevano di tanto in tanto gli occhi alla strada. Malia, le spalle volte alla fornace che dietro rosseggiava in un gran vuoto del muro, s’abbandonava, con tutte e due le mani sovrapposte, sul manico del ferro e premeva metà della persona su d’un colletto, mentre il seno dovizioso le risaliva fin sotto al mento e pareva volesse scoppiarle pel busto. La fornace vicina la metteva tutta in sudore. Una lucentezza le si faceva sotto gli occhi, agli zigomi, tra la dolce diffusione de’ capelli alle tempie, ove si gonfiavano venuzze azzurrine.
L’altra, ritta, sottile, gli occhi leggermente violacei, aspettava il cambio del ferro. La ragazza Peppina, terminata la sua bisogna, colla mano al tamburo della fornace, batteva prestamente sulla faccia del ferro il polpastrello del medio insalivato. Nunziata, nervosa, s’impazientiva, pallida e magra, così magra che al sommo del petto le clavicole le sporgevano, come due bastoni, di sotto alla fine camiciola.
— Peppina! — strillò. — Cristo!
La ragazza trasalì.
— Son freddi, — piagnucolava. — Tutti freddi!
E la guardava impaurita, con gli occhi rossi, lucenti pel fuoco della fornace.
Nunziata, che se la voleva pigliar con qualcuno, se la pigliò con Rocco Addosio, il quale teneva dietro, incantato, ai balzi del petto di Malia.
— E tu? O entra o vattene. Candelieri non ne vogliamo.
— Be’, entro! — disse Addosio. — Malia, lasciami passare.
Ma tra il muro e la stiratora egli temporeggiava e, nello stretto passaggio, si lasciava premere al muro da Malia che rideva pelle pelle e gli era tutta addosso con le spalle larghe e carnose.
L’Addosio balbettava ancora:
— Lasciami passare….
Malia rideva, solleticata.
— Civetta! — le fece, co’ denti stretti, Nunziata.
— Pazienza! — disse Malia, fissandola nel bianco degli occhi. — E tu dillo un’altra volta.
— Guarda che abbronzi il lenzuolo, strega! Malia dimenticava il ferro rovente sulla tavola.
Il lenzuolo bruciò a quel posto, con un forte odore d’abbronzatura….
La ragazza Peppina gridò:
— S’è bruciato! S’è bruciato!
— Ih! — fece Malia, menandole uno scappellotto. — Tutta colpa tua che non m’avverti. Sporcacciona! Domani te ne vai.
La piccina andò a piangere sotto lo specchio. Nunziata tormentava co’ denti le bianche labbra riarse. Malia se ne sentiva addosso lo sguardo.
— Crepa! — mormorò.
— Il segno che hai lasciato sul lenzuolo, te lo lascio io sulla faccia, Malia!
— Sì?
— Ecco! — osservava Addosio, girando intorno alla tavola e mettendo un po’ le mani su tutto. — Non par proprio vero che siate sorelle.
Donna Maria scendeva dalla stanzuccia di sopra, con due lenzuola in braccio, sospirando.
— Figlio! Non pare vero, no. Cane e gatto ogni giorno!
E buttò le lenzuola sulla tavola.
Borbottò Malia:
— Lei ci mancava.
E come, improvvisamente, un lampo rischiarava tutta la via:
— Acqua! acqua! — strillò. — Andate su a sciogliere i panni, chè piove.
— Oh, Gesù! — fece donna Maria, segnandosi.
— Buona notte!… — disse l’Addosio. — Ora non ci si vede più.
Nunziata, sentimentale, lasciò stare il ferro e s’abbandonò accidiosamente allo stipite, vinta da questa nuova malinconia. Venne giù la pioggia sconsolante, battendo furiosamente sul selciato, abbuiando l’aria d’un subito. Una vettura da nolo romoreggiò fragorosamente per la via, fuggendo. Il cocchiere, insaccata la testa nelle spalle, con sulle ginocchia un tappetino, frustava la rozza e bestemmiava.
Di faccia riapparve, dietro la vetrata della sua finestra, il biondo commesso de’ pignoramenti, impassibile. Guardò il cielo, guardò i rigagnoli nella strada, e scomparve. La gobbetta Giovannina, gridando con la voce squillante: — Acqua! Acqua! —, spinse metà della porta, e quella si chiuse con un romore sordo.
Un silenzio si fece nella via deserta e nella bottega. Insisteva la pioggia con violento crepitìo sul selciato.
Scendeva donna Maria con le palme sulla testa che l’acqua le avea bagnata alla finestra. Ritta accosto alla tavola, presso il carbonaio che si grattava un’orecchia, ella aspettava che qualcosa si facesse, guardando Nunziata, la prediletta.
— Core mio, accendiamo i lumi? Non ci si vede più, core di mamma….
Sospirando ella si volse alla pietosa voce della vecchia. Le dita sottili arrotolavano una sigaretta, senza voglia; tra la ribellione dei capelli, in su la fronte, i larghi occhi languivano.
— Quando muoio, io? — mormorò, venendo a donna Maria lungo la tavola. — Tempo sarebbe….
— Gioia! — compassionava la vecchia, stropicciando al muro un fiammifero e tossendo all’acre vapore dello zolfo. — Senti, è l’umidità.
Una luce si fece subitamente, come donna Maria accostava il fiammifero al becco del lume. Ombre nere si disegnarono e s’agitarono sulle pareti, due punti di fuoco s’accesero nello specchio lucente.
— Oh, guarda! — osservò Addosio, — c’è Raffaelino! E non l’avevo visto! Don Raffaelino nostro, caro, caro! Come va, don Raffaelino bello?
Un ragazzetto, che in tutto quel tempo non s’era mosso dal divanuccio stinto, sul quale si stendeva, dormicchiando, co’ piedi sotto la tavola, battè le palpebre al lume improvviso. Un vivo e spasmodico moto di collera gli contrasse la faccia bianca, colpita bruscamente dalla luce. Certo egli avrebbe desiderato rimaner lì, nell’ombra fitta che fin qua lo aveva tenuto nascosto, rimaner lì, dormicchiando, solo solo. Era il maschietto di donna Maria, il tisicuccio. Donna Maria gli passava l’eredità della tubercolosi che in gioventù l’avea tutta mangiucchiata dentro e fatta così magra, così magra che ora ella pareva un lungo osso vestito.
— Come va, dunque? — ripeteva l’Addosio al malato.
— Eh! — rispose. — Come prima.
Seguì un silenzio. Dopo un po’ il ragazzo disse:
— Piove?
— Non senti? — disse l’Addosio.
— Che seccatura! — sospirò il ragazzo.
Il carbonaio se gli era venuto a sedere accosto, sul divanuccio.
Le figlie di donna Maria ricominciavano a battere i ferri sulla tavola, silenziose. Donna Maria era risalita a badare al lesso pel desinare. Una ingenua curiosità pungeva il carbonaio fannullone, presso quella piccola vittima. E come nessuno li poteva udire:
— Quando piove, — chiese, sottovoce, — ti fa più male o meno?
— Più! — balbettava, con gli occhi socchiusi.
— E perchè?
— Non so; per questo.
— Già, perchè fa freddo.
— No, non pel freddo, — mormorò, stirandosi dolorosamente sul divanuccio.
Il carbonaio lo esaminava, come meravigliato, chiedendo ancora qualcosa alla faccia grave del ragazzo. Era questa diventata eburnea per la smorta luce che il lume di contro a lui versava sulla tavola e che bagnava la biancheria, portandogliene dolcemente addosso il candore, salendogli fino alla fronte, ove, alla radice dei capelli fini, tutt’intorno, correva una leggera lucentezza di sudore. Egli scivolava, lentamente, con le spalle, su pel divano, lasciandosi andare, con gli occhi levati in alto, di rimpetto. E sopra di lui e di rimpetto, in alto, s’allungavano file di camice ripassate, sospese a cordicelle, sotto un velo crespo. Parevano le camice tutte screziate di punti neri, poichè tutto quel velo n’era constellato. Molti si ingannavano. Ora, per questo, il ragazzo sorrideva, ricordando.
Ricominciava il carbonaio:
— Il latte seguiti a pigliarlo?
Il ragazzo gli fe’ cenno, con la mano, che aspettasse. Sbadigliava, a tratti, lungamente.
— Il latte? Sì, — rispose, dopo, — piglio il latte e anche un’altra cosa….
— Che cosa?
Quello sorrise, per la faccia che il carbonaio avrebbe fatta.
— Idroiodato di potassa, con acqua distillata.
— Ah! — disse l’Addosio, a bocca aperta.
E per un pezzetto tacque, guardandolo. Poi gli prese una mano tra le sue, glie la spiegò, lentamente.
— E ancora vai alla stamperia?
Il ragazzo dondolò il capo. Non ci andava più, da un pezzo. Soltanto c’era stato il giorno avanti, a rivedere i compagni, e aveva composto mezza pagina, per non dimenticare.
Raccontando contemplava lui pure, distratto, le sue mani deformate, dall’unghie tendenti a una incurvazione di artiglio. Già nelle dita la fatale ippocrasia si svelava, inesorabile.
Soggiunse, con una grave lentezza di voce:
— Non vuol più che ci vada il medico, e nemmeno il rettore della parrocchia. Dice il medico che questo me l’ha fatto la stamperia, l’odore del piombo e la macchina grande per il giornale, col carbon fossile. Tutto entra qui.
E si toccò in petto.
— È vero, — mormorò l’Addosio.
— Il rettore — continuava — stamani, a prima ora, m’ha voluto confessare. M’ha chiesto se poi gli volessi servir la messa. Io veramente volevo servir la messa….
— E l’hai servita?
— Sì, dopo.
— Ti sei anche comunicato? — arrischiò il carbonaio.
— Sì.
Il carbonaio s’intenerì. Gli battè con la mano sulla coscia, gli prese il mento tra due dita, carezzandolo, approvando.
— Bravo!
Ma non seppe dir altro. Lui pigro, lui vizioso, dormiglione, con la salute, col sangue acceso fin nelle cornee degli occhi, non reggeva a questa rovina infantile. Glie ne penetrava dentro una tormentosa paura, un ribrezzo, lo schifo di quella tosse, di quelli sputi sanguigni, orribili…. Lasciò andar la mano del ragazzo che attaccava alla sua grossa mano un sudore freddo. Il ragazzo la ritrasse pian piano.
— Che ore saranno? — domandò.
— Le tre, — disse l’Addosio, levandosi. — Me ne vado. Pensa a guarire, neh, beviti il latte, che fa sangue.
Egli sorrise tristemente, salutando con gli occhi.
— Voialtre! — urlò donna Maria, affacciandosi nella bottega dall’ultimo gradino della scaletta dell’ammezzato. — Venite su, che ho scodellato. Nunziata, Malia! Si raffredda il brodo! Nunziata, core mio, Malia!
Malia accorreva, felice del suo grande appetito di ragazza forte. L’altra si mosse svogliatamente, indugiandosi presso alla tavola per soffiare sullo sparato d’una camicia, ove era caduta la cenere della sua sigaretta. Si dimenticava lì, guardandosi le mani, passando sotto l’unghie lo stecchetto d’avorio con cui s’allargano i buchi ai colletti. Come poi lo premeva nervosamente sulla tavola, lo stecchetto si spezzò con un colpo secco che la fece trasalire. Le balzò in faccia uno dei frantumi.
— Nunziata! Core mio! — implorava la vedova, tra un romore di piatti.
Ella passò accosto al ragazzo. Le parve ch’egli dormisse. In punta di piedi arrivò sino alla scaletta, si volse ancora a guardarlo, lungamente. Poi disparve, mettendo un fruscìo a piè della scala, ove la vedova ammonticchiava fasci di lauro secco, pei decotti al piccolo.
Il tisicuccio rimase solo. Donna Maria aveva portato su uno de’ lumi, e nella bottega la luce era mitigata. L’altro splendeva sulla soglia, lasciandosi dietro una penombra. Di fuori si rappaciava la pioggia, ma rimaneva l’aria abbuiata. Un cattivo odore di terriccio smosso, di spazzatura immollata agli angoli della viuzza, un fetore violento che saliva dalle feritoie nere, penetravano nella bottega.
Il piccino s’agitava, inquieto, impaziente. Sbadigliò, incrociò le braccia, stendendosi, come desideroso di sonno. Ma di colpo si torse serpentinamente sul divanuccio, dilatò le pupille, protese rigidamente il busto, spalancò la bocca. Prima del grido che gli fischiò nella strozza un impeto di tosse metallica gl’imporporò la faccia, iniettandogli i vasi capillari, chiazzandogli gli zigomi. Una viva ansietà gli palpitava negli occhi disperati. Si levò e ricadde. Una languidezza profonda sospese ogni funzione: un soffio di morte lo raffreddava. S’abbandonarono le braccia, la testa pencolò, trascinando il corpo su pel divanuccio, nell’ombra. Quasi senza romore egli cadde fra’ piedi della tavola, e lo coperse un lembo del lenzuolo che da quella parte quasi toccava terra. Solo una piccola mano rattratta ne sbucava fuori. Quel lembo del lenzuolo che aveva ceduto si rimise a posto, tornò immobile, e lo nascose.
Di sopra i piatti s’urtavano. Ma nessuna voce si levava. La ragazza Peppina scese con uno strepito di ciabatte saltellanti, con la bocca rossa, mangiucchiando. Andò a bere alla fontanina di casa, allungando le labbra al secchietto che riempì mentre seguitava a mangiare. Poi gironzò attorno, guardando qua e là, guardandosi un po’ nello specchio in fondo. Infine si andò a buttare sul divanuccio caldo ancora e vi si stese beatamente, la bocca socchiusa, gli occhi socchiusi, le mani che scivolavano sul petto nascente e ne provocavano le forme indecise.